La cucina napoletana  ha una antichissima tradizione storica le cui radici risalgono addirittura al periodo greco- romano . Essa si è formata ed arricchita nel corso dei secoli con l’influsso delle differenti culture che si sono susseguite durante le varie dominazioni della città e del territorio circostante.

Agli apporti giunti fin da epoche remote dall’Oriente , da cui è derivata la maggior parte dei prodotti adoperati al tempo dei Romani ,se ne sono aggiunti nel corso dei secoli ,  altri introdotti dagli Arabi di Sicilia ed infine quelli provenienti dalle Americhe che hanno indubbiamente contribuito ad un notevole arricchimento della gastronomia locale .

Essendo stata poi  Napoli , a lungo la capitale del regno ,questo ha portato la sua cucina ad assorbire anche gran parte delle tradizioni culinarie dell’intera Campania e di molte altre regioni del Regno , raggiungendo un giusto equilibrio tra piatti di terra e piatti di mare .

La grande urbanizzazione conseguente al ruolo di capitale del regno ha infatti portato a far affluire in città , nel corso dei secoli , molte nuove persone provenienti da periferiche regioni del Sud che inevitabilmente , insieme ai sempre più intensi scambi commerciali hanno portato nuove abitudini alimentari che unite a quelle già pre-esistenti hanno di fatto determinato la speciale e complessa attuale gastronomia locale , sintesi e memoria nel cibo di storia e cultura dell’intero meridione

 

 

In tanti secoli  fatti di diverse dominazioni .la pasta , le verdure , il pesce , i crostacei , i molluschi ed i latticini tipici del territorio sono stati meravigliosamente mescolati tra loro dando luogo a piatti originale dal sapore sublimo . Importantissimo ovviamente è stato a questo proposito anche l’apporto della fantasia e creatività dei napoletani nella varietà di piatti e ricette oggi presenti nella cultura culinaria partenopea.

 

A seguito delle varie dominazioni, principalmente quella francese e quella spagnola, si è delineata la separazione tra una cucina aristocratica ed una popolare.

La prima, caratterizzata da piatti elaborati e di ispirazione internazionale, sostanziosi. e preparati con ingredienti ricchi, come i timballi o il sartù di riso, mentre la seconda legata principalmente ad ingredienti della terra più facilmente reperibili a basso costo ( legumi , verdure ) come  ad esempio la popolarissima  pasta e fagioli .

 

 

Nel corso dei secoli l’ originale cucina napoletana ha comunque dovuto subire una serie di rielaborazioni e contaminazione sopratutto dalla cultura culinaria più nobile e raffinata , che ha rischiato ed ancora rischia  di far perdere ai tipici piatti , famosi in tutto il  mondo , il suo caratteristico sapore e profumo ma sopratutto la sua tradizionale forma ( piatti gourmet ) e la tipica abbondanza ( nouvelle cuisine ) che ha sempre distinto nei secoli i piatti tipici della cucina napoletana . Oggi che cucinare ” fa tendenza “e molti maschi si cimentano volentieri ai fornelli , il mestiere di cuoco, una volta oscuro monzù nelle case nobiliari , oppure affaticato lavoratore in ristoranti e trattorie è diventato una professione alla moda . Emergono oggi personaggi che acquisiscono celebrità e successo da star , alcuni dei quali uniscono alle competenze e raffinatezze delle scuole di formazione la robustezza di tradizioni regionali e familiari , ma si fanno purtroppo spazio anche tanti sperimentatori di cucina ” fusion “che amano mescolare , in associazioni talvolta improbabili , nuovi ingredienti in nome di nuovi sapori..Nonostante comunque , questo vile attacco di una miriade di nuovi e moderni cuochi e di libri ad esso collegati , la nostra cucina possiede ancora oggi una gamma di pietanze e prelibati piatti, che con i suoi ingredienti e preparazioni  caratterizzano una identità culturale inconfondibile.

Resiste a tutta  questo nuova ondata di cuochi e piatti rivisitati , ancora  un vastissimo repertorio culinario che almeno una volta nella vita ( vi assicuro che è’ poco ) vale la pena assaggiare .

La cucina napoletana, assai più di altre tradizioni, ha in bocca la storia e lo spirito di una città che non ha uguali. In essa si respira la filosofia Epicurea che ancora echeggia e domina in città. A Napoli mettersi a tavola non serve solo a sfamarsi ma è un modo per socializzare , ricordare e sopratutto amare . A Napoli non basta mettere insieme il pranzo con la cena, ma occorre fare del cibo, come della vita, un boccone di piacere.

È  un modo per condividere insieme ad altri un qualcosa che provoca piacere gustando l’eccellenza di un prodotto ( meglio se di origini nostrane ) . E’ un modo di vedere la vita che ereditiamo dai nostri antichi antenati greci e … non ci possiamo fare niente … ci piace ..

 

Stare a tavola a pranzo o a cena con amici ma sopratutto parenti e’ un modo per ricordarsi che i piaceri della vita vanno condivisi lontano dallo stress ed in una atmosfera soft e rilassante dove prevale l’amore per i contatti umani . Amiamo stare a  tavola  dove ci piace godere sopratutto dei prodotti giunti a noi dalla tradizione popolare, ingegno del poco e del niente, e tendiamo a pigliare il dovuto distacco da cose impasticciate , sbriciolate e deformi segnate da  mode francesi e servite in maniera raffinatissima ( tipo per esempio la pastiera ” scomposta “).

Ma ora non mi fraintendete , a Napoli  esistono ristoranti eleganti e raffinati bellissimi e con una meravigliosa vista sul mare dove si mangia benissimo e tutto funziona al meglio ma io preferisco ancora ‘ la vecchia trattoria con la tovaglia classica a quadratini ( purtroppo stanno levando anche quella ) dove meglio mi riesce  gustare un tipico piatto tradizionale nella sua tipica forma , colore e porzione .Il miracolo di identità e di sapore cdi cui vi ho parlato prima ,  per me funziona solo qui. , in queste  antiche popolari trattorie .

Sono un vecchio e nostalgico amante di una cucina povera e genuina ma devo aggiornarmi e cedere il passo quindi ad una gastronomia più ricercata , elaborata e modificata, che ha rivisto le tradizioni popolari sposandole con le nuove esigenze .

Ciamma Arrangià …… e la  cucina napoletana è una cucina che si arrangia meglio di qualsiasi altra, ma che in nessun caso si accontenta ed ecco quindi a Napoli sorgere i migliori ristoranti che offrono una più raffinata arte culinaria . Ad oggi infatti sono tante le pietanze e le ricette semplici o articolate che conferiscono un’identità ben precisa alla cucina napoletana e che è possibile suddividere in primi e secondi piatti, contorni, sfizi, dolci e bevande.

I napoletani sono stati per antica tradizione  “Mangiatori di foglie”, ovvero di verdure e di minestre a volte elaborate e articolate da fare (come nel caso della celebre minestra maritata),   e non hanno smesso  di esserlo anche quando sono diventati, nel 700 , “mangiatori di maccaroni”. Troveremo infatti nel nostro viaggio culinario napoletano spesso associate molte verdure ed ortaggi accanto a  molti dei nostri piatti tipici .

Come vi dicevo , da sempre i napoletani si sono cibati di verdure , tanto che alla corte di Lorenzo il Magnifico , dove eccedevano in carni e selvaggina  , furono definiti con disprezzo ‘ mangiatori di foglia ‘.

In quelll’ epoca  il complesso degli ortaggi  e delle verdure veniva indicato  con il termine generico di  ‘ verduma ‘  mentre con il termine foglia o quella più popolare di erve ( erbe) ci si   riferiva in maniera specifica al cavolo  in tutte le sue sottospecie ( cavolfiore , cavolo cappuccio , biete ,  tornelle ,  cicoria  , scarole e broccoli di rape  di foglia ). 
I broccoli  in particolare rappresentavano  e rappresentano ancora oggi la verdura per eccellenza dei napoletani  che a detta di molti  sono i migliori che si possano trovare in giro per il mondo .
La verdura  nel 500 e nel 600 costava poco ed era facilmente reperibile da parte del popolo che viste le non felice condizioni  economiche in in cui versava , indirizzava la sua alimentazione alla ricerca di  prodotti naturali che la sua generosa terra di origine regalava ( era chiamata terra Felix già ai tempi dei romani ).
Questa prevalenza di  alimentazione povere fatta sopratutto di verdure nella alimentazione  da parte del popolo  portò  in quel periodo  il soprannome ai napoletani di ‘ mangiafoglie ‘ .Attenzione pero’ , mangiatori di foglie si , ma non vegani , Essi  infatti non consumavano queste foglie da sole ma felicemente ‘ maritate’ con tante forme di  avanzi di carne,
La foglia associata a carne di vario tipo  dava  luogo ad un gustosissimo piatto che ancora oggi si prepara chiamato ‘ a menesta maritata ‘ composto da sei diversi tipi di verdure ( vruccole’ e rapa, vruccuole ‘ foglia, tornelle ( cavoletti ) , cappuccelle, ( cavolo cappuccio ) cicurielle , e scarulelle )  , alle quali venivano aggiunti  tre tipi di carne : vaccina, puorco e gallina .
Quando i  maccheroni ed i vermicelli vennero introdotti tra i nostri piatti , essi vennero iniziamene lavorati ed utilizzati come dolci e serviti conditi con zucchero e cannella e non  era pertanto assolutamente considerato un genere di prima necessità. ( basta pensare che in tempi di penuria di farina era vietata la sua preparazione ).
Solo ne 700 , quindi i napoletani hanno  cominciato ad affezionarsi ai maccheroni al punto da farli diventare poi il loro cibo preferito e guadagnarsi l’appellativo di ” mangiamaccheroni “. In breve tempo , in quanto economico e in grado di saziare , i maccheroni si trasformarono da pietanza prelibata per ricchi addolcita con zucchero e cannella , in una versione più rustica con sugna ed un pò di formaggio conditi con sale ed un pizzico di pepe , che si poteva acquistare con pochi soldi  .In tutti i quartieri , in quel periodo , comparve la grossa caldaia del maccheronaro con accanto il piatto ricolmo di formaggio , unico condimento finchè poi non comparve il pomodoro ( inizialmente considerata una pianta di appartamento e addirittura velenosa ).
I maccheroni venivano messi nella caldaia e subito tolti e poggiati su un bastone messi in diagonale sui bordi del pentolone in maniera che continuasse , ma non troppo la sua cottura a vapore . I maccheroni andavano infatti serviti duri e distribuiti ai clienti su fogli di carta oleata e venivano mangiati adoperando le mani .

I maccheroni si mangiavano come vi ho detto con le mani e con un abitudinario gesto : con la mano destra si sollevava la manciata di maccheroni sopra la testa e poi quindi li si faceva cadere nella bocca spalancata . Re Ferdinando I  , che  spesso amava  mischiarsi con il popolo , adorava mangiare come loro i maccheroni con le mani tanto da essere chiamato dal popolo ” Tata Maccherone ” ed invece da coloro che criticavano tale suo comportamento ” Re Lazzarone “.

Assiduo frequentatore di ambienti popolari , egli cercò di introdurre anche a corte abitudini e pietanze che con tanto gusto assaggiava nelle taverne , in particolar modo la pasta e la passata di pomodoro . Gli effetti a corte non furono dei migliori e le polemiche fortissime ; vedere il re mangiare la pasta con le mani , ripetendo la tecnica buffa dei lazzari che portavano i maccheroni in alto e li facevano cadere in bocca , era motivo di scherno nei pranzi di corte e causa di continui litigi con la consorte .Il maggiordomo maggiore fu addirittura costretto per compiacere la regina , ad inventare una forchetta dotata di quattro corti rebbi ( sul genere di quella attuale ) per permettere al re di afferrare la pasta e portarla in bocca senza l’uso delle mani.

Al re lazzarone a proposito di cucna si deve anche il termine “zoza ” con cui egli spesso etichettava le varie salse che i cuochi francesi  portavano a corte .

Su costante invito della regina Maria Carolina d’Austria che non gradiva molto le pietanza napoletane perche ritenute estremamente pesanti e caloriche ,  ma sopratutto plebee , a corte incominciarono ad affacciarsi un certo numero di cuochi francesi che in maniera raffinata ed elaborata  incominciarono ad esportare e preparare per la corte reale  le loro raffinate salse francesi a base di burro, latte, farina e talvolta uova denominate sauces tanto amate dal popolo francese che certamente non incontrò il favore del re  che assaggiandole in maniera disgustata ne storpiò volutamente la pronuncia sòs, con il nome zòza ( un epressione sinonimo di schifezza ). 

Il re nasone pare che in quella cicostanza abbia pronunciato la frase …. che cos’è sta zoza! .. e da qul giorno la parola zoza è diventato un vocabolo ormai di utilizzo comune per indicare qualsiasi pietanza dal sapore disgustoso e sciapito ( “Che zòza” e “Sti maccarune so’ na zòza” ) o anche una cosa  ripugnante e nauseabonda .

N.B. Riferito ad una persona, denota la sporcizia fisica (“Te sie fatto na zòza!”) ma talvolta viene usato anche per offendere moralmente qualcuno in maniera riluttante ( “Sie na zoza!”).   

Il termine quindi come tanti altri, proviene dalla lingua francese e trae le sue origini dal tardo settecento come la parola crocchè , bignè , purè, sartù, e ragù.

I crocchè sembra infatti trovino la sua origine nelle croquettes di patate della Francia del XVIII secolo, e le sue prime ricette a corte sembra risalgano ad un trattato del 1798, scritto da Antoine Augusten Parmentier,un nutrizionista presente alla corte di Luigi XVI.

Nel trattato si voleva rivalorizzare l’uso del tubero, allora considerato un cibo estremamente povero da dare in pasto ad animali o mangiare in periodo di carestia. In esso vengono riportate anche due ricette simili al crocchè per la nobilitare le patate: le patate in bignè e le supresse di patate, entrambe arricchite con grasso animale( elemento che poi si è perso nella ricetta tradizionale) 

N.B. Secondo altre fonti pare invece  i crocchè abbiano natali spagnoli, e che siano giunti qui in Italia durante la dominazione spagnola nel Regno delle due Sicilie e i nostri attuali crocchè non sarebbero altro che  la versione povera delle “croquetas de jamon” (“prosciutto”). Solo che nelle case più umili si pensò di utilizzare al posto del latte, prosciutto e uova della cucina iberica un elemento povero: le patate, accompagnate da sale, pepe e prezzemolo.Tutti gli altri elementi quali uova, parmigiano per amalgamare, pan grattato per impanare, fior di latte, sono successivi.

Anche quel passato che si otteneva spremendo patate, legumi, verdure bollite o altro, deriva dal francese  ma si scriveva  purée, e pronunciava  “püré”. Mentre oggi  nelle nostre tavole si scrive e si chiama  purè.

CURIOSITA’ :Anche l‘etimologia della parola ragù ha le sue basi nel francese ragoût, sostantivo derivato da ragoûter, cioè “risvegliare l’appetito”, e originariamente indicava dei piatti di carne stufata con abbondante condimento che era usato per accompagnare altre pietanze.

A Napoli , come vedremo invece  divenne l’accompagnamento tradizionale per la pasta nei giorni di festa.

Per curiosità dovete  anche sapere che inizialmente la lavorazione della pasta attraversava fasi non proprio … igieniche .

Almeno fino al 600 , la pasta si lavorava artigianalmente e la sue preparazione richiedeva molto tempo  Essa veniva prima impastata con i piedi ….

Si , proprio così …  avete capito bene …..la farina e la semola venivano mescolati  in una grande madia con i piedi scalzi , da uomini chiamati impastatori  grondanti di sudore con addosso luridi stracci . Altri uomini versavano nella badia continuamente dell’acqua  bollente . Gli impastatori , malgrado le scottature , continuavano a pigiare l’impasto in quanto all’epoca c’era la convinzione comune che il contatto con il composto lenisse le piaghe .

Dopo aver superato questa ” delicata ” fase veniva poi indirizzata ad una rudimentale trafila che permetteva di produrre i primi maccheroni bucati ( vermicelli ) .  Fortunatamente , ( grazie all’ingegnere Spadaccini ) , sotto Ferdinando II , vennero  poi realizzati i primi   stabilimenti industriali  che tolsero  definitivamente  di mezzo l’indecente modo di pigiare la pasta con i piedi  per garantire igiene ed accuratezza al prodotto.

Prima della nascita della produzione industriale , la pasta era prodotta in scarsa quantità e vista la sua lunga preparazione aveva un costo alto che la rendeva appannaggio quasi esclusivo delle sole classe aristocratiche dove veniva usata prevalentemente come dolce e mangiata con le mani .

Con il sorgere della produzione industriale  e la maggiore fornitura ,  il costo della pasta subì una drastica diminuzione ed il suo consumo favorito anche dalla diffusione della salsa di pomodoro , divenne accessibile anche ai ceti meno abbienti .

Con il suo  diffondersi  la  pasta ha  poi conquistato lentamente lo scettro di piatto preferito dai napoletani passando con il tempo attraverso  lo spaghetto al pomodoro fresco ,  allo spaghetto a vongole , agli ziti al ragù ,  ed  infine a pizza.

La pasta, e in modo diverso la pizza, è  da quel momento divenuta il respiro di Napoli e della sua arte:  essa celebra  le vongole anche quando se ne sono fujute, e fa della frittata di maccheroni una meravigliosa consolazione al momento che nulla è’ stato preparato per pranzo . Ma al contempo costruisce attorno alla pasta fastosi preparati  in un atto d’amore e di grande pazienza come accade  con i  grandi sughi di lenta cottura (ragù, bolognese, e genovese).

Il primo piatto  per un napoletano è Immancabile . Ovviamente se deve scegliere tra pasta e riso ( sciaquapanza ) sceglie indubbiamente la pasta che viene preparata in tanti modi diversi: dai piatti a base di carne a quelli con il pesce, passando per i legumi. Tra quelli più preparati nelle case o nei ristoranti ci sono sicuramente la genovese ed il ragù. Quest’ultimo è un sugo di carne (misto di manzo e maiale) che va cotto almeno 6 o 7 ore a fuoco basso  ( deve pippiare  ) e proprio per questo lo si cucina soprattutto nelle festività.

‘Pippiare ‘ significa che deve cuocere a lungo, lentamente …”sbuffare”, finché avrà raggiunto la giusta intensità di sapore. E’ una cosa che a Napoli sanno tutti oramai .  Qualunque napoletano che si rispetti potrà dirvi che il vero ragù partenopeo deve “pippiare”,  o “addà pippià”.

Il  termine deriva dal rumore emesso durante il lento bollire del ragù quando dal fondo della pentola si staccano piccole bolle d’aria che affiorano in superficie.

In poche parole il ragù deve mentre bolle  liberare  una sola bolla per volta , e guardare una bolla par volta significa avere ed esprimere  pazienza e riflessione. E’ un piatto che non può rimanere solo nella sua preparazione , perchè necessita di compagnia cioè di qualcuno che lo segua passo per passo nella sua lunga cottura e sopratutto non abbia fretta . E’ questo il motivo per cui , non a caso , ” o meglio rraù ‘ si dice che lo fanno ‘e guardaporte ” perchè esse hanno tutto il tempo di monitorare la lunga fase della peppiatura e per girarlo di tanto in tanto in superficie.

Secondo antichi racconti popolari si dice infatti che ad inventarlo  fu una portinaia costretta ‘ a far passare la giornata ‘ . Per far trascorrere lentamente la giornata dedicandosi a qualcosa di buono, ella  inventò questa ricetta che richiede una lunghissima cottura . Insomma ci vuole tempo e mentre passa il tempo uno pensa …. pensa …e mentre pensa …….spezza anche gli ziti , la classica pasta con cui amalgamandosi il ragù esplode in tutta la sua prelibatezza.

 

 

 

Il ragù  è un incontro con i pensieri, da fare senza fretta. Ed ecco ancora una volta affondare le nostre radici nella filosofia . Il ragù fa parte sempre di quella filosofia Epicurea che ci affligge  tesa alla ricerca del piacere sia del corpo che dello spirito e al risparmio di energie per tutelare la propria libertà dagli stress della vita quotidiana . Per preparare il ragù alla napoletana ,detto anche o’rraù  non devi avere fretta . E’ necessaria moltissima cura e dedizione. Esso  deve essere coccolato e tenuto sempre d’occhio anche se nel frattempo ci si sta occupando di altro.

 

Il giorno dedicato al ragù e’ la domenica e questo per un solo motivo . La domenica è un giorno di festa , un ritrovo di amici e parenti con i quali viziarsi tra buon cibo ed ottimo vino . Con un odore tipico che accompagna il sabato pomeriggio ( quando lo si incomincia a preparare ) e soprattutto la domeniche mattina , a mano a mano che passa il tempo, questo si diffonde per tutta la casa e riempie l’aria di un profumo familiare e rassicurante . Il ragù , la domenica mattina invade la casa, con amabile prepotenza, grazie al suo profumo così irresistibile e rappresenta la più amabile delle tentazioni . Difficile infatti resistere al classico inzuppo del “cozzetto di pane” nella salsa che tanto fa arrabbiare la tua mamma mentre cucina .

Accanto al rituale culinario della preparazione di questa salsa,  esiste infatti anche un altro rituale ed è quello che possono fare solo i più fortunati, ovvero quelli che riescono ad accaparrarsi il “cuzzetiello” ( parte iniziale o finale del pezzo di pane) e a bagnarlo in questo sugo così gustoso ( la mamma fa finta di non vedere ).

Mica è una cosa facile….accaparrarsi il “cuzzetiello”  …..   e a mangiarlo dopo averlo intriso nel ragù, …… solo  i più veloci e più fortunati, soprattutto in caso di famiglie numerose,  riusciranno ad accaparrarselo e  godere di questa prelibatezza.

A proposito …. a Napoli non potete  mangiare il vero ragù napoletano e non fare la cosddetta “scarpetta”ovvero pulire letteralmente il sugo rimasto nel piatto con una bella fetta di pane cafone napoletano, questo gesto rappresenta il segnale che dimostra quanto avete  apprezzato il piatto.

 

La cottura del ragù inizia il sabato sera  e  continua fino al giorno seguente. Esso richiede tempo , pazienza e amore e non ha nulla in comune con il termine ” mangiare una cosa veloce … al volo ” E’ uno stile di vita che fa della convivialità tra i commensali, l’allegria della tavola, il modo di stare insieme e di condividere il  mondo. Un vero ragù dura tre giorni ; si prepara il sabato ,si mangia di domenica e fornisce i suoi avanzi per il lunedì.

Il ragù è  a Napoli , in assoluto il simbolo stesso della famiglia che si riunisce di domenica .All’ora di pranzo tutti i membri della famiglia devono inderogabilmente sedersi a tavola in una tradizionale intimità familiare che vede immancabilmente il ragù al centro del tavolo come uno di famiglia .

Se venite   invitati a  casa di un napoletano di domenica a pranzo non pensate mai di andar via poi prima delle 17 ( se vi va bene ) perchè non vi alzarete da tavola prima di quell’ora tra chiacchiere , racconti , fattarielli  , commenti sulla squadra di calcio locale ( o Napul ). e vari ” spassatiempo ” , cioè semi di mellone, lupini , fave, frutta secca, ceci cotti nel forno , e nocelle  nostrane o americane da rosicchiare .

A proposito sapete che a fine ottocento la migliore qualità di nocelle in Europa era quella che proveniva dalla cittadina di Avella ,che si trova  ai confini tra Napoli ed Avellino ? In latino la nocciola era chiamata “nux avellane” ed in spagnolo ancora oggi si chiama ” avellana “. Queste non hanno nulla in comune con quelle che arrivarono in Europa dopo la scoperta dell’America che vennero chiamate ” nucelle americane ” per subito distinguerle da quelle più buone napoletane .

I napoletani hanno da sempre amato sgranocchiare ( rusecare ) insieme ad altri  familiari od amici a tavola ,  a fine pranzo nocciole, arachidi, mandorle, semi di zucca, noci, ceci, granone, pistacchi, e lupini salati che sono tutti chiamati spassatiempo proprio perchè richiedono un tempo più lungo nel mangiarli e degustarli .  A Napoli pur di prolungare il tempo di stare tutti insieme a tavola tutte queste cose hanno da sempre rappresentato il mezzo ideale per passare altro tempo insieme  ( uno spassatiempo appunto  ).

La tavola è quindi come vedete un modo di socializzare con gli altri e non rimanere soli . E’ un luogo  importante dove  conoscersi ed un napoletano anzi ,per mostrare la sua estraneità ad una persona è solito dire :” Ma chi ha magnato maie cu tte int’o stesso piatto ? “.

La consuetudine del pranzo familiare , inteso come momento di aggregazione e di componenti , seppur limitato alla domenica e alle maggiori festività, persiste da generazioni senza ancora essere scalfito da mode di ristoranti giapponesi o l’omologazione dei giovani su pub , panini , hamburger, patatine , tendenze vegane e cose simili.  Nonostante l’appiattimento massificante della globalizzazione che a Napoli , come in tutte le altre grandi città europee e mondiali , tende ad imporre  vari ” fast food “di tutti i tipi , la cucina di mammà e la componente emotiva che ciò comporta vivendo dei momenti sociali in insieme alle persone a te care , rimangono nel popolo napoletano ancora oggi (  per fortuna )elementi fondanti e irrinunciabili di identità e appartenenza . E’ un imprinting a cui in un modo o nell’altro non sfuggono neanche adolescenti ribelli ed esponenti delle varie forme di pensiero alternativo.Tutti devono partecipare al pranzo familare , altrimenti papà ” ‘s pigl collera  ” ( il pdre di famiglia si offende ).

Quindi tutti insieme a tavola , sopratutto la domenica e ……  se pensate di mangiare  prima delle 14.00  scordatevelo! …. e sopratutto non dimenticate , se volete fare bella figura, di portare il vassoio ( guantiera ) con le paste ( dolci ). Questo vedrete quando sceglite le paste in pasticieria è di cartone rigorosamente rettangolare bianco o dorato.

Insomma l’avete capito …. non vi lasceremo mai soli …. se siete stati invitati a pranzo a casa di un napoletano di domenica, prendete il vostro cellulare e iniziate a dire addio a parenti e amici, anche perché c’è da considerare che il giorno dopo vi starete ancora riprendendo dall’esperienza.

Volete mica paragonare  un rapido Fast food ed un affollato apericena milanese , ad un lungo pranzo  a tavola con amici e parenti ?

Sono due modi diversi di vivere e condurre la vita , Nel nostro modo si  danno valore a cose che altri , presi da loro ritmo forsennato non potranno mai capire . Il nostro  , per carità non è un modo migliore , è solo un modo diverso di vivere e vedere la vita dove ancora conta tantissimo il tempo ( da trascorre in compagnia e non da soli ) , la solidarietà e l’amicizia .

