Johann Wolfgang Goethe soggiornò a Napoli  nel 1787 ben due volte, che furono sufficienti a farlo innamorare perdutamente della nostra città . Egli descrisse ai contemporanei del suo tempo i luoghi da lui visti e visitati in maniera esemplare e  bellissima ponendosi come primo vero difensore della nostra città nei confronti di tutti coloro che hanno sempre e solo voluto vedere sin da antichi tempi , la parte peggiore del nostro modo di vivere , e la città  in cui viviamo , dilatandone ed amplificandone i difetti a loro comodità  ed utilità .

Il vecchio e caro amico Goethe ha lasciato invece come scrittore ai posteri non solo l’immagine vivida di luoghi di impareggiabile bellezza, ma, soprattutto, una sentimentale bellissima immagine del carattere di un popolo: la capacità dei napoletani di usare la ricchezza dell’ambiente naturale a proprio vantaggio, senza approfittare, senza distruggere, trovando il proprio posto in un’economia fatta di scambi fittissimi, nient’affatto povera perché capace di creare un ciclo produttivo virtuoso, in cui ognuno svolge una funzione utile alla collettività e, nonostante tutto, compie bene e fino in fondo il proprio lavoro.

La Napoli che Goethe ha conosciuto è oggi forse irrimediabilmente  perduta, e con essa  anche la filosofia del “piacere ” che rappresentava il vero fulcro della filosofia epicurea di cui era intrisa la nostra città.

Grazie a questo modo di vivere per secoli , per essere veramente felici , bisognava solo  imparare ad apprezzare quello che si aveva  con estrema semplicità e imparare a non lasciarsi mai andare ai desideri che, se lasciati liberi, potevano  essere pericolosi perchè essi come sappiamo non hanno mai limite.

La nostra città era per Gothe una incredibile fucina di felicità, di civiltà e di cultura ed  un luogo da preservare nel presente e nel futuro . Egli forse capì per primo che nel mondo c’era bisogno di un poco di Napoli e che forse come ci ha lasciato scritto il grande Luciano De Crescenzo  , solo  Napoli , per il suo modo di essere e fare , poteva e può  essere ancora l’ultima speranza che resta alla razza umana .

Egli descrive con la sua penna , un popolo di semplice e laboriosa gente che pur se malvestita ogni giorno s’industriava accettando anche i lavori più umili con estrema dignità , pur di lavorare e guadagnare qualcosa.

Gothe , in una sua lettera scritta a Napoli il 28 maggio del 1787 , cosi descrive i vari ambulanti che nel passato vendevano cibo per strada :

” Il discorso sconfinerebbe troppo se volessi parlare dell’infinita varietà dei piccoli commerci che ci si diverte ad osservare a Napoli, come in ogni altra grande città; ma non posso tacere dei venditori ambulanti, dato che provengono soprattutto dagl’infimi strati popolari. Alcuni vanno attorno con barilotti d’acqua ghiacciata, bicchieri e limoni, per poter preparare subito e ovunque una limonata, bevanda cui non rinunziano neppure i più umili; altri reggono su vassoi bottiglie con vari liquori e bicchieri a calice stretto, tenuti fermi da anelli di legno; altri ancora portano canestri di biscotti, leccornie, limoni e altre frutta, e ciascuno sembra voler condividere e ingigantire quella festa del consumo che a Napoli si celebra tutti i giorni “

Ed allora grazie ai quadri tratteggiati della sua penna e alla  finezza del  suo grande intelletto , ci vengono subito in mente quelle folcloristiche immagini , oggi purtroppo , quasi del tutto scomparse , di venditori ambulanti che giravano per la città , nei rioni popolari con i loro carretti o con le loro ceste pieni di vari tipi di merce , gridando con i loro canti e le loro urla ,la bontà dei loro prodotti per attirare eventuali compratori.

Una fantasiosa arte di arrangiarsi e tirare avanti godendo con allegria di quel poco che  ci si poteva permettere , ancora in auge fino agli anni 50 , quando in occasione della festa di Piedigrotta , nella villa Comunale  si collocavano vari ambulanti  con banchetti e ceste che vendevano le spigole arrostite, le caldarroste , i fichi d’India , o mellonaro, gli acquaioli o i spassatiempo che vendevano semi, mandorle salate o caramellate, nocciole, arachidi, e lupini di mare in acqua salata .

Immagini che talvolta ci capita di vedere ancora solo su delle cartoline rigorosamente in bianco e nero  appoggiate su qualche precaria bancarella in vecchi mercati rionali. Divertiti ed affascinati allo stesso tempo , soffermandoci sulle foto , notiamo vecchi palazzi oggi mutati nelle loro forme ed antiche strade irriconoscibili perchè allargate , sempre però perennemente gremite di persone , ma al contrario di oggi , pullulanti  di insoliti ambulanti oggi spariti .

La gente di Napoli sta cambiando e con essa anche  gli usi , i costumi , i mestieri ed il modo di pensare epicureo con cui la vita quotidiana va affrontata .

Per lunghi secoli siamo stati felicemente ingabbiati dal pensiero ellenico di Epicuro e delle sue due scuole che egli teneva nella nostra città ( Posillipo ed Ercolano ) , mantenendo immutati valori importanti come amore ,amicizia e solidarietà , senza lasciarci coinvolgere dal complesso e disastroso business consumistico che sta portando con la sua economia globalizzata allo sgretolamento della struttura commerciale dei quartieri e delle città facendo non solo scomparire romantiche figure come gli antichi ambulanti ma anche la chiusura di piccoli negozi ,e facendo confluire il tutto in grandi e centri  commerciali o peggio , addirittura in internet , dove , grazie a note aziende di commercio elettronico  l’immateriale si trasforma in materiale .

I vecchi  napoletani hanno tentato di resistere a tutto questo e al massimo si sono arresi al vecchio supermercato perchè  tutto sommato qualcosa di socialmente utile ed Epicureo lo conservava . Era bello infatti vedere tutta la famiglie fare insieme la spesa in un determinato giorno del fine settimana . Papà e  mamma, si recavano insieme a fare la spesa  insieme a gioiosi bambini seduti in un  carrello, che aveva un particolare  seggiolino predisposto per lui .

C’era una volta , almeno l’entusiasmo nel fare la spesa al supermercato.

La  nuova generazione di napoletani , non si concede più ,  nemmeno la piccola emozione che un supermercato  può suscitare girando con la famiglia  tra uno scaffale e l’altro ricchi di vari prodotti tra cui scegliere . Ora la tecnologia ha preso il sopravvento e la gente preferisce  la razionalità e la rapidità. Un touch sullo smartphone e la spesa viene recapitata a casa nel giono e nell’orario che tu hai scelto .

E’ il nuovo credo dei giovani, cresciuti in un mondo in cui se non possiedi uno smartphone di ultima generazione “hai perso”. Un mondo in cui vengono meno le emozioni di fronte alle piccole cose.

Addio a Epicuro e la sua filosofia ellenistica  quindi ? Sembra proprio di si . Un tempo , la forza del popolo napoletano era proprio quella di concepire  l’esistenza come tesa alla ricerca del piacere sia del corpo che dello spirito, al risparmio di energie per tutelare la propria liberta’ dagli stress della vita quotidiana. In questa città regnava il culto della felicità ,  che era considerato  da tutti un bene primario e naturale  e addirittura il socializzare con  gli altri un valore importante se non addirittura indispensabile.

Oggi qualcosa sta cambiando , la nostra città purtroppo snaturandosi si sta anch’essa occidentalizzando. Oggi , purtroppo siamo prossimi a  diventare uguali a tutti gli altri , massificati dai social e attaccati allo smartphone , ed incredibilmente  schiacciati da una vita passata di fretta tesa alla sola massima produzione .Non abbiamo più tempo e …. siamo sempre più soli , chiusi nella stessa casa , sotto lo stesso tetto , con tanti like , tanti amici virtuali ma … nessun amico vero .

Esattamente il contrario di ciò di cui ci ha lasciato in eredità con la sua scuola di pensiero Epicuro . La sua dottrina poggiava  infatti le sue principali  fondamenta proprio sulla solidarietà , sull’amicizia  e sull’ amore .

E solo con amore ed un pizzico di nostalgia  puoi ancora ricordare dei tuoi giovani anni in cui tutta la famiglia  riunita a pranzo divertendosi discuteva a tavola . Solo con amore puoi ricordare il profumo dei meravigliosi piatti preparati e cucinati  dalla mamma e solo con amore puoi ricordare quel fischio in strada che precedeva il grido del solito ambulante domenicale .

Al richiamo di un semplice fischietto seguiva il solito grido <Spassateve ‘o tiempe! Nucelle ‘nfurnate, cicere, fave e semmiente ‘nfurnate, accattate!

Ti affacciavi al balcone e già sapevi di trovare ‘O Nucellaro, cioè  il venditore di ciociole, ossia l’insieme di alcune piccole delizie tostate e salate : semi di zucca infornati , noci , nocciole , arachidi , anacardi , mandorle , noci , ceci cotti al forno , granone , pistacchi ,  frutta secca , fichi secchi  , fave , semi di mellone e popone  , nocciole tostate o zuccherate, nocelle americane , ed infini gli immancabili lupini scolati dell’acqua e ben salati   .

Comprare queste piccole delizie  era solo l’ennesima occasione per passare altro tempo insieme . Solo per sgusciare tutti questi semi e frutta secca c’era infatti bisogno di un certo tempo , un tempo che si trascorreva insieme ad altri a fine pranzo. Ecco perchè l’insieme di tutte queste squisitezze vennero dette ” o spassatiempo ” Un modo per restare a tavola , tutti insieme sgranocchiando semi per passatempo .

Immancabili ad accompagnare il pasto erano anche i famosi  taralli ” nzogna e pepe “che  consumati caldi e accompagnati con una fresca birra ,  hanno sempre rappresentato un mezzo per i napoletani  di un momento conviviale , amichevole e sereno.

Un tempo a venderli per strada vi era la figura del tarallaro  ,  degli ambulanti , che percorrendo  vicoli  e strade , giravano per la città con piccoli carretti o banchetti  dove i taralli venivano tenuti al caldo .  Spesso li si vedeva girare   avanti e indietro per la città  con la cosiddetta  sporta , cioè  un cesto di vimini intrecciato, ricolmo di  caldissimi taralli nzogna e pepe ,poggiato sul capo o tenuto a tracolla sulle spalle .

Oggi purtroppo la figura del tarallaro è quasi del tutto sparita ed i taralli possono tranquillamente essere  acquistati nelle numerose panetterie presenti in città. L’ultimo  esponente della lunga tradizione di questi venditori è stato  fino alla fine degli anni ’80, il mitico Fortunato celebrato da Pino Daniele in una sua famosa canzone . Egli era un povero tarallaro  , che attraversava in lungo ed in largo la città con la sua cesta colma di taralli con un semplice passeggino su cui  era messo in evidenza un cartello con la scritta “LA DITTA FORTUNATO RESTA CHIUSO IL LUNEDì”. Fortunato davvero era una vera e propria ditta racchiusa in una sola persona: lui cucinava i taralli, lui li metteva in commercio e lui li pubblicizzava urlando “Fortunato tene a rrobba bella! ‘Nzogna ‘nzogn”.

Una frase ormai diventata storia che ha persino  ispirato a  suo tempo  il grande Pino Daniele a scrivere una canzone dal titolo “Fortunato”.

Il tarallo con mandorle e pepe è nato secondo molti verso la fine del 700 ad opera dei fornai che invece di buttare via i ritagli rimanenti di pasta lievitata , aggiungendovi un pò di ‘nzogna “( strutto ) e parecchio pepe, riducevano la pasta a due striscioline e le attorcigliavano tra di loro a forma di ciambella di forma circolare che poi veniva infornata.. Un tempo era una risorsa alimentare molto economica che riempiva lo stomaco .

Secondo altre  fonti storiche, i primi taralli sono datati invece  intorno al 1400, quando non tutte le case disponevano di un forno: pertanto, nei giorni di festa le donne facevano la fila presso il forno pubblico per infornare la propria teglia di questi biscotti, che però nella maggior parte dei casi venivano  gustati presso le osterie , accompagnandoli con il vino, come aperitivo. Nelle case contadine, poi, vi era  la consuetudine  di  offrire tarallucci e vino  agli ospiti,  quale segno di cordialità e amicizia.

Ricordo di quelle domeniche mattine anche il passaggio dell’arrotino che affillava  le lame. Il termine deriva da arrotare derivazione di ruota, poichè infatti il macchinario era prorio una ruota metallica che gira e che permette di rendere gli oggetti più affilati. Tipicamente gli ambulanti artigiani , andavano in giro per la città su una vecchie bicicletta o con un classico carretto costituito da questa ruota molto grande, il carretto veniva poi ribalato e la ruota era pronta per l’uso.

L’arrotino aveva una funzione importante: aggiustava coltelli, temperini, forbici et similia, per farne riparare il filo della lama. Ancora oggi in qualche vicolo si sente la voce di qualcuno che urla “donne è arrivato l’arrotino”. Ora però spesso non affilano più ma vendono direttamente coltelli o utensili per la casa.

Preso dai ricordi come fa a non venirti alla mente ‘O Castagnaro , che in possesso di piccoli e modesti oggetti, quali un fornello, un pentolone con padella e un panno di lana per trattenere il calore delle caldarroste, riusciva, durante i mesi del primo grande freddo, ad allietare le giornate dei passanti  con un cartoccio di castagne solitamente arrostite, più raramente lessate e cotte in un brodino insaporito con alloro, finocchio e sale.

La stessa persona ma in una stagione diversa ( primavera – estate ) invece di vendere castagne  offriva pannocchie di mais (‘e spogne)  bollite o abbrustolite .

Il cibo da strada è sempre stato presente a Napoli fin dai tempi degli antichi greci al punto da far considerare la nostra città l’antinesiana dello street food nel mondo . Per strada nell’antica Pompei vi erano ben 89 locali ( tabernaee ) che ricordano i nostri attuali fast food  , che servivano chi a mezzogiorno pranzava fuori casa e chi , vivendo in case piccolissime non avendo cucina , per pochi soldi poteva così nutrirsi con vivande cucinate . Erano tutti locali aperti alla pubblica via , il bancone di mescita era in muratura con incassati i dolia , le giare per contenere le pietanze p le bevande calde in inverno e fresche d’estate . Erano insomma i primi distributori del cibo da strada .

Stessa cosa accadde anni dopo in seguito all’avvenuta Unità d’Italia , quando Napoli versava in una condizione terribile di abbandono e molti non avevano la possibilità di cucinare nelle loro povere case  ( proprio appunto , come facevano i Pompeiani più umili all’epoca dell’eruzione del 79 d.C.)  , e con pochi soldi si nutrivano in strada con un pugno di povere cibarie .

Per un soldo  a quell’epoca ,  cioè circa 60 centesimi di oggi , si poteva avere un cartoccio di piccoli pesci fritti nell’olio ( fragaglia ) o della frittura mista  , 4- pezzi di frittura costituiti da  1 panzarotti ,  1 pezzetto di carciofo , 1 torsolino di cavolo , ed  1 frammento di alici . Oppure 9 castagne allesse nuotanti in un succo rossastro in cui il popolo ci bagnava il pane ed infine , sempre per un soldo si potevano anche avere 2 spighe di granturco cotte nell’acqua oppure arrosto.

Se invece volevi mangiare una porzione di scapece ( molignane fritte nell’olio e poi condite con pepe, origano e formaggio e pomodoro ) dovevi pagarl ben 2 soldi , così come se volevi un pezzo di polipo bollito nell’acqua di mare condito con peperoncino fortissimo .

Sempre per soli 2 soldi potevi avere anche un brodo di maruzze e lumache con dentro un bisotto o ritagli di maiale e pezzi di coratella , cipolline e frammenti di seppia ,  tutti fritti in una grossa padella e poi deposti su del pane .

Ma a dir la verità , appena un napoletano aveva 2 soldi , la maggior parte delle volte comprava un piatto di maccheroni cotti e conditi , presso una di quelle osterie che installavano al suo esterno avevano apposite caldaie  dove i maccheroni bollivano sempre ,   tegami dove bolliva il sugo di pomodori  e montagne di cacio grattato. Siamo così arrivati ad un altro antico mestiere di Napoli : ‘O Maccaronaro .

Con questo termine termine ci si  si riferiva sia al rivenditore che al produttore di pasta. Ma di rivenditori “di strada” ce n’erano due tipi: gli stanziati, che avevano una postazione fissa e cuocevano al momento i maccheroni; e gli ambulanti, che invece giravano per la città con una cesta piena di maccheroni più o meno caldi, ma comunque già pronti.

Il loro grido  era inconfondibile: “Doje allattante”, urlavano a gran voce per le strade. Il senso era con due centesimi si può comprare una pietanza che sfama e sazia. I maccheroni ebbero un grande successo dal 1800,(tanto che i napoletani venivano soprannominati “mangia maccheroni”)  e per tradizione venivano mangiati direttamente con le mani, soprattutto dal lazzaro, dallo scugnizzo e dall’uomo del popolo.

Napoli , come vedete è sempre stata la regina dello steet food . Certo , oggi molti dei cibi di strda venduti nel passato dagli ambulanti sono scomparsi , così come è scomparso in parte quel colore e appariscente folklore  locale con cui la gente , sopratutto nel dopoguerra cercava con fantasiosa arte di arrangiarsi di tirare avanti in un grade momento di miseria , godendo con allegria di quel poco che ci si poteva permettere .

Ancora oggi ogni angolo della città nasconde un luogo simpatico e caratteristico in cui è possibile assaporare una specialità  culinaria . Passeggiando  per le strade ed i vicoli della città noterete e sopratutto sentirete l’odore dello steet food locale onnipresente , buonissimo e quasi invadente .  Camminando per le strade della città infatti si incontrano ovunque pizze fritte  , panzarotti , frittatine ,panino con polpetta e ragù , panini di ogni tipo , burger , polpettine , patatine , cuzzutielli infarciti , frittatine di pasta cuoppi di fritture pere e ‘o musso  ( trippa ) , toast , pizza a portafoglio , sfogliatelle , dolci ,gelati  e tanto altro ancora  …

Il cibo andava venduto non solo all’uomo ma anche agli animali ed ecco allora sorgere un altro antico mestiere , quello del Vrennajuolo o anche detto sciuscellaro . Questo antichissimo mestiere era molto diffuso nel tardo ottocento quando il mezzo di trasporto piú usato non era certo l’automobile, ma il cavallo. Egli infatti vendeva a chi possedeva dei cavalli per lavoro ( carretto e cavallo per il trasporto delle merci, titolari di imprese di pompe funebri che per il trasporto dei defunti usavano mastodontiche carrozze trainate da numerosi cavalli, vetturini da nolo, borghesi facoltosi con carrozza padronale) , una serie di elementi necessari alla loro gestione come  orzo, fieno, crusca (in napoletano vrenna), e carrube (in napoletano sciuscelle).

Il piú importante vrennajuolo di fine ‘800 fu il capintesta camorrista don Ciccio Cappuccio, successore del famosissimo Salvatore De Crescenzo (noto con il nome di Tore ‘e Criscienzo ) , lo stesso cioè che aveva al suo fianco Garibaldi quando  si affacciò dal balcone di Palazzo Doria in Largo dello Spirito Santo il  il 7 settembre del 1860 , insieme  Liborio Romano,   ( Ministro di Polizia )  , quando proclamò l’annessione ( o meglio la conquista ) del regno delle due Sicilie a quello Sabaudo .

Il losco personaggio aveva acquistato il ruolo di intermediario tra politica e camorra quando Liborio Romano per contrastare le sommosse nate sulla scia di quella siciliana del 1848 lo chiamò per chiedergli di radunare tutti i capi-quartieri della città e stipulare un patto di aiuto reciproco. Gli uomini di  Salvatore De Crescenzo, ebbero in quella circostanza  il comando di mantenere l’ordine pubblico in città .  La sorella invece , tale Marianna De Crescenzo , ottenne una pensione vitalizia di 12 ducati mensili .

Garibaldi quel giorno , da quel  balcone proclamò l’annessione delle province meridionali al Regno sabaudo ma proclamò anche l’inizio del patto tra Stato e Camorra a Napoli. Liborio Romano infatti non reclutò solo “Tore”, già nel luglio 1860  , altri camorristi infatti furono nominati funzionari di polizia. Ricordo a tutti che Liborio Romano era ovviamente il corrispondente di Camillo Benso Conte di Cavour.

La carruba cioè il frutto del carrubo , privo di dura scorza,  morbido e facilmente masticabile , ma molto zuccheroso un tempo , oltre ad essere usato come foraggio per cavalli , asini e buoi , veniva spesso usato come dolce da strada dai napoletani più poveri e spesso utilizzato in epoca più recente come passatempo zuccheroso e goloso per i bambini .

