Siete mai stati al Museo Archeologico di Napoli (MANN )?

Se venite a visitare Napoli, questo Museo rappresenta per voi una tappa fondamentale .

Non potete lasciare Napoli senza averlo visto . Questo è un dogma della nostra citta.

Se andate via da Napoli e avete visto solo il Murales di Maradona, mangiato nei quartieri spagnoli in confusionari locali. la pizza sul lungomare,   ‘ o cuopp e zeppole e panzarotti nel centro storico dei decumani  e aver assistito magari anche alla triste scena della limonata “a cosce aperte”, sappiate che non avete per nulla visto Napoli.  ( purtroppo questo  è quello che tristemente  mi sono sentito dire su a Milano o Torino da persone che citavano la nostra città ).

Mi raccomando … Napoli è sopratutto CULTURA, STORIA e ARTE … poi tutto il resto.

Se si viene a Napoli … prima tappa … MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE

Alrtrimenti non  ha senso parlare in citta, di arte, cultura e storia …  ( questa frase vale sopratutto per i napoletani )

In questo straordinario Museo troverete il più ricco e pregevole patrimonio di opere d’arte e manufatti di interesse archeologico in Italia; oltre ad antichi oggetti provenienti dagli scavi di Pompei ed Ercolano ed opere d’arte e reperti d’ogni genere, dalla Preistoria all’età  romana e medioevale, donati, acquistati, e scavati dal 1700 a oggi in Italia meridionale e nei siti Vesuviani, in esso troverete anche la famosa collezione collezioni d’arte e d’antichità formate nel corso di oltre due secoli dalla famiglia Farnese ed ereditate da Carlo di Borbone per via materna( Elisabetta Farnese ).

Del ricchissimo nucleo di sculture presenti nel  Museo, oggi vi racconteremo di un’opera di cui essere fieri ( non è il murales di Maradona ) .

Vi parleramo del Toro Farnese,  una straordinaria testimonianza del mondo classico che stupisce per la sua mole imponente ma al contempo per la sua stupefacente dinamicità. E il solo fatto che questa magnifica statua sia custodita a Napoli è senza dubbio un motivi d’orgoglio per la nostra terra!

N.B. Questo straordinario ed imponente gruppo scultoreo,  conosciuto come il “Toro Farnese” viene più semplicemente  definito da molti come  “la montagna di marmo” perché ricavato da un unico blocco di  grandi dimensioni.

Esso fu rinvenuto frammentato, nel 1546,  nell’area delle Terme di Caracalla a Roma. Gli scavi furono promossi da Papa Paolo III Farnese, intenzionato a trovare sculture antiche per abbellire la sua dimora. Il ritrovamento ebbe un’eco enorme, pari a quella suscitata dal Laocoonte nel 1506 sull’Esquilino.

La grande scultura del Toro Farnese , ricavato da un unico blocco di marmo , che  fu ben presto battezzato “la montagna di marmo” rappresenta il supplizio e il mito di Dirce, regina di Tebe, un tema entrato nell’immaginario dell’arte di Rodi come esempio di sofferenza imposta dagli dei in una misura che eccede il senso umano della giustizia (  esso viene descritto  anche in diversi testi classici tra i quali la perduta tragedia di Euripide) .

N.B. Il mito, che fa da sfondo a questo violento episodio, è uno dei più rari nell’antichità, conosciuto principalmente attraverso la rappresentazione di Euripide nella tragedia “Antiope” (410 a.C.).

Il mito narra sopratutto di Antiope, la bellissima principessa  figlia di Nicteo, re di Tebe,  che sedotta  da Zeus trasformatosi in un sauro ( sempre lui ) ,rimase incinta di due gemelli .Quando il padre notò la gravidanza, adirato per la vergogna, la cacciò dal suo regno. Antiope con il frurro del suo amore illegale con il re degli Olimpi , si rifugiò sul monte Citerone dove partorì due gemelli,di nome  Anfione e Zeto. Essi per nasconderli dalle ire vendicative di Era ( Giunone ), molgie di Zeus,  furono affidati ad un pastore  che viveva sul Monte Citerone che li allevò come figli. 