Al massimo se proprio andate di fretta e proprio dovete correre … magari potete ” accontentarvi del ” cuzzetiello con ragù e polpetta ”  che oggi sempre più frequentemente possiamo trovare in strada  su banconi di locali specializzati . ll pane utilizzato è il cozzetto del palatone svuotato della mollica, e riempito da una fantastica polpetta cotta nel ragù ed intrisa di sugo . Ma dentro ci potete mettere anche altre diverse pietanze e contorni esposti in  vetrina.

Protagonista del ragù è ovviamente il pomodoro.

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Il pomodoro, originario dell’ America , fu importato in Europa  dagli spagnoli nel XVI secolo   ma venne ignorato dal punto di vista alimentare per circa due secoli. Le prime piante importate dal Perù avevano frutti gialli ( da cui il nome pomo-d’oro) e considerate non commestibili vennero  sopratutto prese in considerazioni come  piante ornamentali.

Gradualmente attraverso vari innesti si giunse ad ottenere i frutti rossi e solo  tra la fine del XVIII  e l’inizio del  XIX secolo  la  salsa di pomodoro divenne comune a molte ricette.  La sua coltivazione iniziò nel settecento  nell’area dell’attuale comune di San Marzano sul Sarno e territorio limitrofo , dove attecchì bene grazie alla fertlità del suolo vulcanico  e si diffuse  fino a diventare una delle più importanti della Campania .

Il pomodoro deve il suo caratteristico colore rosso al LICOPENE , un potente antiossidante capace di fare ‘ pulizia ‘ nel nostro organismo contrastando l’attività dei radicali liberi , cioè di alcune molecole instabili che danneggiano il Dna delle cellule e quindi provocare alterazioni di tipo tumorale .
Il pomodoro e quindi un prodotto con proprietà antitumorali capace inoltre di ridurre anche il colesterolo ‘ cattivo ‘ in circolo e quindi il rischio di ipertensione , malattie coronariche e iperplasia prostatica .
L’Ideale e’ consumare i pomodori cotti o in salsa poiché il calore rende disponibile una quantità di licopene 5 volte superiore rispetto ai pomodori crudi .
Anche un filo di olio extravergine può fare la differenza perché, tramite i suoi grassi , attiva il principio attivo del licopene come insegna la nostra tradizione partenopea con la nostra pasta e le nostre pizze .

Tra le varietà più famose a Napoli vi è il  pomodoro Sammarzano, quasi estinto alla fine del  XX secolo e recentemente recuperato alle coltivazioni, ed il  pomodoro vesuviano che si conserva a lungo raccolto a grappolo da appendere fuori al balcone (‘o piennolo).

 

Il pomodoro del piennolo   è stato dichiarato  dalla Unione Europea nel 2009  prodotto DOP . Esso può essere coltivato,  solo a  300 metri sopra il livello del mare fra le terre, ricca di sali minerali del Parco Nazionale del Vesuvio.

Il suo colore rosso vivo si racconta sia dovuto a piccole gocce della lava del Vesuvio che, nutrendo l’ortaggio, gli danno vita e resistenza.. La sua buccia infatti è capace di conservare  tutte le sostanze nutritive anche a lungo termine, . Il suo sapore fresco e acre lo rendono unico al mondo e impossibili da coltivare altrove. Intorno ala sua origine si racconta una strana leggenda .

Si racconta infatti che Lucifero creò Napoli rubando un pezzo di Paradiso, ma la terra, toccata dal Diavolo, era diventata arida e fiammeggiante. Quando Gesù vide quell’angolo di mondo sottratto al Cielo iniziò a piangere e, le sue lacrime, cadute sulle pendici del Vesuvio, resero la terra vulcanica fertile e produttiva.

Il nome  “pomodorino del piennolo” è dovuto al modo in cui i pomodorini vengono conservati e coltivati  ” appesi ” in una rete che li tiene sospesi su bastoncini o pezzi di legno.

Si racconta, anche intorno a questo modo di conservarli un’antica storia  che parte da Torre del Greco . In questo luogo  le mogli dei pescatori  si occupavano  di intrecciare e sistemare le reti che servivano per la pesca. Quando, però, i mariti andavano in mare, per continuare a lavorare, le donne usavano la stessa procedura per intrecciare i piccoli nodi delle reti del “ piennolo ”.

A Napoli è sorta l’industria conserviera che ha portato in tutto il mondo i celebri “pelati” e il “concentrato” di pomodoro. Molti sono poi i metodi casalinghi di conservarlo, dai pomodori in bottiglia, fatti a pezzi oppure passati per essere sempre pronti agli usi più vari, fino alla  famosa “conserva” in cui il pomodoro viene stracotto e concentrato fino a diventare una crema scura e vellutata..

Un tempo era moto diffusa l’abitudine nelle famiglie napoletane di  fare ” le butteglie ” di pomodori , cioè prepararsi da soli delle bottiglie in cui conservare il pomodoro da riutilizzare poi durante tutto l’inverno .

La preparazione delle ” bottiglie ” di pomodori era un evento tradizionale che avveniva ogni anno alla fine dell’estate e chi come me ha avuto la fortuna di parteciparvi ha solo potuto sviluppare ed amplificare il concetto di famiglia .

Partecipare a questo evento con tutta la tua famiglie ed i parenti più stretti è  uno dei più bei ricordi che un uomo possa conservare . E’ una di quelle immagini indelebile che appena compaiono , come in un grande spot pubblicitario , immediatamente ti riportano in mente la  famiglia  ed il suo significato.

Come vi dicevo prima , questa tradizione era un tempo molto diffusa . Bisognava alzarsi molto presto per la raccolta o meglio l’acquisto dei pomodori  che una volta  selezionati venivano poi   lavati . A questo punto iniziava  la preparazione del passato con l’aggiunta di alcune foglie di basilico (elemento indispensabile per aromatizzare la conserva), al quale seguiva   l’imbottigliamento con l’aggiunta spesso di qualche pomodoro a fette (‘a pacchetelle) . Infine avveniva   il delicato compito della tappatura  in genere affidato alle mani più esperte.

Il lavoro era lungo ed ognuno teneva il suo ruolo dai piuù piccoli ai più grandi , nonni compresi che insieme ai bambini erano i veri protagonisti dell’evento .I nonni quali esperti e sapienti consiglieri ed i bambini invece quali festanti immagini di ometti felici di partecipare alle attività di famiglia e sentiri utili mentre magari giocavano con le mani in acqua per lavare i pomodori . Una festa per l’intera famiglia , lontani da televisiori, serie televisive e play-station che tendono ad isolare tutto e tutti e non cementare la famiglia .

Ancora una volta era la nostra filosofia di vita a prevalere contro la solitudine dei tempi moderni in cui  l’uomo è sempre più rinchiuso in se stesso lontano da amici e parenti . Una cerimonia ” epicurea “fatta di fatica e sudore ma capace di coinvolgere  l’intera famiglia ,dai bimbi agli anziani , che avvolti dal profumo del pomodoro e sazi di spighe abbrustolite nella cenere al termine di quella giornata si volevano certamente più bene. Un giorno dedicato all’amore dove si insegnava ed imparava ad amare.

Il lavoro  terminava con la cottura delle bottiglie in grossi bidoni adagiati su trespoli in ferro.  Mentre Infatti terminata la lavorazione ,  le donne provvedevano alla pulizia, gli uomini allestivano l’area destinata alla  cottura  delle  bottiglie  di  pomodoro (quasi  sempre  uno  spazio all’aperto); sul fondo dei capienti bidoni veniva sistemata una grossa “pezza di sacco” (per dare una cottura meno aggressiva alle bottiglie). Tutte le bottiglie erano adagiate in modo sapiente, e terminata questa operazione i bidoni venivano poi riempiti di acqua e coperti con altre “pezze di sacco” (affinché venisse raggiunta più velocemente ed in modo duratura la temperatura di ebollizione).

 

Oggi tutto questo   è sempre più rara da vedersi,  e probabilmente tra non moltissimo tempo scomparirà dai nostri costumi, sia per i costi sempre più bassi  delle conserve industriali pronte in barattolo, sia per la sempre minore disponibilità delle giovani famiglie ad affrontare il “faticoso impegno” della conserva artigianale. Una tradizione  che perdendola porta via un pezzo di amore all’uomo moderno , indaffarato e preso dal vorticoso correre dei suoi impegni ed un pezzo in meno al mondo di napoletanità..

E più napoletanità il mondo perde , piu questo diventa un male per l’intera razza umana come ha sempre detto un grande amico recentemente scomparso ….

 

Altro tipico primo piatto Napolitano domenicale e’ la genovese ma stavolta il suo odore non è’ così inebriante come prima e  certamente bisogna ben arieggiare l’ambiente per eliminare l’acro odore delle cipolle prima di mettersi a tavola .

Al contrario di quanto si potrebbe pensare , questa pietanza non è un preparato genovese o ligure , ma tipicamente napoletana. Essa risale al periodo aragonese quando  la  si preparava nell’area genovese  del porto di Napoli . La genovese è un sugo a base di cipolle (abbondanti), carote e sedano in cui cuocere per alcune ore un pezzo di carne. Questo condimento è stato per lungo tempo il condimento tipico della pasta quando in cucina non erano ancora stati introdotti i pomodori e visto che la carne era decisamente un lusso concesso alle nobili famiglie , era frequente portare a tavola nelle famiglie povere ” la finta genovese ” , ottenuta con molta cipolla e pochissima o niente carne .

 

Esso  rappresenta uno dei piatti più geniali dellDe conqueiraa cucina tradizionale partenopea, perchè mette insieme ingredienti semplici e popolari come le cipolle e le carni di terzo taglio e ne vien fuori un piatto dal sapore a dir poco regale. I suoi tempi lunghi di cottura permettono la trasformazione di carni dure e callose in uno stufato ricco e dolce.

Questo piatto nasce dalle viscere della Napoli popolare, quando la carne per molti era un lusso.Come spesso accade, non abbiamo una data certa in cui posizionare la data di nascita de La Genovese; infatti, secondo alcuni le origini della genovese risalgono al XV secolo, quando i cuochi guarnivano i maccheroni con la carne. Altri affermano che sempre sotto gli aragonesi ad inventare la pietanza fu uno chef che era soprannominato ” ‘O Genovese”.Altri ancora attestano che già sotto gli Angiò, nel XIV secolo, si parlava di questa meravigliosa leccornia, nel ricettario “Liber De Coquina”. Tra le ricette in latino presenti nel ricettaio, la numero 66 era intitolata “De Tria Ianuensis” (Della Tria Genovese), ovvero l’odierna Genovese .


 

Ovviamente visto il suo potere “riscaldante ” ed energetico fatto con bassi costi era una pietanza sopratutto preparata e consumata d’inverno quando faceva  freddo.

I piatti umili con cui usavano ristorarsi i contadini erano quasi tutti concentrati di sapori provenienti dalla terra. Erano quasi sempre semplici zuppe a base di scarole magari preparate con aggiunta di  fagioli e patate  per conciliare i bisogni di energia e sazietà.  Talvolta quando il freddo incalzava si era soliti bere anche  una tazza di bollente brodo di polpo per scaldarsi.

Ma i piatto tipico per scaldarsi a basso costo era senz’altro il  soffritto napoletano fatto di  di pezzetti di carne  conditi con sugo di pomodoro, peperoncino e alloro. Anche in questo caso i protagonisti sono tagli meno nobili, quelli che qualcuno oserebbe scartare, perdendosi poi il lusso di una preparazione come questa. Per realizzare il soffritto napoletano infatti si utilizzano fegato, polmoni, milza, cuore e qualcuno aggiunge anche la trachea, vale a dire tutti quei pezzi che compongono la cosiddetta coratella.

Quando i pomodori non erano ancora stati introdotti si preparava in bianco ed era chiamato ” saporiglio ” . Tutto questo per intendere la sua bontà.

Esso si consumava versato su fette di pane raffermo, oppure inserito in una mezza pagnotta svuotata della mollica e solitamente era accompagnato da abbondante vino rosso

Esso era durante il periodo invernale il piatto più richiesto nelle taverne locali al tempo molto frequentate sopratutto da lazzaroni e sfaccendati , ma anche da artisti e musicisti che cercavano l’ispirazione con il vino , il cibo e ….la coperta .

Gli osti delle varie taverne facevano a gara a chi preparava il soffritto più saporito , magari aggiungendo alla ricetta di base qualche nuovo piccolo ingrediente , una spezia o un vino di Gragnano pariticolarmente robusto . Tali novità  facevano subito il giro della città e spesso era proprio un soffritto fatto bene a decretare la fortuna di una taverna .

Ancora oggi il soffritto viene preparato nelle macellerie napoletane utilizzando le interiora e gli scarti della lavorazione del maiale ( il cosidetto quinto quarto ); appena pronto viene esposto all’interno del negozio e poi venduto al pubblico.

Non male ,per scaldarsi anche i maccuruncelli lardiati dove i maccheroni vengono cucinati con lardo,cipolla ,sale , pepe , pecorino grattuggiato e pezzetti di pancetta.

 La domenica a tavola può anche capitare di mangiare  dell’ottima lasagna  anche se ad onor del vero essa viene preparata sopratutto per il  carnevale.  La lasagna napoletana di Carnevale è infatti praticamente un must per tutte le famiglie di questa città che la propongono “almeno” una volta durante tutto il periodo di festa. I più ghiotti la portano in tavola anche durante il resto dell’anno, magari quando c’è qualcosa d’importante da festeggiare, omaggiando questa ricetta  così antica che addirittura arriva dalla fine del 1700, nel periodo del Regno delle due Sicilie. A quanto pare Re Ferdinando II apprezzava così tanto questo piatto da aver preso il nomignolo di “Re Lasagna”!
Quello che differenzia questa preparazione dalle altre lasagne e’ la complessità degli ingredienti utilizzati,  come per esempio il ragù  di carne  fatto cuocere a fuoco lento per ore, piccole polpettine di carne fritte, uova sode, ricotta, fior di latte e pecorino,  ma come vedete manca la besciamella .

 

Altro tipico piatto domenicale (  molto amato sopratutto dai bambini ) sono gli Gnocchi alla Sorrentina . Si tratta di una nostrana specialità molto buona e particolare . Gli gnocchi vengono fatti con un impasto di  patate, farina ed acqua, e una volta cotti vengono conditi con salsa di pomodoro, fiordilatte, parmigiano e basilico. Oltre ad essere serviti freschi, possono essere ripassati in forno per dargli una leggera gratinatura.

 

A proposito di patate , quasi dimenticavo la mitica Pasta e patate . Un errore imperdonabile !

La pasta e patate è uno di quei piatti poveri tipici della tradizione contadina essendo economico e allo stesso tempo nutriente . La  pasta in questo caso , viene cotta direttamente con le patate così che al termine della cottura si ottiene una sorta di minestra cremosa, che diventa ancora più saporita con l’aggiunta di parmigiano e provola negli ultimi minuti della cottura.

 

Parlando di primi piatti certo non possiamo non pensare ai nostri famosi spaghetti fatti in modo semplice con pomodoro e basilico .   Buonissimi e semplici da preparare  . Al massimo si potrebbe aprire una discussione se sia meglio utilizzare per i “semplici” spaghetti al pomodoro il San Marzano, il pomodoro di Corbara o il piennolo del Vesuvio ma questa è’ un’altra storia …

 

Gli spaghetti possono anche essere cucinati in maniera rapida e veloce alla  cosiddetta  ‘Puttanesca ‘ .

A Napoli questo piatto viene anche chiamata “aulive e cchiapparielle” in riferimento ai due ingredienti principali di questa pasta, ovvero olive nere di Gaeta e capperi. Gli spaghetti alla puttanesca sono un piatto tipico di Napoli e oltre ad olive e capperi prevede una base di pomodoro, aglio e origano. Sulle origini del nome, alcuni sostengono che il nome di questa ricetta risalga agli inizi del secolo e sia stato inventato dal proprietario di una casa di appuntamenti nei Quartieri Spagnoli, che era solito rifocillare i propri ospiti con questo piatto. altri fanno risalire il nome ai vivaci colori della biancheria intima delle fanciulle che ivi lavoravano; il verde del prezzemolo, rosso del pomodoro, il viola delle olive, il grigio dei capperi, il marrone delle alici ecc…
Qualunque sia la sua origine, è sicuramente da provare e gustare.
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Se invece vi trovate in tarda serata insieme ad amici  e  decidete di cucinare qualcosa di veloce per continuare a condividere la serata magari aspettando la mezza notte , potete sempre ricorrere ad uno spaghetto aglio , olio e peperoncino . Uno spaghetti veloce e saporito adatto davvero a tutte le occasioni, da un pranzo veloce in solitariao ad una spaghettata di mezza notte insieme agli amici…. un primo piatto sciuè sciuè, come si dice a Napoli.

Basta avere a casa solo quattro semplici  cose : una  pasta di qualità , dell’ aglio profumato,  dell’olio extravergine d’oliva e del peperoncino fresco  ed ecco servito in tavola un primo piatto facilissimo e velocissimo da preparare che ovunque  a Napoli significa convivialità e amicizia .

 

 

Un altro tipico piatto sciuè sciuè  sono gli spaghetti fatti alla Nerano , cioè con le zucchine fritte e mantecate con il provolone del Monaco.

L’origine di questo piatto oramai tipico della tradizione culinaria   è secondo molti da far risalire ad una ricetta degli anni Cinquanta: pare infatti che esso sia  stato inventato nell’oramai famoso ristorante ” Maria Grazia ” che si trova in costiera Amalfitana e precisamente  sulla spiaggia spiaggia  che affaccia sulla baia di Marina del Cantone nel caratteristico borgo di Nerano .

La ristoratrice , nonchè cuoca  Maria Grazia per legare la pasta e zucchine , un giorno ebbe l’idea di  aggiungere anche un tipico formaggio Sorrentino :  il Provolone del Monaco, un formaggio a pasta filata più o meno piccante in base alla stagionatura e tipico di Agerola, cittadina dei suggestivi monti Lattari. Il risultato fu superiore ad ogni aspettativa. Si racconta che lo stesso Eduardo De Filippo ne fosse particolarmente ghiotto e lo raccomandava ai suoi amici descrivendone la bontà e l’incredibile  cremosità .

 Gli spaghetti alla Nerano , è un piatto fatto  con pochi e semplici ingredienti : la pasta ( gli spaghetti e mai la pasta corta ), delle zucchine fresche ,ed  un ingrediente molto speciale che è il provolone del monaco, un formaggio che si scioglie rendendo questo primo piatto saporito e goloso, per veri buongustai. Esso  si chiama in questo modo  perché nell’antichità i casari che sbarcavano nel porto di Napoli all’alba con il loro carico di provoloni, per proteggersi dall’umidità erano soliti indossare mantelli di tela di sacco simili a quelli dei monaci.

Il Provolone del Monaco si produce dal 1700 circa, quando alcuni pastori che vivevano sul Vomero, area allora agricola nei dintorni di Napoli, dovettero trasferirsi a causa dell’espansione urbana. Alcune famiglie decisero di trasferirsi sui Monti Lattari e iniziarono a sfruttare gli ampi pascoli della zona, producendo formaggio, in particolare caciocavallo.
Il principale mercato per la vendita del formaggio era Napoli e i pastori, o i casari che sbarcavano nel porto di Napoli all’alba con il loro carico ricco di provoloni da vendere , per proteggersi dall’umidità erano soliti indossare  pesanti ingombranti mantelli di tela di sacco simili a quelli dei monaci . Per tale motivo vennero quindi soprannominati “monaci” e di conseguenza il formaggio che essi trasportavano, Provolone del Monaco.

Parlando di piatti veloci quello imbattibile è sicuramente quello dei spaghetti al burro infelicemente soprannominato ” la pasta dei cornuti “.

IL MOTIVO ?

Cucinare, oggi vera e propria arte, è stata per decenni considerata un qualcosa che le donne dovevano praticare, facendo parte delle normali mansioni di una donna sposata.
D’altronde, ormai parlo al passato fortunatamente, le nostre nonne o bisnonne avevano il compito di ” portare avanti la casa”; cucinare, “rassettare” pensare al marito ed ai numerosi figli nati dal matrimonio.
Diciamo che il ruolo della casalinga non era propriamente considerato un vero lavoro e la qualità della donna maritata era proporzionale alla sua capacità di accudire al meglio la propria famiglia.
Anche nella cucina era più o meno lo stesso. ritornando alla ricetta in questione, semplicissima, povera di ingredienti anche se molto gustosa, la pasta al burro era considerata una ricetta poco importante sebbene apprezzata nei sapori.
Ma ahimè nel passato, per un uomo, vedersi servire questa pietanza, era una vera e propria mancanza di rispetto.
E qui ritorniamo alla considerazione ed al ruolo della donna . avendo tutto il giorno a disposizione per fare “solo” qualche pulizia, rassettare, rammendare, pensare ai figli e cucinare, fare una semplice pasta al burro, suonava, agli occhi del marito come se qualcosa avesse impedito alla moglie di preparare un piatto più elaborato. L’unica risposta plausibile a quei tempi era il tradimento.
Poco tempo per cucinare equivaleva a tempo perso in qualcosa di losco, un altro uomo appunto.
E guai a farlo sapere nel quartiere. la reputazione del marito sarebbe stata seriamente compromessa

 

Da non dimenticare anche i Manfredi con la ricotta , un primo piatto che solitamente a Napoli viene preparato nei giorni di festa,, oppure di domenica. Ad essere utlizzata in questo caso come pasta sono le mafalde , un tempo dette ” fettuccelle ” ,  una pasta prodotta esclusivamente con farine di grano duro che  solitamente, almeno fino a qualche tempo fa , veniva a mano  fatta in casa dalle nostre nonne . Esse si prestano ad essere condite con vari sughi di carne, ma ‘ a morte dei manfredi  è sicuramente sopratutto con la ricotta e col ragù.

La storia di questa pietanza conserva un’antichissima leggenda, secondo cui questo piatto fu inventato nel lontano 1250, per il Re di Sicilia, Manfredi di Svevia. Il Re era in guerra con il Papato per poter ottenere il possesso totale dell’Italia Meridionale, e  quando giunse con tutte le sue truppe nel Sannio, fu accolto dalla popolazione con un delizioso piatto di pasta insaporito con il suo formaggio preferito, la ricotta. di cui era ghiotto Questo gesto non fu solo un cortese benvenuto ma anche un modo per aggiudicarsi la simpatia del Re di Sicilia.Da quel momento il piatto prese il nome di Manfredi con la ricotta”.

Nacque così da un’idea improvvisa, uno dei piatti che col tempo e l’aggiunta di un ingrediente, il pomodoro, che nel 1250 era completamente sconosciuto,  è divenuto un simbolo della cucina napoletana, da molti ritenuto all’epoca e ancora oggi ” ‘o piatto d”e feste”.  I manfredi infatti   sono facili e veloci da preparare, ma assicurano la gioia indiscussa di quanti “il giorno della festa”, siederanno a tavola con voi.

Ricordiamoci comunque che l’aggiunta  del pomodoro è solo una modifica del piatto originale in quanto il pomodoro a quei tempi era ancora sconosciuto .

 

Un’ altra gustosa pietanza saporita cucinata  in poco tempo è il piatto chiamato ” scarpariello “.Questa ricetta è nata secondo molti nei quartieri spagnoli  dove in alcuni ” bassi “, i vari fabbricanti di scarpe  presenti in città ,erano soliti affidare parte del lavoro a cottimo a madri di  famiglie che in questo modo arrotondavano la propria disponibilità economica .Esse ,come vari calzolai in città ( scarparo ) confezionavano a casa o nelle loro botteghe parti di scarpe dietro un piccolo compenso e di tanto in tanto , interrompendo il lavoro , preparavano un pasto veloce soffrigendo l’aglio nell’olio ( o nello strutto ),versandoci i pomodori e mantecando poi la pasta con parmigiano, pecorino, e peperoncino .Oggi lo strutto è stato sostituito dall’olio.

 

I napoletani comunque , amano molto consumare come condimento per la pasta  sopratutto i  frutti di mare  di cui sono grandi amanti . Questi venivano e vengono ancora oggi , abitualmente consumati spesso anche crudi e accompagnati da qualche goccia di limone .

Nelle tavole aristocratiche erano apprezzate preparazioni più elaborate : le vongole e le telline erano consumate in brodo , le ostriche venivano invece sgusciate e poi fritte con pangrattato , i cannolicchi si condivano con burro , carne di vitello e brodo di prosciutto , i ricci di mare venivano serviti come accompagnamento a piatti di magro .

Gli spaghetti  è poi una di quelle paste che si sposa particolarmente bene  con il mare ed in città infatti ,uno dei  più famosi primi a base di pesce sono proprio gli spaghetti ai frutti di mare o con le vongole. Questo è’ sicuramente uno dei piatti forti della cucina partenopea che la identificano  quasi quanto la “mitica” pizza.

Possono essere fatti in bianco (molto più buoni) o con un po’ di sugo ma rappresentano sempre il miglior piatto di pasta della cucina napoletana. Con le vongole hanno un gusto particolare ma quelli con i frutti di mare sono molto buoni specialmente se fatti con gli scialatielli, altro tipo di pasta fresca. Naturalmente per gli spaghetti vi consigliamo quelli a trafila di bronzo.

 

Nelle famiglie meno abbienti invece dove talvolta non ci si poteva permettere di acquistare le vongole  si ricorreva spesso  ai “spaghetti alle vongole ‘fujute’”, ovvero vongole che” se ne so fujute ” cioè, scappate e che quindi non se ne vede traccia. In questo caso l’assenza delle vongole veniva ( viene ) compensata  dall’abbondante presenza del prezzemolo. Il suo forte sapore dava in questo modo l’illusione di mangiare i spaghetti alle vongole nonostante non ce ne fosse traccia. Con il passare dei decenni, il piatto si è diffuso sempre più, entrando  tra i piatti tipici della cucina napoletana .

Al posto delle vongole spesso vengono usati anche i lupini di mare , cioè  una varietà più piccola delle vongole che vengono generalmente considerati come i fratelli poveri delle più ricche vongole.

Parlando di mare e quindi di mitili non possiamo dimenticare un delizioso piatto fatto con fagioli e cozze . I fagioli con le cozze nascono come un piatto povero preparato nelle case dei pescatori, ma oggi è diventato un vero gourmet e simbolo della cucina napoletana, Semplice e genuino, è una specie di zuppa, ma più densa e cremosa rispetto alle zuppe classiche, grazie all’aggiunta della pasta che viene cotta assieme ai legumi e aiuta ad avere una consistenza meno brodosa.