Ovviamente in un tempo in cui il mezzo di trasporto più in uso erano  il cavallo , l’asino ed i buoi , anche il maniscalzo (O ferracavalle)  , cioè colui che realizzava e applicava i ferri a questi animali . Esso  era un mestiere molto in voga a Napoli .
Il suo lavoro era molto richiesto e a lui si rivolgeva chiunque, dal contadino al nobile, che avesse bisogno di realizzare o rifare la ferratura per il proprio animale. Oltre agli strumenti per realizzare il ferro e applicarlo (forgia, pinze, martello e chiodi), il maniscalco doveva trovare il modo per tener fermo le bestie durante l’applicazione dello zoccolo artificiale. Per questo motivo, si utilizzava il cosiddetto turcituro per asini e cavalli, cioè un laccio  legato ad anello all’estremità  di un’asta di legno che, ruotata, stringeva il laccio attorno al muso costringendoli a rimanere fermi, e lafurgetta per i buoi, strumento che funzionava come una tenaglia le cui estremità venivano infilate nelle narici.
I maniscalchi più bravi ed esperti, inoltre, riuscivano a realizzare anche zoccoli speciali che correggessero, del tutto o in parte, difetti di andatura degli animali che venivano loro portati .

Ai cavalli servivano anche selle e briglie ed a quelle ci pensava  ‘O ferracavalle) (  il sellaio )  . Essi  erano  dei grandi esperti nella lavorazione delle pelli, ma erano abili anche nel lavorare il metallo visto che molto spesso le selle venivano decorate con borchie o con fregi in ferro e ottone. Infatti, quando il mezzo di locomozione più diffuso era il cavallo, la bellezza e il costo della sella identificavano il ceto sociale di chi la usava, quindi ricchi e nobili le personalizzavano con le decorazioni più elaborate e vistose.

Il loro nome deriva dal termine guarnamiente che in napoletano indica tutti i finimenti necessari a chi utilizza cavalli e carrozze. E’ quindi facile pensare che il suo commercio non si limitasse solo alle selle, ma contemplasse anche briglie (‘o brigliare era chi costruiva e vendeva briglie), gramigna (chi la vendeva era detto grammegnare).

Nel parlare di pelli mi viene subito in mente un mestiere di  cui Napoli era la capitale nel mondo , cioè i guantai .Per secoli Napoli ha rappresentato un’eccellenza nel mondo della moda dei guanti . Essi erano  richiesti da tutto il mondo ed avere dei guanti in pelle “made in Napoli “era una cosa di grande tendenza .

Nel napoletano un tempo c’erano diverse concerie che producevano delle ottime pelli , ed i guantai più bravi al mondo avevano le loro botteghe al Rione Sanità: qui producevano capi raffinatissimi o di uso comune, ricevevano clienti provenienti da ogni angolo del mondo, ricchi e poveri, nobili e popolani. Nel periodo di massima espansione del fenomeno il quartiere contava oltre 25.000 artigiani. Ma i migliori negozi si trovavano nella zona di Santa Lucia , nei pressi dei grandi alberghi . Una delle testimonianze evidenti di un artigianato tanto diffuso un tempo si trova alle spalle di via Medina dove esiste una stradina che si chiama ” via dei Guantai Nuovi “

L’arte dei guantai iniziò a diffondersi a Napoli già al tempo aragonesi , ma furono i Borbone ad incentivare la produzione rendendola un’eccellenza. Nemmeno l’Unità d’Italia arrestò o limitò la fama dei guantai della Sanità. Dopo la Seconda Guerra Mondiale il mercato si ampliò e la produzione industriale andò velocemente a sostituire l’artigianato locale . Un settore tanto specifico come quello dei guanti venne seriamente provato da un simile capovolgimento di fronte. Le botteghe chiusero una dietro l’altra.

Purtroppo quindi a  chiudere le floride botteghe dei guanti è stata solo  la modernità . L’avvento del mercato globale e della produzione industriale ha portato via  lentamente  ai napoletani il primato di essere i migliori produttori di guanti .La grande produzione locale di guanti  è andato via via affievolendosi, resistendo solo grazie ad alcuni esercizi storici famosi in tutto il mondo. Ancora oggi infatti alcuni guantai continuano a portare in alto il nome di Napoli e della Sanità. Le poche, secolari, botteghe che hanno resistito collaborano infatti con  grandi case dell’alta moda come Vuitton e Dior.

Anche se è attualmente è difficile credere che Napoli era stata definita la “capitale dei guanti”, anche se attualmente mi rendo conto è difficile credere che sia stato davvero così.

A filare i tessuti ci pensava “O filajuolo “

Ovviamente i guanti nella loro vendita venivano anche confezionati …. e a confezionare i pacchi c’era una figura specializzata molto originale chiamata ‘O confezionatore e pacc ,

Il suo compito principale  era quella di  confezionare pacchi.

La sua bottega era piena di fogli di carta, cartoni e spaghi.

A lui si rivolgevano, tra l’altro, anche le persone che volevano spedire un pacco ai parenti emigrati in America. Bisognava innanzitutto scegliere il contenitore adatto per evitare di pagare troppo: il contenuto era incartato con un foglio e legato con spaghi, il pacco era chiuso lungo i bordi con colla ottenuta mescolando farina e acqua bollente.

 

Tra gli svariati antichi mestieri partenopei, non ufficializzati da una dicitura professionale, da un albo della categoria e soprattutto non riconosciuto dallo stato, perchè nato dall’inventiva napoletana, c’è anche quello conosciuto col nome di ‘O Sanzaro.

 Inizialmente era solo  l’intermediario per la compravendita di prodotti agricoli e di bestiame. In seguito la sua mediazione si estese anche ad altre attività: sanzaro ‘e nòleto (mediatore di noleggi), chi svolgeva attività di mediazione nel mercato dei noli, intervenendo e agevolando le trattative fra noleggianti e noleggiatori; sanzaro ‘e mare (intermediario marittimo, mediatore di noli, o di compravendita, di assicurazioni e di altri affari nel campo dei traffici marittimi; sanzaro ‘e terra (intermediario per la compravendita o affitto di case e/o terreni).

Da ultimo con significato ancora più ampio: sanzaro ‘e matremmonie (procacciatore di matrimonî) cioè quello o quella  che procurava matrimoni.

Come tutti i mediatori, ‘o sanzaro non agiva certo per la gloria, ma per ricevere compensi di volta in volta pattuiti in base al valore e alla difficoltà della trattativa. Costui s’ebbe il nomignolo di cazette rosse in quanto per una sorta di identificazione alla strega dei cosiddetti paglietti, che indossavano il tipico copricapo in paglia nera, per farsi distinguere, indossava calze di color rosso come quelle dei canonici capitolari del Tesoro di san Gennaro i quali spesso si assumevano il compito di far da mediatori fra nubendi.

Ancora oggi, nella città partenopea,  per quanto sia un mestiere quasi del tutto scomparso, in alcuni quartieri, ancora esiste la figura della sanzara. In genere si tratta di una vecchia abitante del luogo, che conosce tutto di tutti, a cui chiedere consigli per fittare o acquistare un immobile .

Parlando di San Gennaro mi viene in mente un altro antico mestiere . Parliamo questa volta del ” Paternustraro ” , cioè  colui o piú spesso colei che,con pazienza certosina, fabbricava corone del santo Rosario, infilando, uno ad uno,con un sottile filo di spago i semi delle carrubbe (sciuscelle), bucati all’uopo con un rabberciato, artigianale trapano a mano per far passare nei forellini il filo ed i semi venivano poi fermati in posizione con successivi minuscoli nodi.

Pensando alle cerimonie religiose invece viene in mente ‘O bannararo ,  che era  una specie di tappezziere che realizzava bandiere e addobbi per usi civili, ma anche per le cerimonie religiose.

Parlando invece di copricapo  come non pensare al ” Cappellaro ” che fabbricava e vendeva cappelli di varia tipologia.

Una volta ‘e cappielle che si confezionavano erano :

quelli ESTIVI  come le cosiddette pagliette),  fatte di fili di paglia intrecciati che e si era soliti “’ngegnarsele” od ad utilizzarle in primavera, sfoggiandole lungo lo struscio di via Toledo . Gli uomini coglievano l’occasione per deporre in quei giorno la bombetta o il cilindro per indossare il cappello estivo che con gesto affettato , veniva tolto al passaggio di una bella donna .

quelli INVERNALI , che erano confezionati con stoffa pesante, per ripararsi dal freddo, erano ‘o Piripisse ( Basque o basco, di origine spagnola) ,  ‘o Cappielle’e Lane (  Mefisto, usato specie nel letto dalle persone anziane), e quelli da cerimonia ( ‘E Ceremmonie ) tra i quali si annoverano : ‘o Cilindre , o a Bumbetta .

‘A paglietta, ‘O Cappellare’ era molto utilizzato tra gli amanti del canottaggio, come parte della divisa, al punto che spesso veniva chiamato anche cappello alla canottiera .

Era inoltre un copricapo molto utilizzato  tra gli uomini famosi ed amanti della moda (ad esempio D’annunzio) e sopratutto dagli  avvocati, anzi dagli avvocatucoli .

Questi astuti e cavillosi raffinati mediatori , spesso ancora inesperti ,  si muovevano  a metà strada tra il diritto che non guarda in faccia a nessuno e la disperazione delle   povere persone  che cercavano  giustizia . Gente che quando aveva  problemi‘mettev e’ ccarte mmano all’avvocato’. Essi dotati dell’immancabile paglietta rigida , con cupolino alto bordato di nastro di seta, ma  rigorosamente di colore nero per distinguersi da tutti gli altri uomini che erano soliti indossare, specie nella bella stagione pagliette di color chiaro  , non esitavano ad accendere ceri alle madonne del vicolo pur di intascare scudi e denari, portando avanti cause spesso inutile o con poca probabilità di successo . Da qui il proverbio: “Dicette ‘o paglietta: a ttuorto o a rraggione, ‘a cca à dda ascí ‘a zuppa e ‘o pesone “(disse l’avvocatucolo: si abbia torto o ragione, di qui devono scaturire il pasto e la pigione); Al paglietta non importa se la causa sarà vinta o persa, è giusto assumerne il patrocinio che procurerà il danaro utile al sostentamento e al pagamento del fitto di casa.

 

In un bel libro che racconta di storie napoletane un giorno ho trovato scritto :

……. Il paglietta capace di districarsi con abilità felina , conoscendo bene i suoi polli ,  sapeva  essere forte con i potenti, e talvolta generoso con i popolani, sempre restando geneticamente sanguisuga nell’animo e sfruttatore di mestiere. Spesso, quando la luna si faceva monaca, chiudendosi dietro la notte, gli avvocati delle cause perse non disdegnavano l’abbraccio caldo di una bella donna dei Quartieri, dagli occhi neri e fuoco in corpo, che durante il giorno avevano ubriacato di chiacchiere. Perché al Sud anche la carne è moneta. E non sfugge ai barattieri….

……. il paglietta ha un suo calendario che si premura di indicare ai clienti per farli bussare alla porta di studio ‘con i piedi’, perché le loro mani dovevano portare regali a Natale, a Pasqua e alle altre feste ‘ricordebboli’, che, in un paese spagnolizzato fino all’osso, erano moltissime e sempre da onorare…..

Il termine è ancora oggi in uso  per indicare quei giovani e quindi  ancora inesperti dottori in giurisprudenza che prestano la loro servizievole opera spesso gratuitamente presso studi legali di importanti avvocati nel tentativo di farsi le ossa ed imparare il mestiere.

Ma il personaggio che maggiormente ricorda in citta la  Paglietta ,  è stato sicuramente  Nino Taranto che indossando per molti anni la famosa paglietta nella sua lunga carriera nel varietà ,  è entrato di diritto tra grandi i artisti napoletani . Egli al contrario di altri artisti (la paglietta era molto di moda), egli la tagliuzzò sulla falda frontale per darsi un identità tutta sua.

E a proposito di paglia , un’antica professione che merita una particolare attenzione è ccertamente quella praticata dai seggiolari o ‘mpagliasegge. Un  mestiere principalmente svolto da donne.

Esse producevano sedie di tutti i tipi e dimensioni intrecciando fili di paglia sottile su un telaio di legno con spalliera. Tra gli strumenti adoperati da questi stravaganti artigiani vi erano naturalmente i fili di paglia, gli spruoccoli, traverse in legno necessarie per stendere e intrecciare i fili, un coltello affilato per tagliarli e una stecca per favorire l’intreccio.

Questo antico mestiere aveva delle specializzazioni :

La prima , il ” siggiaro ” costruiva,  sedie, sedioloni( siggiune), sedie anticate, e  giocattoli di legno.

Il secondo , chiamato “acconciasegge “riparava le sedie per la parte di legno.

Il terzo invece , chiamato ‘O npagliasegge  (per lo più, però, si trattava di donne) girava per le strade con un fascio di paglia in spalla, dando la voce: ‘mpagliasegge! E riparava i piani delle sedie che si erano spagliati.

In verità esisteva anche una quarta figura . Essa era quella del ” seggiaro ” che fittava le sedie .

Le pizzerie una volta avevano guadagni molto limitati e spesso poichè  non riuscivano  a pagare  tutti fornitori ,o il pigione di fitto del negozio spesso erano soggetti al pignoramento dei tavoli e delle sedie .In questo modo l’attività era paralizzata e i loro debiti di conseguenza aumentavano . Si pensò così di fissare al muro il tavolo di marmo da un lato ( murandolo ) e lasciare che poggiasse dal lato opposto su due gambe di ferro.

Il tavolo così divenne immobile e quindi insequestrabile .

Per le sedie invece si pensò di rivolgersi al “seggiaro”. 

Il seggiaro all’epoca era colui che avendo un certo numero di sedie le dava in comodato alle chiese : queste infatti in quel periodo non avevano molti posti a sedere e al massimo tenevano due o tre panche in prossimità dell’altare che non erano altro che doni di benestanti spesso poi usate per uso proprio durante le funzioni religiose .Tutti gli altri fedeli , si sedevano invece sulle sedie del seggiaro che passava durante la messa a riscuotere l’importo ad ognuno per l’affitto della sedia.

Le pizzerie pensarono quindi di fittare le sedie che non essendo di loro proprietà erano quindi impignorabili e insequestrabili.

Oggi anche se la maggior parte delle sedie vengono prodotte a macchina con fili sintetici o ancor peggio sostituite con quelle in plastica, resistono ancora poche e rare botteghe dove viene praticata questa originale e minuziosa.

Sempre  parlando di paglia non possiamo dimenticare  ‘O canestaro, che era  un artigiano che fabbricava cesti e oggetti di paglia, come per esempio la struttura che serviva ad impagliare fiaschi e damigiane, o i cosiddetti panari , dei cesti con manico legato ad una corda che venivano utilizzati per lo più  per tirare su e giù dai balconi la spesa o le merci comprate da qualche ambulante risparmiando la fatica delle scale. Esso non va confuso con ‘O cannavaro che era invece il venditore di tessuti di lino o canapa.

Tra gli insoliti personaggi  ve ne era uno chiamato ‘o nciarmatore che aveva come mestiere una  una certa predisposizione all’inganno.

Nell’antica Napoli, ‘o nciarmatore era una figura molto ambigua: conosciuto da tutti come un “guaritore”, in realtà non era altro che un ciarlatano, pronto ad imbrogliare le persone. Tutti erano convinti che fosse immune al veleno dei serpenti, grazie all’intercessione di San Paolo e San Domenico da Cucullo, la cui statua, avvolta da cento serpenti intrecciati tra di loro, ogni anno viene portata in giro per l’omonimo villaggio abruzzese a cui deve il nome.

‘O nciarmatore invece conosceva bene tutte le caratteristiche ed i segreti della medicina naturale ed era in grado di preparare i cosidetti “cataplàsemi”, ovvero decotti, erbe, filtri ed impacchi alle erbe. Per questo motivo le persone più povere e poco acculturate (soprattutto nelle campagne) richiedevano il suo aiuto per far fronte alla malattia di qualche parente, credendo che potesse realmente guarirli.

Ogni volta, ‘o nciarmatore, inscenava un rito per far credere a tutti che avesse doti straordinarie e guadagnarsi la loro fiducia.

Col passare degli anni, la sua figura fortunatamente è sparita ma  il termine nciamatore viene ancora usato per designare qualcuno che fa parte del mondo dei maghi e delle fattucchiere o qualcuno che tenta in qualche modo di imbrogliare qualcun altro, quali santoni e falsi medici.

Se poi le cose non andavano bene ed il povero malato ci lasciava per andar a miglio vita , a quel punto era obbligatorio chiamare ‘O Schiattamuorto, ( becchino o beccamorto ) , cioè colui che seppeliva i morti , una  figura molto rispettata e temuta.

 Per alcuni il termine napoletano deriva dall’usanza dei becchini di bucherellare i corpi dei defunti, per verificare se fossero davvero morti . Per altri la parola ha origine dal verbo “schiattare” cioè “spremere” e indicava la pratica, in uso fino al Seicento, di comprimere i corpi per farne entrare più di uno nelle bare o per far perdere ai cadaveri tutti i liquidi. Secondo certi studiosi “schiattamuorto” deriverebbe dalla parola francese “croquemort” che è formato dai vocaboli “croque”, letteralmente “divora”, e “mort” cioè “morte”. A sua volta il termine transalpino si riferisce a un qualunque animale che si nutre di carogne, corpi morti appunto. Secondo un’ironica leggenda popolare la parola italiana “beccamorto” risalirebbe invece al Medioevo, quando c’era la pratica di chiamare il medico per verificare se un uomo fosse realmente morto. Il dottore verificava allora se il defunto si muovesse infliggendogli dolore ed era solito mordergli una parte del piede, generalmente l’alluce. Se non registrava nessuna risposta allo stimolo allora si procedeva alla sepoltura.

Non era raro poi trovare dinanzi alla morte anche la possibilità di giocarsi dei numeri al lotto dando particolare significato  nascosti dietro a eventi che avevano  accompagnato la morte del soggetto o eventi speciali o divertenti accaduti nel vicinato o nel quartiere in occasione dell’evento stesso . In questo caso per i  numeri da giocare al lotto ci pensava ‘O Cabalista , cioè  colui che  consigliava e dettava i  numeria adducendo come validità della scelta una sorta di scienza esatta .Questa sorte di “consulente” , spesso vestiti in modo bizzarro , vantando poteri magici e di preveggenza  , in base a misteriosi calcoli o persino congiunzioni astrali (  o presunte tali ) dettavano i numeri buoni da giocare . Ovviamente il fatto che questi numeri uscissero ugualmente come vincitori al lotto era rara . Eppure , nonostante questo , questi simpatici truffatori per decenni sono comunque sopravissuti . Probabilmente  a spingere i vari giocatori  era il semplice “Non è vero, ma ci credo”, la paura di non averle provate tutte, il pensiero che “forse mi avrebbe dato davvero i numeri giusti questa volta”. Insomma la sola speranza.  Molti si recavano dal cabalista  anche per consigli in amore o lavorativi . La fiducia che essi erano capaci di diffondere era enorme e questo, a volte, portava i clienti a richiedere anche qualcosa di diverso, come tentare di far innamorare qualcuno o guarire da gravi malattie.

A qualcuno di loro ci si rivolgeva  talvolta anche per sapere il sesso del nascituro in maniera anticipata rispetto al parto ,( sperando che fosse maschio ) ed i metodi usati erano alquanto bizzarri : uno dei più utilizzati era un  pendolo in rame .Esso veniva posto sulla mano o sul ventre della donna incinta e se il pendolino oscillava su un asso orizzontale il nascituro era maschio mentre se invece il pendolino descriveva dei cerchi era femmina .La probabilità ovviamente era del 50%.

In verità per sapere il sesso del nascituro ci si rivolgeva sopratutto sempre con lo stesso metodo , alla ” levatrice ” , un altro antichissimo mestiere una volta esercitato senza alcun titolo di laurea . La levatrice  era infatti spesso  solo la donna  esperta del luogo e che si era formata solo dopo una lunga pratica di parti poiché era lei che faceva nascere tutti i bambini del paese.

Era  uno dei mestieri più antichi del mondo , (citato addirittura da Platone che parlando di Socrate fa spesso riferimento alla madre levatrice ) ed erano chiamate  levatrici , perché erano in grado di «levare» il neonato dal corpo della donna o anche mammane ( da mamma )  perché come una seconda mamma davano  alla luce una creatura.

 Mammana = mamma ana cioè uguale alla madre. Inoltre esse erano anche le uniche donne che oltre alla madre , dopo il parto , avevano cura del neonato.

Un tempo  si partoriva  solo in casa, in una confusione di parenti e donne del vicinato, tra bacili d’acqua calda e panni di lino puliti. I bambini e le signorine erano tenuti lontani, spesso in casa di qualche vicina .

In passato quasi  tutti i mestieri si imparavano osservando chi già esercitava un mestiere e nel caso della levatrice generalmente il mestiere veniva tramandato da madre in figlia di generazioni in generazione ed era basato più sulla tradizione e sulla trasmissione di nozioni piuttosto che su apprendimenti scientifici o studi di anatomia e fisiologia femminile . Queste  erano donne che spesso avevano solo più esperienza di altre di seguire il travaglio e al tempo venivano  considerate come una delle figure più  importanti ed  autorevoli in società  insieme al medico, al prete e al sindaco.

Le ostetriche o comari (con la madre ) furono presenti sin dai tempi antichi e furono onorate da pricipi e potenti ma nel medesimo tempo condannate dagli stessi , quando fallivano nella loro opera.