N.B. Secondo un’altra versione , i due gemelli , appena nati furono portati per ordine del re Nicteo sul monte Citerone( monte della Beozia )  per essere esposti alle belve . Essi sarebbero morti se non fosse, come spesso accade che un pastore dotato di buon cuore, trovandoli ,  ebbe pietà di loro, gli salvò la vita e  li allevò poi come figli propri

Successivamente Antiope trovò ospitalità a Sicione, dal re Epopeo,che rapito dalla sua meravigliosa bellezza, la prese in moglie senza chiedere il consenso del padre. Questo fece infuriare così tanto Nicteo che questi dichiarò guerra a Epomeo   per costringerlo a restituire  Antiope.  Alla sua morte, avvenuta prima che potesse riuscire nel suo scopo, Nicteo ,in punto di morte, scongiurò il fratello Lico, suo successore al trono, di continuare la guerra e di eseguire la sua vendetta. riconducendo sua figlia a Tebe e poi punirla per la sua trasgressione.

Lico , divenuto il nuovo re di Tebe, rispettò il volere di suo fratello, conquistò Sicione, uccise Epopeo e riportò Antiope nel regno come schiava, sottomessa alle umiliazioni e alle torture della malvagia e gelosa Dirce, sua moglie.  Solo dopo venti anni di prigionia, con l’intervento di Zeus,la povera donna riuscì a fuggire. I suoi acci che la tenvano prigioniera di Dirce,improvvisamente emiracolosamente si allenatarono  ed ella fuggì in cerca di riparo e protezione fin nell’umile dimora dei suoi figli sul monte  Citerone dove in quel periodo d erano in corso i preparativi per le feste dionisiache.

Qui venne presto raggiunta da Dirce e dal suo gruppo di Baccanti, che si era messa sulle sue tracce.. La bella Antiope fu allora condannata  a essere straziata a morte da un toro selvatico e proprio per mano degli ignari figli. ai quali Dirce in preda ad una folle ira, diede quest’ordine come regina di Tebe.

Ai due giovani gemelli Anfione e Zeto, fu ordinato di prendere Antiope e di legarla per i capelli   ad un toro selvaggio furioso per farla trascinare fino alla morte, ma il pastore, che aveva cresciuto i due ignari fratelli, svelò che quella donna era la loro madre.

Dopo l’inevitabile riconoscimento,  Anfione e Zeto, venuti a conoscenza della loro storia e delle umiliazioni a cui la madre era stata costretta, decisero di applicare la medesima pena che avrebbero dovuto infliggere ad Antiope. contro Dirce, che venne legata al toro selvaggio e straziata lungo tutte le balze montuose dalla corsa dell’animale.  Il suo corpo maciullato fu gettato nella fonte vicino a Tebe  che porta ancora il suo nome. Secondo una antica leggenda , il Dio Dionisio assistendo alla scena, ebbe pietà della sventurata Dirce, dilaniata dal toro e la trasformò in una fonte presso Tebe, elvandola a ninfa fluviale.

Durante il lungo periodo della prigionia della madre, i bambini erano ormai diventati dei giovani forti e robusti ( erano pur sempre figli di Zeus ) e,questi  mentre ascoltavano con rabbia la storia dei torti subiti dalla mamma , divennero presto desiderosi di vendicarli.

Partitirono quindi subito per Tebe, ed in poco tempo  dopo aver ucciso il crudele Lico ,  riuscirono a impadronirsi della città,

Il racconto mitologico si conclude con la sostituzione su trono tebano di Lico  con Anfione e il riconoscimento dei due gemelli come figli di Zeus (Dioscuri tebani).

CURIOSITA’: L’altro gemello Zeto,  era famoso per la sua abilità nel tiro con l’arco e amava appassionatamente la caccia.  Anfione era invece amico delle Muse e amante della musica. Si dice che quando Anfione  volle rinforzare  la città di Tebe  con mura e torri, non dovette far altro che suonare una dolce melodia con la lira, datagli da Emes   e le grosse pietre cominciarono a muoversi, e obbedienti si unirono insieme in blocchi.