La pasta e fagioli  ( Pasta e fasul ) nasce comunque  in maniera originale senza cozze ed a Napoli viene mangiata ” azzeccata ” e non brodosa .

La pasta in questo caso viene cotta direttamente insieme ai legumi, invece che essere cotta in acqua a parte, prima di essere aggiunta ai fagioli. Con questa preparazione tutto l’amido della pasta, che andrebbe invece perso scolando la pasta, viene conservato. Questo, insieme alla mantecatura della pasta conferisce alla pasta e fagioli un sugo più denso e cremoso (azzeccato, in napoletano).

Ora per farvi capire il perche di tutto questo è prima necessario che sappiate alcune cose .

A Napoli  c’è una leggenda molto diffusa sull’esistenza di un spirito benefico protettore della casa, e con essa la famiglia ,  che viene chiamata ” la Bella Mbriana” .  Si tratta di una fata  molto bella che secondo antiche credenze presiede alla buona fortuna  dell’ intimita’ familiare e vagheggi continuamente per la casa . Si crede porti fortuna ed in maniera ossequiosa tutti i membri della famiglia le portano rispetto e deferenza stando attenti a non dire mai nulla  che possa offenderla . Essa protegge tutti coloro che in famiglia la amano e al contrario  pare sia molto vendicativa verso coloro che offendono la casa posta sotto la sua protezione: per non offenderla  non  bisogna mai dimenticare di salutarla  prima di uscire via di casa o quando si rientra a casa e lasciarle sempre un posto libero a tavola,. Se tutte le sedie fossero occupate la nostra amica potrebbe andare via con tutte le sciagure derivanti dalla mancata ospitalita’

Una leggenda napoletana vuole che Marina, una donna molto superstiziosa  credeva fermamente nell’esistenza di alcune famose e  leggendarie figure come i Munacialli, le Ianare e sopratutto credeva nell’esistenza della Bella Mbriana per cui lasciava sempre un posto vuoto a tavola e preparava un piatto in più perchè mangiasse anche lei. Gennaro, suo marito,  stufo di mangiare sempre la solita pasta e fagioli e sapendo che se si fosse lamentato personalmente la moglie gliela avrebbe fatta pagare,  un giorno decise di approfittare  a proprio tornaconto di questa sue fede verso la bella Mbriana  e disse a Marina che forse il motivo per cui la Bella Imbriana non mangiava mai il piatto che le preparava era perchè non le piacevano i fagioli e che se avesse continuato a farli la Bella Mbriana prima o poi si sarebbe scocciata di restare digiuna e se ne sarebbe andata.

La donna allora, spaventata dalla possibilità di offendere il bel fantasma e perdere la sua protezione, decise di cucinare qualcos’altro, ma aveva già cotto i fagioli e non c’era molto altro; così a metà cottura aggiunse, dopo averle bollite e sgusciate, delle cozze, insaporì con del peperoncino, e sperò di farla franca. Portò questo piatto a tavola, e tutti i commensali mangiarono. Quando ebbero finito il marito fece i complimenti alla moglie per il pasto davvero saporito. La moglie si guardò attorno e all’improvviso urlò: “Avevi ragione! Avevi ragione non le piace la pasta e fagioli!” Il marito allora si voltò verso il posto lasciato alla bella mbriana e notò che il piatto era vuoto. Da quel giorno  guai a non cucinare e lasciare un posto vuoto a tavola per la bella Mbriana ……

Come potete osservare da queste leggenda , a Napoli , nella preparazione di questo prelibato piatto la pasta viene cotta direttamente insieme ai legumi, invece di essere cotta a parte e poi aggiunta ai fagioli. Con questa preparazione tutto l’amido della pasta, che andrebbe invece perso scolando la pasta, viene conservato. Un’altra caratteristica della versione napoletana è che la pasta deve essere rigorosamente mista (a Napoli si chiama “la munuzzaglia)”, mentre il fagiolo deve essere quello bianco, ovvero il cannellino, che unito alla pasta crea un sugo più denso e cremoso (“azzeccato” in napoletano). A tal proposito, a fine cottura, è importante che la pasta riposi, nel piatto o nella pentola, per qualche minuto prima di essere mangiata. È chiaro dunque, che nella versione partenopea, questo piatto non deve essere assolutamente essere brodoso .

A Napoli di pasta e fagioli ne esistono due versioni: c’è chi la preferisce bianca e chi con il pomodorino. Molto popolare, nella cucina napoletana, è anche l’aggiunta delle cotiche o delle cozze per rendere la pietanza più ricca. Che sia bianco, rosso, con le cotiche o con le cozze, si tratta di un piatto talmente buono che si usa mangiarlo anche freddo . Frequente  tra i napoletani è infatti presente anche l’uso di consumare la pasta e fagioli eventualmente avanzata il giorno successivo alla preparazione ( data l’ottima conservabilità ) che secondo molti poiché ‘ riposata ‘ e’ ancora più buona .

Eduardo De Filippo in “Natale in Casa Cupiello” diceva: “Io lo so che quando si fanno i fagioli in casa mia si fanno che possono bastare per tre giorni, perché ci piace di mangiarli freddi al giorno appresso, e pure riscaldati la sera.. ..

Pasta e fasul”, è  comunque un piatto tipico napoletano che risale a molti anni fa.  Si tratta, infatti, di una pietanza molto antica presente già all’epoca dei Romani .A quei tempi questo legume era consumato abitualmente ma non veniva ritenuto un cibo prelibato. Virgilio lo chiamava “vilem phaseulum” perchè abbondante, non per pochi eletti, e per questo non degno di dare il proprio nome alle illustri famiglie (al contrario di altri legumi: Pisoni-piselli, Lentulo-lenticchie, Fabia-fava).

Durante il Medioevo, la facilità della sua coltivazione e le notevoli proprietà nutritive lo resero un alimento  del popolo e dei conventi: veniva utilizzato come ingrediente nelle zuppe  o come contorno di carni con le quali veniva cotto e prima dell’arrivo della pasta secca, erano già presenti le zuppe di fagioli, cucinate con ortaggi e spezie, all’interno delle quali ci si inzuppava il pane.

Il termine  “ fasul  ”  invece è niente altro che una variante  di “fasselo o fasolo” con cui all’epoca veniva chiamato in italiano il fagiolo.

Importati dall’America nel XVI secolo ed ora cibo consumato su tutte le tavole d’Italia, i fagioli , in tempi di guerra, erano chiamati “la carne dei poveri” per il loro alto valore nutritivo,

Per la sua preparazione si era solito tenerli in un recipiente per l’ intera notte in acqua fredda  fuori al balcone o uno spazio antestante l’abitazione perchè in tal modo essi come tutti i legumi ,(sopratutto quando secchi ) se prima non subiscono un cosidetto processo di ” ammollo ” restano duri come sassi e risultano difficili da mangiare.

I legumi sono infatti ricchi di semi ricchi di amido e proteine, ricoperti da una buccia composta principalmente da fibre. L’amido all’interno del seme si trova sotto forma di granuli  molto compatti e tali restano durante la cottura se prima non si mettono a bagno . In questa fase , i granuli di amido in essi presenti infatti  si gonfiano  d’acqua ,  permettendo all’amido di “gelatinizzare ” trasformandosi in una massa tenera e pastosa e permettere al fagiolo quindi di rammolirsi.

CURIOSITA’: Intorno a questa pratica di tenere i legumi in acqua fredda per tutta la notte si racconta nelle credenze popolari che i legumi vanno invece messi in pentola ed esposti all’aperto solo perchè essi in questo modo , attraverso la brina della notte , o ancor meglio con la pioggia , hanno così modo di  “purificarsi ” con le lacrime degli angeli ….

I legumi tutti , infatti , per colpa delle lenticchie , sono stati nel tempo considerati un cibo ” maledetto “o quantomeno protagonisti del ” peccato “, e questo grazie ad un famoso episodio biblico che vide protagonista due fratelli di nome  Esaù, e Giacobbe entrambi figli di Isacco.

Esaù era il primogenito e la  primogenitura con la conseguente  benedizione del padre nell’Antico Testamento avevano un grande significato e una grande importanza. Il primogenito era infatti  il figlio che aveva più privilegi degli altri figli e la conseguente  benedizione del padre era considerata qualcosa che fosse fatta da  Dio stesso in persona (  cioè ogni cosa che il padre pronunziava su suo figlio Dio la concedeva ).

Ma qualcosa andò storto ….

Infatti un giono Esaù torna a casa stanco di lavoro e affamato e vede che Giacobbe aveva cucinato le lenticchie, così, gli chiede da mangiare. Il fratello furbamente pretende in cambio i diritti di primogenito, che consistevano nel regnare il popolo d’Israele. Esaù, senza riflettere molto, accettò la richiesta del fratello …

Egli quindi per un semplice piatto  di lenticchie ( e quindi legumi )vendette il suo diritto di primogenitura, qualcosa cioè di molto prezioso (il futuro possesso della terra di Canaan per i figli dei suoi figli secondo  il patto fatto con Abramo in riferimento a Cristo ).

Da quel momento le lenticchie divvennero sinonimo di negatività e antitesi cattolica verso Cristo ….. Esaù aveva disprezzato la primogenitura, e non aveva rispettato i suoi genitori  ( è scritto che Dio amò Giacobbe e odiò Esaù (Mal. 1:2 – Rom. 9:13).

… e per riabilitarsi le lenticchie  ed i legumi da quel giorno per i napoletani dovevano prima essere purificati con le ” lacrime degli angeli ” .

Nel linguaggio popolare diedero addirittura luogo ad un’espressione ancora oggi molto usata in senso dispregiativo : ”  se vennut p nu piatt e lnticchie ” ( si  è venduto per un piatto di lenticchie  “.

Tale affermazione negativa si è poi con iltempo estesa a tutti i legumi e con essa si era solito un modo per  indicare che una cosa molto preziosa e importante viene venduta o scambiata per una cosa di valore irrisorio, sicuramente insignificante rispetto a quello che si dà in cambio, allo scopo di avere un vantaggio immediato.

Quello che conta , comunque è “l’ammollo ” dei fagioli che come vedete anch’essi in quanto legumi , come anche i ceci hanno subito  le conseguenze popolari dell’episodio biblico che racconta come Esaù, primogenito di Isacco, cede al fratello Giacobbe la primogenitura in cambio di un piatto di lenticchie.

Ma ricordatevi che il vero tempo dell’ammollo non è uguale per tutti i legumi : esso  varia in funzione del tipo di legume, dello spessore e della dimensione della buccia.

Per le lenticchie   ad esempio, possono essere sufficienti 6-8 ore di ammollo, per i fagioli almeno 8-12, per i ceci e le cicerchie da 12 a 36.

CURIOSITA’: Esistono molte varietà di fagioli : Ci sono per esempio  i borlotti, i bianchi di Spagna, i cannellini . i corona spagnoli e tanti altri ancora .

Nella cucina napoletana comunque la pasta viene spesso cotta anche con altri legumi, come  piselli ,  lenticchie , ceci (Lampe e tuone, ) zucca ( Cocozza ) o  cavoli in bianco.

 

 

Prima di lasciare del tutto i nostri legumi , ed in maniera particolare le lenticchie , dovete sapere che intorno ad esse vi è un altro importante valore simbolico molto tenuto in considerazione dai napoletani .

Mangiare lenticchie l’ultima sera dell’anno , secondo un’antica leggenda  è un qualcosa che     porta fortuna:  mangiarle , secondo una tramandata tradizione , chiamerebbe a sé fortuna e denaro durante l’anno nuovo. 

La tradizione nasce addirittura dai tempi degli antichi romani che erano soliti regalare ad amici e familiari una borsa di cuoio chiamata ” scarsella “, piena di lenticchie come augurio di buona sorte,  prosperità e denaro (agli antichi romani ricordava la forma di una moneta ) .

L’augurio era che si trasformassero in monete,

N.B.  Il nome lenticchia deriva dal latino “lens”, o lenticula.

Nella nostra città se quindi vi trovate a soggiornare nei giorni natalizi , sappiate che sulla tavola del cenone di capodanno troverete certamente le lenticchie che solitamente viene servito  accompagnato al cotechino .

Questo solo per augurarvi un nuovo  ricco anno .

Secondo l’usanza, non potete rifiutare tale pietanza ….  mangiare una fetta di cotechino con le lenticchie, sarebbe di buon auspicio per il nuovo anno.

Le lenticchie, infatti, con la loro forma tonda ricordano le monete, simbolo di ricchezza, mentre il cotechino è invece un cibo grasso che in passato era considerato simbolo di opulenza.

 

Una piccola parola  infine vorrei spenderla per la pasta e ceci chiamata dai nostri progenitori Lampe e tuone.. Per chi non è avvezzzo alla lingua napoletana, significa : lampi e tuoni. Si tratta di un piatto povero ma nutriente perché i ceci – come tutti i legumi – contengono una notevole quantità di proteine che integra l’apporto nutritivo della pasta, tipicamente ricca di carboidrati..

E’ un piatto ancora molto usato nella cucina napoletana e viene particolarmente  preparato durante il primo giorno di quaresima.

Mi raccomando solo una cosa . Quando preparate questa ricetta usate  i ceci secchi e non quelli precotti, e cuoceteli  in un recipiente di creta  per fare la  differenza. con gli altri . Questa è la vera ricetta tradizionale della pasta e ceci napoletana.

Ora vi starete domandando del perchè questo strano soprannome …..pasta e ceci viene chiamata  “lampe e ttruoni” (lampi e tuoni) per via dell’effetto, o meglio tempesta, che questi legumi provocano al nostro intestino durante la digestione.

 

Prima di lasciarvi al riso voglio ricordarvi che esiste anche la possibilità’  di  cucinare la pasta  al forno .

Tra le varie preparazioni al forno, le lasagne e i cannelloni la fanno sicuramente da padrone. La lasagna napoletana prevede ragù, polpettine, ricotta e fiordilatte o caciocavallo.

I cannelloni napoletani fatti con ricotta e mozzarella  vengono conditi anch’essi tradizionalmente con ragù di carne e rappresenta  in assoluto uno dei  piatti perfetti per i giorni di festa e per il  pranzo in famiglia la domenica .   Anche in questo caso ,la  ricetta originale napoletana  non prevede la besciamella .

Mi piace anche ricordarvi i tipici piatti delle grandi feste . Ad esempio ricordiamo il tipico  pranzo di Natale dove a farla da padrone troviamo spesso  la minestra maritata oppure i tagliolini in brodo di gallina oppure la cena della vigilia dove  tipicamente si festeggia con spaghetti alle vongole seguiti dal capitone  (tagliato a pezzi ) e baccalà entrambi fritti , e accompagnati dall’insalata di rinforzo preparata con cavolfiore lesso, sottaceti, peperoni tondi sottaceto dolci o piccanti (le pupaccelle), ulive e acciughe sotto sale .

Sapete perchè si chiama di rinforzo ?  Semplicemente perchè doveva ” rinforzare ” la povera cena di magro del periodo quaresimale imposto dalla chiesa cattolica attraverso  nuove direttive provenienti nel 500 dal Concilio di Trento . A tal proposito si racconta che i priori dei conventi napoletani , visto il divieto di mangiare carne durante l’avvento di giornate considerate sacre , si rivolsero addirittura in pieno 800 . al più grande cuoco di allora , il mitico Ippolito Cavalcanti , duca di Buonvicino, al fine di inventare un paio di ricette senza carne che potessero ” rinforzare ” il povero pranzo di magro che fossero  però ugualmente gustose. Nacque così , la prima versione poi nei secoli aggiornata , dell’insalata di rinforzo che doveva per principio riempire lo stomaco e aiutare l’astinenza sacrificale dalla carne.

Ma vi raccomando , al pranzo di Natale , non dimenticate i broccoli napoletani !

I broccoli all’insalata  lessati  in una pentola  (con acqua bollente  salata ) , raffreddati e portati in tavola con aglio spezzettato, olio extravergine d’oliva e  succo di un limone appena spremuto ,  è un piatto che non può  mancare nel menu della vigilia di  Natale  La ricetta tipica della Campania prevede l’utilizzo del broccolo nero detto anche broccolone, ma in alternativa potete usare quello di rapa che è molto più dolce.
I broccoli lessi ricchi di principi nutritivi ricordatevi che sono ideali per le diete dimagranti in quanto apportano pochissime calorie e soprattutto sono molto efficaci nelle situazioni di estremo affaticamento, di carenze vitaminiche e utili nelle situazioni di nervosismo ed eccessiva irritabilità.Poichè durante la loro cottura emanano un cattivo odore dovuto alla presenza di zolfo , secondo vecchie massaie basta spremere un po’ di succo di limone nell’acqua di cottura per evitare tutto questo.

Questo , insieme a cavoli e scarole , era uno dei piatti più consumati dai napoletani nel 600 , quando erano ancora soprannominati MANGIAFOGLIE . Essi crescevano numerosi e rigogliosi nelle terre degli orti che circondavano i confini dell’allora città di Napoli . La zona più ricca di broccoli era la collina del Vomero , tanto è vero che quando ci si recava al Vomero si usava dire ” vaco ‘mmiez ‘e vruoccole ” cioè vado fra i broccoli.

Il nome stesso Vomero deriva da un antico casale  che si trovava in collina chiamato  “casale del Vommaro” dove pare si svolgesse a quel tempo una sorta di palio tra contadini che gareggiavano a chi facesse il solco più dritto con i vomeri , un attrezzo normalmente usato dai contadini per arare il terreno ; periodicamente nei giorno festivi , i contadini della collina erano soliti sfidarsi al gioco del “vomere ” e dalla città non mancavano di affluirvi un gran numero di curiose persone  ad assistere al passatempo al grido di “jammo a vedè ‘o juoco d’’o vommaro”, trasferendo così al luogo il nome dell’attrezzo. Il divertente gioco sanciva come vincitore chi, con il vomere (la lama) dell’aratro, avesse tracciato un solco quanto più possibile dritto.

Il Vomero è stato quindi per lungo tempo un luogo prevalentemente agricolo sopratutto  rinomata, per i suoi broccoli  e con i suoi piccoli villaggi e casali costituiva una periferia agricola, per la maggior parte disabitata e lontana dalla città di Napoli. Esso è  stato , per secoli , grazie alla gran massa di verdure coltivate soprannominata ‘ la collina dei broccoli ‘.

A proposito di verdure dimenticavo di dirvi che la pizza di scarole è la tipica merenda di mezzogiorno che si è solito  mangiare nei giorni di cenone del 24 e del 31 dicembre per mantenersi leggeri in attesa del  luculliano pasto serale della vigilia .

A Napoli esistono due tipi di scarole : la riccia e la liscia . Quella riccia la ritroviamo solitamente nella immancabile insalata di rinforzo mentre la liscia  viene cucinata da tempi antichi alla “monachina ” cioè prima lessata in acqua salata e poi saltata in padella con olio , aglio, acciughe,   capperi ed olive nere di Gaeta .

 

A proposito sapete perchè abbiamo l’usanza di mangiare il capitone a Natale ?

Si tratta di un’usanza antica, che ha un preciso significato religioso. Il capitone, con le sue sembianze da rettile, rappresenterebbe il  serpente  e quindi il  demonio .Esso doveva ( deve )  essere acquistato il 23 dicembre, portato vivo a casa e ucciso da una  donna , allegoria della  Madonna che schiaccia con il piede il tentatore. Mangiare il capitone, per la tradizione, è dunque un modo per allontanare il male .  

A Pasqua invece il piatto principale  è il casatiello, anche consumato il giorno di pasquetta durante le gite fuori porta, accompagnato dalla fellata, banchetto di affettati misti (principalmente salame e capocollo), ricotta salata e uova sode, oppure da agnello o capretto al forno con patate e piselli ( ‘o ruoto ‘o furno ).Per quest’ultima pietanza che non manca mai sul  tavolo del pranzo di Pasqua bisogna ben distinguere la differenza tra agnello e capretto.

Premesso che in questo caso la carne dell’animale che ha già brucato erba si presenta  scura , grassa e con un sapore intenso che sa di selvatico ,bisogna subito dire che ovviamente  la migliore carne ovina  è quella del capretto o agnello che quando arriva al nostro tavolo ,  è stato fino a quel momento , nutrito esclusivamente con latte materno . In questo caso la carne si presenta rosa chiaro, appare tenera , ha un sapore più delicato  , ed un  bassissimo contenuto calorico .

Va da se quindi che il migliore agnello a tavola è quello comunemente conosciuto in alcune regioni italiane (in special modo Lazio) come abbacchio, che viene nutrito solo ed esclusivamente con latte materno  ( quindi non ha mai brucato ) e viene abbattuto entro e non oltre le prime 4 settimane di vita .  Esso è certamente il più costoso perchè in un certo senso  più pregiato .

Il  termine abbacchio deriva dal latino “baculus” che significa bastone ed indica il pezzo di legno al quale l’animale veniva legato durante il pascolo e con cui veniva poi ucciso. Ecco perché quando una persona è abbattutaaffranta o particolarmente giù di morale si dice abbacchiata“.

Il corrispondente dell’agnello da latte ( abbacchio ) è la carne di capretto che quando viene servito a tavola , non aveva in vita ,raggiunto ancora il primo anno con un peso oscillante tra un minimo di 6 kg ad un massimo di 12 kg . La sua carne ,molto pregiata ha un colore bianco ed è   caratterizzate da una  grana finissima , un sapore intenso ed un tipico odore di latte. Anche questa carne come avete potuto capire  è di ottima qualità ed ha un costo maggiore.

L’agnello che abitualmente mangiamo è , diciamo il piccolo della  pecora ( il capretto è invece il piccolo della capra )  che ha già iniziato a brucare e normalmente quando viene utilizzato per essere portato a tavola ha un’età di 4-10 mesi ed un peso di circa 10 kg. Le carni si presentano grasse scure e con un  sapore molto intenso  (più l’animale ha brucato erba e più sono scure e sanno di selvatico). E’ovviamente venduto ad un prezzo più economico.

Ma con un buon compromesso potete trovare anche un agnello maturo che è stato nutrito fino al sesto mese solo e sempre con erba . In questo caso  la carne è bianca ma più dura rispetto all’agnello da latte ed è caratterizzata da un sapore molto forte e peculiare.
L’ importante è che non vi facciate rifilare un agnellone ( animale adulto , il cui peso può raggiungere anche i 60 Kg  ) per agnello di latte . Questo tipo di carne è  più dura e adatta per essere consumata sotto forma di stufato o in umido. Insomma vi hanno fregato!

Un’ultimo consiglio . Ricordatevi che a Napoli il  miglior capretto per tradizione proviene da Sant’Anastasia, e  non perchè il capretto sia nato e cresciuto  nel paese vesuviano  ma  perchè i commercianti locali di carne sanno selezionare i migliori capi di agnello e capretto con una competenza maturata nei secoli scorsi quando vigeva la pratica della transumanza delle greggi dai pascoli erbosi dell’Abruzzo, Molise e Irpinia . I macellai della zona , anche dopo la fine della  pratica della transumanza , hanno mantenuto la competenza nella selezione e nel commercio dei caprini , per cui dire capretto di Sant’Anastasia equivale oggi a Napoli , dire il miglior capretto possibile reperibile sul mercato.

Lasciamo la carne e passiamo ai dolci pasquali.

Il dolce tipico di Pasqua è la pastiera, un dolce realizzato tradizionalmente in casa, del quale esistono molte varianti con leggere differenze in ciascuna famiglia.

Ma ricordate che alla fine di tutti i pasti di Natale e di Pasqua è assolutamente obbligatorio mangiare le “sciosciole ” , cioè i tradizionali  spassatiempo ( già sapete ) cui vanno aggiunti  frutta secca, uva passita, datteri, e pinoli  per continuare a restare ancora tutti insieme a tavola  (  sgranocchiare per passatempo ).

Secondo molti esperti , il termine ” sciosciole ” deriva da ” flacces” che tradotto significa bucce mentre secondo altri il termine deriva solo dal classico rumore prodotto dai commensali quando questi rimescolano nel cesto la frutta secca.

 

 

 

Come  avete potete vedere , la pasta e’ la vera regina della tavola napoletana. Essa in città ha una lunga e storica tradizione risalente al XIV secolo ed il cuore della sua produzione è stato per lungo tempo la zona orientale della città ( Torre Annunziata,Castellammare di Stabia , Gragnano ) ma sopratutto la piccola cittadina campana di Gragnano,  ancora oggi ricca di numerosi pastifici.. Un tempo la sua principale ( Via Roma ) era ricca di scanni di legno con la pasta appesa  ad asciugarsi al sole  su delle canne lungo i marciapiedi e l’intera zona era ricca di mulini funzionanti grazie ad un’acqua sorgiva a basso contenuto di calcio proveniente dai monti Lattari. I filari di pasta , alti poco più di un metro , servivano per essicare la pasta e secondo molti  questo processo era proprio il segreto della maggiore bontà della pasta di Gragnano rispetto alle altre , in quanto durante questa essicazione pare che la pasta si impregnasse di una leggera umida brezza che nascendo dal mare e passando per i monti portasse alla pasta messa ad aciugare insieme alla luce ed al calore del sole , un particolare profumo e sapore .Era insomma il  posto dove esistevano le  condizioni ideali per essiccarla e conservare la pasta . Il 12 luglio del 1845 , il re Ferdinando II di Borbone , durante un pranzo concesse  addirittura ai fabbricanti gragnanesi  l’alto priviliegio di fornire la corte di tutte le paste lunghe .

Per avere un’idea del fenomeno basta pensare che nel periodo d’oro della pasta di Gragnano , ossia nella prima metà del XIX secolo , in paese c’erano almeno 75 pastifici che davano lavoro a più di due terzi della popolazione attiva . Una quarantina erano dislocati proprio lungo Via Roma .

 

Ora tutti questi Opifici hanno oramai chiuso schiacciati da una crisi che nel novecento è passata attraverso vari cicli ed è stata coronata dal terremoto del 1980 . La Via Roma della pasta oramai purtroppo appartiene al passato ed è frequentata semmai dagli estimatori del panuozzo , un’alternativa alla pizza  tradizione fatta imbottendo un pezzo di pane stretto e lungo fatto con la stessa pasta delle pizze , inventata qui un paio di decenni fa e che sembra riscuotere un buon successo. Ad avere imposto il cambiamento è stata la proibizione , per ragioni igieniche , di esporre la pasta ad essicare all’aperto .

Il panuozzo è sostanzialmente una pizza al forno lunga circa 30 cm. imbottita e consumata calda . La versione originale è quella farcita con pancetta e mozzarella ma può  essere anche farcita in tanti altri modi diversi con mozzarella, pomodori, verdure, affettati e salsiccia e friarielli.

La sua cottura avviene nel forno a legna in due fasi : nella prima cottura si cuoce l’impasto e poi lo si divide a metà , mentre nella seconda fase che dura solo pochi minuti , la cottura consente  alla farcitura di amalgamarsi con l’impasto.