Per svolgere questo delicato mestiere  dovevano avere molta esperienza ,  essere capace di intervenire utilizzando rimedi naturali (applicazione di panni caldi per alleviare il dolore e camomilla con delle foglie d’alloro o  inalazioni calde con acqua di malva per attenuare le fasi dolorose del travaglio ) ma sopratutto grande coraggio. Spesso infatti si  ritrovavano da sole n piena notte a gestire , magari in una desolata masseria ,un difficile travaglio e senza le opportune apparecchiature di oggi .Doveva avere le mani piccole perchè si riteneva che in tal modo si poteva meglio manipolare e posizionare il bambino e generalmente tenevano  l’unghia del mignolo,  lunga e affilata per rompere  le membrana . .Oltre ad avere il ruolo di sorvegliare e sostenere le donne moralmente in  gravidanza e di assistere  il momento del parto davano anche indicazioni alle nuove madri sul riposo e sul mangiare nei  tre giorni successivi alla nascita ( brodo di pollo per avere un abbondante montata lattea e per evitare le febbri che erano molto frequenti dopo il parto ) .Il suo ruolo continuava anche nei giorni successivi  facendo il bagnetto al piccolo , medicandogli  il cordone e spesso facendo una stretta fasciatura  al bambino  ( per evitare che facesse le gambe storte ) e  sostituendosi al pediatra di oggi spesso era lei a prestare le prime cure al bambino appena nato  nei giorni successivi.

Curiosita’ : Non molto tempo fa le placente una volta espulse , venivano conservate per qualche giorno nei centri di maternità in appositi contenitori .Venivano poi prelevate dagli addetti di una nota azienda che provvedeva a riutilizzare le placente per produrre delle fiale utili alla ricrescita dei capelli .

La cosa curiosa comunque , era vedere questi neonati dopo la fasciatura . Dopo essere stato  ben lavato e asciugato, il neonato veniva infatti veniva fasciato in una lunga striscia di stoffa bianca che l’avvolgeva tutto,( anche le braccia), lasciando fuori solo la testolina. Così come consegnato alla mamma  sembrava un salame e solitamente   rimaneva in questo modo fino al cambio successivo anche perchè  all’epoca le case  non erano riscaldate e molti bambini morivano di polmonite nei primi mesi, soprattutto se avevano la sfortuna di nascere in inverno.

Nei mesi estivi la fasciatura lasciava scoperte invece le braccine e generalmente  le bende venivano tolte verso i sette-otto mesi. Solo allora, povera creatura, poteva muoversi e riusciva, con le manine a scoprire  il mondo circostante.

 Se dopo un parto , a causa dei trumi e degli sforzi subiti durante il passaggio nel canale del parto  il neonato , come spesso succede ( si chiama tumore da parto ) appariva un pò con la testa deforme , gonfia o solo lievemente dismorfica , accorreva prontamente , sempre su chiamata anche “l ‘aggiusta bambini ” , un altro antico mestiere fatto da chi  proponevano di “aggiustare” i neonati dai naturali difetti che si potevano manifestare a causa dei traumi e degli sforzi subiti durante la nascita.

  Come vi ho accennato appena nati, quasi tutti i neonati possono dare l’impressione di presentare difetti morfologici che, in realtà , sono solo conseguenze transitorie del parto . E’ solo  sufficiente qualche giorno di riposo per far tornare tutto a posto.
Invece  “aggiusta bambini”, in cambio di un compenso, facevano credere di saper eliminare questi difetti, ma in realtà essi , non facevano altro che portarsi a casa i neonati aspettando che il tempo facesse il suo corso.

Il periodo dopo il parto era considerato un momento pericolosissimo ed era un momento gestito sopratutto dalle donne presenti nella stessa casa o dalle  vicine di casa il tutto sempre coordinato dalla levatrice  .

Riposo e tranquillità erano le cose più importanti da fare in tale periodo e per ottemperare a questo , nessuno doveva comunicargli cose che potessero agitare o angosciare la puerpera. Al solo marito era consentito qualche minuto di conversazione . Per un periodo di minimo 15 giorni fino ad un massimo di tre settimane era consuetudine che rimanesse sdraiata per la maggior parte del tempo, e che  non salisse le scale prima di quattro settimane.   

Solo dopo dopo cinque settimane poteva  fare qualche breve passeggiata ma non poteva  fare visite o spese che andavano programmate solo  in un secondo tempo e al solo scopo di evitare delle complicanze . L’indolenzimento del post-partum poteva essere alleviato da bagni di latte e acqua calda o impacchi di latte e pane o semi di lino. Se la neo mamma era agitata o sentiva  troppo caldo, era possibile applicare delle sanguisughe per alleggerire la sua condizione! La levatrice si interessava anche della dieta della puerpera che doveva nei 5-6 giorni mangiare e bere il meno possibile per evitare  qualsiasi tipo di infiammazioni .

Per decenni  con il  nome di “ostetrica condotta” , andava a domicilio delle partorienti,  e nonostante sprovvista degli attuali mezzi diagnostici come l’ ecografia ,  test sulle urine  o BHCG , poneva diagnosi di gravidanza basandosi su soli segnali clinici come  l’assenza delle mestruazioni , l’aumento di volume di mammelle, l ‘aumento di volume dell’ utero  , o altri meno specifici come la sonnolenza , l’astenia , la nausea e il vomito che sono sintomi comunque molto  comuni e frequenti nelle donne ai primi mesi di gestazione. Per le sue prestazioni non chiedeva nulla in cambio, anche se le famiglie stesse la ripagavano con qualche bene di consumo di propria produzione (vino, olio, formaggi, gallina).

Per tutti  questi compiti svolti  la gente le portava  il massimo rispetto, riconoscenza e un certo timore, perché nella fantasia popolare era vista come  un personaggio persino magico, come una sorta di fattucchiera, che allontanava dal neonato il malocchio (in lingua francese, l’ostetrica si definisce come sage-femme, ovvero una donna saggia).

Se la puerpera non aveva una buona montata lattea o non poteva allattare per un qualsiasi altro motivo ci si rivolgeva alla “Mammazezzella “( nutrice ) .

Questo mestiere veniva svolto dalle donne del paese o del quartiere che, per conto di altre ne accudivano, o addirittura allattavano, i figli. Per questo motivo la prima era detta “Balia asciutta” e la seconda “Balia ‘e latte” (di latte). La seconda era indispensabile per le donne con non potevano allattare fino allo svezzamento, ma il ricorso a questa figura andò via via scomparendo con l’arrivo del latte in polvere.

A proposito di latte non possiamo non ricordare la figura del ” lattaio “.
Il suo compito era quello di andare, di buon mattino, a prendere il latte appena munto nelle fattorie e, poi, portarlo nelle case dei clienti. Il latte veniva dapprima riposto in contenitori di acciaio e, poi, travasato nelle classiche bottiglie di vetro che‘o lattaro consegnava in cambio di quelle vuote. Una figura popolare era quella del lattaro , passava di primo mattino con le mucche o con le capre. Il suo arrivo era salutato dal suono delle campanelle. La gente “acalava ‘o panaro” con una bottiglia e, al momento, egli mungeva e dava nel paniere il latte ancora caldo. Io ricordo un lattaro che portava un gruppo di “crapuscelle”. Sotto al braccio aveva una bottiglia di cioccolato. Dava la voce di richiamo, che era: “V’aggio purtato ‘a ciucculata e ‘o llatte d’ ‘a craparella”. Oltre ai lattari ambulanti, è da ricordare che in piena città c’erano fino agli anni cinquanta forse, delle piccole stalle, dal caratteristico odore, dove si andava a comprare il latte che veniva munto al momento.

A volte, il lattaio era lo stesso allevatore che mungeva gli animali e, con il suo carretto, passava per la città . Con il passare del tempo, le fattorie dislocate nei pressi della città cominciarono a sparire per spostarsi  in periferia e nella filiera si inserì anche la Centrale del Latte, che trattava e smistava il prodotto.

Vi ricordate di questa busta gialla ?

CURIOSITA’ :

Fondata nel  1928 dal  Comune di Napoli , essa provvedeva alla mungitura, alla pastorizzazione e alla distribuzione del latte in cittò e nella provincia di Napoli .

La sua sede era situata in Corso Orientale (denominato nel  dopoguerra Corso Malta), in cui vi è rimasta fino alla chiusura dello stabilimento avvenuta nel 1993 in seguito ad uno scandalo che portò alla  sospensione  della sua attività . Venne infatti pubblicata una notizia ( mai confermata ) secondo cui la centrale del latte aveva distribuito un lotto intero di latte infetto

Successivamente, questo scandalo venne  poi  smentito, ma l’azienda non ha mai più riaperto i battenti.

Pochi mesi dopo, infatti sempre nel 1993, vennero poi arrestati diversi ex-Amministratori dell’Azienda nell’ambito dello scandalo della Tangentopoli napoletana: gli indagati,  usufruendo  di favori avevano mal  gestito appositamente l’Azienda per favori politici.

 

 

Quando la centrale del latte era attiva ,‘o lattare divenne colui che, con il suo furgoncino, riforniva i negozi di alimentari con il latte proveniente dalla centrale.
Un altro tipo di lattaro molto famoso era
invece colui che, di primo mattino passava per le strade con il suo piccolo gregge di mucche e di capre e, su richiesta, mungeva gli animali al momento e vendeva il latte ai clienti che desideravano comprarlo. Il suo arrivo era salutato dal suono delle campanelle. La gente “acalava ‘o panaro” con una bottiglia e, al momento, egli mungeva e dava nel paniere il latte ancora caldo. 

Oltre ai lattari ambulanti, è da ricordare che in piena città c’erano fino agli anni cinquanta forse, delle piccole stalle, dal caratteristico odore, dove si andava a comprare il latte che veniva munto al momento.

Il “massese ” invece  , era il venditore di latte acido che, oggi, verrebbe definito yogurt. Deve il suo nome al fatto che anticamente questo prodotto arrivava da Massa Lubrense e venduto in città in bicchieri di vetro ricoperti da un telo bianco.Esso non va confuso con la figura del ” Ricuttaro ” che  passava per le strade con il suo carrettino e  vendeva  panino e ricotta.

CURIOSITA’:  La leggerissima ricotta  era detta di “fuscella” dal nome del contenitore ,cioè  un canestrino di giunco e vimini a forma di cono tronco , dal quale veniva  tirava fuori la ricotta , con una palettina e poi  servita su una foglia o in mezzo ad un panino oblungo.

N.B. La parola fuscella deriva dal latino fiscus .

Nell’antica Roma con questo nome si era solito indicare un canestro nel quale gli esattori delle tasse raccoglievano tasse e gabelle per l’erario.

Nell’antica Napoli invece con il termine ricuttaro , oltre al venditore di ricotta , si era solito chiamare anche con questo appellativo i lenoni .

 Il lenocinio era  praticato da piccoli furfantelli e camorristi. Verso la fine dell’800 i piccoli furfanti ed i camorristi erano arrestati e spesso finivano sotto processo durante il quale dovevano esser difesi da avvocati che dovevano essere pagati. A questo provvedevano i compagni dei detenuti che procedevano ad una raccolta tra i commercianti.la raccolta veniva chiamata anche ricoveta , quindi chi raccoglieva era chiamato ricovetaro e poi ricuttaro.  

I formaggi , insieme a salumi , olio e pasta  , venivano un tempo tutti venduti dal “Casadduoglio ” , cioè   il salumiere di una volta . Mentre però quella del casadduoglio era una “puteca”, l’ugliararo era un ambulante che vendeva olio modesto sia per motivi culinari che per l’illuminazione nelle case.

Il nome casadduoglio  nasce dall’unione dei due prodotti tipici: il “caso”, dal latino “caseum” (formaggio), e l’uoglio, dal latino“oleum” (olio) .

Egli solitamente preparava la colazione o il pranzo per gli operai del quartiere, che ospitava su banchetti di legno sui quali serviva spesso una gustosa zuppa di fagioli o del casatiello. In questo  negozio era possibile trovare anche altri  prodotti, come legumi, aringhe, salsa di pomodoro, salumi, vino e sapone.

Questo  antico  esercizio commerciale era insomma l’unico posto in cui si poteva comprare in quei tempi viveri diversi da frutta e verdure.

Per queste due ultime cose gli ambulanti erano tanti e quasi tutti provenienti di buon mattino dalle vicine campagne .

Famosi erano il  Cerasaro ( il ciliegiaio) che spesso  attirava i clienti con il grido “So’ senza passeggiere e ffaje ddoje morze l’una!” (sono senza passeggeri e da due forsi per ognuna”), oppure “‘E rrumpe cu’ ‘o zuoccolo ‘sti cerase” (Le rompi con lo zoccolo queste ciliege) ,  il  Ceuzaro ( venditore di more di gelso, sia bianche che nere, dette in napoletano ceuze ) che invece attirava l’attenzione della folla con il grido di “Ceuze annevate!”, visto che, spesso, queste venivano vendute ancora ricoperte con un sottile strato di brina , ed il Fravularo , cioè  il venditore di fragole , un  ambulante che, durante l’estate, girava per la città  vendendo i frutti che raccoglieva nelle campagne di periferia (soprattutto ad Afragola, dove si dice la coltivazione delle fragole fosse già attiva intorno al IV o al III secolo a.C.)

 

Ma esistevano anche da agosto a settembre ,  il venditore di fichi al grido di
“Fechelle… Fechelle” (Fichi… Fichi), l’ Inzalataro ( il venditore di insalate) , che raccoglieva o coltivava varie erbe e, dopo averle lavate ed eventualmente insaporite, le vendeva agli angoli delle strade  ,ed  il cepollaro ,(  venditore di cipolla e aglio) ,
un contadino che, raccolti aglio e cipolla nei dintorni di Napoli ( sopratutto Roccarainola ), scendeva poi in città  per rivenderli.

 

Questi contadini intrecciavano  bulbi e foglie del loro prezioso carico  in modo da formare lunghe trecce che appoggiavano sulle spalle. Per vendere il loro prodotto spesso intonavano il grido : Comme so’ belle overe ‘ e cepolle da ‘ Rocca ( Roccarainola) !”Non dimentichiamo infine “O Nucellare ” che a tarda sera girava davanti a bettole ed osterie per offrire le ” nocelle ” ed il ” Favaiolo ” , il venditore cioè di fave fresche che di solito si sentiva passare con l’avvento delle primavera . Egli tirava da solo un carrettino imbandito di foglie e di fave e dava la voce ” e fave frescheee mangiammece e fave co lardo .

O lupinaro era invece il venditore di lupini . Esso Inizialmente , era un ambulante che girava per le strade dela città con un recipiente pieno di lupini che vendeva nei vari quartieri . Col passare del tempo , all’inizio del XX secolo invece non era raro vederlo utilizzare un carretto sul quale disponeva le merci , divise in varie tinozze , che comprendevno , oltre ai lupini , anche olive di vario genere , capperi e peperoni . .

Attirava la clientela con slogan quali  …. e tengo salate,  ……..e salatielle….

‘O Patanare( il venditore di patate )  girava invece per le strade ed i vicoli di Napoli a piedi con un sacco a tracolla pieno di patate, appena estirpate dal terreno e andava vendendole al grifo:
“Patane a ‘nu chile tri sorde!” (patate un chilo tre soldi)
“Patane janche e grosse “ (patate bianche e grosse)
“Tenghe ‘e Patane pe’ panzarotte” ( ho le patate per fare i panzarotti)

‘O patanare ambulante ogni giorno riusciva a venderle tutte,  ed in seguito,visto che gli affari andavano bene ,  con l’aiuto di un carrettino trainato da un asinello, aggiunse alla sua offerta di patate anche i piselli nel periodo della loro crescita.
Ai tempi nostri ‘O patanare, lo si può ancora incontrare con il suo triciclo o con un camion agli angoli delle strade nei pressi dei mercati od all’uscita delle autostrade o tangenziali e offre il suo prodotto, (‘e patane) in sacchetti da tre o cinque chili al prezzo di due o tre Euro.

Nelle stesso  luogo è ’ facile incontrare  oggi , anche  la figura del mellunaro ,  il venditore di angurie e meloni .

Egli un tempo trainava i suoi prodotti su un cavallo o un asino ed andava esibendo la sue merce nei vicoli della città strillando < tenghe ‘mellune chine ‘e fuoco ! “>.

Prima di comprare o mellune, una volta scelto lo si assaggiava e solo dopo  poi si contrattava per il prezzo più basso.

L’acquisto di un mellone intero era infatti spesso preceduta dalla prova,  ossia il taglio con un lungo coltello di un tassello piramidale che dava l’opportunità al (potenziale) acquirente di assaggiare la dolcezza dell’anguria prima dell’acquisto. Il tassello, dopo l’assaggio, veniva rimesso in sede al momento dell’acquisto. Questa pratica è stata abbandonata da diversi anni principalmente per motivi igienici.

 

Con il tempo per la frutta si è andata costituendo la figura del  Fruttajuolo , cioè  il venditore di frutta.
In origine, questo venditore arrivava dalle campagne, con la frutta appena raccolta che vendeva ai mercati  . Poi organizzatosi inizialmente con un carretto e successivamente con un furgoncino commerciale APE si mise in proprio vendendo la sua frutta  direttamente per le strade della città .

Infine , visto il successo che riscosse tra la gente,  incominciò ad organizzarsi con chioschi o negozietti fissi nei quali la gente del quartiere andava a rifornirsi.

Nacque così il venditore di ortaggi , chiamato ‘O Parulano . Egli spesso proveniente da lontane campagne erano caratterizzati da modi rozzi e poco gentili derivati dalla loro certa ignoranza .

La parola parulana , sembra infatti derivare dal latino ” paludem ” . I romani , infatti , trasformarono gran parte delle zone paludose intorno alle città in campi coltivati e, quindi, per loro quelli che portavano prodotti ortofrutticoli in città erano gli abitanti delle (ex) paludi.

 

Ma proveniente dalle vicine campagne , un tempo , nell’ottocento e fino a dopo la Seconda Guerra Mondiale, era possibile incontrare nelle strade di periferia anche ‘O capraro (  il capraio ) che  accompagnava il proprio gregge al pascolo, sempre accompagnato dal suo fedele cane, detto comunemente “caprino”.

Ricordo infatti che ancora fino a qualche decennio  fa ,non era raro  incontrarlo per i vicoli del Vomero e dell’Arenella, proveniente con il suo gregge dai pendii della Selva dei Camaldoli attraverso il largo di Cappella dei Cangiani fino a giungere in Via S. Giacomo dei Capri.

Questo simpatico personaggio  chiamava le sue capre per nome (Angiolina, Carmilina, Assuntina), quasi come fossero persone a lui molto care, anche perché gli assicuravano il pane quotidiano, sia per la vendita del loro latte, appena munto direttamente nelle ciotole dei clienti, sia con la vendita dei prodotti caseari derivati (la ricotta fresca, la caciotta, il formaggio stagionato ed il caprino. La sua fonte di reddito era il latte e tutti i derivati che poteva ottenere, come ricotte, caciotte e vari formaggi stagionati.

La sua figura non va confusa con quella del ‘O caprettaro che era invece colui che macellava le capre. (Il suo mestiere consisteva nell’incaprettare la capra, ucciderla e scuoiarla in modo da ricavarne pelli e carni da vendere) e nemmeno dall’Ammazzapecore,O ‘mmazzapiecure.

Questo personaggio come si può facilmente capire dal nome, era colui che, soprattutto nel periodo pasquale, girava per i vicoli della città con coltello e gancio per ammazzare il capretto che le famiglie ingrassavano per assicurasi un degno pranza pasquale.
Al suo arrivo, i bambini, che col passare del tempo si erano affezionati all’animale, venivano allontanati perchè non assistessero alla scena e allo strazio che ne conseguiva.

A vendere la carne fresca ci pensava O chianchiere ( l’antico  macellaio ).
Egli vendeva carne fresca appena macellate nella sua bottega con lame di vario tipo su di un bancone molto spazioso detto ‘a chianchia, da cui prende il nome il mestiere stesso. Una volta ottenuti dei pezzi più piccoli ed eliminato il grasso eccessivo, questi venivano esposti appesi a dei ganci o su dei grandi piatti di acciaio per attrarre i clienti.

In questo posto almeno inizialmente non potevi comprare trippa o frattaglie bovine . Per fare questo ti dovevi rivolgere ad  alcune piccole botteghe specializzate o a dei venditori ambulanti che giravano per la città con un approntato carretino .Stiamo parlando di un altro antichissimo mestiere napolatano , quello del Carnacuttaro, (‘O carnacuttaro ) cioè  il venditore di trippa e carni cotte.
Egli era un ambulante che vendeva soprattutto piatti realizzati con le frattaglie di bovino o maiale. Da quest’ultimo ricavava la sua pietanza più famosa,‘o pere e ‘o musso, letteralmente “il piede e il muso” che venivano ripuliti dai peli, cotti e venduti conditi con sale e limone.

Il complesso delle trippe o frattaglie  suine già nettate e lessate al vapore, una volta  ridotte in piccoli pezzi , venivano servite su minuscoli fogli di carta oleata; i piccoli pezzi di trippa erano prima irrorati col succo di limone e poi cosparsi con del sale che veniva prelevato da un corno bovino bucato sulla punta scavato ( il corno conteneva sale ) ad  per permetterne la distribuzione. Detto corno veniva portato dal venditore di trippa, appeso in vita e lasciato pendulo sul davanti del corpo.