Il colossale gruppo scultoreo, presente nel nostro Museo Archeologico Nazionele, , riproduce l’episodio del supplizio di Dirce.che vi abbiamo raccontato in maniera sublime.

L’intera composizione si impernia sulla figura del toro, possente e rabbioso, che sembra prorompere violentemente in scena, afferrato e trattenuto per le corna da Anfione, mentre il fratello gemello, Zeto, tira la fune con l’intento di legarla al collo di Dirce.

 

Dirce che, come si deduce da copie più antiche dell’opera, era in origine presa per i capelli da Zeto, cade all’indietro seduta con il busto, lasciato nudo dall’aprirsi del mantello, violentemente girato verso il fondo.

La donna, seminuda e distesa al suolo, perchè caduta nell’impeto della lotta, cerca con un disperato gesto di suscitare la pietà di Anfione, il più mite, afferrandolo  con il braccio sinistro per una gamba in un inutile gesto di supplica, mentre la destra si solleva in un gesto di terrore e forse anche a proteggersi dallo zoccolo della fiera che le piomba addosso.

I due giovani sono raffigurati nudi, coperti da un mantello raccolto sulle spalle; Zeto indossa una spada sul fianco sinistro, mentre Anfione è caratterizzato dalla lira poggiata al tronco d’albero.

A questo nucleo principale della composizione si aggiunge la figura femminile stante di Antiope, madre dei gemelli, vestita di un leggero chitone legato alla vita e con una lancia nella mano sinistra (in origine reggeva un tirso), che, posta sul fondo, assiste al concitato momento quasi come una figura evocata e non realmente partecipe

In basso a destra, al di sotto della figura di Anfione e del toro, troviamo un giovane pastorello, con corona di pini e ghirlanda di edera, seduto accanto ad un cane; quest’ultimo, ritto sulle zampe, riflette la tensione del momento. La base del gruppo, sui lati e nella parte posteriore, è circondata da un fregio di animali selvatici di diversa specie, alberi e grotte.

La storia del violento supplizio a cui viene condannata Dirce si svolge sul Monte Citerone, monte della Beozia, mentre sono in corso i preparativi per la festa in onore di Dioniso. La scenografia dell’aspra natura del Monte ci è suggerita  dalla presenza di rocce e animali lungo la base, mentre a terra, accanto alla vittima designata, troviamo stanno alcuni oggetti legati ai riti bacchici: essi non sono pochi  e sono  riconducibili ai riti festivi legati a Dionisio: la corona d’edera, un tirso spezzato, la cysta mystica cinta di edera posta accanto a Dirce, ricoperta sul collo da una pelle caprina, e una siringa (flauto di Pan).

Questi  ci ricordano che Dirce venne uccisa proprio mentre stava forse compiendo un rito e ciò non sarebbe rimasto senza conseguenze sul destino dei responsabili. Dioniso, infatti, adirato per l’uccisione della sua fedele, colpi Antiope con la follia, da cui la donna guarirà solo quando sarà presa in moglie da Foco. Anfione, invece, sposò Niobe, da cui ebbe sette figli maschi e sette femmine, che vennero poi tutti sterminati da Apollo e Artemide.

Il pastorello presente nella scene potrebbe invece rappresentare una figura di genere che personifica la natura bucolica dello scenario, ovvero, secondo una diversa ipotesi, avrebbe un riscontro narrativo, visto che secondo il racconto mitologico è un pastore a condurre i due gemelli al riconoscimento della madre.

L’enorme opera d’arte , scolpito in un unico blocco di marmo, fu rinvenuto nell’estate del 1545, nell’area della palestra sud/orientale delle Terme di Caracalla (212/216 d.C.), secondo alcune fonti fu la prima, tra le sculture colossali, ad essere scoperta. Lo stato del gruppo, al momento del ritrovamento, era molto frammentato e particolarmente lacunoso nelle sue parti, ciò ne impedì una corretta lettura della scena rappresentata; inizialmente si ritenne che ad essere raffigurato fosse un episodio relativo alle fatiche di Eracle: lo scontro con il Toro Maratonio (di Creta).