Il paese oggi conta oggi solo una dozzina di stabilimenti , eppure non si respira aria di crisi visto che da soli producono una quantità di pasta pari al 5% della produzione nazionale.

 

Nella cucina napoletana vi sono molte varietà di pasta e oltre a quella classiche come spaghetti , vermicelli , linguine e bucatini troviamo anche i paccheri e gli ziti che tradizionalmente vengono spezzati a mano, prima di essere cotti e conditi con il  ragù . Per la preparazione di pasta con i legumi  viene usata anche la pasta mista (pasta ammescata), una volta venduta a prezzo più basso perché risultante dai rimasugli spezzati degli altri formati, ma oggi venduta come un formato a sé stante . Vi sono anche formati meno tradizionali, ma oggi molto diffusi, tra i quali gli  scialatielli .

Il nome scialatielli deriva da due parole napoletane : scialare , cioè godere e tiella ( padella ) . Esse sono striscioline di pasta di circa 15 cm.e larghe meno di 1 cm. che si accompagnano bene sopratutto con frutti di mare e crostacei , ma anche con sughi a base di mozzarella , pomodori, e verdure .A Napoli sono spessi protagonisti di un prelibato piatto che li vede in compagnia dell’astice .Il loro nome deriva dal termine ” tiella se scialava ” ( la padella godeva ) da cui sciala-tiella.

 

L’astice ve lo consiglio anche con le linguine . Un piatto meraviglioso .

 

A Napoli sono considerati molto importanti anche i tempi di cottura della pasta, che deve essere ben “al dente”,  ( in particolare se deve essere successivamente mantecata in padella  ) e la trafilatura della pasta . La trafila è quell’attrezzo che grazie a dei buchi sagomati determina  durante la produzione , la forma della pasta. La trafila tradizionalmente deve essere fatta da  buchi sagomati  in bronzo e non in acciaio in quanto le paste trafilate in bronzo hanno un aspetto per così dire più rustico. Sono infatti più ruvide,  una caratteristica importante al fine di trattenere i sughi con cui usualmente la pasta è condita.

I tipi di pasta sono sostanzialmente divisi in pasta lunga e pasta corta :

La pasta lunga  comprende :spaghetti , vermicelli ,linguine ,fettuccine,Reginette, bucatini, e ziti,

La pasta corta comprende invece :penne, rigatoni, tortiglioni, sedanini, gramigna, fusilli, pipette, conchiglioni, farfalle ,paccheri, mezzi paccheri , e calamarata,

Spaghetti

Lunghi 25 cm si divide in base al diametro  in almeno tre diversi tipi (  spaghetti classici, spaghettini e spaghetti grossi ) a cui si aggiungono i capellini e gli spaghetti quadrati ( alla chitarra ) . Gli spaghetti si abbinano bene a molti sughi e condimenti , dal più semplice fatto con olio ,aglio e peperoncino a quelli più eleganti fatti con scoglio ,crostacei e molluschi ma non vanno mai abbinati con il ragù.

 

Spaghetti

 

Linguine

Linguine

Lunghi anche loro 25 cm ma invece di di avere la forma cilindrica hanno la sezione appiattita . In bocca  hanno una consistenza un po’ viscida , e quindi vanno abbinate ad un condimento che riesca a sgrassarle, magari abbinandole alla buccia di limone grattugiata, oppure al pangrattato o ancora ad una granella di  noci o pistacchio , oppure con il pesto.

Vermicelli

Vermicelli

Quasi la stessa misura dei spaghetti  ma con  un diametro più grande, ( poco più di 2 mm )  si prestano a sughi molto robusti, poiché sono più corposi, assorbono di più il sugo e mantengono bene la cottura. Vano quindi bene abbinati  li vedrei bene, ad esempio, abbinati ad un ragù di selvaggina,( lepre o cinghiale ) .

Fettuccine

Fettuccine

Esse  sono la risposta della pasta secca alle tagliatelle, anche se appiattite e più corte .Possono essere anche fatte in casa con uova e farina, come una classica pasta fresca  e in alcuni casi anche nella versione “verde” con gli spinaci  Le fettuccine si sposano bene con , prosciutto, panna,  burro , cipolle  e parmigiano.

Reginette o Mafaldine

Reginette

Sono così chiamate in onore della Regina Mafalda di Savoia e sono una sorta di fettuccine con i bordi zigrinati come a voler replicare una corona regale, appunto.  Si abbinano bene  con il sugo di tonno, e sugo alle verdure,  fatti però con passata di pomodoro  altrimenti risultano  troppo asciutte.

Ziti

Ziti

Gli  ziti sono la pasta ideale per il ragù . A Napoli si suol dire  ” la morte sua”  ( intesa come migliore combinazione possibile ) . Essi  sono come degli enormi bucatini, con un buco centrale più grande e  generalmente vengono spezzati prima di immergerli in acqua bollente.

Bucatini

Bucatini

Sono spaghettoni con un piccolo foro centrale, sono ideali  per la matriciana,   il cacio e pepe e la carbonara  Essi  anche se sono più grossi degli spaghetti hanno una  lo cottura rapida poiché l’acqua attraversa il buco centrale e permette una cottura rapida di tutta la superficie. 

Penne

Penne

E’ il  secondo formato di pasta più venduto dopo gli spaghetti,. Esistono principalmente tre  varianti: di questo particolare tipo di pasta che si adatta   ad un’infinità di condimenti  ed  in particolare con la penna all’arrabbiata .

Rigatoni e tortiglioni

Rigatoni

I rigatoni  sono un formato di pasta di circa 46 mm di lunghezza e 11 mm di diametro, forati al centro, così come i  tortiglioni .

i due formati si differenziano per il fatto che i rigatoni sono lineari e dritti, mentre i tortiglioni sono un po’ arcuati. Entrambi sono rigati, caratteristica che permette loro di raccogliere il sugo e molti condimenti  sia bianchi che rossi.

Sedanini

Sedanini

I sedanini sono dei piccoli rigatoni, sempre rigati e in grado di trattenere bene il condimento scelto, hanno 40 mm di lunghezza e 5 mm di diametro. Sono in genere  impiegati per creare  timballi  di pasta al forno. Alcune ricette tipiche della cucina partenopea li vede impiegati anche in zuppe e minestre.

Gramigna

Gramigna

E’ spesso chiamata anche “paglia e fieno” per via del fatto che ha due colori,  sia giallo che quella classica, di semola di grando duro e verde  (  contiene  gli spinaci nell’impasto. )La ricetta tipica della granìmigna è con il ragù di salsiccia  La gramigna è  così chiamata perché ricorda la forma del seme della pianta di gramigna.

Fusilli

Fusilli

Sono un formato di pasta attorcigliato su se stesso, simile a delle viti.Ottimi con la ricotta .

Pipette e conchiglioni

Conchiglioni

Somiglianza entrambe a  delle conchiglie, con l’unica differenza che le pipette sono più piccole. Sono due formati di pasta molto interessanti, che si prestano a raccogliere il sugo  o f essere farciti con piselli o ricotta e spinaci .

Farfalle

Farfalle

Per la loro forma  non mantengono la cottura in maniera uniforme e per questo vanno bene con le insalate di pasta estive ma  si adattano bene anche se abbinate ad un caldo brodo invernale .

 

Paccheri, mezzi paccheri e calamarata

Paccheri

I paccheri sono come dei grandi rigatoni, lisci e non rigati, ma dalla consistenza ruvida e porosa che assorbono  benissimo il condimento.  Da noi solitamente  vengono  impiegati in tantissimi primi piatti, con un sugo di pesce, al forno,  e ripieni.
Esistono poi altri due formati derivanti dai paccheri: i  mezzi paccheri (sempre lisci ma grandi la metà) e la  calamarata (la metà della metà dei paccheri).

 

E non dimenticate la pasta mista  o, come si chiama a Napoli pasta ammiscata,.

Essa viene ormai da tempo venduta come un formato a sé, ma quella autentica è una cosa del tutto diversa, nata dall’esigenza e dall’abitudine di non sprecare nulla. Fino a una cinquantina di anni fa la pasta, insieme molti altri generi, veniva venduta sfusa e negli Alimentari troneggiavano i grandi espositori appositi, dove i vari formati stavano in grandi cassetti con il frontale di vetro. Era inevitabile che nel fondo di questi cassetti rimanessero frammenti di pasta rotta e qualche  rimasuglio di spaghetti , di penne e di qualunque altro formato di pasta . Una volta raccolti, questi avanzi venivano venduti a un prezzo inferiore, più accessibile a chi doveva guardare anche ai centesimi, ed andavano benissimo per le minestre, specie per quelle di legumi.  Lo stesso succedeva o per la pasta e patate fatta in casa , dove le massaie utilizzano tutti i resti di pasta rimasti in dispensa .

 

Ma ricordate …….qualsiasi tipo di spaghetto o pasta che mangiate ricordatevi comunque di non buttate mai la pasta che avanza da in pasto o una cena perché possiamo il giorno dopo sempre fare una bella ‘ Frittata di maccheroni ‘.

Questo piatto tradizionale nasce infatti dall’esigenza di non buttare gli avanzi di pasta, che siano maccheroni o spaghetti, in bianco o conditi. In questa semplice ricetta la pasta viene condita con uova sbattute e formaggio e al piatto possono essere aggiunti tantissimi ingredienti, come salame e affettati, salsiccia, vari tipi di formaggi e tutto ciò che può essere avanzato nel frigo di casa. Il tutto viene poi ripassato in padella o al forno in modo che la pasta risulti compatta. ( la migliore frittata di maccheroni è quella fatta con la pasta di ragù avanzata ). Ma se volete identificare una buona frittata , ricordatevi che essa deve avere la faccia esterna coi maccheroni rosicarielli , ovvero rosolati ,croccanti . Il termine giusto è ” abbruscato ” e per ottenerlo dovete nuovamente friggere per qualche minuto , lo spaghetto già cotto ed intriso di olio e pomodoro . Solo così otterrete una gustosa crosticina.

La frittata , ha il vantaggio che può essere mangiata sia calda che fredda ed è ottima  per un picnic o un pranzo al sacco. E’  infatti è uno di quei piatti che si portano in gita o in spiaggia perchè si mangia con le mani  come se fosse un panino .

 

Ma ricordate che la frittata a Napoli non è solo di maccheroni . Essa può essere fatta anche con le cipolle  e vi assicuro che vale la pena provarla .

Le uova ovviamente rappresentano  anche nella cucina napoletana l’importante ruolo ruolo di secondo piatto veloce . Le famose uova al Tegamino note anche come Uova Fritte, Uova all’Occhio di Bue o Uova in Padella sono infatti  una delle  preparazioni più facili e veloci della nostra tradizione culinaria , già in auge in tempi antichi e sopratutto molto diffusa tra coloro che avevano meno disponibilità economiche.
Un piatto povero di origini antiche che si prepara in pochissimi istanti e che, se accompagnato da un bel pane cafone  può tranquillamente assolvere al ruolo di riempire lo stomaco.

Se proprio non avete idea di cosa preparare a pranzo e non avete molto tempo … pensate sempre alle uova . Sbattere due uova e imbottirle con quello che trovate in frigorifero vi può certamente venire incontro.

E’ così che è nato il cosidetto ” filoscio mbuttunato “, cioè la sottilissima frittata imbottita di mozzarella o provola , il cui nome proviene dal francese ” filosce “. La sua caratteristica principale è lo spessore che deve essere tanto sottile da consentire di poterlo cuocere da un solo lato. Quindi non è una comune frittata e neppure una tipica omelette francese ma una frittata imbottita con la mozzarella, che durante la cottura diventa filante e  tanto  snella da poter essere rigirata su se stessa in modo da  assumere una forma allungata e soffice .

 

Pur trattandosi di un piatto semplice, perchè preparato appunto con ingredienti essenziali e di basso costo, non bisogna sottovalutare la bontà del filoscio e della frittata. e la sua REALE importanza. Secondo alcuni racconti, infatti, si dice che a Carlo V di Spagna, reduce dalla campagna di Tunisi , durante il suo soggiorno in provincia di Salerno alla Certosa di Padula nel Vallo di Diano, fu offerta dai padri certosini proprio una deliziosa frittata..

Si tratta forse della più famosa e grande frittata della storia del Regno di Napoli . La presenza de re e del suo esercito nella Certosa fu celebrata dai frati , secondo leggenda , con un enorme frittata fatta addirittura con 1000 uova per sfamare tutto l’esercito del re . Ancora oggi , ogni anno , nella Certosa di Padula si rinnova l’evento per celebrare l’episodio storico.

Filoscio , abbiamo detto deriva dal francese ” filosce ” . Non dimentichiamo mai infatti la grossa rivoluzione apportata alla nostra cucina nella seconda metà del settecento dai nobili cuochi francesi  ( monzù ) giunti a Napoli per volere della regina Maria Carolina . A questa rivoluzione non potè sottrarsi nemmeno l’uovo che venne imbracato dalla besciamella , una salsa tutta francese che i napoletani con tono distaccato ed insulso chiamarono per lungo tempo ” a colla po ‘o presepio ” . Essa non ebbe come avete potuto capire grande successo , era una cosa cremolata che proprio non piaceva ai napoletani che non mancarono di inserirla negli alimenti chiamati ” sauce ” ( si legge sos da cui soza e poi zoza ).

L’uovo in questione , che vedeva la besciamella amalgamata ai  tuorli di uova sode era per la cronaca una pietanza chiamata ” uova a munachina”.

L’uovo è stato per anni anche il nostro “ricostituente “quando da piccoli eravamo giù di corda o mezzi influenzati . Chi di voi è meno giovane come me certamente ricorda che un tempo le nostre mamme  , quando  ci vedevano un pò pallidi o stanchi sopratutto in inverno , erano solite prepararci l’uovo sbattuto: usavano ricordo , un uovo  che doveva rigorosamente essere freschissimo, appena deposto, si prendeva il tuorlo, si aggiungeva un cucchiaio di zucchero e si sbatteva con forza finchè non risultava spumoso e quasi bianco….l’alternativa era succhiarlo dal guscio con il buchetto fatto con l’ago,. M diciamoci la verità, ammettetelo , quello fatto con lo zucchero e sbattuto era molto più buono….

Ricordo ahimè anche altre cose strane per tirarci su sopratutto se il medico di famiglia ci vedeva un pò anemici  come la premuta di carne di cavallo premuta con lo schiacciapatate , messa in un bicchiere che dovevamo necessariamente bere , oppure la signora del piano di sopra che da improvvisata siringaia metteva a bollire il suo contenitore in acciaio che conteneva sempre la stessa siringa ma sopratutto lo stesso ago ( secondo lei ben sterilizzato .. ???”) . Ricordo purtroppo anche la dolce Euchessina ( si fà per dire ) od i confetti Falqui che dovavamo necessariamente prendere prima che incominciava la stagione del mare … ebbene si …. dovevamo assolutamente prima purgarci , altrimenti niente mare !!!

Ma ricordo anche con tenerezza le bottiglie di acqua fatte con l’Idrolitina (bustine molto in voga all’epoca per fare l’acqua frizzante).

Altri tempi !!!

Torniamo al nostro zabaione . Esso spesso si usava  darlo ai bambini anche con un goccio di caffè o addirittura miscelato con un liquore chiamato Marsala. Ricordo che esisteva anche una bottiglia bianca con un liquore già preparato  a base di uova ( il famoso Vov )  ma si tratta di un prodotto padovano … e quindi lasciamo stare ….

La mia nonna comunque , giusto per la cronaca preparava da sola il liquore all’uovo ed anche il famoso Nocillo.

Ho poi scoperto negli anni che ad inventare lo zabaione pare sia stato San Pasquale , il protettore dei cuochi e dei pasticceri . Si narra infatti che il fraticello consigliasse in confessione alle donne infelici che si lamentavano… dei mariti di dar loro un dolce da lui creato fatto con uovo sbattuto , zucchero e vino , (  appunto lo zabaione ) allo scopo di riaccendere la fiamma della passione .
Inoltre San Pasquale è anche protettore delle donne, in particolare di quelle che cercano marito. In Campania è diffusa anche una preghiera e un canto che recita:
«San Pasquale Baylonne protettore delle donne,
fammi trovare marito, bianco, rosso e colorito,
come te, tale e quale, o glorioso san Pasquale!».

 

Abbiamo parlato finora di uova e sopratutto pasta  e dovete sapere che ovviamente entrambi messi insieme formano un altro tipico piatto povero della cucina napoletane . gli spaghetti ‘a puverella .

Si tratta , per farla breve di una piccola variante dei già citati maccarune ‘e caso . La base è infatti simile , fatta con formaggio e pepe , e l’unica cosa che cambia , oltre alla pasta è l’aggiunta di un uovo alla coaque , appena scottato , messo al centro del piatto.

Questo piatto , non va però confuso con la ” pasta casa e ova ” in cui l’uovo questa volta viene aggiunto durante la cottura e strapazzato .

Se invece vogliamo lasciare la pasta e pensare magari ad un piatto a base di riso  che si associ al mare non possiamo che pensare ad un bel risotto alla pescatora con calamari, seppie ,  polipetti vongole , lupini , e gamberi cucinati in un brodo ottenuto dai gusci e dalle scorze dei gamberi.

Se invece non gradite l’accoppiata del riso con i molluschi ecco a voi servito direttamente da antiche ricette il Sartù di riso

Si tratta di un timballo di riso che può essere preparato in diverse varianti. Mia mamma per esempio lo faceva  con il ragù napoletano, piselli, pancetta, funghi, fior di latte o provola, polpettine di carne, salsicce e uova sode.

La pietanza nasce dalla fantasia dei cuochi francesi, che, alla corte del re Borbone Ferdinando I, nel 1700, inventarono questa gustosa ricetta per far apprezzare il riso, considerato dai nobili napoletani un cibo povero e poco saporito .

Dovete sapere infatti che Il riso arrivò per la prima volta nella città partenopea alla fine del XIV secolo, dalla Spagna, nelle stive delle navi degli Aragonesi ma non ebbe molto successo. A corte veniva definito “sciacquapanza ” cioè cibo povero e poco gustoso. Veniva utilizzato soprattutto come medicamento: i medici salernitani lo prescrivevano in bianco in caso di malattie intestinali o gastriche (in quel periodo c’erano epidemie, quali il colera). Così dal Sud fu importato al Nord Italia, dove iniziò ad essere coltivato.

Quando poi il re Ferdinando  sposò  Maria Carolina d’Austria che non amava la cucina partenopea, arrivarono a corte i più raffinati cuochi francesi:  I cosidetti Monsù ( dal francese “Monsieur“), chiamati a Napoli “ Morzù ”. Questi cuochi, consapevoli del fatto che i napoletani avessero una vera e propria avversione per il riso, decisero di renderlo più gustoso, aggiungendo ’a pummarola, piselli, uova sode, fior di latte, polpettine e salsicce: tutti ingredienti che venivano poi sistemati all’interno di un timballo di riso ricoperto da un mantello di pangrattato. Si trattava di un vero e proprio cammuffamento  per confondere il sapore del riso. Il piatto fu molto gradito dal  re , dai nobili e dai poveri divenendo ben presto uno dei piatti più amati dai napoletani. Oggi ne esistono due versioni: una bianca e una rossa. Ma anche gli ingredienti interni possono variare a seconda dei gusti.

 

Ma oltre al Sartu’  di riso direttamente proveniente dalla cucina più povera napoletana possiamo gustare anche  il riso con la verza che in genere viene insaporito da scorzette di formaggio parmigiano che fondono durante la cottura, o con cotiche di maiale o salsiccia.

Sono molto popolari e diffusi in città anche i famosi arancini detto in napoletano palle ‘e riso, più tipici però  della tradizione siciliana.

Prima di passare ai secondi piatti è bene ricordare che spesso il primo piatto può essere per i napoletani la sola classica tradizionale  Margherita o in alternativa il  “Calzone” napoletano  (una  pizza riempita di ricotta, salame, pepe e mozzarella ).

Il calzone napoletano, meglio conosciuto come “calzone ripieno al forno”, è una specialità  a base di pasta lievitata per pizza, farcita con ricotta e salame, oppure prosciutto cotto, con l’aggiunta del fior di latte. La stessa farcitura è prevista anche per la pizza fritta, che si distingue dal calzone al forno proprio per il tipo di cottura.

 

Se volete ordinare una pizza in una delle tante pizzerie napoletane ricordatevi sempre che quelle più tradizionali sono essenzialmente due: la marinara, condita con pomodoro, origano e aglio e la celebre margherita, che invece prevede pomodoro, mozzarella e basilico.

 

A proposito di Margherita . Sapete perchè si chiama così la pizza più famosa nel mondo ?

Tutto ha inizio quando il pizzaiolo Raffaele Esposito , titolare della pizzeria Brandi e’ chiamato a prestare il suo sevizio alla reggia di Capodimonte in occasione della visita a Napoli del re Umberto I e Margherita di Savoia. I sovrani vollero gustare una pizza , e la scelta dei cuochi di casa reale caddero sulla pizzeria Brandi di tradizione secolare .
Diedero pertanto ordine di preparare alcune pizze per i sovrani .
Raggiunta la reggia di Capodimonte a bordo di un calesse , i pizzaioli confezionarono tre diverse qualita’ di pizze : una bianca con olio , formaggio e basilico – una con i bianchetti secondo la tradizione antica ed una con mozzarella , pomodoro e basilico .
L’ultima fu pensata in onore dei sovrani e del giovane regno italico ,: egli pensa di unire il bianco della mozzarella al rosso del pomodoro e al verde del basilico formando cosi’ un tricolore che quindi poi cuoce nel forno a legno .
Quest’ultima venne particolarmente gradita dalla regina e pertanto si decise di rendere omaggio alla sovrana battezzandola con il nome ” margherita” che da allora divenne in assoluto la piu’ famosa delle pizze .(la regina lo ringrazio’ ufficialmente.

Ma ricordatevi che a Napoli c’è una lunga tradizione di cibi di strada,  da comprare e consumare a casa o per strada, avvolti nei classici “cuoppi” o in pacchetti di carta o semplicemente nei fogli di leggera velina alimentare .Il cuoppo classico è comunque un cartoccio a forma di cono che si riempie con ogni sorta di fritto e rappresenta il classico cibo da strada che si può consumare in compagnia o da soli magari in sostituzione del pranzo e della cena.

Esso è spesso  servito in strada,  nelle tipiche friggitorie, ma è presentato molto spesso anche in pizzeria come antipasto, servito a tavola con la sua tipica forma. Quando lo si ordina ricordatevi che bisogna fare una distinzione ben precisa, perché il cuoppo può contenere due tipologie diverse di fritti, da quelli che contengono solo pesce fritto a quelli che invece contengono mozzarelle impanate, crocchè, arancini e tanto altro.

Il cuoppo di mare viene  riempito con ingredienti a base di pesce. Ne sono un esempio i cuoppi di alici fritte, di baccalà fritto, arricchiti con le zeppoline di mare, ossia pasta cresciuta con alghe, oppure con anelli di calamari e moscardini passati prima nella farina e poi in padella.

 

Un tempo il cuoppo , sopratutto quelle con le alici fritte , era il cibo di strada preferito dai napoletani ; esse una volta  fritte venivano poi messe in un foglio di carta arrotolato  ( coppo ) e servite ancora fumanti. 

 

il cuoppo di terra, contiene invece   crocchè di patate, arancini di riso e zeppoline di pasta cresciuta. Ma c’è chi ci aggiunge anche delle verdure pastellate, come melanzane fritte , zucchine, fiori di zucca ripieni di ricotta e passati poi nella pastella. ( sciurilli ) Se c’è spazio, c’è anche chi aggiunge mini frittatine di pasta. Durante il fenomeno, un po’ scemato, delle patatinerie  partenopee, anche quelle erano servite nel cuoppo.

 

 

 

La frittura è stata da sempre una delle tecniche di cucina usate nel tempo dai napoletani e le alici erano certamente uno dei prodotti più usati , sia perchè il più adatto a questo tipo di cottura , sia perchè quello più accessibile alle tasche di tutti gli strati sociali e quindi anche alle più povere . Il sistema  più usato per  friggere era quello di usare  lo strutto in quanti solo pochi potevano permettersi l’uso del costoso olio di oliva che favoriva una cottura più leggera e quindi più digeribile.

Oggi In molte rosticcerie potrete anche trovare deliziose Frittatine di maccheroni, paste cresciute o arancini di riso in bianco con la provola o rossi con salsa carne e piselli, o i crocchè di patate con i latticini all’interno, le montanare e le  gustose pizze fritte sempre più presenti in città nelle sue due varianti : quella  fatta con scarole soffritte e condite con aglio, pinoli, uvetta, olive di Gaeta e capperi, ricoperta di una pasta semplice di farina, acqua e lievito e quella con ricotta riempita come già detto di ricotta, salame, pepe e mozzarella.Ma  anche la pizza  fatta con due pettole di impasto che racchiude il matrimonio culinario più riuscito nella cucina napoletana : salsiccie e friarielli .

In rosticceria sono oggi molto diffusi e apprezzati anche  i panini napoletani, che in realtà non sono panini veri e propri, bensì rustici imbottiti di salumi e formaggio. Si tratta di un impasto antico nato dalla cucina popolare napoletana quando  nei forni napoletani a volte avanzava un po di pasta che veniva poi guarnito con gli avanzi della cena o di quello cha avevano in casa a portata di mano come formaggi o salumi.

Nato quindi come umile rustico  viene oggi considerato una pietra miliare dello street food napoletano.

Napoli è comunque piena di friggitorie dove si trova anche il pollo allo spiedo, e locali pieni di cibo da portare via e mangiare per strada. Se siete tra quelli che non lo hanno mai fatto vi consigliamo di rimediare subito perché non sapete cosa vi siete persi.

 

Tra le fritture vanno citate anche le frittelle di fiori di zucca ( pastarelle di sciurille ) dove i fiori di zucca possono essere fritti sia interi sia vuoti che farciti con vari  tipi di ripieni .

Se invece vi trovate a passeggiare sul lungomare della nostra città ( cosa assolutamente da non perdere ) fatevi tentare dall’acquistare presso uno dei tanti chioschi presenti dei taralli ” nzogna e pepe “che vanno consumati caldi e accompagnati con una fresca birra. I taralli con sugna e pepe sono una delle ricette più caratteristiche della nostra città. Una prelibatezza senza tempo, povera, veloce e fin troppo comoda da mangiare, che tutt’oggi non può mancare come accompagnamento di un abbondante antipasto o di un aperitivo fra amici.