Alcuni di questi venditori , come accennato possedevano anche una piccola bottega in cui si poteva gustare trippa e frattaglie in bianco, servita di solito su una fresella, oppure condita con una salsa fatta da peperoni piccanti.

Prima vi abbiamo parlato di persone che venivano dalla campagna o scendevano dai monti per vendere le loro merci o acqiustare animali .Secondo alcuni racconti questi contadini spesso arrivavano  con delle funi arrotolate intorno alla spalla o alla vita ,  con cui poi si portavano a casa gli animali (vacche, pecore, ecc.)  che compravano . Motivo per cui  questi venivano identificati dagli abitanti locali come quelli co’ ’a fune..

Il termine cafone secondo molti trarrebbe origine dall’espressione utilizzata per indicare proprio questi  abitanti delle campagne che, in occasione degli affollati mercati cittadini, arrivavano tenendosi legatil un l’altro “c’a fune” per non perdersi nella confusione cittadina  ( “con la fune” = “ca’ fun” = cafone).

 

Secondo un’altra tradizione, quando le nobili famiglie napoletane avevano la necessità di traslocare, chiamavano “chill co’ ’a fune” ovvero la ditta di trasloco che con funi e carrucole passava il mobilio dai piani al terreno, poi sempre “ca’ fune” (con la corda) assicuravano il tutto ai carri. Data la bassa scolarità del personale “chill ca’ fune” si trasforma in “chill cafune” e in italiano corrente “quei cafoni”.

Dalle montagne dell’Abruzzo e della Calabria ancora oggi come tanto tempo fa , in occasione delle festività natalizie , giungevano in coppia indossando un giubotto di montone senza maniche i  “Zampugnari” : l’uno munito di zampogna e l’altro di ciaramella  ( uno strumento a fiato fatto di canne ) intonano per strada le novelle natalizie , infondendo il quartiere di una magica atmosfera .

Una musica quella degli zampognari inconfondibie che ti entra nell’animae  ti riporta con i ricordi ai tempi dell’infanzia spensierata e felice.  Il fascino  della loro presenza , il timbro della novena suonata o cantata restano tali e quali come da bambini li abbiamo sognati ed inseguiti.

Ricordo la loro  particolare melodia suonata a casa mia su chiamata di mio padre o nei negozi . Essi in cambio di un  piccolo obolo ,portavano il santo Natale in casa tua.

 

A Natale ovviamente come risaputo fa molto freddo , e quindi quale migliore occasione per riscaldarsi  con il brodo bollente venduto dal ” Purpaiuolo ” ‘ che sul lugomare vendeva polipi cotti sulla pubblica strada. D’inverno il brodo bollente dei polipi riscaldava le mani  e lo stomaco attorno al bicchiere mentre  una buona fresella spugnata nello stesso brodo al contempo riempiva anche la pancia .

 

A proposito di mare …

Un tempo nella città di Napoli non era difficile avvistare, soprattutto sul lugomare anche  dei piccoli chioschi specializzati nella vendita di ostriche e, con il tempo, anche di frutti di mare di ogni tipo.

Questo singolare venditore era conosciuto con il nome di Ostricario e la sua nobile arte non era destinata a tutti ma veniva tramandata per discendenza diretta, quindi di padre in figlio o, in casi eccezionali, a coloro i quali venivano giudicati come particolarmente meritevoli.

‘O Stricario, al contrario del maruzzaro, non era un semplice venditore, piuttosto un esperto intenditore di frutti di mare . Egli  con estrema cura, raccoglieva personalmente le ostriche dagli scogli per poi servirle ai clienti già aperte e pronte per essere gustate.

‘O Maruzzaro , al contrario dopo essersi procuarato delle lumache dai contadini che li portavano al mercato  e dopo averli messi a spugnare tenedoli sotto un vaso rovesciato li bolliva con un pò di sale e qualche pomodoro o con un ciuffo di prezzemolo o di cerfoglio. Il maruzzaro  , a questo punto poi, metteva il suo pentolone su di un cesto basso (sporta) pieno di cenere e di brace e vendeva le maruzze nei piatti accompagnate dalle freselle ( simili a schiacciate di farina di frumento ) immerse nel brodo grigiastro prodotto dal mollusco.

Solitamente i chioschi degli ostricari si distinguevano perchè erano di colore verde, giallo o nero, ma solo ai migliori veniva concesso di installare una grande insegna con il nome proprio del venditore, seguito dal titolo Ostricario Fisico o Osticario d’Europa.

Il tanto ambito titolo di Ostricario Fisico fu inventato niente poco di meno che da Ferdinando II di Borbone, Re delle due Sicilie. Si narra che il Re fosse un vero amante dei frutti di mare e che, in un giorno del 1850, recandosi al mercato di Santa Lucia, un giovane venditore gli offrì un’ostrica proveniente dal Lago Fusaro.

Ferdinando II fu talmente entusiasta del sapore del frutto che, per elogiare la bontà del prodotto, replicò al giovanotto “voi siete un ostricario fisico!”. Probabilmente ciò che ispirò il Re nell’attribuire quest’appellativo fu il titolo di Dottor Fisico, dato solo ai medici che riuscivano a distinguersi negli studi di medicina e ricerca.

A proposito di medicina ….

Per curare invece le malattie , non esistendo un tempo molte medicine , ci si rivolgeva sopratutto alle erbe e ovviamente a Napoli c’era anche il venditore di erbe medicinali , cioè l’everajuolo .
Oggi sarebbe chiamato erborista, ma, un tempo, si trattava di un venditore ambulante che era fornito di varie erbe medicinali, che trasportava in una cesta. Tra i suoi prodotti annoverava:
Evera cetrangola, per curare ferite in genere per cicatrizzare.
Evera de li vierme, adoperata per curare i vermi intestinali.
Evera pepe, con sapore bruciante, che si usava per curare le afte ed il dolore di denti.
Evera troja, contro i vermi intestinali ed il verme solitario.
Evera esca, con virtu purgative, usata molto dai veterinari. Inoltre, se bruciata, il fumo scaccia le zanzare. Infine, se applicata sopra le ferite, ferma le emorragie.
Oltre a queste erbe, erano molto richieste ruta, menta e basilico perche, secondo una superstizione popolare, soprattutto la prima era in grado di prevenire alcune malattie che colpivano i bambini.

Sempre in tema medico ricordiamo l’infermiere di manicomio . Esso era definito “Mastuggiorgio “ed  in genere era ben robusto e fisicamente forte. Secondo alcuni il nome deriva dal greco mastigofòros, cioè portatore di frusta; secondo altri da un famoso castigamatti del XVII secolo che si chiamava Mastro Giorgio Cattaneo,il quale avrebbe escogitato un metodo infallibile per curare i matti: percosse e violenze

I cosidetti ” pazzi ” pù agitati  , dopo essere stati immobilizzati mediante funi o catene ,venivani  frustati mediante una frusta chiamata cignone o eventualmente bastonati.

Altri rimedi erano quelli di tenerli per giorni a digiuno o ingozzarli di cento uova  ( quest’ultimo rimedio era riservato a coloro che per eccesso di debolezza dovevano ricostruire le forze ).

Cattaneo era convinto che la follia fosse dovuta alla presenza di meningi anormali e a seconda del tipo di alterazione poteva conseguire eccessiva forza fisica o estrema debolezza. Il trattamento  per coloro che apparivano più agitati e quindi con un eccesso di forza , prevedeva il compito di far girare fino allo svenimento ,una ruota che portava l’acqua da un  pozzo ( detta per questo” ruota dei pazzi “) presente nel cortile del suo Ospedale .Dallo stesso pozzo invece quelli considerati più  aggressivi e pericolosi venivano calati giù e lasciti in quel posto semisommersi nell’acqua fredda e nel buio .

Ma ai poveri malati di mente erano previsti ed inflitti anche altre incredibili torture come quella di trattarli con salassi ( le  sanguisughe  venivano poste sull’ano e sulla vulva ),legarli costretti su letti girevoli o verticali , subire docce fredde a sorpresa e abuso di purganti (per agevolare l’evacuazione delle “parti folli ” del corpo ).

Gli infermieri del posto  dovevano normalmente avere una corporatura forte e robusta,  in quanto capaci   al momento opportuno di  poter gestire anche con la forza le varie intemperanze dei ricoverati più aggressivi. Essi avevano  il compito di sorvegliare i pazzi affinché non facessero del male a se stessi ed ad altri , e collaborando a stretto contatto con lo psichiatra, doveva essere capace se necessario di  bloccare il malato e infilargli la camicia di forza.

Il direttore di un manicomio veniva normalmente definito ” il maestro dei matti ” e di conseguenza il dottor Cattaneo venne ben presto soprannominato da tutti”Mastro Giorgio”, un appellativo che darà luogo poi nel tempo ad uno dei più divertenti modi di apostrofatizare determinate persone: Mastroggiorgio., cioè colui che nel dialetto napoletano , usando le maniere forti e violente, pur di ottenere il proprio scopo  si impone  ad ogni costo sugli altri . Ma  nella sua doppia valenza è anche un termine che sovente vuole  definire un uomo intraprendente e determinato, capace di prendere le redini di una situazione difficile.

Sempre in ambito medico , dovete sapere che per strada , a chi ne aveva bisogno e non poteva permettersi l’intervento di uno specialista ,  esisteva anche la figura del “cavadiente ” , una specie di dentista che, per poco compenso estraeva i denti  con la scarsa igiene conseguente che questo comportava .

 A proposito di  estirpare e scarsa igiene  , sapete che  un tempo esisteva anche il ” callista ” ?
Egli come dice il nome, effettuava un  mestiere che  consisteva nell’estirpare calli e duroni dai piedi del paziente (soprattutto donne) . L’improvvisato chirurgo utilizzava spesso la propria casa come ambulatorio e dei coltelli affilati come bisturi.
Chi non possedeva uno spazio abbastanza accogliente, esercitava come ambulante, girando per le vie della città con un piccolo carretto su cui esibiva i pezzi di pelle estirpata ai clienti precedenti.

Non dimentichiamo a proposito di cose strane anche l’antico mestiere del ” Sanguettaro ” svolto in  genere, da un barbiere che in un capace barattolo conservava le sanguisughe (o sanguette). In caso di grave malattia  si portava a casa dell’ammalato applicando dietro le orecchie o sulla pancia o altrove le sanguisughe. Vi risparmio l’operazione successiva, quando la bestia si gonfiava al punto da staccare la ventosa dal corpo. Ricordo un vecchio barbiere che. quando veniva chiamato per l’incombenza, si dava delle arie e intimava al garzone di bottega: “Guaglio’, piglia ‘o buccaccio, fa ‘ampressa,ca aggi’ ‘a j’ a ghiettà l’e sanguette”. Ottenuto quello che, a suo avviso, era il prezioso salvavita, di cui era depositario, usciva, tutto tronfio, quasi si sentisse un Cardarelli

Tutto questo perchè una volta il barbiere era anche  mezzo medico e oltre a occuparsi di barba e capelli faceva il “cerusico”, tirava denti e praticava il salasso cioè  “Sagnava” .

Fino al secolo scorso la “sagnatura” , cioè tirare il sangue a chi ne aveva bisogno era una pratica molto usata sopratutto  per chi voleva abbassare la pressione alta  ma che  veniva usata anche per le varie  infiammazioni e persino  per le neoplasie . In questi casi, infatti poichè si pensava che il tumore non fosse altro che sangue pazzo , la gente ricorreva al barbiere( cerusico ) per farsi “sagnare”, cioè per per farsi togliere “il sangue pazzo”.

Veniva chiamato “cerusico ” un termine con cui per molti secoli si indicò il chirurgo ma che nell’alto medioevo venne affidiato ai barbieri che spesso intervenivano al posto dei chirurghi . La  chirurgia infatti in quel periodo venne spesso relegata nelle mani di figure professionali  dotati di  grande esperienza pratica che mostravano grande manualità ed il cerusico certamente esperto nell’arte del salasso spesso  interveniva  al posto del medico sostituendosi ad esso. Per fare il salasso, il barbiere incideva la vena della piega del gomito con una lametta da barba, facendo in modo che il sangue scorresse piano piano. Per raccogliere il sangue metteva sotto il gomito, in corrispondenza una bacinella; dopo l’intervento  metteva un tampone di cotone nella piccola ferita che comprimeva fino  a quando avveniva  l’emostasi.

Questo intervento che avveniva senza anestesia ed in condizioni igieniche precarie  in verità veniva un po’ snobbato dai medici  che ritenendolo un atto operatorio particolarmente cruento e rischioso veniva ritenuto un atto indegno da fare per  un medico.

 

Il cerusico barbiere  per togliere il sangue , sopratutto quando la pressione era continuamente alta per non fare ogni giorno il salasso usava anche il sistema delle sanguisughe . Si trattava di  piccoli vermi che egli si premuniva di far raccogliere nei ruscelli o negli abbeveratoi di campagna per poi conservarli in grossi barattoli di vetro pieni di acqua.

salasso-sanguisugaLe sanguisughe venivano applicate in genere sulla pelle del torace quando il paziente era maschio; alle donne venivano invece applicate nelle spalle. Succhiando succhiando le sanguisughe, man mano che ingerivano il sangue, iniziavano a gonfiarsi e si tenevano applicate tutto il tempo necessario, fino a quando gonfiandosi , non raggiungevano  il peso di cento, centocinquanta grammi. Venivano poi conservate dal barbiere in un barattolo di vetro con dell’acqua per essere riutilizzate al bisogno.  Le micidiali sanguisughe comunque non si potevano applicare in ogni momento dell’anno ed in ogni occasione , ma la loro applicazione era ben regolamentate in una vera e propria linea guida proveniente dalla famosa scuola medica salernitana la quale teneva in particolare considerazione i mesi e le fasi lunari .

” Maggio, Aprile e settembre son lunari / Nel primo di’ del primo e nel di’ ultimo / Degli altri il vagar sangue e’ cosa pessima , come pur mangiar le carni d’oca / Aprir la vena , e molto di piu’niente mesi di maggio e di aprile e di settembre. “

 

 

I  medici mancando  all’epoca di grandi nozioni in campo medico e visti i pochi rimedi a disposizione per curare le malattie  non impedirono  a questi cerusici di svolgere queste antiche pratiche finendo per tollerarli. Anzi, ad un certo punto incominciarono a collaborare con loro  per eseguire piccole operazioni chirurgiche a domicilio dei pazienti. Il poco edificante salasso era affidato ai barbieri, ma la scelta della vena da incidere, la quantità del sangue da togliere e la scelta del giorno e dell’ora nei quali eseguirlo, toccava al medico che decideva esaminando attentamente la posizione delle stelle.Il barbiere in questa occasione  indossava una casacca corta da artigiano, mentre il medico portava il camice lungo da dottore.

 

 

imagesI barbieri lavoravano però spesso da soli specie quando dovevano fare delle amputazioni. Erano infatti molto pratici ad amputare poiché come ulteriore lavoro facevano anche i carnefici ed erano chiamati dalla giustizia per tagliare le mani ai condannati come ladri e spergiuri.

I barbieri dotati di grande esperienza , ricchi di grande pratica si occupavano anche di chirurgia essendo questa considerata una parente povera della medicina.
Erano spesso ambulanti, tagliavano i capelli, tiravano i denti, amputavano  arti, vendevano elisir e facevano anche i giocolieri e i cantastorie.
In Inghilterra i barbieri che avevano bottega applicavano fuori dalla porta un’insegna cilindrica a fasce rosse e bianche che simboleggiavano il colore del sangue e il colore delle fasce che usavano come bende .

La stoffa per le bende o per le fasce era‘ un compito ad appannaggio della cosidetta  “moccaturara ” . Essa in verità era per lo più   la venditrice di fazzoletti.

Il suo nome deriva da moccaturo che, in dialetto napoletano, significa proprio fazzoletto. Quindi la moccaturara era una vera e propria esperta dei fazzoletti; conosceva tutto, le mode, le tendenze e sapeva consigliare l’acquirente su cosa comprare a seconda delle occasioni.

In origine però le donne che intraprendevano il mestiere, vendevano e trattavano qualsiasi stoffa. Infatti era possibile trovare fazzoletti di filo, di stoffa e, raramente, anche di seta. Successivamente, nel XVIII secolo, l’introduzione della mussola, proveniente dall’Asia, creò un’altra figura, ovvero le mussolinare, le quali vendevano solo fazzoletti realizzati con questo nuovo tessuto.

Probabilmente le vostre mamme non lo ricordano, le vostre bisnonne sì, ma  un tempo non vi era la luce , e per poter lavorare la stoffa o la lana di sera si usava la lampada . Queste inizialmente funzionavano ad olio  e solo in un secondo tempo a petrolio .

Il venditore di petrolio per le lampade era  “‘O Scistajuolo”,  (detto scisto o cisto) . Quando però cominciò a diffondersi, questo nuovo prodotto non fu accolto bene dai consumatori, che lamentavano il cattivo odore rispetto all’olio usato fino a quel momento. Per questo motivo, il termine “cisto” divenne sinonimo di qualcosa di cattivo, sia che si parlasse di cibo che di persone. Con l’avvento dell’elettricità e di prodotti chimici più raffinati, la figura dello Scistajuolo è diventata superflua, se non in qualche raro caso in cui il petrolio veniva utilizzato per oliare le tapparelle o le serrande di case e negozi.

A proposito di oliare e lucidare , come non ricordare la mitica figura dello ” Sciuscià ?

Ci troviamo di fronte ad  un antico mestiere che ha radici profonde nella storia di Napoli .Il termine “sciuscià” deriva probabilmente dalla deformazione in dialetto napoletano del termine inglese shoeshineche che stava ad indicare il mestiere del lustrascarpe.

Esso nacque come mestiere durante la seconda guerra mondiale ed era molto diffuso come termine tra gli scugnizzi napoletani. Durante l’occupazione degli americani erano infatti gli scugnizzi, i giovani bambini napoletani, a lustrare le scarpe dei passanti e dei soldati. Il guadagno non era alto, giusto qualche lira per potersi permettere di comprare da mangiare.

Fu poi reso ancor più celebre dal omonimo film di Vittorio De Sica.

 

Come potete vedere  gli antichi mestieri in città erano tanti e a guardarli in maniera postuma essi erano forse solo lo specchio drammatico di una generale condizione di povertà  dai lunghi strascichi ,  seguita  alla seconda guerra mondiale che la gente napoletana , perfusa da spirito Epicureo , si sforzava di affrontare con fantasiosa arte di arrangiarsi e tirare avanti , godendo in allegria di quel poco che si poteva permettere .

Primo fra tutti ‘O Sapunaro :  figura, ormai scomparsa, che si aggirava tra vicoli e rioni , e in cambio di stracci ,  abiti vecchi dimessi , pentolame , cianfrusaglie da soffitta e roba vecchia usata e discarso valore , offriva sapone giallo ( sapone di piazza ) per il bucato  racchiuso  in un contenitore di terracotta dalla forma di cono, detto “scafarea” .

Era in effetti un venditore girovago che  comprava e rivendeva per poche lire roba usata e di scarso valore .

 Il sapone ceduto dai saponari nei loro scambi,era comunemente detto sapone ‘e piazza (  sapone della piazza )  forse perché venduto non in una qualche specifica bottega come invece avveniva per altre merci), ma esclusivamente per strada dai saponari che ne erano anche i produttori artigianali . Esse non erano  le saponette industriali che conosciamo oggi  ma un tipo di sapone artigianale molto morbido e di colore ambra da usare per detergere abiti e biancheria  , ma ricordo che mia nonna  lo utilizzava anche per lavare piatti , per fare lo shampo e perfino per  la pulizia personale ( alla faccia del consumismo che prevede un detersivo per ogni cosa ) . 

Il sapone ,  come accennato veniva ceduto avvolto in fogli di carta oleata, a mo’ di fétte, staccandole con una lama da un parallelepipedo compatto.

Simile al sapunaro era anche‘O cenciaiuolo, una persona  che girava per i vicoli e le strade della città ,  alla ricerca di roba vecchia da ritirare in cambio di oggetti più utili. Egli , in cambio di stracci, tessuti e vestiti, cedeva alle donne e alle lavandaie  sapone o varie suppellettili di stagno per la cucina. A volte, anche ragazzini e bambini si rivolgevano a lui per barattare i loro vecchi stracci con dei lupini o dei piccolo pastori di creta per il presepe.

Dopo il sapunaro , come non ricordarsi tra gli antichi mestieri anche dello Scarparo ?

Una figura quella dello  Scarparo ( il calzolaio di oggi )  che in un tempo in cui non esistevano le fabbriche , aveva  l’arte di costruire scarpe su minura . Per averle si doveva aspettare minimo una settimana. La parola scarparo deriva proprio dal fatto che non si trattava di semplici riparazioni ma della costruzione dell’intera scarpa in tutti i suoi elementi.

Ma il suo compito non era solo quello di costruire scarpe su misura , esso era sopratutto quello di  riparava le scarpe che per qualche motivo si erano rotte .Questa leggendaria figura che io adoro ( vi spiego dopo il perchè ) veniva anche chiamato ‘O cenciaiuolo( termine dialettale composto da sola, suola, e chianiella ) esercitava la sua professione di ciabattino sia a domicilio che nella propria bottega , utilizzando  utilizzava pochi e semplici strumenti, un po’ di colla, qualche semmenzella, un martelletto, un punteruolo e qualche ago

La sua cerchia di clienti era solitamente composta da quelle persone che, non potendo permettersi l’acquisto di un nuovo paio di scarpe, decidevano di aggiustare, finchè possibile e in tempi rapidi, quelle usurate.