N.B. Al momento del ritrovamento, l’opera era molto frammentaria: sono infatti rifacimenti moderni, parte delle gambe, braccia e teste dei gemelli Antione e Leto, le ginocchia e la parte superiore del corpo di Dirce, braccia e testa di Antiope, il cane e grandi porzioni del plinto. La base, che oggi ha forma regolare, aveva sulla fronte un contorno frastagliato, con uno sbocco per l’acqua dovuto all’adattamento all’ambiente termale.

Successivamente, con l’inizio e l’avanzamento dello stato dei restauri, Pirro Ligorio, nel X libro del suo trattato antiquario (1560/65), lo interpretò come Teseo contro il toro con Piritoo e Ariadne; tuttavia, negli inventari di casa Farnese del 1568, all’opera mancava ancora una cognizione iconografica precisa e veniva ipoteticamente descritta come “imprese di Ercole”.

La paziente e ingegnosa opera di restauro, condotta da G. Della Porta e poi conclusa dal suo collaboratore Giovan Battista Bianchi, fu un’impresa quasi trentennale, e solo nel 1579, a restauro terminato, l’opera fu correttamente interpretata come il Supplizio di Dirce.

Il lavoro di reintegro non fu affatto semplice, ai restauratori mancava un preciso modello di riferimento iconografico che potesse guidarli, nondimeno riuscirono comunque a condurre un’operazione altamente filologica, tenendo conto delle figure (o delle parti di esse) solidali con il basamento, senza mai trascurare la minima traccia di appoggio o frattura. Le teste, mancanti, di Anfione e Zeto vennero realizzate ispirandosi alla ritrattistica di Caracalla, una scelta che trova la sua ragione nel luogo di ritrovamento del gruppo, ma l’intervento di maggiore impegno fu quello sulla figura di Dirce, priva del busto e della testa.

Inizialmente si ritenne che il Toro Farnese ritrovato alle Terme di Caracalla fosse proprio l’opera originale che Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia, cita come figlia degli scalpelli di due scultori di Rodi della seconda metà del II secolo a.C.: Apollonio Taurisco.

In realtà si tratta più verosimilmente di una copia romana del I o del III secolo D.C. Ciò non diminuisce affatto la preziosità di questo marmo che costituisce la più grande opera scultorea proveniente dal mondo classico. Le sue dimensioni (295×370 cm) giustificano a pieno il suo soprannome di “montagna di pietra“.

CURIOSITA: I citati Apollonio e Taurisco erano due fratelli, appartenenti a una famiglia di scultori di Tralles, noto centro dell’arte ellenistica; la loro fortuna artistica inizia con il trasferimento a Pergamo. Erano figli di Artemidoro, ma erano stati adottati dallo scultore rodiense Menecrate,che proprio a Pergamo lavorava al grande altare di Zeus. La loro attività, di ispirazione classicheggiante, va posta attorno alla metà del II secolo a.C..
Secondo lo scrittore romano Plinio, il loro più noto gruppo scultoreo, che raffigurava il supplizio di Dirce, fu trasportato da Rodi a Roma nella collezione del mecenate Asinio Pollione,dove era custodita anche un’altra opera di Taurisco, gli Ermeroti.

L’opera venne portata alla luce come vi abbiamo accennato grazie agli scavi che  furono promossi da Papa Paolo III Farnese, intenzionato a trovare sculture antiche per abbellire la sua dimora. Il ritrovamento ebbe un’eco enorme, e l’enorme opera  entra dunque nella collezione della Famiglia Farnese, anche dopo il loro trasferimento a Parma.