Essi hanno sempre rappresentato un mezzo per i napoletani  di un momento conviviale , amichevole e sereno. Spesso , in un incontro tra amici caratterizzato da qualche tensione , l’offerta dei taralli aiuta a distendere gli animi, al punto che poi quando una situazione difficile si stempera si è soliti dire : è fenuta ‘a tarallucce e vino  che letteralmente sta ad indicare  un evento  giunto a lieto fine al termine di una  situazione complessa come un litigio fra amici  o parenti che, per fortuna, si è risolta  in maniera pacifica .

Negli ultimi anni, però, l’espressione è stata usata anche in senso vagamente “spregiativo”, soprattutto in riferimento agli accordi politici, dove “finire a tarallucci e vino” significa che è stato trovato un compromesso utile ai fini di tutti i soggetti che inizialmente sembravano ostili e inavvicinabili, salvaguardando tutti gli interessi in campo.

Il tarallo con mandorle e pepeè nato secondo molti verso la fine del 700 ad opera dei fornai che invece di buttare via i ritagli rimanenti di pasta lievitata , aggiungendovi un pò di ‘nzogna “( strutto ) e parecchio pepe, riducevano la pasta a due striscioline e le attorcigliavano tra di loro a forma di ciambella di forma circolare che poi veniva infornata.. Un tempo era una risorsa alimentare molto economica che riempiva lo stomaco .

Secondo altre  fonti storiche, i primi taralli sono datati invece  intorno al 1400, quando non tutte le case disponevano di un forno: pertanto, nei giorni di festa le donne facevano la fila presso il forno pubblico per infornare la propria teglia di questi biscotti, che però nella maggior parte dei casi venivano  gustati presso le osterie , accompagnandoli con il vino, come aperitivo. Nelle case contadine, poi, vi era  la consuetudine  di  offrire tarallucci e vino  agli ospiti,  quale segno di cordialità e amicizia.

Un tempo a venderli per strada vi era la figura del tarallaro  ,  degli ambulanti , che percorrendo  vicoli  e strade , giravano per la città con piccoli carretti o banchetti  dove i taralli venivano tenuti al caldo .  Spesso li si vedeva girare   avanti e indietro per la città  con la cosiddetta  sporta , cioè  un cesto di vimini intrecciato, ricolmo di  caldissimi taralli nzogna e pepe ,poggiato sul capo o tenuto a tracolla sulle spalle .

Ad acquistarli erano spesso  ragazzi che bazzicavano per le strade o casalinghe che prontamente calavano il paniere al loro passaggio.

La loro figura ha dato nel tempo luogo ad una simpatica espressione napoletana che dice: Pare ‘a sporta d’o tarallaro , che tradotto letteralmente, significa “Sembri il cesto del tarallaro”. Un’espressione verbale che sta ad  indicare colui che, per una qualsiasi ragione, sia solito spostarsi continuamente o  costretto a  girare la città in lungo e largo per smaltire l’intera merce di giornata..

Oggi la figura del tarallaro è quasi del tutto sparita ed i taralli possono tranquillamente essere  acquistati nelle numerose panetterie presenti in città. L’ultimo  esponente della lunga tradizione di questi venditori è stato  fino alla fine degli anni ’80, il mitico Fortunato celebrato da Pino Daniele in una sua famosa canzone . Egli era un povero tarallaro  , che attraversava in lungo ed in largo la città con la sua cesta colma di taralli con un semplice passeggino su cui  era messo in evidenza un cartello con la scritta “LA DITTA FORTUNATO RESTA CHIUSO IL LUNEDì”. Fortunato davvero era una vera e propria ditta racchiusa in una sola persona: lui cucinava i taralli, lui li metteva in commercio e lui li pubblicizzava urlando “Fortunato tene a rrobba bella! ‘Nzogna ‘nzogn”.

Una frase ormai diventata storia che ha persino  ispirato a  suo tempo  il grande Pino Daniele a scrivere una canzone dal titolo “Fortunato”.

Con la sua scomparsa è andato via l’ultimo baluardo di un modo di vendere e mangiare diverso, un uomo sempre sorridente che ricordava a memoria i nomi delle sue affezionate clienti, che chiamava per farle affacciare, che mostrava tutto l’amore per la sua “ditta”, nascondendo la fatica degli anni, il peso del passeggino carico e di una vita sacrificata per diffondere i suoi unici taralli.

SECONDI PIATTI NAPOLETANI

Anche tra i secondi della cucina napoletana si trovano molti piatti di terra e di mare, ma le ricette tradizionali prevedono anche fritture, verdure e l’irrinunciabile mozzarella.

Prima di parlare di secondi piatti però vorrei attrarre la vostra attenzione su quello che normalmente accompagna i secondi piatti e non solo .Parliamo ovviamente del nostro pane denominato ” cafone ” molto apprezzato dai turisti ed elemento immancabile  delle nostra tavole .

Il pane , e quello cafone in particolare è un prodotto tipico della nostra tradizione culinaria che non trovate in nessun’altra parte del mondo . La sua antichissima tradizione nasce  nel settecento ai piedi del Vesuvio a San Sebastiano, un paesino ai confini tra Torre del Greco e Napoli.

Il suo nome ” cafone ” deriva dalle sue umili origini e dalla povertà dei suoi ingredienti fatti a base di antichi grani e probabilmente anche al fatto che vi è sempre una totale mancanza di decorazioni sul suo formato finale che si presenta al contrario ,  in maniera molto semplice. Esso è un tipo di pane fatto con il criscito , cioè un impasto povero ottenuto con aggiunta di acqua e farina all’impasto avanzato dalle precedenti infornate . Nonostante oggi molti panettieri usino più frequentemente  la pasta madre per la preparazione del pane , molti panettieri che invece  producono  ancora il pane cafone conservano e utilizzano lo stesso criscito da oltre ottant’anni, avendo cura di rigenerarlo continuamente con l’aggiunta di farina di grano terreno , acqua e sale ogni quattro ore. Il criscito  richiede infatti un tipo di lievitazione e cottura particolare da fare con  regole precise:

  • La lievitazione  deve essere molto lenta e l’impasto va steso su tavole di legno;
  • Durante la lievitazione, l’impasto deve essere avvolto da panni di iuta che ne permettano la traspirazione;
  • La cottura deve essere  rigorosamente  fatta su pietra refrattaria in forno a legna, e deve sopratutto iniziare nel momento di massima lievitazione;
  • La pezzatura delle pagnotte deve essere di grandi dimensioni di circa 3 – 4 kg l’una. Le forme, dette “palatone”, prendono il nome dal fatto che venissero infornate in grandi palate.
  • Infine,  non devono essere fatte croci  né tagli di alcun genere sulla forma, come invece avviene per altri tipi di pane.

Il pane cafone napoletano si riconosce infatti oltre che  per il suo profumo, consistenza e  e  fragranza., anche per il suo aspetto

La forma allungata, la crosta dorata e il colore della mollica, bianca e saporita, sono gli elementi visibili più caratteristici . Esso come accennato si può conservare al lungo grazie alla sua lunga lievitazione che  permette alla mollica di essere molto alveolata e con una percentuale di acqua medio bassa:  Inoltre, la crosta è croccante, ma poco friabile  e ha uno spessore notevole: circa un centimetro. Anche questo è un elemento che contribuisce alla conservazione perché permette di mantenere la  giusta umidità  all’interno della pagnotta.

 

Ricordatevi comunque quando mangiate il pane nella nostra città che qualsiasi napoletano sa che il pane non va mai posto sotto sopra:  questo gesto porta male ( porta sventura ). E’ un gesto  ambasciatore di sfortuna e su colui che ha effettuato l’incauto gesto è probabile che si abbatteranno diversi grattacapi . Dal punto di vista della fede cristiana il pane simboleggia il corpo di Cristo, come si evince dall’Ultima Cena, dunque capovolgerlo a tavola significherebbe capovolgere anche il corpo e il volto del Salvatore.

Ad ogni modo, ricordate anche che a Napoli, il pane non deve mai mancare da tavola e sopratutto  non si butta mai  . Quello che avanza  o magari un po’ sereticcio, viene utilizzato per preparare il ripieno delle polpette col sugo o fritte. Si può fare il pane grattugiato e se proprio non si sa come impiegarlo, prima di gettarlo, chi si sta per effettuare il gesto lo bacia prima di abbandonarlo nella spazzatura. Insomma a Napoli il pane è una cosa sacra, soprattutto perché con un solo e unico “pasto” come il pane, si sfamavano famiglie intere in tempi di magra e soprattutto di guerra.

E in fin dei conti Paese che vai “superstizione” che trovi: ad esempio i canadesi benedicono il pane prima di infornarlo; mentre gli ebrei gettano una pallina di pasta di pane nel forno, prima di cuocerlo, per offrire il primo pezzo a Dio. In Russia si fanno gli auguri con il pane. Chi lo riceve in dono non dovrà mai tradire il donatore; in Polonia invece, la sposa, finita la messa, dona agli invitati delle bambole di pane con all’interno una moneta come augurio.

Ecco alcune  importanti regole che riguardano il pane a Napoli :

Regola numero uno: se il pane  manca… succede o’burdell. Il pane a tavola è obbligatorio anche se non lo mangi e rischi poi di buttarlo … scusate ……riciclarlo .

Regola numero due :La scarpetta  è obbligatoria! Il napoletano non si può mai sentire sazio, neanche dopo tre piatti di pasta, se non fa la scarpetta.
E il pane dev’essere… pane. Non prendeteci in giro con il pane senza sale, comunemente detto “il pane scemo”, o i panini mosci o sottili. Il pane dev’essere quello cotto al forno, croccante in superficie e dalla mollica morbida, che quando lo tagli (magari con le mani) le molliche o meglio schegge, non risparmiano nessuno.

Regola numero tre : Se avete il pane tra le mani fate attenzione a come lo poggiate sulla tavola. Il pane al contrario non si mette, sottosopra è assolutamente vietato, vi guarderanno tutti in cagnesco.

Stando a tavola, attenti  anche al sale , se lo fate cadere sulla tovaglia non ne sentirete più la fine: porta sfortuna. E attenti anche a non passare la saliera da mano in mano ( porta jella ). . Questa va rigorosamente appoggiata sul tavolo e solo dopo puo essere presa da un altro commensale .

Visto che parliamo di pane approfittiamo per parlare anche di ” bruschette “. Queste sono immancabili sulle tavole nei giorni domenicali o di festa,  o molto più semplicemente al ristorante.

Nel tempo le bruschette sono diventate un vero e proprio must della nostra tavola . Per noi la bruschetta non è semplicemente pane abbrustolito, portato in tavola per placare l’appetito prima delle principali portate ma un modo per iniziare la  convivialità tra i commensali,  sviluppare l’allegria della tavola,  ed il modo di passare  insieme una bella giornata .

La bruschetta, nacque come esigenza dei contadini  delle classi sociali più povere di non buttare via il pane avanzato ma di servirlo abbrustolito sul fuoco e insaporito con  sale , olio , aglio  e pomodori appena raccolti .  Con il tempo poi ,  questo veloce pasto fugace e povero, si è trasformato nell’antipasto sfizioso e gustoso atteso sulle tavole di ogni ristorane , condito con pomodori, olio, aglio e basilico nel caso della ricetta tradizionale, o anche rivisitato con formaggi, patè di olive, peperoni, o fagioli.

 

SECONDI PIATTI DI MARE

I napoletani adorano mangiare il pesce cucinato in maniera semplice così da conservare il sapore ed il profumo della freschezza; alici, orate ,spigole , pezzogne , merluzzi, molluschi,  e frutti di mare si prestano bene alle tante preparazioni fatte in bianco, con il pomodoro, al forno, al cartoccio, all’acqua pazza e alle brace .

Tra i secondi piatti di pesce primeggia  comunque certamente il polpo. Esso può essere cucinato alla Luciana così’ chiamato perché  si ritiene  nato per la prima volta nel popolare borgo marinaro di Santa Lucia . Gli abitanti di questo quartiere , chiamati luciani . erano prevalentemente pescatori e venditori di pesce e di frutti di mare.  Ma secondo molti erano sopratutto abili pescatori di polpi grazie ad una loro speciale ed originale tecnica di pesca .Essi posizionavano sui fondali anfore e mattoni bucati , dove di notte i polpi trovavano rifugio ; era così molto semplice e catturarli il giorno seguente.

Nella ricetta tradizionale i polpi sono cotti  in una casseruola insieme a pomodoro, aglio, olive di Gaeta e capperi. A fine cottura si aggiungono condimenti come pepe e prezzemolo. In quella originale invece, i polpi venivano cucinati senza la passata di pomodoro , non ancora introdotta in cucina e verosimilmente anche senza l’uso delle olive nere .

Con il passare del tempo , vennero utilizzati polpi di grandezza sempre minore ( per avere carne sempre più tenera ) fino ad arrivare a sistemare in tegame polipetti veraci dal peso non superiore a 100 grammi ognuno. Per questo motivo la pietanza oggi viene più comunemente chiamata ” polipetti affogati ” perchè essendo piccoli vengono praticamente immersi ( affogati ) nel sugo dei pomodoro mentre  cuoce a fuoco lento.

 

 

Il polpo può essere anche preparato all’insalata , cioè lesso e condito con olio, limone, prezzemolo, ed olive verdi. Ma si può anche gustarlo sempre lesso ma solo semplicemente associato con le sole patate scaldate .

 

Il polpo lo si ritrova anche nella prelibata insalata di mare .In questa oltre al polpo vi troviamo associati seppie , calamari e gamberi.

Oppure servito insieme alle patate in un piatto prelibato.

 

Sicuramente non si può fare a meno di una buona impepata di cozze, generalmente servita in quantità molto generose . Esse in questo caso vengono rapidamente lessate e pepate, e condite con qualche goccia di succo di limone, che ogni commensale spremerà sui singoli mitili.

Ma le cozze sono preparate in vari modi tra cui la famosa zuppa di cozze considerata  uno dei capisaldi della cucina partenopea . In questo caso  le cozze mischiate  insieme a polpo, gamberi e seppie,  vengono insaporiti con pomodori, aglio e prezzemolo.su di una base di  croccanti crostini di pane o di  alcune freselle  (  o friselle ) che poste sul fondo del piatto finiscono per impregnarsi  ( spugnarsi ) completamente nel prelibato condimento . La tradizione vuole inoltre che, oltre a questi ingredienti, vengano aggiunte anche le vongole e un saporito tocco piccante dato da un olio rosso realizzato con peperoncino tritato fatto macerare nell’olio . Questo particolare  olio piccante” ‘ viene soprannominato o russ” ed  è sempre conservato nelle bottigliette dei classici aperitivi analcolici e chiuse con il tappo a corona rosso come il liquido che contengono. Insomma: il colore rende bene l’idea di quanto sia forte..

Per prepararla bastano pochissimi ingredienti: pomodori, aglio e prezzemolo, a cui viene solitamente aggiunto olio piccante, per rendere la zuppa più saporita. Si tratta di una pietanza che è possibile gustare tutto l’anno, ma che, sulle tavole dei napoletani, non può mancare sopratutto la sera del  giovedì santo.

Si racconta che nasce per volontà del re Ferdinando I di Borbone, che si faceva preparare, dalla cucina del Palazzo, un piatto a base di cozze pregiate, che egli stesso nominò Cozzeche dint’a Cannola. Il re ne era golosissimo al punto da mangiarne una grande quantità ogni volta .Talmente tanto  da meritare il rimprovero del Frate Domenicano Gregorio  Rocco che riteneva il suo modo di fare troppo peccaminoso. Il presule gli fece promettere che almeno per la Settimana Santa non avrebbe mangiato piatti abbondanti e avrebbe limitato i peccati di gola. Il re trovò così una scappatoia ordinando al suo cuoco di cucinarle in modo popolano, più umile e più vicino alle esigenze cattoliche della Settimana Santa.

Il piatto fu adottato dal popolo e tutti tentarono di copiarlo sostituendo però le cozze magnifiche del Sovrano con cozze di bassa qualità oppure con le misere lumache di mare, cioè i maruzzielli.

Oltre a questa versione invernale ne esiste anche una estiva che puo essere consumata sia come antipasto che come piatto unico . . In questo caso le fresella  ,  ( in un piatto denominato caponata ), ammorbidite dall’acqua e dal liquido di vegetazione del pomodoro vengono condite con pomodori ,spezzettati a mano ,  cipolle fresche  ( rosse o dorate ) , olive , acciughe sotto sale , capperi ,  sedano , profumato basilico e ovviamente dell”ottimo olio extravergine .

In alternativa ,al posto del pomodoro  grossolanamente spezzettato si può ” schiattare 2 sulla fresella un pò di pomodororini del piennolo

La caponata napoletana ( pane e pummarola ) è la cosa più veloce da realizzare quando non si ha voglia di cucinare a casa in quanto mette insieme come abbiamo visto tutte i vari ingredienti disponibili in dispensa e tutte le varie rummasuglie ( residui ) trovati in frigo. Si tratta di un piatto semplice, povero,e spesso utilizzato come sostituto di pranzi e cene estive quando ci si sfasteria ( si scoccia )di cucinare e si dice  ….” stasera c’arrangiammo cu ddoie freselle ” …

La parola fresella deriva dal latino frendere che significa spezzettare, macinare. E infatti la fresella va consumata appunto spezzettata.

Essa veniva già servito nelle antiche osterie di epoca romana , le cosiddette cauponae e potete quindi ben capire da dove origina il nome “capunata “( cauponae = capunata ).

Ovviamente, poichè  il pomodoro non era ancora presente in epoca romana , il sapore alla caponata in quell’epoca lo dava il garum , cioè una sorta  di scolatura di alici e l’aglioche i romani usavano in grande quantità.

 

La fresella  è un tarallo  di grano duro  cotto al forno, che sembra porosa all’apparenza ma in realtà conserva una sua consistenza e durezza. Secca fin dalla sua origine ,ha il vantaggio di non andare a male risultando per questo motivo uno dei cibi poveri più usati nel passato. Particolarmente note , perchè toste e sode ,sono state  in città per lungo tempo  le freselle  di Castellammare chiamate ” e gallette ‘e Castiellammare “. Esse hanno dato luogo nel tempo ad un appellativo  spesso riferito ad una persona testarda che viene etichettata come   … ‘na galletta e Castellammare .

Si racconta che vista la durezza della fresella , i marinai la ammollassero direttamente nell’acqua di mare dove prima di  ” spugnarsi ” doveva restare per un bel pò di tempo . Questo è il motivo per cui dopo aver invitato varie volte una persona tirchia a cacciare qualche soldo , i napoletani dicono:  “e mò se spogna sta galletta “.

 

 

Vongole ed altri frutti di mare sono gustati spesso in  saute’,  cioè saltati in padella con aglio ed olio e con prezzemolo tritato a crudo, spesso serviti su crostini, oppure sono preparati al gratin cioè , gratinati a forno con pangrattato.

Il pesce di media taglia viene spesso cucinato all’acqua pazza ( spigola o orata ) ossia con pomodorino e prezzemolo; quelli di taglia più grande anche semplicemente grigliati ( dentice ) oppure sotto sale ( pezzogna ).

 

Alla griglia sono molto apprezzati anche i gamberoni che risultano essere particolarmente ricercati.

Anche il pesce più economico, principalmente le alici, viene spesso usato per gustosi piatti . Tra queste ricordiamo :

  • Le alici dorate e fritte, spinate e passate in farina  ed uovo prima di essere fritte.
  • Le alici marinate, sia in succo di limone che aceto .
  • Le alici arreganate, spinate e cotte rapidamente in tortiera con aglio , olio , origano e condite con succo di limone o aceto .
  • Le alici ammolicate , un caratteristico piatto della cucina povera fatte al forno dopo averle ricoperte con mollica di pane , capperi , aglio , prezzemolo tritato ,  pangrattato e qulache goccia di limone .
  • La zuppetella di alici cucinate in tegame con olio , aglio, salsa di pomodoro , olive e pomodorini a pezzi .

 

I cicenielli,  ( bianchetti  ) sono piccolissimi pesci, che vengono preparati lessi più comunemente o fritti in una leggera pastella, così come è d’uso fare con le alghe di mare.

Altro tipico piatto che piace molto ai napoletani e’ la frittura di paranza , un fritto misto di pesce piccolo che prende il nome dall’omonimo tipo di barca usata per pescarliI .

 

Questa  è di solito fatta con pesci piccoli 4- 5 cm  come  i fravagli   di triglia ,merluzzetti ,   fricassuari (piccole soglole ), alici, mazzoni ed altre varietà da mangiare con una buona spruzzata di limone. La  paranza  non va confusa con la  mazzamma  , cioè l’ultimo scarto del pescato.

La frittura va mangiata caldissima ( in napoletano si dice ‘frijenno magnanno ‘ )

I piccoli gamberetti di nassa, sono invece fritti rapidamente, e senza essere prima infarinati, come invece avviene per la paranza.

Altra tipica frittura è quelle gustosa , croccante e dorata fatta con gamberi e calamari i tagliati ad anelli . Uno dei piatti preferiti dei napoletani al ristorante .

Una citazione a parte merita il baccalà, soprattutto fritto, (un must del periodo natalizio ) e sopratutto quello classico alla napoletana in cui viene cotto nel sugo dei pomodori, con olive e capperi.

Esso può comunque anche essere preparato in tanti altri nodi come per esempio avviene alla vigilia di Natale, in cui lo si prepara all’insalata cioè scaldato e poi condito con un filo d’olio , un pizzico di sale e prezzemolo tritato.

Il baccalà inizialmente non venne  molto appezzato in città , e per parecchio tempo non è stato molto amato dai napoletani al punto da non apparire addirittura nei menù dei ristoranti .

Il suo uso fu infatti quasi imposto a Napoli e in tutto il sud dalla famosa controriforma della chiesa cattolica che vietava il consumo di carne il venerdì e nelle vigilie delle grandi festività .La prima alternativa alla carne oltre alla verdura , fu il pesce ed  ovviamente tra questi il più economico baccalà e lo stoccafisso ( detto stocco ). Si tratta per entrambi sempre di merluzzo , ma i sistemi di conservazione sono differenti : lo stocco , lo si ottiene facendo seccare  il merluzzo , cui viene tolta la testa e le viscere senza aprirli , al sole ed al vento  del mare del Nord , lungo le coste della Norvegia , dove abitualmente viene pescato , Esposto senza sale all’aria  fredda e secca , esso lentamente si disidrata fino a divenire  duro come il legno .Il baccalà invece ,si ottiene  aprendo il merluzzo , diliscandolo e pressandolo con il sale in barili di legno .

Una ulteriore distinzione viene poi fatta tra il mussillo che rappresenta la parte più pregiata del baccalà ed il coroniello che è invece la parte più pregiata dello stocco.

Il baccalà quindi come avete potuto capire proveniva dalla Norvegia ed il suo commercio sopratutto a partire dal periodo borbonico , ebbe un progressivo incremento essendo l’unico tipo di pesce che per secoli nei paesi di montagna  la gente del luogo ha potuto mangiare visto il suo ideale sistema di conservazione .

Oggi a Napoli esistono molti negozi specializzati nel baccalà e stoccafisso ( baccalerie ) e la tendenza generale verso questi prodotti , un tempo considerati molto poveri è totalmente cambiata , al punto da veder sorgere in città ed in provincia sempre più punti di ristorazione completamente specializzati nel cucinare questi prodotti sempre più spesso presentati in nuove ed originali rivisitazioni  ma attenzione … non costa più poco come prima .

Per finire con un insieme di  profumi e sapori, come non ricordare la nostra famosa ” zuppa e pesce ” nata inizialmente  per dare vita ad uno di quelli che noi amiamo definire  piatti di recupero . Si racconta infatti che anticamente tutta la merce non venduta in giornata dai pescatori  , dopo essere adunata finiva in pentola per allietare i palati ed evitare di arricchire la pattumiera .  Teoricamente potremmo definire questa ricetta come un piatto povero e di riciclo, anche se in realtà per la buona riuscita, occorre poi utilizzare solo ed unicamente pesce fresco di giornata .

 

 

SECONDI PIATTI DI CARNE

 

Prima di parlarvi dei secondi piatti di carne vorrei parlarvi di un tipico rustico napoletano che si pone a metà strada tra il primo ed il secondo . Parliamo del  casatiello  ,  un piatto rustico tipico della tradizione pasquale, ma che comunque possiamo  trovare  comunemente tutto l’anno. Si tratta di una torta salata molto ricca, con tanti ingredienti, tra cui in particolare salame, formaggio, ciccioli di maiale e uova. L’impasto è fatto con farina, lievito, acqua, sale, pepe e strutto, quindi non è proprio leggero ma molto saporito e gustoso. Ha una forma tipica di una ciambella e viene poi tagliato a fette e servito. Esso come accennato viene solitamente preparato e consumato a Pasqua e sopratutto a Pasquetta dove diventa il classico cibo che caratterizza le gite e le scampagnate fuori porta accompagnato dalla fellata, banchetto di affettati misti (principalmente salame e capocollo), ricotta salata e uova sode, oppure da agnello o capretto al forno con patate e piselli.

Il casatiello viene spesso anche denominato tortano Oggi i due nomi si usano spesso come sinonimi, ed indicano un rustico ricco di un’imbottitura di formaggi ed insaccati. Nelle versioni originali però il tortano ed il casatiello  erano molto più semplici, e poveri ,  quest’ultimo si distingueva dal primo perché caratterizzato dalla presenza di uova nell’impasto, mentre il primo era ripieno di cicoli.

I secondi di carne non sono troppo vari nella cucina napoletana. Capretto e agnello si gustano cucinati con patate e piselli al forno, specialmente in occasione della Santa Pasqua ; il coniglio ha la sua migliore preparazione all’ischitana e il pollo viene generalmente rosolato ruspante allo spiedo o alla cacciatora col pomodoro  .

Un tempo gli arrosti venivano comunque sempre preparati allo spiedo e sopratutto riguardo al pollame si era soliti cucinare galline giovani ( pollanche ) , ben ingrassate .  Esse venivano spesse servite nei pranzi importanti   a corte reale , avendo carni molto saporite e molto tenere . E per  ottenere carni ottime spesso si era soliti   castrare precedentemente le pollanche delle loro ovaie .

I volatili domestici come capponi , galline , polli , e tacchini , invece venivano sistemati nei giorni precedenti la loro uccisione in un luogo caldo e fastti nutrire abbondantemente con orzo, miglio , semola , e farina di riso impastata con latte .

A corte reale borbonica , vista l’innata tendenza alla caccia dei sovrani , erano invece molto apprezzati i piatti derivati dalla cacciagione del giorno che cambiava da stagione in stagione e da giorno a giorno . . La preparazione di questi piatti risultava  pertanto molto complessa ed elaborata e l’ abilità di un cuoco veniva misurata nel riuscire ad adattare abilmente i condimenti e le spezie al sapore della carne .