Non è quindi un caso che le vecchie botteghe dei calzolai erano note come “rapide”. Rapide perché coloro che si recavano in negozio necessitavano di una riparazione fatta ad arte e in tempi brevi per non rimanere a piedi nudi.

Questo antico mestiere, come tanti altri di quel tempo, è andato lentamente in disuso fino quasi a scomparire. Questo perché oggi viviamo nella società dell’uso e getta, dove ciò che è rotto o usurato viene ben presto rimpiazzato da un nuovo oggetto. Ed è proprio questo il motivo perchè io adoro questi veri e propri maestri delle scarpe . Uno di essi è il personaggio che più do ogni altro ha fatto in modo che io in quanto papà abbia dato un bella lezione educativa di vita a mio figlio .

Andiamo con ordine . Alla richiesta di mio figlio di comprargli delle scarpe nuove in quanto le vecchie erano seppur di marca , scolorite e con la suola parzialmente aperta , in maniera istintiva come faceva mio padre gli chiesi  di farmela vedere per capire se si poteva eventualmente riparare . Lo sguardo stranito di mio figlio mi  riportò però presto  alle realtà capendo che per la nuova generazione questa cosa proprio non esisteva . A questo punto incominciai  a racccontare del mio umile passato vissuto in una semplice famiglia con padre operaio dove non ci si poteva permettare spesso l’acquisto di un paio di scarpe nuove e sopratutto gli raccontai dell’esistenza delle “rapide” di cui mio figlio come tutti i suoi contemporanei ignorava l’esistenza .

Ricordandomi a questo punto di una piccola  botteghe ancora sopravvisuta nel quartiere proposi  a mio figlio sempre più dubbioso una insolita scommessa : < se il calzolaio non riesce ad aggiustare la scarpa come tu dici , non solo compriamo una nuova scarpa ma addirittura se vuoi anche due nuove scarpe , al contrario se la vecchia scarpa ritorna nuova non si compra nessuna scarpa e addirittura in caso di nuova rottura si riporta prima dal ciabattino>.

Accompagnato da mio figlio ,  consegnammo  , accolti con calore da un vecchietto simpatico signore ,nella piccola bottega  le scarpe rotte  e scolorite . Mio figlio stranito ma al contempo oramai incuriosito ed affascinato incominciava a guardarsi intorno e meravigliato si chiedeva come mai lui ed i suoi amici non conoscevano quel posto .

Lasciata la bottega , ( non mancando di raccomandarmi al simpatico maestro di farmi fare bella figura ) notavo con soddisfatto sorriso il prendere nota da parte di mio figlio del numero di telefono della bottega .

Ritornati come da appuntamento dopo tre giorni ecco l’incredibile sorpresa . Le scarpe erano ritornate nuove , anzi a dire di mio figlio più belle di prima . Era felice perchè a quelle scarpe era affezzionato ed era contento perchè nonostante avesse perso la scommessa aveva scoperto un posto bellissimo ma sopratutto aveva capito …. aveva capito il messaggio…  e sopratutto lo aveva diffuso a tutti i suoi amici , diventati da quel momento tutti grandi clienti del mitico ” masto delle scarpe “.

Anche io  ero contento avendo tra l’altro anche risparmiato tanto , con soli 10 euro avevo infatti  comprato delle nuove scarpe a mio figlio , ma sopratutto avevo mostrato a giovani ragazzi  un aspetto retrò ma ancora attivo della vecchia Napoli che fù.

 

A proposito di sprechi e del concetto della nostra nuova società di buttare tutto ciò che è usurato senza per niente pensare nemmeno lontanamente ad una sua eventuale riparazione , ci fà venire  subito alla mente la figura dello ” Stagnino “.

Attualmente viviamo in una società in cui rapidità e velocità la fanno da padrona, dove regna la filosofia dell’usa e getta, dove ciò che è usurato non viene riparato ma prontamente sostituito.

Ebbene , un tempo non era così, si cercava di ridurre al minimo gli sprechi e risparmiare fino all’ultimo centesimo, infatti ciò che era rotto andava necessariamente aggiustato. All’epoca non giravano tanti soldi ed era impossibile pensare di comprare continuamente .Il personaggio capace di dare nuova vita agli oggetti deteriorati era proprio lo  stagnino , un particolare artigiano che si aggirava con il suo inseparabile carretto tra le vie e le strade dei paesi e delle piccole città, pronto ad assolvere ai bisogni delle famiglie.

Il suo mestiere  era quello di riparare utensili, pentole ed altri oggetti di rame che, con il passar del tempo, s’erano ossidati, ovvero quelli che riportavano, in superficie, una patina colorata chiamata “verderame”. L’abile artigiano per eliminarla utilizzava lo stagno, il quale, essendo un elemento neutro, non rilasciava sostanze nocive ne alterava i sapori degli alimenti. Per effettuare una corretta stagnatura, l’artigiano doveva seguire un procedimento lungo e minuzioso che, inevitabilmente, richiedeva molta pazienza ed attenzione. Gli oggetti solitamente erano consegnati dalle donne in mattinata e riconsegnati alle stesse dall’abile saldatore in serata.

La sua attrezzatura era sempre la stessa: una forgia, alcune pinze di diversa dimensione per afferrare le ciotole contenenti lo stagno fuso o per manipolare i pezzi arroventati sul fuoco, delle cesoie, alcuni punteruoli, martello, tenaglie, forbici e incudine .

Nei tempi in cui l’acqua potabile non era ancora arrivata nelle case, erano inoltre  impegnati nella realizzazione delle grondaie che portavano l’acqua piovana alle cisterne. Alcuni di loro possedevano anche una bottega dove solitamente oltre che riparare oggetti d’uso domestico, creavano strumenti utili in casa, come caffettiere, imbuti, secchi e contenitori vari.

A causa del progresso tecnologico, questo mestiere è scomparso lentamente, sostituito da macchinari sempre più rapidi per la riparazione o addirittura da nuovi, nuovissimi oggetti pronti per essere usati e buttati al minimo segno di cedimento con la la scusa solita degli addetti ai lavori … NON NE VALE LA PENA …NUOVO COSTA APPENA UN PO DI PIU’ …

EVVIVA IL CONSUMISMO !!!!!

A riparare invece stoviglie rotte di terracotta o ceramica ci pensava il conciambrielle (  ombrellaio ) che armato di pochi ferri del mestiere e qualche pezzo di ricambio (stecche d’acciaio brunito, fusti e manici, fil di ferro) con  tanta pazienza riparava , ( seduto sul marciapiede all’imbocco di bassi e palazzi ) non solo ombrelli anche stoviglie di ceramica rotte .

Egli spalmava  i lembi dei frammenti rotti con del mastice adesivo di propria segreta produzione, e armato di tanta pazienza faceva dapprima  combaciare con precisione i pezzi  per poi ricucirli  dopo avervi fatto (con un rabberciato artigianale trapano a mano provvisto di punta sottile) dei minuscoli fori entro cui infilare un fil di ferro dolce da fermare per torsione; il lavoro veniva completato spalmando con abbondante  mastice le connessure.

Vi ricordo  che fino a tutto il 1950 il possesso di un ombrello elegante e funzionante era uno status simbolo ( come il telefonino oggi ) e forniva ai giovanotti l’occasione per contattare ragazze, offrendo loro adeguato riparo in caso di pioggia.

 

Altra figura della Napoli che fu , era ‘O Matarazzaro  cioè un personaggio che si occupava di “rimettere a posto” i materassi usurati, appiattiti e poco morbidi. Egli non possedendo una propria bottega personale, era solito essere chiamato a domicilio una volta l’anno per sistemare l’imbottitura del materasso fatto di lana o di piume o addirittura, in tempi più antichi, di foglie o di fibre vegetali.

 

Egli con i suoi strumenti  veniva ad allargare la lana dei materassi ammassatasi per renderla nuovamente soffice .Il lavoro veniva effettuato con l’ausilio di uno strumento chiamato scardasse  che allargava la lana e la rendeva più voluminosa e soffice.

Lo scardasse era composto da due parti chiodate, una fissa e un’altra mobile: la lana, dopo essere stata lavata e fatta asciugare, veniva adagiata sulla parte fissa e allargata con quella mobile. L’intera operazione durava qualche giorno e di certo non era un toccasana per chi soffriva di allergia , in quanto l’operazione che consisteva nel battere di continuo la lana, non faceva altro che alzare un gran cumulo di polvere  peli e acari . Al materassaio toccava anche il compito di rinfilare i fiocchetti e di ricucire, da entrambi i lati, il bordo del materasso con degli aghi lunghissimi, i cosiddetti aghi saccurali.

Oggigiorno il materasso non esiste  più . Il materasso , passato qualche anno , una volta considerato vecchio si butta e se ne compra uno nuovo . Che ci volete fare .. questo è il CONSUMISMO .

A tal proposito è carino ricordare per la propria casa , la figura della ” lavannara ”  che sostituiva l’attuale moderna lavatrice , e la “capera ” una donna che girava di casa in casa per acconciare i capelli delle donne appartenti alla  famiglia . Insomma una moderna parrucchiera a domicilio .

La Capera era quindi sostanzialmente una  pettinatrice a domicilio molto abile nel suo mestiere , che veniva spesso chiamata a casa delle donne per particolari acconciature e qualche consiglio per il trucco.  E così di casa in casa la pettinatrice per intrattenere le clienti era solita racconatare pettegolezzi, ‘nciuci, meglio se piccanti, che apprendeva nei suoi vari giri .  Lavorando a domicilio, essa infatti  raccoglieva spesso numerosi sfoghi, indiscrezioni, e scoop o  gossip di quartiere. La sua promessa solenne di non riferirli ad anima viva era spesso disattesa.

Questa sua particolare abilità di raccontare in giro per le case quello che avrebbero dovuto esserenotizie segrete  la rese molto famosa come pettegola del quartiere.

La lavannara (lavandaia), invece era un mestiere femminile che durò fino a tutti i primi anni ’60 del 1900 quando poi nelle case degli operai evoluti e della piccola borghesia apparvero le prime lavatrici. Esse con con cadenza settimanale o bisettimanale  passava di casa in casa ritirando la biancheria da detergere e sbiancare che poi provvedeva a lavare  ( con sapone di piazza ) presso il proprio domicilio e riconsegnava alle clienti nel giro di un paio di giorni. Tale procedura era però seguita nella zona collinare della città dove domiciliavano le famiglie di professionisti o dell’alta borghesia e spesso nelle eleganti case di costoro non esisteva ‘o lavaturo (il lavatoio) in pietra essenziale per procedere all’operazione di lavatura dei panni; tale lavaturo ( lavatoio) esisteva in tutte le case della città bassa e la lavandaia dava corso alla sua opera settimanalmente o bisettimanalmente direttamente nel domicilio delle clienti.

Era un lavoro faticoso e per lavare a mano questi panni in un lavatoio ( bassa vasca di pietra ) ci voleva  forza e spesso muscolosi avambracci . Una volta lavati i panni andavano poi  sistemati  dentro la tina per procedere alla sbiancatura della colata, usando  la cenere del  focolare; terminata la colata poneva la biancheria cosí lavata in un capace cufenaturo (  conca metallica) per trasferirla quindi infine sul lastrico solare, dove la biancheria lavata era posta ad asciugarsi, adeguatamente sciorinata su approntate corde, tese da una parete all’altra  dove vento e sole la facevano da padroni.

Ma se il sapone di piazza apparteneva ad antiche ricette ad uso esclusivo dei saponari , dove trovavano il ” sapone di piazza ” queste lavannare per svolgere il loro lavoro ?

Sicuramente dallo “Zarellaro ” , una bottega in uso fino a tutto il 1950 , dove si poteva trovava di tutto :  ago e filo per cucire, spago,nastri e trine, bottoni, forbici e forbicine, elastici,bottoni e stecche per colletti, puntine da disegno,punte per grammofoni, spugne marine, spugnette metalliche ,sapone per bucato in pezzi e da taglio (sapone ‘e piazza), soda solvay, secchi in legno o in metallo/ banda stagnata, scope, mazze pe lavà ‘nterra(odierni spazzoloni), con relativi strazze ‘e terra,ma pure mercanzia poi divenuta di competenza dei cartolai o dei supermarket come  quaderni, blocchi di fogli per il disegno, matite e penne comuni con relativi pennini,boccette d’inchiostro, gomme per cancellare,squadrette e righe per il disegno geometrico, portapenne, nettapenne, pastelli e portapastelli; non mancavano inoltre anche piccoli giocattoli come cavallucci in legno o di cartapesta, bilancine e bamboline o bambolotti,nonché scopini (scupilli) per la pulizia del gabinetto di decenza, spilli di ferro o di acciaio,spille da balia (spingule ‘e nutriccia o spingule francese), stringhe per scarpe, lucido per pulirle (‘a crumatina) e relative spazzole, siringhe ed aghi per iniezioni con pentolino, ovatta, alcool, insetticidi,ed in prossimità della Festa di piedigrotta sciosciamosche, mazzarielle, cuppulune, cappielle ‘e carta e carta crespata, carta velina, carta oleata e cartoncino per la fabbricazione dei vestitini di carta, ed infine finanche “pappagalli” e “pale” per gli ammalati allettati. Qualche zarellaro,  vendeva impropriamente anche paparelle ‘e zuccaro, caramelle, bacchette ‘e divinizia, franfellicche e bomboloni.

Dopo il 1950 ‘o zarellaro dismise il nome, prese quello italiano di merceria e ridimensionò la vendita limitandosi al commercio di ago e filo per cucire, spago,nastri e trine, bottoni, spilli di ferro o di acciaio,spille da balia, bottoni automatici e chiusure zip e per tutto il resto fu giocoforza servirsi dei grandi magazzini STANDA ed UPIM. a cui seguirono i grandi centri commerciali  , internet ,  Amazon , e così via .

L’inizio della fine ….

Ora no so se avete notato ma per sbiancare i panni si usava la cenere . Strano per noi vero ?

Ma sopratutto come succedeva tutto questo ?

Il bucato , una volta lavato a mano , veniva sistemato su un grosso telo ( detto cennerale ) non prima di aver sistemato sullo stesso degli arbusti odorosi ed un congruo strato di cenere ; si lasciava poi colare sul tutto dell’acqua bollente addizzionata, magari di altre essenze profumate.

Quando tutta l’acqua era passata e la soda caustica contenuta nella cenere aveva compiuto la sua opera di sbiancare la biancheria, l’operazione era compiuta, la colata finita e dopo un ultimo veloce risciacquo, i panni potevano essere sciorinati al vento e al sole .

Per tingere le stoffe dei vestiti infine , esisteva laddove se ne aveva bisogno l’ Arrangiatore , mentre per rifinire  e riparare  i fregi dei tessuti si chiamava l’Accimatore.

Ovviamente , un tempo c’era anche chi comprava e rivendeva la cenere  . Era il “cenneraro “, un commerciante girovago che alla voce “Oj ne”o cenneraro” vendeva la cenere alle massaie che ne avevano bisogno .

A girare per i vicoli della città con dei grossi sacchi in spalla ,  riempiti  di carbone ricavato personalmente dalla legna che andava a raccogliere nei boschi , c’era anche ‘O gravunaro , cioè  il venditore di carbone.
Il carbone, per essere di qualità  doveva essere rigorosamente di castagno . Esso era molto importante per la gente del popolo .  Serviva infatti non solo per alimentare i bracieri dei camini, ma anche per far funzionare ferri da stiro o scaldare gli antenati della borsa dell’acqua calda.

 ‘O gravunaro, aveva anche il delicato compito di raccogliere il carbone che poi avrebbe rivenduto, suddividendolo nei vari tipi: ‘a carbonella costosa e poco duratura, fatta di piccoli rametti e utilizzata per l’accensione dei bracieri, ‘a muniglia costosa ma duratura, formata da frammenti di pezzi più grandi che venivano pressati, o’ gravone il classico carbone simile a quello tutt’oggi in commercio, ‘a cernatura cioè la polvere di carbone che cosparsa sulla brace faceva aumentare la durata, ed il  ‘carbon coke’, cioè carbone minerale venduto in forme molto grandi a cui altri materiali venivano aggiunti,  che non produceva cattivo odore ma aveva un costo elevato.

La biancheria prima o poi dopo tanti lavaggi andava anche ricomprata ed a questo ci pensava il  rammariello che vendeva a domicilio biancheria e in particolare quella per il corredo da sposa ( da non confondere con il ” rammaro ” che invece vendeva sempre con il metodo porta a porta , stoviglie di rame ).

A casa , su richiesta in caso di bisogno veniva anche  ‘A serengara , una anziana signora del rione ( spesso della porta accanto ) , che senza alcun titolo di infermiera veniva ingaggiata in caso di necessità e pagata con una cifra che variava a seconda della sua bravura e del numero di interventi. Prima di procedere con l’iniezione, la serengara faceva bollire ago e siringa per disinfettarli, ma le condizioni igieniche degli strumenti, che venivano riutilizzati più volte, erano comunque molto approssimative.

Oggi fortunatamente il mestiere di infermiere richiede molto più tempo e titoli di studio, mentre prima bastavano un ago, una siringa e un malato da aiutare.

Per strada invece i mestieri erano ancora più variegati . Si passava dai Rilurgiari ( attuale orologiaio ) al suonatore di pianino passando per i capillò , i mellonari , i sanzari, i guarnamenari , il franfellicaro ,‘O gliuommenare , ‘O gravunaro , ‘O lampiunaro,’O nciarmatore , ‘O Pazzariello , ‘O maccaronaro ,l ‘arriffatore , il cantastorie , lo scrivano ,O latrenare ,‘O Chianchiere , ‘O cacciavino ,O schiattamuorto ,O Sanguettaro , ‘O Muzzunaro , A nevajola , ‘O cabalista , il sciuscià ,’O puzzaro , l ’ acquaiolo e tanti , tanti altri .

Il suonatore di pianino con grande folklore era colui che trainato da un cavallo , o spinto dallo stesso suonatore portava in giro per la città appunto il  pianino producendo varie melodie .Il popolo  lo amava a tal punto  da affollarsi spesso nei suoi pressi, acquistare le “copielle” e intonare insieme i canti.

Allo stesso modo ‘O Gliuommenaro con uno strumento musicale recitava a cappella versi divertenti ricevendo in cambio della sua performanse qualche  moneta . Questo allegro personaggio veniva spesso chiamato per intrattenere e rallegrare la platea durante una serata . Era una figura molto diffusa sopratutto nel XIV e nel XV secolo, dove si usava intervenire nelle feste per improvvisare omaggi a qualche personalità o per allietare l’evento.

Era profondamente un compositore di brevi poesie e filastrocche che non avevano comunque nessuna seria pretesa ma servivano comunque a regalare allegria e ilarità alla platea che, finita l’esibizione, lo ringraziava riempiendogli il cappello di monete.

Si trattava insomma di una sorta di giullare che, spesso , accompagnava i suoi componimenti con un semplice strumento musicale.

Un po più avanti in un clima di allegria , magari si trovava un cantastorie che andava cantando in giro per la città storie di leggendari eroi .

Sempre più avanti il mitico Puparo attraverso le sue marionette  manovrate  con particolare abilità, si esibiva in una specie di scarabattolo che si apriva in alto con una finestra da cui uscivano i burattini. Il principale protagoniste di queste storie raccontate per strada era la maschera  di Pulcinella con le sue famose “guarattelle”.

E se non bastava tutto questo magari , per rendere un pò più caotica la strada , di lì a poco passava anche ‘O Pazzariello che indossando un abito dai mille colori, portava  con sé un bastone ed un fiasco di vino ed aveva, al proprio seguito, suonatori di tamburo, piatti e cassa e di ocarina. Il  pazzariello girava per la città, annunciando spesso , l’apertura di nuove botteghe ed eventi di grande interesse

Molti ricorderanno nel bellissimo film ” L’oro di Napoli ” ,  uno stupendo Totò che recita proprio il ruolo del  “pazzariello”.

Egli vestito  con uniforme vistosa e gallonata e, accompagnandosi a suonatori, girava per le strade di un rione, brandendo con una mano il bastone col quale dirigeva la sua particolare orchestra, con l’altra la merce che doveva propagandare: un fiasco di vino, un pacco di pasta,ecc. Marciava ed ogni tanto si fermava e declamava: Battaglio’, scapucchio’ è asciuto pazzo ‘o patro’! E poi, con voce cadenzata, reclamizzava la merce del commerciante che lo aveva ingaggiato.

La figura di questo simpatico personaggio è la vera dimostarzione di ciò che sosteneva Goethe. Il nostro nella storia non è stato un popolo di sfaccendati o nullafacenti sfaticati come spesso faceva a molti comodo dipingerci ma al contrario un popolo di semplice e laboriosa gente che pur se malvestita ogni giorno s’industriava accettando anche i lavori più umili con estrema dignità , pur di lavorare e guadagnare qualcosa. Nonostante la povertà e la miseria che spesso ha attanagliato il popolo napoletano , nonostante la totale assenza di lavoro , l’arte di arrangiarsi e la fantasia hanno dato luogo a mestieri completamente inventati pur di mandare avanti il proprio nucleo familiare . Uno di questo è proprio ‘o pazzariello un’artista di strada stravagante e burlone che si impegna in cambio di poche monete a divertire i passanti.