Nel 1731 la collezione d’arte, compreso il Toro Farnese, passa in eredità ai Borbone, in quanto Elisabetta Farnese convolò a nozze con Filippo V di Spagna dando alla luce Carlo. , il quale una volta eletto re di Napoli , decise di portare l’intera collezione Farnese ( compreso il Toro ) alla nuova corte partenopea per impreziosire le bellezze di Napoli capitale del Regno delle Due Sicilie.

N.B. Dopo essere stata trasportata a Parma, insieme al resto della Collezione Farnese (di cui fa parte anche il famoso Ercole), il grande gruppo marmoreo , fu ereditato da Carlo di Borbone, figlio di Elisabetta, ultima discendente della famiglia Farnese, e trasferita a Napoli per volontà di Ferdinando IV di Borbone nel 1788.

Fino ad allora, nonostante i lunghi e dispendiosi restauri operati dai Farnese, la fama e la celebrità del gruppo scultoreo nella sua permanenza a Roma, non aveva avuto  una sistemazione degna ed adeguata al suo valore:. Abbandonato infatti ben presto un ambizioso progetto di Michelangelo, che sperava di farne un ornamento per una fontana nel fiardino Farnese, la scultura rimase chiusa ed occulta alla vista in un grande capanno nel cortile del Palazzo Farnese, chiamato “Stanza del Toro”.

CURIOSITA’: A livello di restauri il  gruppo marmoreo del Toro Farnse. ha dovuto subire due importanti  restauri : il primo nel cinquecento ad opera del Bioni ed uno successivo nel 1848 per mano di Calì.

Anche il giudizio artistico andò modificandosi, dall’entusiasmo di Luigi XIV che nel 1665 fece di tutto per acquistarla, alla valutazione del Winckelmann (1763) che, pur ritendo l’opera un originale, la relegò nel periodo della decadenza dell’arte greca, vedendo in essa solo una finalità decorativa e un eccessivo e vuoto virtuosismo.

Nel 1783, quando ormai le collezioni Farnesi erano passate ai Borboni, Ferdinando IV decise di trasferire tutte le sculture, tra cui anche il Toro Farnese, a Napoli per allestire il nascente Real Museo Borbonico.

 Il magnifico toro impiego’ un po’ di tempo ( come per le altre opere ) prima che arrivasse a Napoli da Roma , ma lo fece in maniera scenografica addirittura scortato via mare, da una nave da guerra..

Il mastodontico manufatto , alto circa 3,70 metri e pesante ben  24 tonnellate, non era certo facile trasportarlo , ma nel maggio del 1788 , venne rotto qualsiasi indugio ed io grande complesso marmoreo prese finalmente la strada verso Napoli.con una feluca (piccolo veliero) che risalì il Tevere fino all’approdo di Ripa Grande; qui, con l’aiuto di macchinari, fu posta su di un’imbarcazione che, non senza difficoltà, giunse a Napoli apparentemente integra (la figura del cane si distaccò). Dal porto di Mergellina, via terra, la scultura raggiunse, scortata da truppe dell’esercito, la Villa Reale a Chiaia.

Prima dell’esposizione, avvenuta nel 1791, il gruppo fu restaurato da Angelo Maria Brunelli e collocato su di un alto basamento al centro della fontana che concludeva il viale principale del parco. Una tale esposizione, tuttavia, esponeva l’opera alle intemperie, alla salsedine e agli atti di vandalismo; infatti, nel 1808, molte delle sculture che abbellivano la Villa Reale, tra cui il Toro, subirono ingenti danni e furono necessari nuovi restauri. Nonostante ciò trascorse oltre un decennio prima che si decidesse di trasferire l’opera in un luogo più idoneo.

Fu l’allora direttore del Real Museo Borbonico, Michele Arditi, ad esercitare ingenti pressioni su Ferdinando IV e la sua corte affinché il Toro fosse custodito tra le collezioni museali. Il re acconsentì a patto che il gruppo fosse sostituito da un’altra opera: si decise di porre nella Villa un’antica vasca in egizio (la cosidetta fontana delle paparelle, tutt’ora presente) e nel 1826, con l’ausilio di macchinari dell’arsenale, il Toro Farnese giunse finalmente  al Museo.