Questa particolare abilità rappresenta all’epoca uno degli elementi cardini per selezionare i cuochi a corte.

 

 

Le salsiccia o le cervellatine  sono tradizionalmente soffritte in padella e accompagnate da contorni a base di verdure specialmente i friarielli  (  una sorta di broccoli rigorosamente fritti in padella con olio e aglio.) , oppure patatine fritte.

Tenete conto che salsiccia e Friarielli sono un pilastro della cucina napoletana .I friarielli non li trovare in nessun’altra parte d’Italia .Secondo alcuni il nome friariello deriva dal castigliano “frio-grelos” mentre, secondo altri, sembra che derivi dal verbo napoletano frijere – friggere.

La loro coltivazione è sopratutto molto diffusa nelle campagne dell’entroterra partenopeo e questa verdura è l’ingrediente principe di tante ricette, ma può essere utilizzata semplicemente come contorno a quasi tutti i piatti. La preparazione è molto semplice, basta cuocerli in padella con aglio, olio e peperoncino.

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A Napoli i friarielli si trovano spesso associati alla salsiccia, e li trovate sia come street food nei vicoli della città, dove questo binomio è proposto sotto forma di panini, che come condimento di pizze e calzoni. La cosa migliore che vi possiamo consigliare è quella di accompagnare questo binomio si salsiccie e friarielli , ad un cuzzutiello di pane cafone e un bicchiere di vino Gragnano frizzante . Tutto il resto è noia !

 

Buoni anche cucinati con le orecchiette

Tra le verdure da sempre usate non va dimenticato la cosidetta “Rucola e pucchiacchella ”

La pucchiacchella è il nome dato dai napoletani ad un’erba aromatica, molto conosciuta a Napoli . Si tratta di un’erba che cresce spontaneamente e viene raccolta, fin dall’antichità, per insaporire insalate e minestre. È stata per secoli la compagna ideale della rucola e oggi continua ad essere una costante nelle insalate miste  che accompagnavano il pranzo di tanti napoletani . Essa, veniva un tempo raccolta in grandi quantità e venduta dagli antichi ortolani ambulanti che affollavano le strade della città ed era utilizzata, in genere, insieme alla rucola per ottenere un’insalata dal gusto davvero mordente. L’erba pucchiacchella cresceva florida lungo il territorio partenopeo grazie anche alla resistenza della pianta al sole e al clima molto caldo. Essa  cresce ancora oggi ovunque ed è considerata un’erbaccia infestante. La si può trovare negli orti, lungo le sponde di fossati, nei campi, accanto ai marciapiedi e tra i campi incolti.

Oltre che  pucchiacchella era un tempo anche  chiamata erba dei frati per l’antica leggenda che vuole i frati,  passando casa per casa per chiedere l’elemosina, regalare alle massaie questa deliziosa erba raccolta nei campi vicino ai conventi.

Per i napoletani invece, da sempre amanti della cucina dai sapori esaltanti, era considerata un vero e proprio toccasana per arricchire di gusto le semplici insalate verdi, considerate insipide e prive di sapore.

La  “Pucchiacchella“, non è altro che la Portulaca Oleracea, .Nell’antichità veniva usata per il trattamento della diarrea e del vomito. ed ancora oggi il suo infuso è ottimo per lenire i bruciori causati da punture di insetti, per l’acne e anche per l’eczema e anche contro l’acidità di stomaco e gastriti. Per  il loro  contenuto di  Omega 3, aiutano inoltre  a prevenire le patologie cardiovascolari, riducendo il colesterolo cattivo e i trigliceridi nel sangue. E’ ricca anche di vitamina C, oltre che di vitamina A e del gruppo B, un rimedio naturale per prevenire e curare lo scorbuto, tanto che in passato l’erba pucchiacchella veniva imbarcata sulle navi per affrontare i mesi di navigazione. Inoltre contiene sali minerali, ferro, potassio, magnesio, fosforo, zinco, selenio e calcio.

Il botanico e farmacista Dioscoride Pedanio sosteneva, ai tempi dell’antica Grecia, che l’erba pucchiacchella fosse un ottimo decongestionante per gli occhi e anche un antidolorifico contro il mal di testa: un vero e proprio antinfiammatorio naturale.

La cultura medievale invece attribuiva addirittura a  questa pianta un valore apotropaico contro gli spiriti maligni.

 

Il suo termine napoletano “pucchiacchella” deriverebbe dal latino portulaca(m) = porcacchia→poccacchia→ pucchiacca (erba porcellana). Ma secondo altri deriverebbe dal greco, πψρ, pyr (fuoco) + κοιλοσ, koilos (faretra, fodero di fuoco, vagina).

Chi è napoletano avrà sicuramente sentito il termine “pucchiacchella” ma, c’è da scommetterci, associato a ben altro che l’originale significato .La vagina tutti sappiamo in lingua napoletana come viene chiamata, la sua origine, è dovuta al termine “Pucchia” con cui si indicava una fonte, un luogo dove sgorga l’acqua.

Non credo sia il caso di approfondire il perché’ dell’associazione.

 

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Nella cucina napoletana un tempo veniva raccolta insieme alla rucola e venduta da ortolani ambulanti. Oggi si usano le foglie e i rami più teneri, crudi, in insalate miste, in accompagnamento a verdure e ortaggi, o anche da soli.

Ad oggi però , sono poche le aziende che la vendono, anche perché si tratta di una pianta spontanea, facilmente reperibile in campagna, o nel giardino di casa.

La rucola, invece, detta anche rugola o rughetta, è una pianta erbacea dal particolare sapore piccante e dalle spiccate proprietà digestive e assunte sotto  forma di tisana svolge anche un’azione calmante  .E’ capace inoltre di evitare la formazione di gas nell’intestino. e svolgere un’azione lassativa anche grazie alla presenza di fibre, aiutando così in caso di stipsi. Tra  le proprietà terapeutiche la rucola svolge anche un’importante  funzione antitumorale: il beta carotene contenuto nella rucola aiuta a prevenire I tumori di vescica, prostata, stomaco e colon in quanto combatte gli agenti cancerogeni.

In passato si riteneva che fosse una pianta afrodisiaca efficace nell’inibizione di un enzima che provoca problemi di erezione nell’uomo , mentre invece nell’antica Roma veniva utilizzata per la preparazione di filtri d’amore.

La rucola oggi si consuma principalmente cruda come insalata, da sola o unita alla già citata Pucchiacchella .

 

Le tracchie (spuntature) di maiale sono tipicamente consumate come secondo piatto dopo che sono state cotte al  ragù’ che è stato usato per condire la pasta.

Le tracchie si accompagnano o sono alternative alle braciole, nome napoletano degli involtini, che sono fatte con fettine sottili di vitello avvolte con un ripieno di  aglio , prezzemolo , uvetta e pinoli richiuse tradizionalmente con il filo da cucito, e oggi con gli stuzzicadenti . Un modo tipico di cucinare le fettine di carne di vitello è pizzaiola ossia con pomodoro, aglio ed  origano .

 

Non dimentichiamo  la carne alla pizzaiole, lo  spezzatino  di vitello con patate ed il polpettone  sia al forno che al sugo con dentro le uova sode.

 

Lo spezzatino di manzo è un secondo piatto che prevede una cottura in umido e si può preparare con vari tagli di carne di manzo giovane. Cucinato con le patate è un classico secondo piatto di cucina napoletana gustoso e completo, ideale da preparare nelle fredde giornate invernali. È anche abbastanza semplice da preparare, ma richiede un poco di tempo e attenzione soprattutto durante la cottura.

Alcuni piatti sanno di storico e ricordano la nostra infanzia .  Chi di voi per esempio , non ricorda le sezioni di uovo contenute nel cuore del mitico polpettone quando veniva affettato ? 

Sapete da dove  deriva invece il nome polpettone?  Il nome derivi da “polpa”, nome delle parti più morbide degli animali, che venivano utilizzate mescolate ad altri ingredienti di scarto. Il polpettone, così come le polpette, è infatti un piatto povero nato in ambienti umili perché inizialmente si utilizzava la carne riciclata dagli avanzi per realizzarlo. Questo piatto è tipico di Napoli, ma lo cucinano anche in altre regioni. L’unica differenza è che il polpettone napoletano presenta alcuni ingredienti unici: uova, salame e provolone e a fine cottura si aggiunge del sugo di pomodoro.

 

La cucina napoletana  è stata influenzata come dicevano all’inizio di questo articolo  da altre tradizioni e altre culture,  ed in particolar modo da quella  francese che avvenne sotto il Regno dei Borbone . Alla base di tutto questo niente altro che il complicato rapporto matrimoniale fra Ferdinando IV di Borbone,  il Re Lazzarone , e la regina  Maria Carolina che portò ad un compromesso raggiunse il compromesso sulla  cucina a corte .

La regina, non gradiva molto i sapori forti  e troppo marcati della cucina partenopea, e quindi gli chef francesi giunsero a Napoli per “ingentilirla” e dare un tocco di modernità, insegnando ai cuochi di corte nuove tecniche.indispettita dai sapori troppo marcati della cucina napoletana chiese aiuto a sua sorella  Maria Antonietta , regina di Francia, che di pronta risposta inviò alla corte di Napoli alcuni fra  i migliori cuochi francesi per educare i colleghi napoletani ad una cucina più  raffinata e maggiormente adeguata  ai gusti  in voga del tempo. Gli chef francesi giunsero a Napoli per “ingentilirla” e dare un tocco di modernità, insegnando ai cuochi di corte nuove tecniche.

Il regno delle Due Sicilie si popolò allora di maestri culinari che con una cucina completamente nuova riuscirono a raffinare i piatti della tradizione campana creando con creme e preparazioni tipiche francesi nuove ricette  e nuovi sapori .  I nuovi artisti della tavola venivano appellati col titolo di Monsieur  “signore” in francese. e come spesso è accaduto, il termine è stato  poi alterato  e storpiato fino ad arrivare ad una forma dialettale più facilmente pronunciabile nelle nostre terre: così, i monsieur divennero in tutto il Regno di Napoli, i Monsù  e poi  Monzù.

Gli chef napoletani, grazie al contatto con i francesi, subito adeguarono la loro cucina  e grazie alla loro inventiva furono subito capaci di creare soluzioni e ricette nuove, fondendo così le due realtà. Tra i nuovi piatti creati tra i secoli XVIII e XIX grazie a questo sodalizio franco-napoletano, ci sono proprio le uova alla monachina, che sono uova cucinate sode con l’aggiunta di besciamella.

Trattandosi di una ricetta a base di uova, molti potrebbero subito pensare ad un piatto povero, ma la realtà è tutt’altra.un piatto creato nei secoli XVIII e XIX dai cosiddetti “Monzù”, i capocuochi delle case aristocratiche in Campania e in Sicilia,.

Nella ricetta originale al ripieno , fatto oggi solitamente con i tuorli sbriciolati e mescolati con la mollica di pane bagnata con la beciamella , prezzemolo tritato , parmigiano e pepe , si univano un pizzico di cannela e dello zucchero , mentre in padella mentre le uova friggevano si aggiungeva anche aceto e polvere di mostacciolo, di mandorle e di cedro candito .

 

Altro tipico piatto tipico napoletano fatto con le uova semplice, genuino e nutriente che si può preparare  in poco tempo e rappresenta davvero un secondo completo ed economico è  l’Uovo in purgatorio . A Napoli le chiamiamo ova ‘mpriatorio perchè il bianco delle uova in mezzo al rosso del pomodoro richiama il ricordo di certe immagini sacre presenti nelle edicole votive, dove le anime  del purgatorio avvolte dalle fiamme  tentavano di fuggire dalle fiamme dell’inferno . In questo caso le uova sono come le anime del purgatorio che si infilano tra i pomodori ardenti tentando di fuggire.

 

 

A proposito dei Monsù , come non ricordare quello che avveniva con i scarti di maiale rifiutati dai nobili e degli avanzi delle grandi tavolate a corte. Queste ” frattaglie “fiutate da sazi aristocratici , certo non venivano rifiutati dall’affamato popolo napoletano che viveva in miseria in misere case ( spesso bassi fatiscenti ) , senza lavoro ( scarso ed occasionale )e senza cibo. La principale , quasi ossessiva preoccupazione quotidiana per ognuno di loro era la ricerca del cibo e riuscire a poter mangiare giorno per giorno in maniera accettabile sufficiente era fonte di grande gratificazione .

Ora , in questo clima di fame e mancanza di cibo ,immaginate solo per un momento cosa poteva accadere quando i cuochi francesi , finito il pranzo gettavano dai balconi delle cucine aristocratiche  interiora di scarto alla plebe affamata. I cuochi  gridavano gettando le interiora  in francese : Et voilà,les entrailles!. Da qui zandraglie ad indicare le frattaglia.

Le prime ad accorrere, chiassose e rissose per contendersi questi avanzi , erano le popolane che  non mancavano  spesso di dare luogo al triste spettacolo dello ” strascino ” cioè litigare tirandosi per i capelli . Questo portò  ad indicare con il termine ” zandraglie “tutte le popolane che accorrevano chiassose a contendersi questi avanzi , ed indicare  nel tempo poi,  con questo termine , in modo dispregiativo ,  tutte le donne sguaiate.

Ma ritorniamo a cibi particolari napoletani .

A tal proposito , sappiate che non si può venire a Napoli e non mangiare la mozzarella di bufala, fatta col latte delle bufale campane, ( un prodotto  per me unico al mondo ).

Ricordate che quando è fresca non va mai messa in frigo ma tenuta fuori, all’interno del suo siero e dopo  un giorno, quando non è più fresca, viene conservata in frigo ed utilizzata per cucinare.

La mozzarella di latte vaccino è chiamata fior di latte, mentre la sua variante affumicata è la provola. Entrambe deliziose, e anche queste quando fresche vanno tenute fuori frigo per non comprometterne il sapore.

 

Se amate i formaggi freschi, non potete lasciare Napoli senza aver assaggiato la mozzarella di bufala locale, uno dei prodotti più rappresentativi non solo di Napoli ma di tutta la Campania. È un cibo molto versatile, che può essere mangiato da solo, come antipasto, con gli affettati o come condimento dei primi piatti e sulle pizze.

A Napoli tradizionalmente là si mangia da sola come unico piatto oppure associata al prosciutto crudo  ma può anche essere usata come contorno o come secondo piatto .

 

 

Spesso risulta anche ottima come antipasto e se volete assaggiarla in questo modo dovete dire al cameriere la parola ‘  caprese ‘ Si tratta di una specialità tipica dell’estate in quanto è un piatto fresco, leggero e genuino.  È composta da due semplici ingredienti, ovvero da pomodoro e treccia di fiordilatte (a volte sostituita da una mozzarella di bufala), che vengono tagliati a fette e infine conditi con olio, sale e basilico. In alcune varianti trovate anche le acciughe e l’origano per un tocco di sapore in più’ .

A proposito di basilico , sapete che esso deriva dal greco basilikos che significa ” erba degna di un re “? . il minimum , cioè un basilco dalle foglie piccolissime era addirittura ritenuto dagli antichi romani magico e sacro a Venere.


 

La mozzarella di bufala residua del giorno prima viene sovente utilizzata per un antipasto tipico della cucina napoletana. La cosiddetta ‘ Mozzarella in carrozza ‘

Essa nasce come una ricetta di riciclo per consumare tutto ciò che rimane dal pranzo precedente e trasformarlo in qualcosa di veramente appetitoso. Il piatto consiste in fette di mozzarella racchiuse dentro due fette di pane in cassetta (che fanno appunto da “carrozza” ) le quali sono passate nell’uovo e nel latte e poi fritte. Spesso le fette farcite vengono anche passate nella farina o nel pan grattato prima della frittura. Oltre al pancarré è possibile anche usare pane casereccio.

 

 

La mozzarella la ritroviamo anche in un altro tipico piatto napoletano : la famosa Parmigiana alla melanzane . Questo piatto è uno dei più amati dai napoletani. La ricetta tradizionale  prevede melanzane fritte disposte a strati e condite con salsa di pomodoro, mozzarella, parmigiano e basilico. Una volta composto il piatto viene ripassato in forno per dargli una croccantissima gratinatura che lo rende ancora più delizioso.

 

Anche il Gattò di patate (o gateau di patate) contiene la mozzarella . Si tratta di uno sformato di patate con prosciutto e mozzarella, oppure provola e salumi vari. La crosta è resa croccante dal pan grattato cotto al forno. Un piatto semplice ma vi assicuro molto gustoso. A dispetto dell’origine del suo nome , il Gattò non è un piatto della tradizione gastronomica francese , ma è stato inventato a Napoli, usando per lo più ingredienti tipici locali . Si ritiene che sia stat ideato nel 1768 in occasione delle nozze di Ferdinando IV con Maria Carolina  D’Austria .

CONTORNI NAPOLETANI

Una menzione a parte meritano i contorni, quasi tutti a base di verdure e ortaggi e preparati in vari modi fedeli alla tradizione. Essi sono perfetti per accompagnare uno dei piatti citati tra i secondi, ma spesso vengono anche gustati da soli grazie alla loro squisitezza.

Ma prima di passare in rassegna i contorni più usati a Napoli vorrei farvi notare ( se scorrete le immagini precedenti lo noterete certamente )quanti piccoli prodotti di antica origine greco-romana accompagnano ancora oggi la nostra tavola .

In primo luogo la nostra attenzione va certamente posta al prezzemolo ( petroselinon) ben conosciuto dai popoli antichi e addirittura utilizzato nei riti propiziatori o in farmacopea per preparare unguenti atti a favorire la diuresi e a lenire i dolori mestruali . La mitologia greca racconta che quando i serpenti divorarono l’eroe greco Archemonus , araldo della morte , il prezzemolo crebbe dove il suo sangue bagnò il suolo. Gli antichi  romani quindi per tale ragione usavano piantarlo sulle tombe . Si incominciò infatti ad adoperalo in cucina dal medioevo in poi e da allora ha trovato posto in quasi ogni piatto della cucina napoletana  , a tal punto che riferendosi ad una persona troppo spesso presente dappertutto , si è solito dire a Napoli ” petrusino a ogne menesta “.

Poi il sedano , dal greco selinon che fu molto usato in cucina dai romani . Era considerata  in Magna grecia  , una pianta sacra a cui venivano attribuite proprietà  antidepressive ed afrodisiache. In latino veniva chiamata ” apium ” da cui il napoletano accio .

Il rosmarino , considerato anticamente come la pianta della purificazione dei morti e accreditato di  grandi virtù terapeutiche

L’aglio era molto utilizzato molto dagli antichi romani , ed era largamente utilizzato da contadini e soldati .Chiamato allium sativum veniva considerato  da Plinio il vecchio , altamente nutritivo oltre che terapeutico . Scro a Marte veniva per questo motivo distribuito ai combattenti per prevenire le infezioni e scacciare la paura . Molto usato dai ceti più bassi , per indicare gli stessi , i più nobili patrizi usavano il termine ” alium sativum ” , cioè puzzare d’aglio.

Da noi , è considerato anche un grande antidoto contro il malocchio : ” aglie e fravaglie è fatture ca nun quaglia” …….

La cipolla era anch’essa largamente consumata dagli antichi romani sia come pietanza , sia come prodotto diuretico.

L’origano , usato sopratutto come aroma sull’insalata di pomodoro ,  a Napoli viene chiamato ” arecheta ” che proveniente dal greco ” rekto ” significa frantumare ,spezzare .L’origano è infatti il risultato della frantumazione della pianta essiccata.

Tutti piccoli elementi indispensabili nella nostra cucina , un tempo erano quasi tutti ruiniti in un classico ” mazzetto “. Quando infatti da piccoli la nostra mamma , preparava il brodo vegetale , ma anche il bollito di carne , ricordo che era solito chiedere al verummaro ” o mazzetto pò bror ” . Esso consisteva in un piccolo fascio di ortaggi già bello e pronto , legato da un legaccio vegetale , composto di tante erbe ( cipolla , carota, sedano, prezzemolo, basilico, maggiorana e piperna  e varie altre spezie ).

Il mazzetto , ancora oggi comunque non può assolutamente mancare nel brodo vegetale che a dire il vero , indipendentemente che sia di manzo,gallina o cappone , non è un piatto molto amato dai napoletani.. Essi, infatti lo considerano sopratutto una pietanza per ammalati.

Ma gli antichi greci ed i romani usavano molto , sia in cucina che al mortaio per usi terapeutici anche la  ruta, un erba aromatica che, secondo loro aveva effetti magici ed esoterici
Molte civiltà antiche hanno utilizzato e persino adorato i suoi poteri. I romani la coltivavano e la portavano con loro quando dovevano visitare un prigioniero visto che si diceva che proteggesse dal malocchio.
I cinesi la usavano per fronteggiare i pensieri negativi. I maghi celtici dicevano che fosse una difesa contro gli incantesimi oltre ad usarla per guarire i malati. Ha rivestito un ruolo sacro per ebrei, egizi e caldei, che sostenevano che la ruta fosse un dono degli dei.

Si è da sempre , fin dalla scuola medica salernitana ritenuto che essa fosse un potente afrodisiaco .

Ora passiamo un po’ in rassegna la maggior parte dei contorni più usati a Napoli che come vedrete sono sopratutto a base di verdura .

  • Le zucchini alla scapece , sono molto usate  in quanto si possono abbinare a tantissimi piatti: si tratta di zucchine tagliate a fette e fritte, che vengono poi condite con abbonante aceto, aglio e fresche foglie di menta. Secondo molti è  preferibile lasciarle marinare per qualche ora. poichè questa preparazione permette di poter mangiare le zucchine anche dopo alcuni giorni. Un tempo la conservazione del cibo si avvaleva oltre che del sale per i tempi lunghi anche dell’aceto per i tempi brevi ed in Spagna quando si conservava del pesce , per mangiarlo di sera o al giorno dopo , si era solito condirlo con dell’aceto ( escabeche de pescado ). Da escabeche , ecco quindi il nostro scabece.
  • Le zucchine alla scapece sono il simbolo di una cucina che trasforma un iniziale e ad assaggiarlo , un  insignificante ortaggio in sontuosi piatti. Pensate solo che la parola zucchina deriva dal latino cucutia e poichè noi napoletani parliamo latino  , li chiamiamo con il termine “cucuzzielle”. Visto che ad assaggiarli  gli zucchini , se non altrimenti cucinati non sanno veramente di niente , noi quando vogliamo  etichettare una persona sciocca e stupida la chiamiamo”CUCUZZIELLO”. 
  • Dal cucuzziello si separa il ciurillo , cioè il fiore di zucca , e con esso si realizza le regina dello street food napoletano, la pizzetta di ciurilli , ovvero la pasta cresciuto fritta arricchita di fiori di zucca .
  • In una versione più impegnativa il ciurillo è addirittura fritto e’nbuttunato,Queso  significa che il fiore intero in questo caso è inizialmente imbottito di ricotta e salame  e poi rinchiuso e fritto
  • Le melanzane a funghetto invece, sono tagliate a pezzettini, fritte e finite di cuocere in un sugo di pomodorini . Si possono fare in due versioni: fritte a listarelle e condite con pomodorini, oppure soffritte a dadini.
  • Le melanzane a scarpone, oggi chiamate spesso a barchetta, vengono tagliate di lungo, fritte in poco olio e condite con sugo di pomodoro alla puttanesca.
  • Le mulignane a ‘ppullastiello, tagliate a fette dopo una prima cottura vengono farcite con mozzarella e poi indorate e fritte.
  • La melanzana è originaria dell’India e  fu portata  nell’area mediterranea dagli arabi agli  inizi del Medioevo.Per molto tempo fu considerata pericosa.Si diceva addirittura che provocasse turbe psichiatriche e disturbi  intestinali, e questo perchè non commestibile da cruda e per l’annerimento dopo il taglio.Da ciò il  nome mala in sana che  le venne attribuito.
  • I peperoni in padella, conditi con olive di  Gaeta e capperi.
  • I peperoni imbottiti, ricoperti di pangrattato e passati in forno.
  • I peperoni a gratè, derivanti dal francese au gratin, sono una versione più leggera di quella in padella, cotti al forno vengono spellati tagliati e conditi con olio, aglio, prezzemolo, olive, capperi e ricoperti di pangrattato.
  • I peperoncini verdi fritti, non piccanti, che sono poi conditi con salsa di pomodorini.che vanno ben distinti dai pereroncini piccanti .
  • Il peperoncino piccante fu scoperto nel 1493, nell’isola di Haiti da Cristoforo Colombo durante il suo viaggio alla scoperta dell ‘ America .Egli lo importò in Spagna proprio a causa del suo sapore forte : era infatti convinto che avrebbe sostituito il pepe a tavola dei grandi nobili aristocratici consentendo ai reali e a se stesso di fare grandi affari .Le cose però non andarono secondo i suoi progetti e non fu molto gradito ai ricchi  ed ai nobili , divenendo con il tempo invece una spezia per i poveri che lo soprannominò  ” pepe d’India ” poi ” peperone ” ed infine ” peperoncino ” per distinguerlo da quello dolce .Il pepe , originari dell’India era invece conosciuto sin dai tempi degli Egiziani e dei greci . Nella Roma Imperiale se ne faceva un uso enorme , sebbene si dice fosse carissimo . Era talmente caro ( fino a tutto il  medioevo ) , che veniva addirittura , alla stregua del sale , usato come moneta .Il  controllo del suo traffico , alla fine del primo medioevo era saldamente nelle mani degli Arabi e successivamente nelle mani delle Repubbliche marinare di Venezia e Genova che sulla via del pepe fondarono la loro prosperità .Anche il sale come accennato veniva usato come moneta . La parola ” salario ” deriva infatti proprio da ” SALARIUM ” che a sua volta deriva da ” SAL ” , la razione di sale che si dava come paga ai soldati insieme con i viveri . Era infatti , in un’epoca in cui non esistendo ancora i frigoriferi , l’unico vero prodotto utile per conservare e confezionare i cibi e questo lo rendeva molto importante e ovviamente anche molto costoso .
  • i peperoni imbottiti (puparuoli mbuttunati)  ovvero infarciti con  melanzane fritte, olive, acciughe, capperi  e pane raffermo la cui mollica viene precedentemente mischiata con carne macinata, uova e parmigiano.
  • Le bancarelle dei mercati partenopei, a partire dal mese di luglio fino ai primi freddi, traboccano di peperoni colorati ma solo i napoletani autentici – ormai solo quelli di una certa età – sanno cogliere a colpo d’occhio le autentiche papaccelle ricce.
    E’ un peperone di colore rosso, giallo o verde, di forma piccola, corto e tondeggiante, molto polposo. tipico della nostra regione  e molto diffuso nella nostra cucina . Appena raccolte vengono messe sotto aceto  all’interno dei cosiddetti rancelloni, una sorta di botti in legno che possono contenere fino a 150 chili di papaccelle intere, e mai a filetti. In questo modo le papacelle si possono conservare al meglio e  pronte per essere gustate anche dopo lungo tempo da sole o aggiunte in insalate o a piatti a base di carne.
  • I friarielli , soffritti con aglio, olio e peperoncino, spesso accompagnano come già detto con le salsicce  (da cui sasicce e friariell’) e cervellatine , per le quali si servono come contorno anche patatine fritte tagliate a cubetti. I friarielli sono tra i contorni da assaggiare assolutamente perché  si trovano solamente in Campania. Come vi ho già detto esso sono perfetti da accostare alle salsicce, ma ottimi da mangiare anche da soli. Si usano anche per la pizza ripiena, così come le scarole, tradizionalmente preparata con oliveinvece assolutamente , acciughe e pinoli.
  • Le scarole  o il cavolo cappuccio  alla monachina, soffritti in padella e conditi con olive nere di Gaeta , capperi , pinoli, uva passa , ed acciughe sotto sale.
  • I carciofi sono un altro bellissimo ortaggio molto consumato a Napoli . Esso è un cibo antico della nostra città che  deve il suo arrivo grazie ai colonizzatori greci che vennero a Napoli . Secondo il mito , esso nacque dalla trasformazione di una ninfa bellissima dagli occhi verdi con sfumature viola di nome Cynaria , che fu trasformata da Giove , innamorato non corrisposto , in un carciofo duro e spinoso come il carattere della ragazza che lo aveva rifiutato .  In realtà si tratta invece di un ortaggio primaverile ottimo e leggero , dal sapore delicato di cui oggi la Campania detiene il primato di  essere la maggiore produttrice  in Italia .Sono tanti i contorni che si possono fare con i carciofi :il più semplice è quello preparato in padella e insaporito con olive e capperi .Si tratta di un contorno delizioso, facilissimo e velocissimo da preparare.Se siete amanti dei carciofi e volete gustarli con un sapore diverso e squisito, dovete invece assolutamente provare i carciofo arrosto (Carcioffole Arrustute ) che per tradizione si preparano abitualmente a Napoli sia nel giorno di Pasqua che in quello di Pasquetta .In questo periodo infatti il carciofo giunge a giusta maturazione , in quanto prodotto da febbraio a maggio. Per questa preparazione servono i carciofi chiamati ” Mammarelle ” ( vengono così chiamati perchè fanno capolino tra marzo ed aprile : la mamma che darà origine a figli e nipoti fino a maggio ) che vanno infarciti prima della cottura alla brace con olio extravergine di oliva, pecorino fresco grattugiato, prezzemolo tritato, aglio trito, gambi dei carciofi fatti a cubetti, sale e pepe dal mulinello. Ma il segreto della loro bontà risiede, soprattutto, nel  metodo di cottura alla brace che va fatto con l’utilizzo di un foglio di alluminio durante la cottura, che ne preserva il calore al suo interno.Vanno serviti accompagnati da salumi  e formaggi . Semplicissimi veloci e gustosissimi.da preparare sono anche i  carciofi dorati e fritti che si preparano in pochissimo tempo . Un modo più semplice e genuino per gustare questo prodotto di stagione secondo me è quello di sfogliarlo dopo averlo riempito con aglio e prezzemolo tritato , pecorino a pezzettini , un pizzico di sale ed una spolverata di pepe . Essi vanno poi cotti per almeno 45 minuti fino a quando il loro gambo risulta tenero e serviti  a tavola, rigorosamente accompagnati a parte da un intingolo a base di  olio e sale, dove attingere mano a mano le foglie di carciofo .