Come avete avuto modo di capire Napoli in passato  ( come oggi ) è un pò caotica e sopratutto chiassosa . Le strade erano certamente rumorose e ad accendere i suoi lampioni e le luci a gas per poi  spegnerle con l’arrivo dell’alba c’era ‘O lampiunaro , cioè colui che con l suo mestiere  accompagnamento dei sui utensili da lavoro girava per la città per accendere  i lampioni e le luci a gas . Il suo principale strumento di lavoro era un lungo bastone alla cui estremità era posta una fiamma o un meccanismo che accendeva il lume a cui veniva avvicinato. Naturalmente, il suo compito era anche quello di spegnere le luci all’alba. Per quest’altra operazione utilizzava il cosiddetto stutàle, un altro bastone con all’estremità un cono capovolto che, appoggiato sulla fiamma spegneva le fiammelle all’interno dei lampioni.
Questo mestiere è diventato via via inutile con l’arrivo dell’energia elettrica per l’illuminazione cittadina.

 

E’ rimasto di questo mestiere solo una famosa espressione  napoletana per indicare una persona sciocca : l’urdemo lampione ‘e Forerotta (a Fuorigrotta ).

Questo  perché  pare  che  i lampioni , tutti numerati , terminassero  a fuorigrotta  L’ultimo portava il numero 6666. Il 6 nella smorfia napoletana indica lo scemo, ergo quattro volte scemo.

Al mattino la  città piena di vita era di nuovo  ricca di ambulanti e girovaghi che pur di guadagnare qualcosa  vendevano di tutto .

C’era per esempio l’arriffatore cioè  l’organizzatore della riffa,  una  lotteria rionale collegata al gioco del lotto.  Egli , sopratutto nei periodi pasquali e natalizi girava per il quartiere con un grosso tabellone con i novanta numeri a cui associava il nome del giocatore che lo aveva comprato.  Una volta venduto l’ultimo biglietto, si procedeva con l’estrazione dei numeri custoditi all’interno del Panariello che, molto spesso avveniva in modo teatralizzato per attirare la folla. Non a caso, in questo frangente l’arriffatore si faceva spesso affiancare in questo suo mestiere da un “femminiello,” un travestito che rendeva più divertente e interessante l’estrazione. Solitamente, si vincevano oggetti casalinghi, qualche capo d’abbigliamento, ma anche cibo come galline , salami , fette d’arrosto , tortani e frutta ma anche dell’olio extravergine di oliva o dell’ottimo vino prodotto in zona.

Il mestiere dell’arriffatore era un ricordo della dominazione borbonica a Napoli, infatti, “riffa” in spagnolo significa proprio sorteggio. Questo antico mestiere  , molto diffuso in città fino agli anni 80 è oggi considerato oggi reato e punito con una multa che va da 51 a 516 euro.

Come vedete l’arte e l’ingegno,da sempre,sono stati i principali vanti del popolo napoletano,anche quando il lavoro scarseggiava,il partenopeo sapeva come raggranellare un pò di denaro,per sfamare la famiglia,sempre più numerosa.

Fra gli antichi mestieri troviamo il Franfellicaro,il classico venditore ambilante di dolciumi e vecchie  caramelle  ricavate tagliando in piccoli rettangoli, un impasto di sciroppo zuccherino solidificato e miele.

‘O Franfelliccaro era la gioia di piccoli e grandi. Il “franfellicco” era un bastoncino di zucchero caramellato con sopra versato duranye l’impasto ,  uno sciroppo colorato . Quando l’impasto era ben amalgamato, lo lavorava su un supporto metallico a forma di uncino, ricavandone dei bastoncini, ormai solidi, che con dei forbicioni tagliava in pezzi di alcuni centimetri, che venivano subito acquistati ancora caldi , da quelli che si affollavano ad osservare le varie fasi della manipolazione.

 

I franfellicchi venivano anche venduti su bancarelle insieme ad altre “cose doce” di scarsissimo valore e costo.

Come nella migliore tradizione ambulante,il nostro Franfellicaro,fischiava per richiamare l’attenzione dei clienti,e quando aveva abbastanza soldi per permettersi una bancarella, utilizzava luminose lanterne,per illuminare l’offerta notturna.

Era possibile trovare agli angoli delle strade  con il suo banchetto trasportabile ,  anche ’O cagnacavalle ( il cambiavalute ) a cui  ci si  rivolgeva  se si dovevano cambiare le monete d’oro o d’argento in quelle di rame, di taglio più piccolo.

Il suo nome deriva dal cavallo, simbolo della città di Napoli, che era inciso sulla faccia delle monete di rame. Naturalmente, il cambio non era fatto gratuitamente, ma il cagna cavalle tratteneva per se una piccola commissione.

Non era impossibile trovare anche “o scrivano”, sopratutto nei periodi in cui la stragrande maggioranza della popolazione era analfabeta . Egli certamente più istruito rispetto all’analfabetismo diffuso in città , poggiava per strada il suo bancariello con carta e inchiostro per  scriveva lettere su commissione,  ( ovviamente a pagamento ) a persone ignoranti che volevano inviare o sapere notizie di loro lontani familiari . In un’epoca dove non esisteva il telefono ed il mezzo di comunicazione era la sola lettera , lo scrivano era un mestiere importante e molti si facevano scrivere o leggere lettere per i loro figli  e parenti in guerra .

 

La parola deriva dal latino scriba-anis colui che scrive o trascive per conto di altri.

 A questi si associava spesso anche il calligrafo , un mestiere molto in voga nel Regno, soprattutto dopo l’arrivo dei Reali che portarono con se duchi, conti e nobili di ogni sorta.
Il calligrafo era un esperto di arte calligrafa che, in cambio di un adeguato consenso, utilizzava le sue capacità per creare stemmi nobiliari, blasoni e titoli di studio per tutti coloro che, non avendone uno vero, ne avevano bisogno per poter entrare a pieno titolo nell’elite societaria del tempo. Soprattutto per quanto riguarda l’invenzione di titoli nobiliari, il calligrafo conosceva benissimo tutti gli stemmi dei casati del Regno e riusciva addirittura ad inventare la storia e l’albero genealogico della famiglia.
Con la caduta della monarchia in Italia (1946), tutti i titoli nobiliari furono annullati e anche il lavoro del calligrafo non fu più richiesto come avveniva in precedenza. Questo portò alla sua graduale scomparsa.

A proposito di scrittura , come non ricordare ‘O canzoniere e le sue copielle  ?

 Egli  operava nel settore della musica e, nel suo laboratorio, si occupava soprattutto di stampare e di distribuire i testi delle canzoni attraverso le cosiddette ” copielle”  . Si trattava di fogli su cui comparivano le parole e, a volte, anche un pentagramma con gli accordi per tastiere e mandolini.
Il loro lavoro era molto importante, soprattutto nel periodo a cavallo della Festa di Piedigrotta, visto che la quantità di copielle che si riusciva a stampare era determinante per il successo e la diffusione di una certa canzone. Di dice che anche “Funiculi Funicula venne distribuita attraverso i canzonieri che stamparono circa un milione di copie del testo.

Le copielle era il nome con cui venivano chiamate le prime partiture musicali, contenenti il testo e la parte per piano delle canzoni in voga nel periodo.Esse venivano quindi stampate direttamente dalle case editrici per meglio pubblicizzare i loro successi. In  città venivano offerte, per pochi soldi, dai cantanti ambulanti e dai proprietari di pianini a cilindro ai passanti.
Le ultime acquistate, agli inizi degli anni ’50, costavano 100 lire ma  tante volte arrivavano direttamente in omaggio ai complessini, con l’intento di farle eseguire e diffondere il brano .

Tutto questo finì con l’avvento delle fotocopiatrici.

Nel pieno caos , tra la folla non mancava ovviamente anche vedere girare per le stade alcuni  venditori ambulanti che smerciavano al popolino , ottime pizze condite alla superficie con olio o sugna in abbondanza, al quale venivano aggiunti ingredienti come  formaggio, origano, aglio, prezzemolo, foglie di menta, o pomodoro  ed infine talvolta anche  piccoli pesciolini freschi. 

Ma dovete sapere che il vero eroe dei mestieri e delle strade di Napoli era il “lutammaro ” .

Questa figura professionale ormai scomparsa raccoglieva gli escrementi di ogni tipo, in particolare quelli che rilasciavano i cavalli delle numerose carrozze del tempo. Si occupava anche di raccogliere carcasse di animali morti o di pulire bagni pubblici e pozzi neri. Questi scarti non venivano sprecati, ma rivenduti ai contadini come concime.

Il nome“lutammaro” deriva da “lutamma”, che in napoletano significa “escrementi”. A sua volta, questo termine affonda le sue radici nel latino “lutum”, che stava ad indicare una melma maleodorante. Nonostante l’importante ed utile lavoro, il “lutammaro” veniva spesso disprezzato ed allontanato a causa delle sostanze con cui aveva a che fare. Ancora oggi si usa il termine “lota”, derivante da “lutammaro”, per offendere gravemente qualcuno.

Il lavoro del latrenaro consisteva nel ripulire, come suggerisce il nome stesso, le latrine. In particolare, bisognava svuotare i pozzi neri relativi ai gabinetti dei bagni pubblici o di quelli condominiali.

Una volta svuotato il pozzo, tutto il materiale fecale raccolto veniva in primis ammucchiato in enormi tinozze capienti, poi quest’ultime venivano poste su dei carretti e una volta trasportato in campagna , veniva venduto ai contadini che lo utilizzavano come concime

Oggigiorno siamo così assuefatti dai comfort da darli quasi per scontati, come se ci fossero dovuti per diritto. Non riflettiamo sul fatto che, un tempo, per avere il privilegio di godere di ogni singola comodità, c’era qualcuno che doveva lavorare duramente.

Quando quindi in città non vi era ancora un’adeguata rete fognaria questo mestiere e chi lo esercitava , cioè ‘O Latrenare volgarmente chiamato ” spuzzacesse ” era una  una figura ed una  professione indispensabile necessaria per la città da un punto di vista igenico-sanitario.

Un vero eroe !

Il loro passaggio era spesso  nauseabondo se si pensa ai tini puteolenti colmi di escrementi che trasportavano , ed il loro maleodorante passaggio era spesso accompagnato dalla frase  “Sta passanne ‘o carre d’ ‘e merdajuole, appilateve ‘o naso” Era uno spettacolo nauseabondo dove specie la vista e, ancor più, l’olfatto, erano i sensi più offesi. Quando il carro si muoveva, il contenuto dei bidoni oscillava e, a volte, debordava.

E dire che ciò avveniva appena una sessantina d’anni fa. 

Oggi un fatto del genere risulterebbe anacronistico, inimmaginabile, impossibile. Con l’avvento delle reti fognarie, per fortuna, fu eliminato questo puteolente mestiere.

Risulta in verità inimmaginabile anche un alto antico mestiere : quello quello dei “nevaioli o nevaiuoli,” ,  un mestiere certamente insolito, ma anche molto originale.

 

I nevaioli erano  infatti venditori  di neve ghiacciata, come in parte si può intuire dal nome.

Avreste voi immaginato mai di vendere la neve ?

Eppure questo antico mestiere stagionale e ambulante  esisteva  fino ai primi decenni del secolo scorso , quando ancora non avevamo  frigoriferi o congelatori per mantenere fresco il cibo o le bevande .

La materia prima ovviamente era la neve, che veniva raccolta durante l’inverno quando cadeva copiosamente sul monte Faito o sulle pendici del Vesuvio, o ai piedi del Monte Epomeo , per poi essere ammassata in grotte sotterranee (‘e Nevere) dove ghiacciata veniva poi venduta in estate

In caso di abbondante nevicata, il banditore suonava la tofa, una grossa conchiglia, per convocare i nevaioli che si radunavano al centro della frazione di Fontana (i Fontanesi erano infatti veri e propri maestri in questo mestiere) ben equipaggiati  con indosso abiti adatti per il grande freddo , scarpe pesanti e  berretto di lana , partivano alla volta dei boschi .

Muniti di pale, cofani e bastoni, essi , dove, dopo aver acceso un falò con la legna raccolta nei rifugi scavati in massi di tufo, raccoglievano la neve e la grandine, le ammassavano e le pigiavano con bastoni all’interno di fosse scavate nel terreno; infine ricoprivano le buche con foglie secche di castagni, rami secchi e terra. Terminato il lavoro, i nevaioli si raccoglievano intorno al falò per consumare il pasto a base di zuppa di fave bollite, salame, pane e vinello. Ancora oggi, percorrendo il bosco della Falanga, si possono notare le fosse della neve, dette anche “neviere.

Nelle cavità la neve si conservava fino all’arrivo dell’estate, quando era venduta in cambio di pochi centesimi per fare gelati o per rinfrescare le bevande, in particolare il vino.

Anche il prelievo e la vendita della neve durante i mesi estivi rispettavano un vero e proprio rituale: i nevaioli, che spesso erano ciucciari, prelevavano la neve dalle fosse e la portavano a dorso dei muli più veloci avvolta in panni dentro cofani di giunco foderati e coperti con foglie di castagno; giunti nei centri abitati dei diversi casali dell’isola, percorrevano le strade gridando «a neve, ‘neve, ‘u nevaiuolo».

Strettamente collegato ai nevaiuolo era anche il mestiere dell’ Acquaiuolo.

Questo però a differenza di tanti altri è forse l’unico tra gli antichi mestieri napoletani, che ancora oggi resiste al tempo .  Sono infatti ancora presenti ,disseminati per tutta la città , alcuni storici chioschi  che vendono acqua e limone con o senza bicarbonato , acqua minerale e refrigeri vari.

Inizialmente l’ acquaiuolo era solito girare per le stardine della città trainando un piccolo carretto mediante l’aiuto di un asino ,e solo successivamente divenne stanziale con una propria bottega decorata con luci colorate e addobbata con grossi limoni di Sorrento ed aranci .

Nel suo interno , oltre ad ,altra frutta estiva. , erano anche presenti enormi blocchi di ghiaccio , attrezzi per le spremute ,  sciroppi di vario tipo , e le    famose “mummarelle “

Il ghiaccio era immesso in grandi botticelle foderate di sughero con un vano nella parte inferiore, dove erano sistemati blocchi di ghiaccio, che rendevano l’acqua o la bibita fresca o ghiacciata, perché raffreddata dal ghiaccio.

Quando ancora ,giravano in lungo ed in largo la città ,  con il loro carrettino , gli acquafrescai  mantenevano la loro acqua nelle  famose ” mummare “, un grande vaso di creta con due manici ,che veniva considerato una sorta di banca dove l’acqua solitamente si manteneva fresca . Per tale motivo i chioschi dell’acquafrescaio , venivano anche chiamati ” a banca ‘e l’acqua “. Se i  vasi in terracotta erano di dimensioni  più piccoli, venivano ovviamente soprannominati  ” mummarelle “.

Giravano di buon mattino per la città annunciando la loro presenza con decise urla pubblicitarie dei loro prodotti e al primo richiamo , spesso le donne si affacciavano dalle finestre e calavano il paniere con qualche moneta ed un fiaschetto da riempire con l’acqua desiderata.

Questo mestiere era esercitato in particolar modo da donne provenienti dal borgo di Santa Lucia .

Le belle luciane , spigliate ,sorridenti ,e procaci  con fare malizioso gridavano a squarciagola per richiamare clienti nelle afose giornate napoletane < chi vò vevere ,che è freddo >  e cantando al  suono di canzoni dal dubbio significato giocavano spesso sul doppio senso on cui il prorompente seno veniva accostato alle mummare .

I loro tanti chioschetti presenti sul lungomare di Santa Lucia, sopratutto durante l’estate , grazie alla neve ghiacciata che teneva fresche le loro bevande permetteva di rispondere in modo malizioso alla domanda <“Acquajuò! L’acqua è fresca?”: “Manche ‘a neva”.

Generalmente questa banca dell’acqua dispensava quattro diverse tipologie di acqua : l’acqua ferrata , l’acqua zuffregna l’acqua del Serino.e l’acque della Madonna .

L’acqua ferrata , si chiamava così perchè lasciava sul beccuccio della fontana delle parti rugginose. La più famosa sorgente di quest’acqua si trovava al Beverello ed alcune fontane erano ancora attive in Piazza Municipio fino a circa una trentina  di anni fa. Lo stesso nome Beverello , deriva proprio dalle fonti esistenti in zona , alimentate dalle acque che venivano giù dalle colline di Pizzofalcone ; la zona inizialmente fu infatti chiamata bibirellum , da cui  è poi originato il termine beverello .

L’acqua zuffregna , ovvero l’acqua sulfurea provenienti dalle sorgenti vulcaniche flegree e vesuviane era naturalmente gasata e considerata dai napoletani curativa per molti malanni . L’acquaiolo la serviva liscia o con l’aggiunta di spremute d’arancio , di limone e/o un pizzico di bicarbonato di sodio . In città la fonte di acqua sulfurea  si trovava  al Chiatamone sotto il Monte Echia e dalle sue sorgenti raggiungeva il pozzo artesiano che si trovava nei giardini di Palazzo Reale  per poi arrivare in una storica sorgente ,in Via Caracciolo , dove esistevano anche delle piccole fontanelle  ,  su cui hanno poi purtroppo costruito l’attuale Hotel Continental.

Essa era venduta in tutta Napoli da venditori ma sopratutto avvenenti e giovani venditrici che la portavano in giro in anfore di terracotta panciute , dal collo stretto e con due manici. L’acqua era freschissima , mantenuta in queste condizioni dal materiale e dall’abitudine di mantenere umida la superficie esterna del vaso

L’ acqua della Madonna era invece l’acqua acidula ferrata che proveniva  da sorgenti presenti a Castellammare di Stabia.

L’acqua del Serino , leggera e dissetante ha per anni alimentato l’acquedotto cittadino , dissetando un intera popolazione .

Le più preziose delle quattro erano  l’acqua suffregna e  l’acqua della Madonna, che una volta tolta dalle mummarelle , diventava versata nelle piccole brocchette di terracotta( chiamate giarretelle ) con l’aggiunta di succo di limone e bicarbonato una straordinaria bibita con un eccellente eruzione di schiuma prodotta dallo stesso bicarbonato ed un potente effetto  digestivo . Era anche considerata da tutti un’autentuca panacea per molti dolori fisici. Unico problema aveva  un forte sapore di uovo non del tutto gradevole per alcuni.

L’acqua che vendevano , proveniva da una fonte che si trovava in una grotta  presente presso il famoso  borgo di pescatori di Santa Lucia in  via Chiatamone.  Ad essa si accedeva mediante una scalinate e le sue sorgenti di acqua sulfurea , rappresentarono per lungo tempo una vera e propria attività imprenditoriale per gli abitanti del Chiatamone che si attrezzavano con banchetti e recipienti per guadagnarsi la giornata.

L’acqua che vendevano portò alla nascita di  una vera generazione di lavoratori che si industriavano per riempire i contenitori per portare l’acqua ai chioschi stradali, spaziando da Napoli alle località limitrofe della città .L’intero sistema divenne in poco tempo la loro principale fonte di sostentamento  per gli abitanti del’intero borgo.

Intorno alla grotta era infatti presenti una serie locale di venditori che con fare garbato e simpatico , accoglievano i tanti acquirenti provenienti dalle città limitrofe che si recavano lì apposta per fare scorta e rifornimento di quella preziosa acqua, in grado, come si diceva, di curare chi soffriva di carenza di ferro ed anemia ma  raccomandata  anche a  coloro che soffrivano  di malattie debilitanti; esse veniva molto usata in passato per la sua azione  purgativa e lassative , ma  veniva soprattutto consigliata  a  chi soffriva  di coliti spastiche.

Ancora oggi  essa viene usata  imbottigliata   ed usata da chi soffre di calcoli renali , svolgendo una sicura azione diuretica e dissolvente per i calcoli renali . Il suo nome deriva da una sorgente scoperta nel 1841 nei pressi della Chiesa di Santa Maria di Porto Salvo , situata nel centro storico, e di proprietà della Congrega dei marinai. Il complesso religioso era stato costruito sui ruderi di una chiesa edificata nel 1580 in onore della Madonna di Porto Salvo appunto. Questa originaria costruzione era stata poi demolita circa duecento anni dopo per fare spazio ai cantieri navali di Castellammare di Stabia. Grazie alle sue proprietà l’acqua della Madonna mantiene le proprie caratteristiche organolettiche inalterate nel tempo, per questo motivo era utilizzata nel passato dai navigatori che si apprestavano a intraprendere lunghi viaggi prelevandola direttamente dalla fonte che si affacciava anche sul mare. Proprio a causa dell’uso che se ne faceva, fu chiamata anche  acqua dei naviganti .

L’acqua sulfurea o “suffregna”, venne liberamente venduta fino alla brutale epidemia del colera del 1973, a causa della quale  fu proibita la vendita stradale dell’acqua e le fonti furono sigillate. Alcune fontanelle furono successivamente attivate, precisamente sotto il Maschio Angioino, ma nel breve arco di tempo furono ulteriormente abolite, non potendo garantire una regolare e igienica distribuzione della preziosa acqua.