Di recente si è sostenuto che l’iniziale  restauro del complesso marmoreo sia stato guidato dalla descrizione contenuta in un noto passo di Plinio (Naturalis Historia, XXXVI, 33-34), in merito ad un gruppo scultoreo appartenuto ad Asinio Pollione, che raffigurava il Supplizio di Dirce

” ANFIONE E ZETO, DIRCE E IL TORO E LA CORDA CHE LI UNISCE, FATTI TUTTI DI UNO STESSO BLOCCO DI MARMO, OPERA DI APOLLONIO E TAURISCO, PORTATA DA RODI” PLINIO IL VECCHIO

L’opera narrata dal passo pliniano venne realizzata a Pergamo tra il 180 e 159 a.C., o più precisamente tra il 160/159 a.C., in occasione della morte di Apollonide di Cizico, madre dei sovrani attalidi Eumene II e Attalo II.

Sempre Plinio il vechhio ci racconta che il gruppo dall’isola di Rodi giunse a Roma, a seguito della confisca dei beni di Bruto, dopo la Battaglia di Filippi (42 a.C.), per volere di Asinio Pollione. Infatti la scultura entrò a far parte dei Monumenta Pollionis (monumenti di Pollione), esposta nell’Atrium Libertatis. Poi se ne persero le tracce dopo la demolizione dell’Atrium da parte di Traiano per la costruzione del nuovo foro.

CURIOSITA: Forse in passato esistevano  due elaborazioni del gruppo marmoreo ed erano entrambe celebrative  : una si trovava  a Pergamo e l’altra a Rodi, ed entrambe avevano una forte connotazione dionisiaca:  Quello di Rodi è quello appena descritto mentre quello di  Pergamo,  il Dioniso Tauro (Dioniso sotto forma di toro) che punisce Dirce è lo stesso dio che aveva consentito la vittoria di Pergamo sui Galati nel 166 a.C.; è inoltre la maggiore divinità venerata a Tebe, città dove Eumene II raccolse lo scettro dal padre (Attalo I) improvvisamente morto. In Anfione e Zeto, figli di Zeus, destinati a regnare sulla Beozia e difensori della madre, i due sovrani di Pergamo si rispecchiano, essendo loro destinati a governare e molto devoti alla madre, che per loro volere sarà divinizzata dopo la morte.

Per lungo tempo quindi la tradizione antiquaria ha identificato il Toro Farnese con il gruppo di Asinio Pollione proveniente da Rodi, ricordato da Plinio, ma in tempi più recenti vi è stata discussione su quella che potrebbe essere la datazione del gruppo proveniente dalle Terme di Caracalla. Infatti alcuni studiosi vedono nella realizzazione del Toro un’opera di età imperiale Giulio-Claudia (14-68 d.C.), quindi una copia dell’originale da Rodi, voluto dall’imperatore Claudio per onorare la madre Antonia e il fratello Germanico; poi da una proprietà imperiale, non identificabile, l’opera sarebbe stata prelevata in età severiana (193-235 d.C.) e trasferita nelle Terme.

Tuttavia, un attento esame comparato di tutta la tradizione iconografica del mito sulla punizione di Dirce, unita all’analisi stilistica e formale della scultura ha indirizzato verso un’interpretazione del Toro Farnese come una produzione certamente romana, ispirata ad un modello ellenistico . Nonostante infatti le aggiunte moderne dovute ai restauri, oggi si è potuto  determinare all’incirca la sua cronologia, grazie al caratteristico “stile di superficie” di alcune parti originali: la forma del ciuffo sul capo del toro, gli elementi vegetali e il panneggio della veste di Dirce.