  • Da non dimenticare infine i funghi trifolati cotti in padella con aglio e prezzemolo. Sono ottimi da soli, ma anche come base per la preparazione di altre ricette.

Ovviamente tra i contorni non potevano mancare i latticini, la cui storia è documentata da tempi antichissimi. Tra questi sono molto importanti le produzioni di latticini in pasta filata, come il fiordilatte , la provola e la mozzarella di bufala .

In ordine di stagionatura, vi riportiamo nella tabella sottostante alcuni tra i più famosi formaggi e latticini usati nella cucina napoletana e campana:

  • La ricotta di fuscella  ,freschissima e leggera, venduta originariamente in cestini vegetali il suo nome deriva dal termine napoletano fiscella , che indica il cestello forato di forma tronco conica, fatto di vimini intrecciato, nel quale veniva trasportata e venduta.
  • La sua produzione  è consolidato nell’area del  Comune di Sant’Anestasia dove in antico era presente un fiorente allevamento ovicaprino Un tempo questa ricotta veniva venduta per strada da venditori ambulanti che giungevano a Napoli dalla provincia con i cesti di vimini, pieni di ricotta, sul capo. Preparavano e vendevano panini con la ricotta, infilzati in bastoncini di legno verticali e sistemati lungo il bordo del cesto, mentre la ricotta veniva servita ai passanti su una foglia di vite, accentuando così il sapore rustico. I più anziani ricordano anche il “Massese”, che era il caglio di formaggio, molto più denso e diverso dalla ricotta.
  • La ricotta fresca, che viene consumata sia da sola che come condimento  come per esempio sulla pasta al ragù’ in quello che viene considerato un  piatto dalle origini antichissime .
  • Sembra infatti che dietro il suo nome ( Manfredi ) si celi una curiosa leggenda legata ad un re.La leggenda vuole che questo piatto fu inventato nel lontano 1250 per il golosissimo Re di  Sicilia  Manfredi di Svezia .  All’epoca il Re era in guerra con il Papato per imporre il suo dominio sull’Italia meridionale,  e durante la sua risalita  giunse con le sue truppe nel Sannio dove fu accolto con grandi onori della popolazione e invitato a gustare un delizioso piatto di pasta insaporito con il suo formaggio preferito : la ricotta.  Questo gesto non fu solo un cortese benvenuto ma anche un modo per aggiudicarsi la simpatia del Re di Sicilia.

  • Attenzione però, la pasta prima del 1250 era servita in bianco con una generosa spolverata di cacio, per questo l’aggiunta del pomodoro a questa meravigliosa ricetta avvenne solo in seguito alla sua importazione e  solo dal 1300  il piatto denominato poi ” Manfredi “è diventato un simbolo della cucina napoletana .

 

  • La ricotta salata, più stagionata, tipica del periodo di Pasqua.
  • La caciottella fresca della costiera sorrentina dal sapore molto delicato
  • La mozzarella di bufala campana  la cui produzione è concentrata soprattutto nella zona dell’aversano ed in quella di Battipaglia .
  • I bocconcini alla panna di bufala  ( o burrielli ) , conservate in anfore di terracotta  e immerse nella panna o nel latte
  • Le scamorze  bianche o affumicate.
  • Il fiordilatte preparato con latte vaccino, che ha la sua migliore produzione nella zona di Agerola .
  • La provola affumicata , un fiordilatte aromatizzato al fumo di paglia umida, colorata esternamente marrone, ed internamente giallognola, dal gusto intenso
  • I burrino di Sorrento,  piccoli provoloncini dal cuore di burro.
  • I  barbi i provoloni e i caciocavalli di varia stagionatura.

Ad accompagnare il nostri cibo corre in nostro soccorso una antica tradizione vinicola risalente addirittura ad antichi greci e romani . I nostri vitigni non hanno nulla da invidiare ai grandi nomi della tradizione italiana campana , classificandosi ai primi posti della speciale classifica che vuole i vini campani tra i più buoni d’Italia.

Tra i  tanti bianchi vi ricordiamo  il  Greco di Tufo . la Falanghina , il Fiano di Avellino , e l’Asprino d’Aversa ,  mentre tra i rossi il Taurasi   in primo luogo, nonché  l’Aglianico , il Piedirosso, (o pere ‘e palummo,) , il Solopaca , il Coda di Volpe , il Falerno,  ed il Lacryma Christi del Vesuvio che si produce sia bianco che rosso.

Molti di questi vini hanno origini antichissime provenienti addirittura dal periodo greco come l’Aglianico che vede il suo nome derivare proprio da ” ellenico “, la Falanghina che venne importata dai coloni greci che fondarono Cuma ( il suo nome deriva da falanga , il palo che veniva usato per sostenere le viti ) , il greco di tufo , la cui vite si racconta fosse stata innestata 2000 prima in  Irpinia e alle falde del Vesuvio , da  greci provenienti dalla Tessaglia ed il tanto decantato dai romani , Falerno bianco , prodotto nell’alto casertano a Roccamonfina sul monte Massico. Un’antica leggenda molto diffusa in epoca romana , racconta , a proposito di quest’ultimo vino che la sua immensa bontà , non era altro che il dono del Dio Bacco che fece crescere sul monte Massico viti lussureggianti in modo da premiare i contadini del luogo che si erano mostrati con lui estremamente ospitali  ( si era presentato a costoro in incognito ) .

Lo strano nome del Piedirosso deriva dal fatto che  i peduncoli del grappo di uva raccolta sono di colore rosso . Il nome del Lacrima Christi si deve invece ai frati gesuiti che avevano grandi vigneti alle falde del Vesuvio . Per fare il loro vino , questi frati, preferivano attendere che le uva passassero quello che era definito il grado perfetto di maturazione e volutamente raccoglievano l’uva quando quindi questa erano oramai ” tardive ” . Ovviamente questo comportava il fatto che da queste uva veniva fuori una scarsa quantità di liquido , una lacrima giusto , giusto . Il vino ottenuto si chiamò quindi per ovvia conseguenza lacrima mentre il Cristo venne fuori dal nome del convento gesuita .

Una più romantica leggenda vuole invece le origine del vino al diavolo Lucifero. Questi dopo essere stato cacciato dalle  schiere degli Angeli Celesti,  venne scagliato violentemente da Dio nel vulcano di Napoli. Gesù Cristo, dispiaciuto per la perdita del più bello e buono dei suoi Angeli, pianse e una sua lacrima cadde nell’area napoletana.


Tre vini campani hanno la denominazione DOCG tutti prodotti nella  provincia di Avellino :

  • Il Taurasi , rosso, anche nella versione  riserva
  • Il  Fiano di Avellino , bianco
  • Il Greco di Tufo  bianco.

Il Fiano risale al periodo greco ed il suo nome deriva dalla regione ” Apia ” da cui Apiano e poi Fiano . Era  un vino molto apprezzato oltre che in epoca greco-romana anche nel Medioevo in quanto pare sia stato il vino preferito di Federico  II di Svevia . Ma piaceva molto anche a re Carlo d’Angiò che impiantò nelle sue vigne oltre 16000 viti di Fiano.

La domenica  a tavola , non possono mancare i dolci  che volete farci, è tradizione.

Babà, cannoli, ma anche i mignon, in realtà qualsiasi cosa che faccia salire il diabete alle stelle è accettabile. A tal proposito bisogna dire che la tradizione culinaria napoletana annovera una grande varietà di dolci. Tra i dolci principali, sono da ricordare i seguenti:

Sfogliatella

È uno dei dolci più tipici e famosi della tradizione napoletana. Lo trovate in due varianti di base, ovvero la sfogliatella riccia, preparata con pasta sfoglia,  oppure la frolla, preparata appunto con la pasta frolla. La sfogliatella, frolla o riccia, fu ideata nel Settecento nel monastero di Santa Rosa situato a Conca dei Marini, nei pressi di Amalfi, e da allora i suo ripieno è composto da una crema di ricotta, semolino, cannella, vaniglia, cedro  e scorzette di arancia candite. In città , i primi conventi a prepararla furono quelli di Santa Maria Regina Coeli , quello di Santa Giovanna Antida Thouret , accanto agli Incurabili ed il convento di Sant’Antonino a Port’Alba in Piazza Bellini.

Riguardo alla bontà del diverso tipo di sfogliatella , In città vi è una secolare divisione tra i sostenitori della frolla e quello della riccia nel contendersi il titolo .di miglior dolce .Tra le varianti che si trovano oggi vi è la Santa Rosa, ( in omaggio al nome del monastero in cui nacque la ricetta )  leggermente più grande e con aggiunta di  crema ed amarene,  e le code d’aragosta, ripiene di una pasta bignè e farcite con vari tipi di crema.

Tra i dolci preferiti dai napoletani possiamo senza alcun dubbio inserire anche le leggerissime graffe fritte  e spesso mangiate nello stesso  momento ( dal tedesco Krapfen ) ricoperte da abbondante  zucchero.  Esse fatte con impasto di patate hanno solitamente una forma ad anello ma possono anche avere una forma a bombolone e guarnite di gelato, panna o  altra golosità.

A carnevale normalmente nelle abitazioni napoletane si è solito mangiare calde ed appena fritte delle piccole graffe fatte con impasto di patate

La pastiera napoletana

Insieme agli struffoli è il il dolce più antico di Napoli . La sua origine è attribuita in città alle suore di clausure del Monastero di San Gregorio , in Piazza San Gaetano , nel centro dei Decumani .Quì le suore preparavano non solo la famosa pastiera  , ma ogni anno a maggio , in onore del protettore , una famosa torta a base di rose e ricotta farcita con fragole, panna e cognac.

La pastiera è oggi , un dolce legato alla tradizione pasquale, ed  è una delle torte più apprezzate di Napoli rappresentando  uno di quegli alimenti tipici della cucina casalinga. È  infatti un dolce tipicamente realizzato a casa, più che in pasticceria  e spesso  con leggere differenze in ciascuna famiglia . La pastiera è spesso in senso bonario , pomo di discordia   tra parenti ed amici ,rappresentando l’ oggetto  di sfida nella preparazione e nel gusto ( ci si vanta spesso di fare la migliore  pastiera  ) . Essa è normalmente composta da una base di pasta frolla simile ad una crostata, farcita con grano, ricotta, zucchero,  uova,  frutta candita e aromi. Tra gli ingredienti come vedete vi è il grano, che a Napoli viene venduto già lessato e pronto per l’uso. Si tratta di un dolce pagano fatto di farina di grano e ricotta che veniva in tempi antichi offerta alla Dea Cerere  ( Demetra ) per inneggiare alla Primavera .


 

Secondo sempre una leggenda pagana  , la pastiera nacque  dal culto della sirena Partenope. .Come infatti tutti sapete , la sirena Partenope , incantata dalla bellezza del golfo disceso tra Posillipo ed il Vesuvio  scelse come sua dimora fissa  il Golfo di Napoli,. Essa in questo meraviglioso luogo  spandeva ogni di tanto in tanto  li suoi canti e la sua voce melodiosa e dolcissima.voce  . La leggenda narra  che lei emergesse  dalle acque  in particolare  modo ogni primavera per salutare le genti felici che popolavano il golfo, allietandole con canti d’amore e di gioia. Una volta la sua voce fu così melodiosa e soave che tutti gli abitanti ne rimasero affascinati e rapiti: accorsero verso il mare commossi dalla dolcezza del canto e delle parole d’amore che la sirena aveva loro dedicato. 

A quel punto  , la popolazione locale  per ringraziarla  di un così grande diletto, decise di offrirle quanto di più prezioso avessero. Sette fra le più belle fanciulle dei villaggi furono incaricate di consegnare i doni alla bella Partenope: la farina, simbolo di forza e ricchezza della campagna; la ricotta, omaggio di pastori e pecorelle; e simbolo di abbondanza , le uova, che richiamando la fertlità rappresentavano il simbolo della vita che sempre si rinnova;  il grano tenero ,e  bollito nel latte come simbolo della fusione del regno animale e vegetale , l’acqua dei di   fiori d’arancio, e altri agrumi visto che la diffusione delle arance in quell’epoca era molto limitato in Europa:  ( fatto, tra l’altro, che suscita non pochi dubbi sulla reale fondatezza storica della leggenda…),   quale profumo della terra campana , le spezie, quale omaggio  di tutti i popoli  del mondo allora conosciuto ;  ed infine lo zucchero, per celebrare la dolcezza del canto della sirena. Partenope   gradì i tanti doni ,  e felice , si inabissò per fare ritorno alla sua dimora dove  inebriata incominciò a mescolare tutti gli ingredienti   al suono del suo  soavissimo canto, finchè non creò questo  unico e buonissimo dolce che superava in dolcezza il canto della stessa sirena.

La zuppa inglese.

Questo dolce ,  nonostante il nome anglosassone è una ricetta tutta napoletana  nata in maniera del tutto casuale e con  alle sue spalle una bella storia .

Tutto nacque ai tempi borbonici di re Ferdinando I detto re nasone . Egli  all’indomani della restaurazione con l’entrata in potere di nuovo del suo regno , dopo la parentesi francese che lo aveva costretto ad un esilio di ben 10 anni a Palermo  volle ringraziare ed onorare gli inglesi , dando un gran ricevimento  in loro onore  ed in particolare all’ammiraglio inglese Nelson che aveva fatto felice la regina portando tutti i ribelli alla loro esecuzione .

Il grande protagonista della storia è comunque  il pasticciere di corte che pare sia stato colto di sorpresa per la preparazione del banchetto. Egli secondo una prima versione dei fatti ,  non ebbe il tempo di procurarsi gli ingredienti freschi per la preparazione del dolce e a quel punto per preparare la torta destinata al ricevimento , decise di utilizzare gli avanzi di pan di spagna  e dolci secchi di cui disponeva e  di mescolarli a strati con abbondante rum e crema pasticcera quasi a farne una zuppa . Alla fine  chiese al cameriere di servire la zuppa all’ospite inglese , ovvero la zuppa all’inglese ….. la zuppa inglese .

 

Un’ altra versione  invece, racconta che il re avesse dato al pasticciere di corte , l’ordine di preparare per la festa la sua torta preferita fatta con pan di spagna glassata al naspro ( torta mariaggio ) . Il succulento dolce che era stato preparato dal cuoco per il banchetto,  sarebbe però stato fatto rovinosamente cadere dal giovane cameriere apprendista di turno, facendolo frantumare in più parti .

A quel punto non c’era più il tempo di preparare un altro dolce ed il capo pasticciere doveva inventarsi qualcosa . Egli allora non si perse d’animo e decise di usare in qualche modo quello frantumato. Con un coltello subito pareggiò i pezzi più grandi . Subito dopo li affettò e li dispose a strati , alternandoli con una veloce crema pasticciera e amarene irrorandoli continuamente con uno sciroppo al maraschino  . Creò così una specie di cupola che ricoprì con due dita di meringa di bianco d’uovo.

Dopo aver quindi dato origine a  questo dolce in maniera del tutto casuale il cuoco con tono arrabbiato rivoltosi  al giovane cameriere responsabile della malefatta  disse ” .. e mo’ puorta sta zuppa all’inglese …

Il giovane ,  intimidito ed impaurito portò la torta a tavola e re Ferdinando vedendo l’insolito dolce chiese subito a lui quale fosse il nome di quel dolce mai visto prima .Al giovane cameriere non venne altra idea che rispondere la ” zuppa inglese “.

 

Il re , allora furbescamente rivolto al suo ospite disse che il suo pasticciere di corte aveva realizzato per l’occasione un nuovo dolce che aveva chiamato in omaggio all ‘ammiraglio inglese proprio ZUPPA NGLESE.

Babà

Il Babà a Napoli è un culto, una venerazione! Così belli, lucidi con diverse farciture sono i protagonisti per eccellenza delle vetrine di ogni pasticceria napoletana.
E’ diventuto nel tempo un dolce classico della tradizione napoletana ma bisogna dire che le sue vere origini sono polacche … ed anche abbastanza altolocate. Sarebbe infatti stato creato nel suo esilio in Lorena nel 1735 , da Stanislao Leszczynski, già re di Polonia e suocero di Luigi XV , avendo sposato sua figlia Maria .

 

 

Stanislao Leszczinski, e’ stato re di Polonia dal 1704 al 1735 , fino a quando cioe’ Pietro il Grande, Zar di tutte le Russie insieme ai suoi alleati, la Prussia e l’Austria, gli mosse guerra, e lo sconfisse conquistando la Polonia .
Ma Stanislao non era uno qualunque. Era il suocero di Luigi XV di Francia, e per questo motivo, dopo averlo detronizzato, come contentino gli diedero il Ducato di Lorena.
Gli inverni da quelle parti sono lunghi, freddi e nevosi, e spesso ci voleva e ci vuole ancora oggi qualcosa di forte per superare la bassa temperatura.
Lui aveva trovato il rhum, un’acquavite derivata dalla canna da zucchero, importata dalle Antille.
Stanislao Leszczinski viveva in una prigione: dorata, ma pur sempre una prigione. E’ comprensibile perciò che ogni tanto, per non pensare al passato, che gli faceva tristezza, e al futuro, che gli faceva paura, alzasse un po’ il gomito.
Il tipico dolce che gli veniva preparato a corte era il Kugelhupf, un dolce originario dell’Alsazia che il re ritenendolo troppo asciutto non gradiva particolarmente.
Un giorno Stanislao, che aveva già ingollato vari bicchierini di rhum, si accorse di avere una gran voglia di un buon dolce. Quando il maggiordomo gli piazzò sotto il naso l’ennesima porzione di kugelhupf, l’allontanò rabbioso scagliandolo sulla tavola, lontano da sé.
Il piatto terminò la sua corsa contro la bottiglia di rhum posata lì accanto, e la rovesciò inzuppando completamente il kugelhupf prima che qualcuno potesse intervenire.
Avvenne la metamorfosi : il dolce cambio’ colore e odore. Il re lo assaggio’ e ne rimase strabiliato. Il dolce gli piacque moltissimo e tutti i giorni, divenutone oramai ghiotto pretendeva di averlo consegnato a tavola.
Ma al dolce inventato casualmente dal sovrano mancava un nome.
Fu sempre Re Stanislao ad inventare il nome, dedicando questa sua creazione ad Alì Babà, protagonista del celebre racconto tratto da “ Le Mille e Una Notte”. Libro che il sovrano amava leggere e rileggere nel suo lungo soggiorno a Luneville ( Ducato di Lorena ).
Successivamente il dolce fu portato in Francia dalla figlia di Stanislao, Maria e, quando i cuochi francesi lo prepararono per la prima volta, il suo nome iniziò a modificarsi e passò dal polacco babka a “babà” con l’accentuazione tipica del francese sull’ultima sillaba.
Il babà fu introdotto a Parigi all’inizio dell’ottocento dal famoso cuoco-pasticciere Sthorer, che non aveva mancato su invito di Maria , una sua visita nelle cucine di Luneville, per assistere alla preparazione del famoso dolce .
A tempo di record divenne la specialità della pasticceria parigina Sthorer di Rue Montorgueil .
In tanti lo conobbero e lo apprezzarono e le ordinazioni fioccavano fittissime dalla bottega di “maitre” Sthorer dove i morbidissimi babà, si vendevano da due a sette e perfino otto franchi l’uno.
Nonostante il suo iniziale successo , solo quando giunse a Napoli , portato dai famosi Monzù , raggiunse nell’800  la sua massimo fama e la forma definitiva assai caratteristica (quella di un fungo) .
Da allora , il Baba’ , anche se di origini polacche , e’ divenuto un simbolo della pasticceria napoletana e della tradizione dolciaria napoletana e la domenica è quasi impossibile non trovarlo sulla tavola di un buon napoletano .

Famoso per la sua caratteristica forma a fungo e un impasto soffice, che viene imbevuto nel rum o in altri liquori. Lo trovate in varie dimensioni e farcito  anche con un ripieno di crema , cioccolato o panna.

 

A proposito di Polonia non possiamo certo dimenticare” la polacca Aversana ” un tipico dolce originario dell’antica cittadina di Aversa , divenuto nel tempo una vera e propria tradizione del nostro territorio ( Casertano e Napoletano ) .

La polacca aversana è un dolce molto simile alla classica brioche ma molto più soffice, , farcito con grondante crema pasticciera e amarene sciroppate  e ricoperta da un croccante zucchero . La morbidezza dell’impasto, la ricchezza della crema ed il gusto leggermente acidulo delle amarene fanno di questo dolce una vera e propria delizia della nostra arte dolciaria.


L’origine del dolce risale agli anni ’20, quando una suora polacca donò ad un pasticcere la ricetta di una torta che preparava per le consorelle del convento. Con il passare del tempo Il pasticciere  rivisitò la ricetta affinché potesse incontrare il gusto dei suoi compaesani e da  quel momento nacque questa leccornia, il cui nome rende omaggio alla suora polacca.

 

Struffoli

Anche questi dolcetti, pur essendo un dolce tipicamente delle festività  natalizie è  tra i più rappresentativi della pasticceria napoletana .Esso è certamente il dolce più antico della nostra città avendo addirittura origine greca  : il nome deriva infatti da strongulus.

Gli struffoli natalizi,  sono dolci  tipici  fatti da molte palline piccole e fritte, condite con miele. e sono preparati con una ricetta molto semplice: l’impasto è a base di uova, farina, strutto, liquore all’anice e un po’ di zucchero e una volta pronto vengono ricavate delle palline, successivamente fritte e addolcite con del miele e confettini.

In città in passato erano molto apprezzati quelli fatti dalle monache dei conventi della Croce di Lucca e di Santa Maria dello Splendore(  quello di Santa Croce era anche famoso per la bontà delle sue sfogliatelle frolle  e per le sue ” monachine ” ).

Zeppole di San Giuseppe fritte o al forno,

Preparate generalmente nel periodo di San Giuseppe, le zeppole sono delle ciambelle ripiene di crema pasticciera che vengono fritte o cotte al forno, per poi essere guarnite con delle amarene e zucchero a velo.

La delizia al limone, fatta a base di limoni della costiera sorrentina e limoncello.

• La torta caprese, a base di mandorle e cioccolato , nata ovviamente a Capri.

Essa , con  la delizia al limone ed il babà è tra i dolci preferiti per i pranzi e le cene .

La monachina , un dolce di pasta sfoglia nato secondo molti nel 1700 nel Monastero delle Trentatrè, così chiamato per il numero delle suore che ospitava.

La deliziosa , composta da due dischi di pasta frolla  che racchiudono una crema al burro sigillata con granelle di nocciola

Le  DIvinamore , un dolce antichissimo di epoca Angioina , il cui nome proviene dalle monache del convento di clausura del Divino Amore oggi non più esistente che era ubicato nei pressi di San Biagio dei Librai , accanto al vico delle Paparelle , nei Decumani. Sono dolci realizzati su una base di pan di Spagna con pasta di mandorle , marmellata di albicicocca e canditi , ricoperti di una leggera glassa rosa .