Ovviamente oggi, l’acqua suffregna è imbottigliata e la maggior parte degli acquafrescai utilizza l’acqua minerale.

Ci sono comunque ancora  tanti gli antichi  mestieri presenti una volta a Napoli  di cui non vi ho parlato , alcuni  irrimediabilmente spariti, con il progresso ed il consumismo dilagante ed altri incredibilmente ancora oggi presenti .

Proviamo ad elencarne alcuni :

O Capillò era un ambulante, che percorrendo i vicoli al grido di Capillò Capilloò, chi me chiamma? , comprava trecce e capelli specie lunghi di donna per poi rivenderli ai fabbricanti di parrucche e touppè. Egli per  svolgere la sua ttività portava sempre con sé un paio di forbici da barbiere ben affilate, un sacco od una sporta (cesto di vimini) per riporvi qualche bella treccia d’oro, qualche bella coda di cavallo o una cascata di capelli corvini, tagliate a qualche bella popolana, in cambio di qualche danaro per sfamare sè stessa e la propria prole‘ .. Egli era dunque una figura quanto mai insolita, che si aggirava per le strade della città con un sacco e un paio di forbici, alla ricerca di capelli da vendere ai fabbricanti di parrucche    . Si  faceva “consegnare” trecce e capelli lunghi in cambio di pochi spiccioli per  per poi rivenderli a chi fabbricava parrucche. I suoi attrezzi da lavoro consistevano in delle forbici e in un sacco in cui riponeva i capelli appena tagliati.

 

‘O Chiammmatore,.era un antichissimo mestiere, che consisteva, specie in campagna, nel fattorie o nei cosiddetti casali (agglomerati di primordiali casupole di campagna, dove dormivano e vivevano i bifolchi che vevivano a lavorare terre lontane fuori città) a chiamare i compagni contadini al lavoro.Tale incarico era ricompensato da pochi centesimi e rappresentava un surrogato della sveglia.

0 Cutecare ( venditore di Cotiche) che andava girando al grido: Cavaliè, ‘e perz’ ‘a valanza, a ‘nu carrino ‘a cotena, ‘a tracchia ‘e ll’ossa: “’O Calonze , invece non era altro che il mestiere di fare il Palo, il Basista (nel Gergo della camorra). Queste mestiere, generalmente è svolto ancora oggi da personaggi  appartenenti alla camorra,( come quello di fungere a fare gli avventori) (i compari) che si approssimanoi al banchetto del gioco delle  tre carte.

Il Baccalaiuolo ,cioè il baccalaraio. Il suo commercio era in centrato su due prodotti: il baccalà , cioè  il merluzzo disseccato al vento e conservato sotto sale, e lo stoccafisso, un altro merluzzo meno pregiato, essiccato al vento senza salatura. In tempi antichi si trattava di un venditore ambulante che girava per la città con un carrettino in cui riponeva la merce, mentre oggi esistono negozi e pescherie specializzate in cui trovare queste pietanze.

‘O Banncarellaro , cioè il bancarellaio , era l’ artigiano che realizzava banchetti per tutti coloro che avevano bisogno di esporre della merce . Di solito era di legno , ma a volte le si poteva trovare anche in ferro e alluminio .

‘O Bancaruzzaro, ovvero colui che vendeva libri vecchi e usati (o altra roba vecchia, come cartoline, santini, bottoni, monete, ecc..) su una bancarella ai lati della strada.Il Banchiere popolare  . Una sorte di  finanziatore che prestava soldi a giovani coppie in occasione del matrimonio, in modo che avessero tutto il denaro necessario per la cerimonia o per la casa. I soldi venivano dati in presenza di un garante che si impegnava a pagare le rate di rimborso qualora i ragazzi a cui veniva prestato il denaro non riuscissero ad essere puntuali.

‘O Bancunaro , cioè colui che , dietro un banco di un negozio o di uno sportello d’informazione attendeva clienti o avventori per soddisfarne le richieste.

‘O Barrettaro , cioè colui che si occupava della confezione , della stiratura e della pulizia dei capelli .

‘O Cacciavino , cioè l’aiutante del venditore di vino. Il suo compito era quello di portare il vino a casa dei clienti. Sempre a proposito di vini esisteva tra i mestieri anche quello del ‘ fecciajuolo ” che era il pulitore dei fusti da vino. Il suo intervento era richiesto subito dopo lo svuotamento e consisteva nell’ infilarsi nel grande contenitore ed eliminare dalle parerti interne le incrostazioni residue.

‘O carcararo era  un particolare artigiano che ricavava la calce dalle pietre. Era molto bravo a maneggiare la roccia calcarea e grazie a questa sua abilità  , era spesso anche incaricato di costruire e controllare i terrazzamenti agricoli sui monti lattari nella penisola sorrentina.

‘O cazettaro era colui che girava per le strade della citta per vendere e riparare calze e calzini che, in dialetto, vengono detti cazette e cazettini.

‘ O confezionatore e pacc  era invece una figura molto originale .Il suo compito principale  era quella del confezionatore di pacchi. La sua bottega era piena di fogli di carta, cartoni e spaghi. Vi si rivolgevano, tra l’altro, le persone che volevano spedire un pacco ai parenti emigrati in America. Bisognava innanzitutto scegliere il contenitore adatto per evitare di pagare troppo: il contenuto era incartato con un foglio e legato con spaghi, il pacco era chiuso lungo i bordi con colla ottenuta mescolando farina e acqua bollente.

‘O cerajuolo , era il fabbricante e venditore di candele. Egli  recuperava la materia prima raccogliendo i lumini e le candele non completamente fusi per le strade della città  e poi  li fondeva per realizzare nuove candele.

‘O chiammatore era invece colui che aveva il compito di svegliare il contadini perchè cominciassero la giornata lavorativa in campagna. Per pochi centesimi, ‘o chiammatore assumeva l’incarico, per l’intera giornata lavorativa e, in corrispondenza di un compenso naturalmente più alto, anche per tutta la stagione, di girare per le strade del paese chiamando i propri colleghi .

Il Chiammatore era quindi di solito un operaio particolarmente “sveglio”, a cui era affidato il compito di girare per le vie del paese all’alba perché chiamasse, destandoli dal sonno, i compagni  di lavoro. Una sorte di sveglia dei tempi nostri .

‘O chiavaro ‘e carrozze era invece colui che vendeva chiavi e attrezzi particolari per stringere o allentare la viti delle carrozze.

O fresellaro era invece il venditore di freselle. Egli girava per la città  vendendo le freselle condite in cario modo: con l’olio, con le cozze,  o con le lumache.

‘O funambolo , era un artista di strada che, durante le feste e le sagre paesane si esibiva nei suoi numeri acrobatici che, quasi sempre, consistevano nel camminare su una fune tra due palazzi, senza rete di protezione e con una pertica tra le mani usata per bilanciare il peso.Questo incredibile artista spesso  spesso fingeva  anche di scivolare per accrescere la suspence tra gli spettatori che erano incantati col naso all’insù. Egli solitamente era assistito da una donna che, a terra, in abiti succinti raccoglieva tra il pubblico le offerte dopo lai sua esibizione.

O funaro era colui che faceva le corde. Il suo lavoro consisteva nel ricavare le funi intrecciando dei fili di canapa con una tecnica particolare.

O fuochista era invece colui che costruiva ed inventava fuochi d’artificio, con i quali allietava le feste di chi lo ingaggiava.

O furnaro era il fornaio. Il suo lavoro cominciava durante la notte, in modo che nelle prime ore del mattino, il pane potesse essere già pronto per essere venduto.  Simile a questo mestiere era O gallettaro ( il venditore di gallette ). Queste venivano preparate infornando l’impasto di farina e acqua, senza lievito e sale, per un tempo doppio rispetto a quello necessario per il pane, in modo da eliminare ogni traccia di umidità ed evitare una rapida crescita delle muffe. Questo procedimento, oltre ad allungare i tempi di conservazione, aveva l’effetto collaterale di rendere la galletta molto dura. Per questo motivo veniva ammorbidita in acqua di mare che riusciva ad aggiungere anche quella quantità di sale di cui era priva.Egli si
aggirava molto  frequentemente  nelle zone in cui si trovavano cantieri navali, dove vendeva i suoi prodotti a tutti gli operai che, non potendo permettersi un pasto migliore, erano costretti a rifornirsi da questo ambulante.

‘O gavottista era un musicista a pagamento molto in voga  tra fine Ottocento e inizio Novecento. Essi  venivano chiamati in occasione di feste per allietare i partecipanti con musiche e balli. Spesso interveniva alle feste della gente non molto abbiente, visto che ricchi e nobili ingaggiavano intere orchestre a costi ben più esorbitanti. In seguito, quando cominciarono a fare la comparsa i primi dischi, i loro servizi venivano richiesti sempre più raramente e, così, questi artisti dovettero trovare altre idee per suonare. Decisero allora  di spostarsi all’interno di locali e ristoranti, o agli angoli delle strade principali della città . Nacque in questo modo ‘a Pusteggia, ovvero un complessino musicale formato da suonatori di mandolino, chitarra e violino e da una cantante, i cui membri erano detti ‘e pustiggiature.

‘O gelataro era un ambulante che vendeva granite. Queste erano ricavate grattando del ghiaccio da un grosso blocco, che veniva poi insaporito con degli sciroppi. Ancora oggi possiamo vedere questa strana figura girare con il suo chioschetto ambulante in estate sulle nostre spiaggie  nel distribuie deliziose granite . Egli con il suo carretino ambulante da spiaggia su richiesta “gratta” con un arnese metallico una forma di ghiaccio, ricavandone fiocchi di neve su cui versa uno sciroppo colorato: si tratta della cosiddetta “rattata”.

‘O gnoccolaro era il venditore di gnocchi. Questo ambulante girava per le strade di Napoli, soprattutto alla domenica mattina, con una cesta piena di gnocchi freschi. La pasta veniva realizzata con delle patate lessate, poi schiacciate ed unite ad acqua e farina. Col passare del tempo ‘o gnoccolaro incominciò a realizzare anche tagliolini, tortelli e altra pasta fresca.

‘O guardalagno era il sorvegliante dei canali. Percorreva a piedi chilometri e chilometri accanto ai canali scavati nei poderi agricoli per assicurare il deflusso delle acque e, non appena avvistava un danno che poteva compromettere la rete idrica, lo segnalava subito alle autorità.

‘O guardaport era il portinaio. In origine, egli  era presente solo nei palazzi nobiliari e si occupava della pulizia e della vigilanza all’interno degli spazi comuni. Con il passare del tempo, anche i condomini e le residenze altolocate hanno cominciato ad adottare questa figura che, solitamente, abita con la famiglia nello stesso palazzo.

O guarattellaro era invece  il burattinaio.L’artigiano che fabbricava e vendeva i burattini che, in napoletano, erano detti ‘e guarattelle. Oltre ad essere un artigiano, questa figura era un vero e proprio artista visto che molto spesso realizzava degli spettacoli itineranti con le marionette da lui costruite. Lo si poteva vedere spesso girare per la città  con il suo “teatro portatile” con il quale, si fermava agli angoli delle strade ed inscenava storie e vicende che attiravano un folto pubblico.

O ‘mpignatore era invece colui che gestiva un banco dei pegni. Questa figura prestava dei soldi in cambio di oggetti di valore. Chi riceveva i soldi, si impegnava a restituirli dopo un tempo pattuito, naturalmente con l’aggiunta di un interesse che cresceva ancora di più se il saldo del debito veniva ulteriormente rinviato. Se non si riusciva a restituire l’intera somma, allora o ‘mpignatore diventava  con il tempo il legittimo proprietario dell’oggetto che era stato portato in pegno. Molto spesso, questo mestiere sfociava facilmente nell’usura. Così  per contrastare il fenomeno, in città nacquero i “Monti di Pieta , cioè dei  banchi di pegno che lavoravano ad interessi molto minori per venire incontro ai ceti meno abbienti.

‘O ‘mpusematore era colui che inamidava i colli delle camicie ed eliminava le rigidità dei tessuti, soprattutto baveri di giacche e cappotti.

O ‘nchiuvatore era invece l’inchiodatore , cioè  colui che, utilizzando chiodi e strisce di legno di castagno, noce o faggio, fabbricava delle cassette da vendere soprattutto ai contadini, in modo che questi potessero riporvi e trasportare i prodotti della terra.

‘O lettore era un attore che, solitamente alla sera, occupava un angolo di strada e leggeva passi di opere italiane e napoletane, allietando il pubblico persino con versi di Dante de Leopardi.

‘O mannese era  invece il costruttore di carri. Si trattava di un artigiano che, grazie alla sua abilità nel lavorare il legno e il ferro, riusciva a costruire e/o a riparare carri. In pratica, nell’epoca in cui i mezzi di locomozione erano per lo più carri e carrozze. Era insomma  il meccanico di quei tempi . Sapeva posizionare i cerchi nella ruota, mettere il grasso per permettere agli assi di lavorare meglio, rivestire di ferro il mozzo delle ruote, ecc… Solitamente, le botteghe di questi lavoratori si concentravano in un’unica strada della città.

O masterascio era il mastro d’ascia.
Un tempo indicava colui che, utilizzando appunto un’ascia, riusciva a lavorare tronchi per costruire o rivestire barche. In seguito, il termine è stato poi utilizzato per chiunque lavorasse il legno, quindi come sinonimo di falegname.
Questo mestiere aveva varie categorie di specializzazione: c’era il cosiddetto materasce d’ ‘o gruosse, che lavorava solo grandi tronchi per farne finestre, balconi,ed il materasce d’ ‘o suttile che si dedicava a lavori pià rifiniti, come sedie, tavoli, mensole,e  armadi,
Tra questi, poi, c’era chi lavorava solo legni duri come ebano e mogano (ebanista), chi produceva strumenti musicali (liutaio), chi costruiva botti (bottaio), chi carri (corradore) e chi bare (casciamurataro).

Il monzù era il cuoco professionista (dal francese Monsieur).
Questa figura venne introdotta nel 1700 da Maria Carolina d’Austria  che non amava la cucina partenopea,perchè a suo dire troppo pesante . L sorella Maria Antonietta , regina di Francia , fece allora arrivare  a corte borbonica  i più raffinati cuochi francesi:  I cosidetti Monsù ( dal francese “Monsieur“), chiamati a Napoli “ Morzù ”.
In quel periodo tutto quello che sapeva di francese era di gran moda ed  i monzù, sostituito in epoca recente dal termine “chef”, non erano meno .Vennero quindi  ingaggiato dalle nobili famiglie perchè  diventasse il cuoco di casa . Venivano in genere   assunti in modo stabile, quindi con uno stipendio fisso, o ingaggiati solo per alcuni eventi, quindi pagati a forfait.

‘O muzzunaro era uno dei mestier più tristi che abbiamo avuto in città . Egli era un  raccoglitore di mozziconi di di sigarette .
In tempi antichi, il tabacco era molto più costoso di oggi e i ceti più poveri non si sarebbero potuti permettere le sigarette di marca. Per questo motivo nasce la figura del muzzunaro.  Egli , pensate , girava per la città  con un bastone munito di spillo, con il quale raccoglieva tutti i mozziconi che trovava. Dopo di che, li apriva e recuperava il tabacco non bruciato per rivenderlo per pochi centesimi allo Stato che, con esso, realizzava nuove sigarette destinate al mercato dei ceti più poveri. I locali pubblici, dove era consentito fumare, erano delle vere e proprie “mineire d’oro”, nelle quali si riuscivano a raccogliere moltissimi mozziconi.

Lo scalpellino :  Questi uomini, molti dei quali sono rimasti sconosciuti, hanno lasciato eccellenti opere nella nostra città , sopratutto nel centro storico .Antichi  portali di pietra finemente lavorata,  colonne dai capitelli finemente cesellati, su cui appoggiano architravi artisticamente scolpiti, vecchi davanzali , meravigliose cornici alle finestre, soglie alle porte , gradini e balaustre , sono fantastici lavori in pietra effettuati da antichi scalpellini . Essi comunque , non si limitavano solo a costruire opere per l’edilizia , ma anche una serie di manufatti per l’uso più disparato : dalla cucina , all’erboristeria alle tintorie , agli olefici . Mortai , pestelli , vasce e vaschette , abbeveratoi per animali , canali di scolo , bacilli di raccolta erano normalmente di pietra e di usuale necessità . 

 

 

‘O ncenziatore era uno strano personaggio legato all’incenso . Egli si serviva di una comune scatola di latta come quella per i pomodori però bucherellata ai lati con  due buchetti opposti,. Nella  parte superiore, facevano passare un filo di ferro filato, fissato ai due buchi. All’interno della “buattella” c’era della carbonella accesa dove egli versava l ‘incenso profumato.  ‘O ‘ncenziatore a quel punto , entrava nelle botteghe e nei bassi, incensava i presenti e il locale, pronunziando cantilene contro il malocchio, tipo questa: “Uocchie,maluocchie, fattura ca nun quaglia; corne, bicorne, cap’ ‘alice e capa d’aglio”. Terminata la … liturgia, vendeva una bustina d’incenso che tutti compravano, perché , da buoni napoletani, tutti erano (e sono) superstiziosi.

‘O Puzzaro , erano i personaggi  che periodicamente ripulivano i pozzi. Quando non era frequente il loro intervento, nei pozzi si dava vita all’allevamento di anguille che garantivano l’ eliminazione dei vermi che potevano inquinare l’acqua.

‘O Perzianaro era invece upersonaggio che girava per le strade con l’avvicinarsi della stagione estiva, vendendo persiane, in genere di cannuccia. La voce era caratteristica: “Perziana, na bona perziana”.

‘O Passalava era invece colui che, calzando lunghi stivali, trasportava sulle spalle (“a caulicione”) la gente da uno all’altro lato della strada quando vi erano temporali. Le strade s’allagavano, specie quelle sotto le colline, che ricevevano la “lava”., un miscuglio di detriti e acqua provenienti dalle colline alte della città . Famosa era “a lava dei Vergini nel rione Sanità “.

‘A Pertusara era un’artigiana specializzata nella confezione di occhielli.

‘O Strascinafacenne era una sorte di  tuttofare, ma in modo precipuo era l’aiutante d’avvocato, anzi procacciatore di clienti degli avvocati. Era, in genere, un pover’uomo non colto che attendeva spesso nell’atrio del Tribunale qualche sprovveduto da rimorchiare, specie se cafone, che abbagliava con promesse di immunità.

‘O Scistaiuolo  era il venditore di scisto cioè del petrolio che serviva ad alimentare i lumi appunto a petrolio. Per la pulizia di tali lumi si adoperavano certi stracci particolari che si chiamavano mappine ‘e scisto, un’espressione che si usava anche per offendere una donna.

‘O Stagnaro eseguiva saldature a stagno e rivestiva l’interno delle padelle di un leggero strato di stagno liquido per rifarle come nuove.

‘A Stiratrice , presente ancora oggi era una donna che si occupava sopratutto nelle case nobiliari di stirare gli abiti . Essa usava un enorme ferro da stiro nel quale vi era carbone ardente. Quando stirava le camicie, pensava ad inamidare colli e polsini. Questa operazione era ‘a ‘mpusumatura”.

Le Scapillate , erano quelle donne che, prezzolate, andavano nelle case dove c’era un cadavere per piangerlo e, addirittura, scapigliarsi. C’erano a Napoli anche delle suore di una delle diramazioni di Ordini Francescani, che venivano chiamate per pregare accanto al morto. Ai funerali venivano anche chiamati, a pagamento, i poveri del Dormitorio Pubblico che andavano davanti al feretro, così come la Banda dei iserragliuoli, i ragazzi, cioè, dell’Albergo dei Poveri.  Un’esequie a Napoli in passato era una sceneggiata. I becchini, quando portavano via la salma, erano spesso bersagliati dai parenti del morto con improperi e venivano lanciate contro di loro addirittura suppellettili.

‘E Sunatore , erano per lo più chiamati per eseguire di notte serenate a qualche ragazza per destarle nel cuore sentimenti d’affetto.

‘O Spurtaro era un tizio che con  pazienza e perizia,  col coltello tagliava da rami teneri, rametti che sapientemente intrecciava. Costruiva così sporte, sportoni, spaselle, e ceste

Il Sorbettaro , come dice il nome preparava la “subbretta” che vendeva su carrettini con ruote che, pare, fossero stati inventati da un certo Vincenzo Bottino.

Il  Tavernaro  era l’oste. Qui si potrebbe parlare a lungo sulla enorme quantità di celebri taverne. Salvatore Di Giacomo ne fece una scrupolosa ricerca. Una delle più note fu la Taverna del Cerriglio. Qui Caravaggio fu in una aggressione ferito al volto.

Il Vuttaro o Conciatenielle  riparava botti, tini e tinozze. Girava per le campagne e prestava la sua opera presso i viticultori in prossimità della vendemmia.