Questi dettagli sono tipici dell’arte romana del II/III sec. d.C., una datazione più precisa sulla sola base stilistica è impossibile, ma la certezza sul luogo di rinvenimento potrebbero indurci a datare il gruppo agli inizi del III sec. d.C. o comunque in contemporanea con la realizzazione del complesso termale. Quindi, per concludere, è plausibile che il Toro Farnese rappresenti una delle ultime imprese scultoree di un’importante scuola di copisti, di origine rodia, attiva in Italia già in età tardo-repubblicana, creatori di noti gruppi scultorei a tema “omerico” (Laocoonte, Scilla e Accecamento di Polifemo) e politici (Galate morente, suicida e Piccolo Donario di Pergamo).

Inoltre, c’è la possibilità che a fare da riferimento iconografico ci fu anche un secondo elemento: un frammento di un cammeo in agata calcedonio, sempre di proprietà Farnese, che faceva luce  proprio sulla parte più lacunosa del gruppo. Un restauro condotto sulla scultura negli anni ’90 del secolo scorso ha accertato la presenza di una cavità all’interno del basamento, già predisposta in antico, collegata ad un condotto fuoriuscente tra i due tronchi di sostegno per le statue del toro e di Anfione. La funzione del condotto suggerisce l’impiego del gruppo come una gigantesca fontana, o alla realizzazione di un particolare gioco d’acqua, utile a ricreare ancora più esplicitamente l’ambiente del Citerone.

Il Toro Farnese come avete avuto modo di leggere  è una straordinaria testimonianza del mondo classico che stupisce per la sua mole imponente ma al contempo per la sua stupefacente dinamicità. E il fatto che sia custodita a Napoli è senza dubbio un motivi d’orgoglio per la nostra  città. 

E’ lui il monumento di cui essere fieri in citta …altro che Murales di Maradona !!!

 

NOTE A PARTE

La collezione Farnese , così chiamata dal nome della famiglia che aveva privatamente raccolto centinaia di opere d’arte antica e sebbene molte di esse non siano originali ma fedeli copie hanno comunque il fascino di aver adornato le case di antichi patrizi a Roma , ricchi commercianti a Pompei o abbellito luoghi pubblici e monumenti dell’antichità. Esse , in ogni caso rappresentano oggi , spesso l’unico prezioso documento storico di capolavori oramai persi .
Il ricchissimo nucleo di sculture è oggi quasi interamente dedicata alle sculture della collezione Farnese ed è ‘ praticamente quasi impossibile citarle tutte :  da non perdere nella vostra  visita  al Museocertamente vi è  la galleria dei Tirannicidi e le sale dedicate alle sculture provenienti dalle Terme di Caracalla a Roma  tra cui  il  già citato  gruppo del Toro Farnese e l’Ercole , nonché il Dioniso appartenuto a Lorenzo il Magnifico e le splendide statue di Antinoo e di Iside . E’ interessante anche l’importante serie di ritratti di imperatori romani ed i tanti busti di anonimi antichi greci e romani che ci proiettano con i loro sguardi indietro nel tempo .
Bella da vedere e ammirare nel suo realismo , nel nostro bellissimo Museo vi è anche la famosa statua che immortala l’espressione della fatica dell’Atlante curvo sotto il peso del mondo e la Venere di Capua che proviene dall’anfiteatro dell’antica Capua . Essa rappresenta Venere mentre poggia il piede sull’elmo di Marte e si specchia nello scudo ( purtroppo andato perduto ) trasformando in tal modo un simbolo di guerra in un oggetto di vanità femminile.

Particolarmente toccante è anche la bella scultura a rilievo con il mito di Orfeo ed Euridice che nella sua dolce malinconia ci mostra la tristezza di Orfeo che è sul punto di perdere la sua amata Euridice , mentre Ermes prende la fanciulla per mano per ricondurla definitivamente nell’Ade.
Della collezione dei Farnese, da non perdere quella legate alle preziose gemme ( in origine raccolte da Cosimo de’ Medici e da Lorenzo il Magnifico) dove e’ conservata la celebre coppa di agata sardonica detta Tazza Farnese, uno dei più grandi cammei noti, prodotta ad Alessandria d’Egitto alla corte dei Tolomei (150 a.C. circa).

 

 

 

 

 

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