Le suore , molto brave nell’arte dolciaria , li confezionavano per rendere omaggio a Beatrice di Provenza , madre del re Carlo II d’Angiò . Esse erano veramente brave e molto note in città anche per la loro meravigliosa Pasta Reale , dei pasticcini di pasta di mandorle dai delicati colori pastello che vanno dal rosa , al verde, al giallo, sistemati su un pezzo di ostia . Le suore inventarono questo dolce per rispettare la dieta a loro imposta di mangiare magro e senza alcun grasso animale . Confezionarono  quindi a tal scopo un dolce fatto con farina ,zucchero,spezie e mandorle finemente tritate.

La pasta Reale , che era ben fatta anche nel Convento della Maddalena , era molto famosa in città e molto usata , come oggi , sopratutto nelle festività natalizie , dove non mancava mai di essere presente in tavola. . Il suo nome ” Reale ” nasce secondo antiche racconti da una visita fatta dal re  Ferdinando IIV di Borbone al convento di San Gregorio Armeno  .Si racconta a tal proposito  che al re , accompagnato nel refettorio , fuu offerto un buffet fatto di aragoste, pesci, polli e frutta . Il re , che da poco aveva finito di pranzare rifiutò con garbo l’invito, ma nonostante questo le suore insistettero a tal punto da farne ameno un piccolo assaggio . Al primo morso , il sovrano capì che  tutto quel ben di Dio erano solo dolci di pasta di mandorle plasmati.

Le suore di San Gregorio , primeggiavano nella preparazione della pasta reale ( anche se la paternità è rivendicata dal convento della Martorana a Palermo ) . Il colore verde pare infatti nato proprio in questo convento . Uno strano aneddoto , racconta di un pò di colore caduto dal pittore Giacomo Dal Po mentre stava affrescando le cucine del convento sulla pasta mandorlata mentre le suore preparavano il dolce .Dopo una prima fase in cui esse si arrabbiarono molto ,, il nuovo colore verde conquistò le religiose .

Famosi sono anche i gelati, ( tra cui le coviglie e gli spumoni  ) ed i sorbetti .Il primo a base di latte ed il secondo a base di acqua . La loro lunga tradizione nasce dalla imprescindibile necessità nata nel corso dei secoli da parte dei napoletani di avere bevande ghiacciate o quantomeno fresche nelle stagioni estive afose e calde . Per ottenere questo , in inverno si raccoglieva la neve  che veniva poi conservata in profonde fosse con pareti di mattoni lisce e pulite (le nevriere ) . Pressata e poi tagliata in blocchi di ghiaccio veniva portata in città per fare sorbetti , gelati o solo rinfrescare vino e bibite varie  , l’acqua da bere ( acqua nevata ) e mantenere fresca la frutta .

Tra i dolci di carnevale vi sono poi le famose chiacchiere  ed il sanguinaccio  (che nella versione originale veniva prima  preparato con sangue di maiale e cioccolato) al quale sono spesso abbinati  anche i savoiardi , una sorta di biscotti leggeri da pasticceria. Oggi al posto del sangue di maiale ( ne è stato abolito l’uso ) si usa la crema di cacao  e varie spezie .

Un altro dolce tipico di carnevale è il migliaccio di origine beneventana fatto a base di semolino ( in qualche modo simile al ripieno della sfogliatella ).

 

A proposito di Benevento , tipico del 2 novembre , festa dei morti  , è il torrone  che, a differenza del torrone  classico, non è  fatto a base di  miele  ma di  cacao , ed è preparato in vari gusti, con nocciole o frutta secca e candita, ma anche al  caffè  o altri gusti ancora.

In occasione della festa dei morti , il 2 novembre è solitamente presente nelle varie pasticcerie e sulle nostre tavole il cosidetto ” Torrone dei morti ” Esso si presenta come un tronchetto  a forma di piccola bara fatto di un  morbido impasto di cioccolato , nocciole , crema di mandorle , crema di pistacchi , cocco e  caffè , tutti contenuti in un solido involucro di cioccolato . Esso era ed è attualmente un omaggio che i vivi preparavano in onore dei defunti ed in piccolo formato si offrivano per antiche tradizioni  in tale periodo alle proprie fidanzate.
Nelle festività natalizie ritroviamo inoltre una serie particolare di dolci .
Questi  sono:
  • roccocò, biscotti duri a forma di ciambella e a base di mandorle., il cui nome deriva dal francese rocaille. Essi essendo molto duri e resistenti si è soliti ammorbidirli bagnandoli nel vermouth , nel vin santo o nel marsala .
  • mustacciuoli, biscotti di forma romboidale ricoperti con glassa di cioccolata che furono inventati insieme al sanguinaccio ed i raffiuoli al cioccolato dalle clarisse del Monastero di Santa Chiara . Essi sono anche riportati da Bartolomeo Scappi, cuoco personale di Pio V, in un  suo  famoso pranzo .Il nome deriva dal latino mustaceum, che indicava una focaccia dolce tra i cui ingredienti figurava il mosto d’uva cotto su foglie di alloro 
  • raffiuoli, dolci di pan di Spagna ricoperti di una glassa bianca di zucchero .
  • susamielli, dolci a base di mandorle a forma di “S” che hanno questo nome perchè una volta venivano cosparsi di sesamo . Anticamente di questo dolce erano presenti tra varianti . Il primo chiamato ” sosamiello nobile ”  destinato a persone di riguardo e preparatocon farina biana , il secondo , chiamato ” sosamiello per zampognari ” , destinato al personale di servizio, i contadini in visita e ovviamente i zampognari che andavano nelle case a suonare a Natale , fatto con farina e vari elementi di scarto ed infine il terzo , chiamato ” sosamiello del buon cammino ” fatto con marmellata di amarene , che veniva offerto ai religiosi. Dire  a qualcuno ” sei un  sosamiello “, non è un complimento in quanto in genere indica una persona pesante e noiosa .
  • Le sapienze, variante dei susamielli, che venivano preparate  nel 600 dalle suore clarisse nel convento della Sapienza a  Santa Maria di Costantinopoli .
  • Gli sciù , cioè dei bignè di varie forme farciti di crema alla cioccolata , al caffè  e alla vaniglia .
  • La zuppetta napoletana o diplomatica , fatta di vari strati di pasta sfoglia alternati con pan di Spagna e crema pasticciera con aggiunta di amarene sciroppate .
  • I cannoli napoletani , di origine siciliana ma rielaborati alla napoletana con un infarcimento fatto di sola ricotta zuccherata . Essi sono talvolta bicolori e mostrano da un lato ricotta bianca e l’altro ricotta al cacao. Il cannolo rimane  counque un dolce tipicamente siciliano ed a Napoli si può anche gustare quello originale visto che  ogni mattina all’alba arriva una grossa scorta tramite un postale , che viene poi rivenduto ai consumatori insieme ad altre prelibate dolcezze siciliane in alcuni punti vendita presenti all’interno del porto . Sulle sue origini si raccontano due divertenti versioni, una religiosa ed una profana .Secondo la prima i cannoli sarebbero  nati in un convento di Caltanisetta dove una suora aveva recuperato una antica ricetta araba e quindi imbastito per la prima volta il famoso dolce. Secondo invece la versione profana , i cannoli hanno una connessione fallica  e sono solo il risultato di un esperimento gastronomico delle favorite di un emiro saraceno che viveva in epoca araba  sempre a Caltanisetta. Si racconta infatti che le donne del suo harem nel mettere su il dolce provarono  ad imitare  le fattezze del membro del sultano per esaltarne la mascolinità.o
  • Le cassatine di ricotta , rotonde e ricoperte di glassa sono anch’esse di origine siciliana come la cassata , una torta di ricotta guarnita di frutti canditi .Apparentemente semplice da realizzare, la preparazione della cassata alla siciliana richiede invece molta abilita’, soprattutto per creare le elaborate decorazioni di cui è largamente provvista. Si dice che la cassata sia nata tra il IX e l’XI secolo in Sicilia durante le dominazioni arabe, che avevano portato a Palermo limoni, cedri, arance amare, mandorle e canna da zucchero. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un dolce di origini arabe recuperato e perfezionato dalle solite monache di clausura che stavolta però ritroviamo nel convento della Martorana a  Palermo . Le suore , inventata la pasta reale ,ricoprirono l’allora involucro della prima versione della cassata, con un più sottile strato di pasta martorana. Per  “pasta reale” nella  versione napoletana, si intendono una serie di dolcetti composti di mandorle tritate finissime, zucchero in peso pari a quello delle mandorle ed albume d’uovo per legare. Nella versione tradizionale il dolcetto viene ricoperto di naspro (zucchero disciolto sul fuoco in poca acqua, del quale poi si cospargono i dolcetti) ma è ormai difficilissimo trovare pasticcerie che lo preparino con tale rivestimento, per via dell’estrema dolcezza del sapore che può risultare stucchevole. Oggi nelle nostre grandi festività vedrete che non manca mai anche la classica cassata, siciliana che insieme ai cannoli , nonostante la loro certa origine siciliana , non manca mai nelle nostre  pasticcerie . Essa è nata originariamente per celebrare la Pasqua dopo i sacrifici quaresimali ma in seguito con il passare del tempo è sempre più divenuta di consumo comune durante tutto l’anno.  I suoi decori sono barocchi, e sontuosi e la sua derivazione in realtà è di origine araba: il suo nome deriva  infatti dal   vocabolo arabo “Quas’at“, che significa  bacinella , scodella grande e tonda, e la ricchezza dei suoi ingredienti rispecchia le caratteristiche della cucina saracena, che ama armonizzare sapori contrastanti, come il Pan di Spagna ripieno di ricotta impastata con zucchero e pezzetti di cioccolato. Ci troviamo con la cassata di fronte ad uno dei classici prodotti importati come tanti altri dalla tradizione culinaria  siciliana i cui scambi culinari diventarono particolarmente intensi sotto il regno di re Ferdinando che a causa dell’arrivo dei francesi si trasferì per ben due volte in esilio in Sicilia , trattenendosi la seconda circa 10 anni e sposando in seconde nozze la nobile siciliana Lucia Migliaccio ,duchessa di Floridia .
  • Gli struffoli, di cui si è già parlato.
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La cena della vigilia si completa con le ciociole, ossia frutta secca (noci, nocciole e mandorle), fichi secchi e le castagne del prete, cotte a forno.

La frutta è spesso presente al termine del pasto.

Tra i frutti più apprezzati troviamo la mela annurca , le crisommole ( varieta’ di albicocche note già nel 500) , le ciliegie ( cerase d’’o monte ) , le nespole , le sorbe (che si raccolgono a grappoli ancora acerbe ), i cachi ( cachissi ) , diverse varietà di fichi e gelsi bianche e rossi   ormai molto rari.   la saporita pesca gialla col pizzo (percuoco, o percoca in napoletano ) che viene anche usata, a pezzi, per insaporire il vino locale bianco o rosso servito freddo secondo la tradizione spagnola, similmente alla sangria.

Il cachisso è il frutto dell’albero di cachi arrivato in Europa a metà ottocento, che ebbe grande diffusione sopratutto in Campania nell ‘Agro Nocerino. Questi frutti , in napoletano  oltre a cachissi vengono anche chiamati ” legnasante”e questo perchè secondo alcuni quando si apre il frutto si vede nel suo interno un’immagine del Cristo in croce  e secondo altri perchè quando cadono tutte le foglie , rimane si un albero spoglio di foglie , ma per miracolo pieno ancora di frutti non caduti. Altra ipotesi è il fatto che questo frutto matura invece all’approssimarsi della festa di Ognisanti ( da cui legnasanta) da cui prende il nome .

La mela annurca  invece , è un frutto tipicamente campano di origine antichissime . Secondo alcuni il nome annurca deriva addirittura dagli scritti di Plino il Vecchio che parlava di una mela Orcola , frutto di alberi coltivati nella zona dell’Orco, nelle campagne tra Napoli e Puteoli ( mela Orcola , da cui anorcola poi annurca ). Secondo altri invece , la parola annurca deriva dal latino indulcare , cioè addolcire .

Il suo processo di maturazione è un vero e proprio rito che non ha nulla di industriale .  Esso conserva ancora oggi i lenti tempi della natura venendo le mele messe a maturare ancora semiacerbe su un letto di paglia e girate quotidianamente , un quarto di giro alla volta  , fino a che non maturano il loro tipico colore rosso brillante . E’ un vero spettacolo vedere un melaro e se potete non mancate di assistere alla lavorazione di maturazione di queste mele che avviene con persone addette distese su ampi cuscinoni che girano a mano ogni singola mela. Molti li trovate all’altezza di Melito , un comune che prende il nome proprio dalle mele .

La mela annurca è la protagonista di un famoso  salutare detto : ” Una mela al giorno toglie il medico di torno ” Questo è dovuto a suoi notevole effetti benefici scientificamente dimostrati  ; molti recenti sudi condotti su cellule tumorali in coltura del colon-retto, fegato, leucemia e melanoma hanno messo in evidenza una riduzione dello sviluppo delle cellule di circa il 50% se alla coltura viene aggiunta della la mela con la buccia e del 30-40% se invece si aggiunge la solo polpa .
Questo perché nella buccia e nella polpa della mele sono contenuti molti antiossidanti naturali chiamati polifenoli che una volta introdotti nel nostro organismo vengono poi elaborati ( attivati ) da batteri intestinali che li trasformano in composti bioattivi antiinfiammatori, antitumorali e anti-diabetici , altamente protettivi e molto utili per il nostro organismo.
La buccia di mela inoltre essendo ricca di pectina , non solo ti aiuta nel controllo della glicemia , ma con le sue fibre favorisce il transito intestinale ( utile in caso di stipsi o diarrea ) e aumenta il senso di sazietà , riducendo la fame .
Inoltre , oltre ad una preziosa azione antiemorragica , svolge , grazie alla quercetina in essa contenuta , una grande azione protettiva sui polmoni rallentando la degradazione cellulare e proteggendoci quindi dai danni dell’inquinamento atmosferico e sopratutto da quelli prodotto dal fumo si sigaretta.

Per tutte queste sue proprietà , in città , da tempi antichi è sempre stato considerato il frutto più adatto per bambini, anziani e ammalati,a cui si propone grattuggiata o cotta .La tradizionale mela cotta al forno o bollita a pezzi è sempre stata considerata un toccasana per lo stomaco e per tutti i bambini con la febbre e/o diarrea ( va bene anche la sola acqua di bollitura delle bucce ).

Rcordatevi che di questo frutto esistono due varietà :la prima ,più acerba è chiamata ” sergente ” , mentre la seconda più dolce e pregiata è invece chiamata ” caporale .

E’ arrivato il momento del cocomero . A Napoli nei quartieri nobili viene chiamato Anguria mentre in quelli più popolani mellone .

Le fette di anguria  (‘o mellone) erano una volta vendute fresche d’estate sulle bancarelle dei mellunari, ormai quasi scomparsi ( qualcuno resiste ) L’acquisto di un mellone intero era spesso preceduta dalla prova,  ossia il taglio con un lungo coltello di un tassello piramidale che dava l’opportunità al (potenziale) acquirente di assaggiare la dolcezza dell’anguria prima dell’acquisto. Il tassello, dopo l’assaggio, veniva rimesso in sede al momento dell’acquisto. Questa pratica è stata abbandonata da diversi anni principalmente per motivi igienici.

 

Il cocomero, fu introdotto in Europa dai mori nel XIII secolo .

A Napoli tendiamo a chiamare tutte le varietà di cocomeri con il nome ” mellone ”

Con il nome di  ” mellone d’acqua ” chiamiamo il melone rosso (per distinguerlo dal bianco ) , cioè il classico cocomero

Con il nome “mellone di pane ”  chiamiamo invece il cantalupo ,cioè quel mellone dalla buccia marroncina e la polpa arancione .

Con il nome di ” mellone giallo ” intendiamo quel mellone giallo oblungo con la polpa gialla o bianca .

Con il nome ” mellone d’appennere ” intendiamo quel mellone verde rugoso con la polpa bianca che si conserva spesso anche appeso per Natale  fuori al balcone .

 

 

La frutta secca  è consumata tipicamente durante le feste come detto con il nome di ciociole

Le castagne sono usate arrostite sul fuoco (caldarroste ) e spesso vendute nel periodo invernale su improvvisate ‘bancarelle ‘ ambulanti che per mantenerle calde le servono nel classico “cartoccio”, un involucro di carte. Ma vengono comunemente consumate anche semplicemente allesse , ossia sbucciate e lessate con foglie di alloro .

I pranzi e le cene più abbondanti terminano sempre con un buon caffè  ed un  liquore.

Il principe per eccellenza dei liquori locali è il limoncello , la cui nascita è strettamente legata a Sorrento, Amalfi , Procida , Campi Flegrei e Capri. La vera patria è comunque Sorrento , dove viene coltivato con grande pazienza un  limone di grandi dimensioni , utilizzando i ” pergolati sorrentini “. .Questi , oltre a donare al visitatore uno spettacolo meraviglioso, servono a rallentare ed ad allungare il periodo di maturazione dei limoni migliorandone così la qualità ed esaltandone le proprietà organolettiche . Un metodo utilizzato e tramandato a noi dai padri Gesuiti in voga dal seicento.

All’ormai diffusissimo limoncello, realizzato dalla macerazione delle bucce di limone nell’alcool., era una volta preferito anche il nocillo  un liquore dal sapore forte , preparato direttamente con le noci del Vesuvio , usato come amaro per digerire.Viene tradizionalmente confezionato con 24 noci fresche raccolte il 24 giugno , giorno dedicato a San Giovanni Battista ( ovvero sei mesi prima della nascita di Cristo ). .Le noci vanno assolutamente raccolte in questo giorno perchè una leggenda vuole che in questo giorno i prodotti della terra abbiano una particolare forza e potere.. Antichi racconti parlano di streghe che si riunivano intorno ad un albero di noce , la notte del 24 giugno , praticando balli e riti magici . Con i frutti di quell’albero , poi ricchi di magiche virtù preparavano un liquore che mostrava  incredibili effetti terapeutici .

Le noci vanno quindi raccolte di notte prima che esse vedano la luce del sole , prima cioè che la rugiada li ricopra ed incominci la festa di San Giovanni . Ma ricordate che di queste , quello che è importante è il mallo , esso deve essere verde e tagliato in quattro parti prima di essere messo a macerare con alcool puro e aromi segreti in damigiane o bottiglie .

Il suo effetto , oltre a quello di essere un potente digestivo ,  mostra azione attiva sull’emicrania e secondo molti  anche nei confronti delle malattie mentali e ferite alla testa.

Un tempo , preparati sopratutto da suore e monaci nelle spezierie dei vari conventi ( sopratutto benedettini , camaldolesi ,e verginiani ), sulla tavola delle famiglie napoletane erano spesso presenti  pronti ad essere usati in ogni circostanza i ROSOLI . Si trattava di un tipo di liquore derivato dalla macerazione ed infusione alcolica di petali di rosa . Nelle case napoletane si preparavano abitualmente rosoli di amarene , di fragole , di noccioli di albicocca , o di nespola , al cioccolato, al caffè e d ai quattro agrumi .

Ah ! Dimenticavo il famoso liquore Strega , prodotto a Benevento , un digestivo alle erbe di colore giallo zafferano .

Al termine di un pranzo o di una cena non può mancare una tazzulella ‘e cafè, che talvolta viene servito al tavolo del ristorante, ma più spesso si va a prendere al bar.
Gran parte dei Napoletani ritiene che il caffè partenopeo sia unico per aroma e densità. Molti  leggende cercano di avvalorare quest’affermazione in base a vari motivi, che vanno dall’acqua del Serino ,  al tipo di miscela, alla calibrazione della macchina, che va adattata alla umidità ambientale  o, più semplicemente, all’abilità dei baristi napoletani. Comunque sia sta di fatto che il caffè fatto a Napoli è veramente quello più buono ma secondo me , solo per il fatto che esso è preparato  e bevuto con amore .

Ecco secondo me  Il segreto dell’eccellenza del caffè napoletano sta tutto qui. Basta d’altronde vedere il tempo che un napoletano impiega nel fare un caffe che sia con  la classica caffettiera napoletana, detta  cuccumella, o con la semplice  moka ma mai con le veloci cialde. Quelle sono da bandire perchè non rilasciano nella preparazione del caffè alcun odore nell’aria..
La spiegazione del segreto del caffè napoletano è uno solo : a Napoli il caffè non è amato perché è buono; è buono perché è amato. E’ infatti davanti a un caffè che nascono le migliori amicizie, le più belle storie d’amore e si discute per un rigore dato o non dato alla propria squadra del cuore.
Un buon napoletano non rifiuta mai un caffè, a qualsiasi ora della giornata. Quindi lo farai contento se vuoi offrirgliene uno. Ma guai a darglielo dalla macchinetta da ufficio a gettone. Per un napoletano verace quello è tutto tranne che un caffè (è una “ciofeca“).
Il caffè’ deve essere buono e a questo proposito bisogna dire che il napoletano ha l’olfatto molto fine, e già dall’odore capisce se il caffè è buono o meno. Un caffè bruciato rischia di rovinargli l’intera giornata, così come un caffè annacquato.
Anche al bar ci sono dei riti ben precisi che involontariamente vengono usati perché oramai sono diventati una amabile consuetudine.Se vedi un gruppo di napoletani al bar prendere dei caffè si resta affascinati nel vederli compiere in maniera automatica dei gesti senza neanche accorgersene.
Innanzitutto il napoletano odia bere il caffè di fretta, quindi va gustato lentamente. Questo deve poi essere sempre accompagnato da un bicchiere d’acqua (se il barista dimentica di dartelo, il napoletano puntualmente lo richiede). L’acqua serve a “sciaquarti “( pulirti ) la bocca prima di assaporare il caffè’, in maniera da apprezzarne di più il sapore e l’aroma.
Mai, poi, usare un bicchierino di plastica. Il caffè si beve rigorosamente in una tazzina di ceramica, oppure per chi ha gusti un po’ più particolari in un bicchiere di vetro. ( anche questo è comunque da abolire perche non mantiene la stessa temperatura della tazza di ceramica ) Ma mai in un bicchierino di plastica.
C’è chi beve il caffè completamente amaro, chi con una punta di zucchero e chi con massimo 2 cucchiaini. Ma un vero napoletano normalmente vuole sentire fino in fondo l’aroma del caffè e lo zucchero deve essere giusto quel poco che lo addolcisce.E’ abitudine lasciare una mancia (pochi centesimi) al barista che ti farà un caffè. E’ un “grazie anticipato”, quindi ci si aspetta un ottimo caffè. Un modo per raccomandarsi al barista affinché il caffè preparato sia buono.

A Napoli “a tazzulella ‘e cafè” è un rito quotidiano e la giornata non può cominciare senza aver preso il primo caffè a colazione, seguito poi da quello nella pausa a metà mattina, dopo pranzo, nel pomeriggio, e talvolta dopo cena, quasi a scandire i vari momenti della giornata.
Un momento piacevole da dedicarsi per distrarsi dai tanti problemi. Una pausa per chiacchierare del tuo passato o futuro fine settimana, della tua nuova macchina o della partita di domenica.
E’ la scusa migliore per rivedere un vecchio amico. Insomma un vero  momento di socializzazione .

Nel resto del mondo il caffè si beve per risvegliarsi, o per prendersi un momento di pausa, per poi ributtarsi nel lavoro. E’ dunque usato per superare lo stress e ritornare al lavoro più carichi ed efficienti. Una bevanda gradevole da ingoiare da soli, velocemente, prendendolo magari alla distributrice automatica dell’ufficio.

A Napoli il caffè invece non serve per risvegliarsi: viene usato come accompagnamento dell’unico antistress che il napoletano concepisca: la socialità.

Esatto! Il caffè a Napoli possiamo considerarlo come un induttore di socialità.
E’ questo il pretesto per fare due chiacchiere, per scambiarsi qualcosa; un “fattariello“, una confidenza, una battuta. Questa socialità libera la mente e allevia l’animo trasformandosi in antistress.  Il caffè è un modo per ricordarsi che i piaceri della vita vanno condivisi.

Il caffè e’ un modo talmente forte di rapportarsi con il prossimo dei napoletani che lo ha portato addirittura a socializzare anche con chi non conosce o conoscerà mai.
Vi sembra strano, vero? E invece no. Il gran cuore dei napoletani lo ha portato a inventarsi il “caffè sospeso“.
Si usava e vi assicuro, si usa ancora, a Napoli, talvolta, prendere un caffè al bar ma pagarne due (per chi viene dopo e non può pagarselo).

In questo modo chi non può permettersi il caffè al bar, ha un caffè offerto da qualcuno. I caffè sospesi vengono segnati su una lavagnetta. Di tanto in tanto qualcuno si affaccia alla porta e chiede se c’e “un caffè sospeso”…. e spesso riceve in cambio anche un sorriso.
Il caffè sospeso è sempre stato un gesto solidale e filantropico fatto da qualcuno che entrava all’interno di un bar con uno stato d’animo molto felice e gioioso.
Proprio grazie a questo suo stato d’animo, egli decideva di prendersi un caffè e pagare sia la sua consumazione, sia quella che sarebbe avvenuta dopo di lui: aggiungendo i soldi necessari per pagare un’altra tazza di caffè. Praticamente, in poche parole, veniva offerto il caffè ad uno sconosciuto che sarebbe entrato nel locale dopo di lui.

Se la persona arrivata successivamente avesse chiesto la presenza di un caffè sospeso, questo sarebbe andato certamente a lui, altrimenti a chiunque ne avesse chiesto la presenza.
Il famoso scrittore napoletano, Luciano De Crescenzo, che ha scritto un libro intitolato proprio “Il caffè sospeso”, racchiuse in una bellissima frase questa vecchia abitudine partenopea: Quando un napoletano è felice per qualche ragione, invece di pagare un solo caffè, quello che berrebbe lui, ne paga due, uno per sé e uno per il cliente che viene dopo. È come offrire un caffè al resto del resto del mondo…


Questa è Napoli, signori miei, questo e’ il cuore dei napoletani, se c’e da festeggiare qualcosa, se la giornata è iniziata particolarmente bene, o anche solo per solidarietà, il caffè sospeso rappresenta la voglia di condividere la tua felicita’ con chiunque.
Il semplice gesto del caffè sospeso e’ molto di più di quello che appare. Lasciare un caffè pagato a beneficio di un qualsiasi avventore sconosciuto e’ la grande generosità del popolo napoletano. E’ la fiducia nel prossimo. E’ un gesto di speranza. Perché’ ti fidi del barista e speri che un giorno quel qualcun offra ad un prossimo un gesto d’amore e di solidarietà. Speri che quello a cui hai offerto il caffè, un giorno, quando le cose andranno meglio, si ricordi di offrirlo a qualcun altro. Perché’ non aspetti una tragedia o un terremoto per dimostrare a qualcuno che gli sei vicino comunque!
E ‘ un caffè offerto… a chi non conosci, all’intera umanità.

 

ARTICOLO DI ANTONIO CIVETTA

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