‘O Zingaro era uno strano personaggio che si occupava di accendere  il carbone e arrossare  sul fuoco il metallo (in genere rame) che, tenuto con enormi pinze, metteva sull’incudine (Incunia) e martellavando lo  modellava .
Creava pentole, bracieri, ciampe di cavallo, cornicelli, gobetti, etc…. Fino a qualche decina d’anni fa,ricordo che “’e zingare” lavoravano sull’arenile di Mergellina, destando la curiosità dei passanti. Gli zingari andavano poi in giro a vendere specialmente gli oggetti portafortuna che essi avevano forgiato.

‘O  Zuccularo fabbricava “zuoccole” per le donne di umili condizioni. ‘E zuoccole erano di legno con una fascia di stoffa o similpelle per il collo del piede inchiodata ai due lati.

‘O Pasticciere , chiamato anche ‘O Dulciere , confezionava  dolci ( torte, babà, biscotti vari, pastiere, sfogliatelle e tante altre leccornie) Esso fu, ed è un mestiere, che nella nostra città ha sempre dato da vivere a chi lo intraprendeva, soprattutto per la golosità innata alle cose dolci di noi Napoletani, tanto che sia per festeggiare un avvenimento o l’anniversario di qualcuno o di qualcosa non mancano mai una buona quantità di dolci , piccola pasticceria (sorta di bignè, dolciumi, minuscoli babà, zuppette) ed una bella torta confezionata per l’occorrenza.

Il  sarto cioè colui che confezionava  vestiti su misura, ,secondo la moda del momento e  le indicazioni del cliente. Egli vestito quasi sempre  con camicia e gilè su cui  aveva sempre puntati alcuni aghi con il filo,  si avvicinava al cliente e con una fettuccia metrica misurava la vita, la gamba, il braccio .  Una volta scelta la stoffa , e prese le misure al cliente  , si passava al disegno avvalendosi di un solo gessetto . Dopo qualche giorno , quando  il cliente ritornava, il sarto gli provava addosso la giacca o i pantaloni, segnati da dei grandi punti di filo bianco. Poi, puntava degli spilli, dicendo al cliente di stare fermo ( altrimenti lo avrebbe punto ) .Una volta corretti i difetti , si passava poi finalmente alla cucitura vera e propria  e solo dopo qualche settimana   si passava finalmente al momento in cui il cliente indossava il vestito finito e fatto a mano , dove i complimenti di circostanza diventavano obbligatori.

”O Pettenessaro , era un fabbricante di pettinesse o pettini.

L’Arrocchipampe era colui che raccoglieva le foglie secche che poi vendeva ai contadini per fare ” la lettiera” agli animali.

‘O Farinaro  era invece un venditore specializzato nella vendita esclusiva di farina di grano, di granturco e crusca (vrenna).  Guidava e trasportava la sua merce su un carretto tirato da due buoi.

 Il venditore ‘e Jammarielle , cioè dei  gamberetti  di fiume. A Napoli provenivano prevalentemente dal fiume Sarno quando era un fiume e non una cloaca. Il venditore li portava in una “scafaréa”. La scafaréa era un recipiente a forma di cono tronco all’interno smaltato e screziato di bianco e di verde. La scafaréa era poggiata sulla testa del venditore dove faceva da ammortizzatore nu “turceniello ‘e pezza”,cioè un panno arrotolato a forma di corona. Spesso,insieme ai gamberetti, venivano vendute anche anguille e ranocchie.

Il Conciambrelli era un personaggio caratteristico che metteva tutto il suo impegno nel riparare ombrelli. Oggi sarebbe anacronistico. Si rompe un ombrello? Se ne compra un altro. Un altro esempio del nostro galoppante CONSUMISMO .

‘A Cammessara .  Le camicie oggi si comprano normalmente in negozio. Solo qualche “patuto” se le fa cucire su misura. Nel passato era esattamente il contrario e ‘a cammesara non faceva che cucire camicie. Naturalmente,  a seconda delle possibilità  economiche dell’acquirente, cambiava la qualità della stoffa e, forse, anche la finezza della cucitura.

Il Lacchè  cioè un servitore o domestico in livrea,  che era solito precedere o seguire il padrone nei suoi spostamenti in portantina o in carrozza. Essi  erano  pronti ad intervenire nel poggiare  un baule ai piedi della carrozza per far comodamente scendere il padrone .  Era un lavoro all’ epoca  molto  appetibile, perché comportava comunque un salario e un pasto sicuro per sè e per la propria famiglia . Oggi  essendo scomparso questo tipo di servizio, il termine lacchè é usato per definire una persona troppo ossequiosa o servile, altrimenti e volgarmente definita, senza tanti eufemismi, lecca c… Infatti il servitore in livrea, dove ancora esiste, é individuato, normalmente, con il termine di domestico o cameriere, da non confondersi con il maggiordomo che sovrintende a tutta la servitù e al buon andamento della casa.

Altro mestiere, più o meno simile al lacchè, era quello del corriere a piedi, che si spostava da un paese all’altro per portare le lettere, di spacci e missive. In questo caso si trattava, però, di un lavoro non subordinato allo spostamento di altre persone, per cui i periodi delle pause, e dei ristori, si potevano programmare autonomamente, rispettando sempre i tempi di consegna.

L’Acchiappacane liberava le strade dai cani randagi, pericolosi per la rabbia o per l’echinococco che potevano trasmettere. Lanciava una specie di lazzo che si stringeva intorno all’animale che agevolmente poteva essere acchiappato.

L’ Acquavitaro era invece un ambulante che d’inverno vendeva acquavite, mentre d’estate vendeva acqua fredda.

 

Come vedete cambiano i tempi e cambiano i mestieri, e sopratutto cambiano le terminologie. I mestieri  tradizionali si tramandano e si trasformano in relazione al progresso. Ed è affascinante come da una parola derivino e si diffondino modi di dire ancora in uso. E lo è ancora di più se pensiamo a quanto un viaggio nel passato arricchisce il nostro presente.

Se un napoletano vissuto cento anni fa ritornasse a vivere nella sua terra, rimarrebbe sbalordito nel non ritrovare più abitudini, tradizioni, feste, folklore, e mestieri che non esistono più.  L’evoluzione dei tempi trasforma, modifica, modernizza e molti  artigiani a fronte di tutto questo sono stati costretti a chiudere bottega. Al loro posto  sono sorte attività nuove, più funzionali, più adeguate, e più corrispondenti ai tempi.

Solo nella  toponomastica cittadina, per fortuna, sono rimasti diversi nomi di strade, vicoli, vicoletti,  e fondaci, che ricordano gli antichi mestieri. :

Via dei Bottari
Via dei Tinellari
Via Carrozzieri
Vico Scassacocchi
Via dei Candelari
S.Giorgio ai Mannesi e Crocelle ai Mannesi
Carminiello ai Mannesi
Via Alabardieri
Vico Carrette
Via dei Casciari al Pendino
Via Casciari alla Loggia
Vico Azzimatori (cimatori di panni con le forbici)
Vico Figurari
Vicoletto Cordari
Via Conceria
Vico Scoppettieri
Via Chiavettieri al Pendino
Via Chiavettieri al Porto
Via Giubbonari
Via Zecca dei panni
Borgo Marinari
Vico Panettieri
Via S.Biagio ai Taffettanari
Via degli Spadari
Via Vicinale Spadari
Via S.Biagio ‘~ei Librai
Vico Scopari
Vico Tessitori
Via dei Tornieri
Via Ventaglieri
Via dei Guantai ad Orsolone
Via dei Guantai a Nazareth
Via Guantai Nuovi
Vico Tronari
Via Arte della lana
Via Ferri vecchi
Vico Zappari
Vico Ferze al Lavinaio
Salita Vetriera
Vico Zabatteria (si facevano ciabatte)
Vicoletto Chianche
Vico Canestrari
Fondaco Cernitori (cernevano carbonelle dai carboni)
Vico Barrettari o Parrettari
Vico Impagliafiaschi
Vico Lammatari (fabbricavano coltelli)
Via Lanzieri (fabbricanti di lance)
Via Grande Orefici, traverse ecc.
Cupa Orefici allo Scudillo
Vico tarallari

Concludo con una bellissima lettera scritta da Johann Wolfgang von Goethe .

In una sua lettera scritta a Napoli il 28 maggio del 1787 , Goethe per difendere la nostra città  da ciò che aveva scritto Johann Jakob Volkmann , nella sua guida turistica per i visitatori dell’Italia , pubblicata nel 1771 , così descrive la nostra città :

L’ottimo e utilissimo Volkmann  mi costringe di tanto in tanto a divergere dalle sue opinioni. Dice per esempio che a Napoli vi sarebbero da trenta a quarantamila fannulloni: e quanti non lo ripetono! Dopo aver acquisito qualche conoscenza delle condizioni di vita del Sud, non tardai a sospettare che il ritenere fannullone chiunque non s’ammazzi di fatica da mane a sera fosse un criterio tipicamente nordico. Rivolsi perciò la mia attenzione preferibilmente al popolo, sia quando è in moto che quando sta fermo, e vidi, bensì, molta gente mal vestita, ma nessuno inattivo.

Chiesi allora ad alcuni amici se veramente esisteva questa massa d’oziosi, desiderando conoscerli io pure, ma nemmeno loro furono in grado d’indicarmeli; sicché, coincidendo la mia indagine con la visita della città, mi misi io stesso sulle loro tracce.

Cominciai, in quell’immensa baraonda, a prendere familiarità con i diversi tipi, a giudicarli e a classificarli secondo il loro aspetto, le loro vesti, i comportamenti e le occupazioni. Questa ricerca mi riuscì più facile che altrove, perché qui l’uomo è più lasciato libero a se stesso e si denota esteriormente in conformità alla propria condizione sociale.

Iniziai le mie osservazioni di buon mattino e, se vidi qua e là gente ferma oppure in riposo, fu perché il loro lavoro così esigeva in quel momento.

I facchini, che in diversi punti hanno i loro posti riservati e aspettano soltanto che qualcuno ricorra a loro; i vetturali, che con i loro servi e garzoni, accanto ai calessi a un cavallo, governano le loro bestie sulle grandi piazze, pronti ad accorrere al primo cenno; i barcaioli, che fumano la pipa seduti sul molo; i pescatori, che se ne stanno sdraiati al sole perché magari il vento è contrario e non gli consente d’uscire in mare. Ne vidi anche molti che andavano attorno, ma quasi tutti portavano il segno d’una specifica attività. Quanto ai mendicanti, non se ne vedevano affatto, se non vecchioni, storpi o gente inabile a qualsiasi lavoro. Più mi guardavo intorno, più attentamente osservavo, e meno riuscivo a trovare autentici fannulloni, nel popolino minuto come nel medio ceto, sia al mattino sia per la maggior parte del giorno, giovani o vecchi, uomini o donne che fossero.

Citerò qualche particolare, così da rendere più credibile ed evidente la mia affermazione. In vari modi si danno da fare anche i ragazzini. Per lo più portano da Santa Lucia in città il pesce da vendere; molti altri s’aggirano nei pressi dell’arsenale o, in genere, dove lavorano i falegnami e v’è quindi abbondanza di trucioli, oppure dove il mare rigetta ramoscelli secchi e legna minuta, tutti affaccendati a raccogliere in piccole ceste anche i minimi frammenti di legno. Sono bambinetti in tenera età, quasi ancora incapaci di reggersi in piedi, che s’industriano in tal modo, guidati dai più grandicelli. Con le loro ceste vanno poi nel cuore della città e si siedono offrendo in vendita quelle piccole provviste di legna. Le comprano gli artigiani o i borghesi di modesta condizione, che le riducono in brace sui treppiedi per scaldarsi o per alimentare i loro semplici fornelli.

Altri ragazzetti girano vendendo l’acqua delle fonti sulfuree, di cui si fa gran consumo specialmente in primavera. Altri ancora raggranellano qualche soldo comprando frutta, miele filato, ciambelle e dolciumi, che offrono e rivendono, piccoli mercanti improvvisati, ai loro coetanei, se non altro per averne gratis una parte. Niente di più grazioso del vedere uno di questi piccini, munito d’un’assicella e d’un coltello per tutta bottega ed attrezzo, andarsene per via reggendo un’anguria o una mezza zucca arrostita; intorno a lui si raccoglie uno sciame di monelli, il bimbo posa a terra l’assicella e incomincia a tagliare il frutto in tanti pezzetti. Gli aspiranti stanno a guardare con grande serietà se la porzione corrisponde alla loro monetina di rame, e il minuscolo trafficante, di fronte a quei famelici, bada altrettanto gelosamente di non rimetterci neppure un briciolo. Sono certissimo che fermandomi più a lungo potrei raccogliere parecchi altri esempi di tale industriosità infantile.

Moltissimi sono coloro – parte di mezz’età, parte ancora ragazzi e per lo più vestiti assai poveramente – che trovano lavoro trasportando le immondizie fuori città a dorso d’asino. Tutta la campagna che circonda Napoli è un solo giardino d’ortaggi, ed è un godimento vedere le quantità incredibili di legumi che affluiscono nei giorni di mercato, e come gli uomini si dian da fare a riportare subito nei campi l’eccedenza respinta dai cuochi, accelerando in tal modo il circolo produttivo. Lo spettacoloso consumo di verdura fa sì che gran parte dei rifiuti cittadini consista di torsoli e foglie di cavolfiori, broccoli, carciofi, verze, insalata e aglio; e sono rifiuti straordinariamente ricercati. I due grossi canestri flessibili che gli asini portano appesi al dorso vengono non solo inzeppati fino all’orlo, ma su ciascuno d’essi viene eretto con perizia un cumulo imponente. Nessun orto può fare a meno dell’asino. Per tutto il giorno un servo, un garzone, a volte il padrone stesso vanno e vengono senza tregua dalla città, che ad ogni ora costituisce una miniera preziosa. E con quanta cura raccattano lo sterco dei cavalli e dei muli! A malincuore abbandonano le strade quando si fa buio, e i ricchi che a mezzanotte escono dall’opera certo non pensano che già prima dello spuntar dell’alba qualcuno si metterà a inseguire diligentemente le tracce dei loro cavalli. A quanto m’hanno assicurato, se due o tre di questi uomini, di comune accordo, comprano un asino e affittano da un medio possidente un palmo di terra in cui piantar cavoli, in breve tempo, lavorando sodo in questo clima propizio dove la vegetazione cresce inarrestabile, riescono a sviluppare considerevolmente la loro attività.

Il discorso sconfinerebbe troppo se volessi parlare dell’infinita varietà dei piccoli commerci che ci si diverte ad osservare a Napoli, come in ogni altra grande città; ma non posso tacere dei venditori ambulanti, dato che provengono soprattutto dagl’infimi strati popolari. Alcuni vanno attorno con barilotti d’acqua ghiacciata, bicchieri e limoni, per poter preparare subito e ovunque una limonata, bevanda cui non rinunziano neppure i più umili; altri reggono su vassoi bottiglie con vari liquori e bicchieri a calice stretto, tenuti fermi da anelli di legno; altri ancora portano canestri di biscotti, leccornie, limoni e altre frutta, e ciascuno sembra voler condividere e ingigantire quella festa del consumo che a Napoli si celebra tutti i giorni.

Oltre all’attività svolta da questi ambulanti, v’è pure una massa di piccoli rivenduglioli girovaghi, che senza tante cerimonie offrono in vendita le loro cosucce disponendole su un asse di legno, dentro un coperchio di scatola, o addirittura sciorinando la loro mercanzia sul nudo terreno delle piazze. Non si tratta allora di merci vere e proprie, quali si troverebbero nelle normali botteghe, ma di autentico ciarpame: non c’è pezzettino inutilizzato di ferro, cuoio, tela, feltro ecc. che non sia messo in vendita da questi robivecchi e non sia comprato dall’uno o dall’altro. Parecchi uomini delle classi più misere lavorano poi come facchini o manovali presso i commercianti e gli artigiani.

È vero, non si fa praticamente un passo senza imbattersi in gente assai malvestita o addirittura cenciosa; ma non per questo si deve parlare di scioperati, di perdigiorno! Sarei quasi tentato d’affermare per paradosso che a Napoli, fatte le debite proporzioni, le classi più basse sono le più industriose. Non si può pensare, beninteso, di mettere a paragone quest’operosità con quella dei paesi del Nord, la quale non ha da preoccuparsi soltanto del giorno e dell’ora immediati, ma nei giorni belli e sereni deve pensare a quelli brutti e grigi e nell’estate deve provvedere all’inverno. Posto ché è la natura stessa che al Nord obbliga l’uomo a far scorte e a prendere disposizioni, che induce la massaia a salare e ad affumicare cibi per non lasciare sfornita la cucina nel corso dell’anno, mentre il marito non deve trascurare le riserve di legna, di grano, di foraggio per le bestie e così via, è inevitabile che le giornate e le ore più belle siano sottratte al godimento e vadano spese nel lavoro. Per mesi e mesi si evita di stare all’aperto e ci si ripara in casa dalla bufera, dalla pioggia, dalla neve e dal freddo; le stagioni si succedono inarrestabili, e l’uomo che non vuol finire malamente deve per forza diventare casalingo. Non si tratta infatti di sapere se vuole fare delle rinunce: non gli è consentito di volerlo, non può materialmente volerlo, dato che non può rinunciare; è la natura che lo costringe ad adoperarsi, a premunirsi. Senza dubbio tali influenze naturali, che rimangono immutate per millenni, hanno improntato il carattere, per tanti lati meritevole, delle nazioni nordiche; le quali però applicano troppo rigidamente il loro punto di vista nel giudicare le genti del Sud, verso cui il cielo s’è dimostrato tanto benigno. Si attagliano perfettamente all’argomento le considerazioni fatte dal signor von Pauw nel passo delle Recherches sur les Grecs dedicato ai filosofi cinici. Secondo lui, l’idea che ci si fa delle penose condizioni di quegli uomini non è del tutto esatta; il loro principio di far a meno di tutto è fortemente facilitato da un clima prodigo d’ogni sorta di doni. In quei paesi un povero, uno che a noi sembra miserabile, può non solo soddisfare le più urgenti e immediate esigenze, ma godersi il mondo nel modo migliore; e un cosiddetto accattone napoletano potrebbe altrettanto facilmente sdegnare il posto di viceré in Norvegia e declinare l’onore, se l’imperatrice di Russia gliel’offrisse, del governatorato della Siberia.

Certamente nei nostri paesi un filosofo cinico se la passerebbe male, mentre nel Sud è la natura stessa che lo invita a ciò. Laggiù lo straccione non può dirsi un uomo nudo; chi non ha casa propria o in affitto, ma d’estate passa le notti sotto una tettoia, sulla soglia d’un palazzo o d’una chiesa, o nei porticati pubblici, e se fa cattivo tempo si rifugia in qualche luogo pagando una piccola mercede, non perciò è un reietto e un misero; né un uomo si può dire povero perché non ha provveduto all’indomani. Se si pensa alla quantità di alimenti che offre questo mare pescoso, dei cui prodotti la gente è obbligata per legge a nutrirsi in alcuni giorni della settimana; a tutti i generi di frutta e d’ortaggi offerti a profusione in ogni tempo dell’anno; al fatto che la contrada circostante Napoli ha meritato il nome di Terra di Lavoro (dove lavoro significa lavoro agricolo) e l’intera sua provincia porta da secoli il titolo onorifico di Campania felix, campagna felice, ben si comprende come là sia facile vivere.

Fra l’altro, il paradosso che ho azzardato poco fa si presterebbe a varie riflessioni per chi volesse tentar di dare un quadro esauriente di Napoli; impresa che comunque richiederebbe notevoli capacità e alcuni anni d’indagine. Si giungerebbe forse allora a concludere che il cosiddetto lazzarone non è per nulla più infingardo delle altre classi, ma altresì a constatare che tutti, in un certo senso, non lavorano semplicemente per vivere ma piuttosto per godere, e anche quando lavorano vogliono vivere in allegria. Questo spiega molte cose: il fatto che il lavoro manuale nel Sud sia quasi sempre assai più arretrato in confronto al Nord; che le fabbriche scarseggino; che, se si eccettuano avvocati e medici, si trovi poca istruzione in rapporto al gran numero d’abitanti, malgrado gli sforzi compiuti in singoli campi da uomini benemeriti; che nessun pittore napoletano sia mai diventato un caposcuola né sia salito a grandezza; che gli ecclesiastici si adagino con sommo piacere nell’ozio e anche i nobili amino profondere i loro averi soprattutto nei piaceri, nello sfarzo e nella dissipazione.

So bene che il mio discorso è un po’ troppo generico, e che non è possibile tracciare nitidamente le caratteristiche di ciascuna classe, se non dopo precisa cognizione ed osservazione; ma a grandi linee sarebbero questi, credo, i risultati a cui si approderebbe.

Per riprendere l’argomento del popolino napoletano, si nota in esso il medesimo tratto che nei ragazzi vivaci: ossia, se gli si dà da fare un lavoro non si tirano indietro, ma trovano ogni volta il modo di scherzare su ciò che fanno. Questa specie umana è permeata d’uno spirito sempre sveglio e sa guardare alle cose con occhio libero e giusto. Il suo linguaggio dev’essere figurato, il suo umorismo arguto e mordace. L’antica Atella sorgeva nei dintorni di Napoli e, come l’amatissimo Pulcinella non ristà dal dare spettacolo, così la massa dei più umili continua ad esser partecipe di quella gaiezza.

 

ARTICOLO SCRITTO DA ANTONIO CIVETTA

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