L’Imbrecciata è un quartiere di Napoli il cui nome deriva dal peculiare manto stradale acciottolato che prima ricopriva i percorsi urbani di tutto un quartiere che anticamente si trovava fuori dalle mura della città nella zona esterna a Porta Capuana.
L’intero territorio era di proprietà di Alfonso d’Aragona e per buona parte del suo percorso era lastricato per le sue strade con dei ciottoli (sassi appiattiti e levigati ) che prendevano appunto il nome di breccia.
Il re aragonese lo regalò a suo figlio Ferrante. il quale lo cedette poi come debito di gioco al religioso Fabio Incarnato. Morto quest’ultimo, l’area finìta dapprima i in mano ad alcuni agricoltori , divenne poi lentamente un quartiere moralmente equivoco. dove erano presenti tanti ladri prostitute e femminielli che frequentavano abitualmente le tante taverne che in quel periodo fiorirono a decine.
Si racconta infatti che’Imbrecciata fosse in quel periodo sopratutto il palcoscenico criminale in cui regnava la violenza di Ciccio Cappuccio, un noto camorrista della zona che da mediatore garantiva l’armonia fra le bande rivali e che, manco a dirlo, ovviamente, gestiva il milionario giro di prostituzione.( lui incarnava la figura classica del ricottaro).
CURIOSITA’: Nella lingua napoletana esistono delle parole e delle espressioni che hanno una storia molto particolare e spesso molto antica .Nel caso del ricuttaro, bisogna infati tornare indietro nel passato di cieca duecento anni, e sopratutto specificare che questo termine non ha nulla a che vedere con la “ricotta”, cioè il tipico formaggio che tutti conosciamo. Il significato del cosidetto “ricuttaro” è in questo casso solo un sinonimo del termine “protettore” e del volgarissimo “pappone”, Con esso insomma si vuole solo indicare in maniera molto semplice e diretto, colui che si procura di che vivere atraverso lo sfruttamento della prostituzione.
Ora certamente siete incuriositi …. perche mai questa associazione del tipico formaggio con il vile personaggio dell’uomo che ” protegge” le prostitute ?
Innanzitutto partiamo col dire che la ricotta è un sottoprodotto della lavorazione della mozzarella e dei formaggi, Si tratta insomma di un latticino che si ottiene facendo bollire il siero di latte rimasto dopo la lavorazione del formaggio; esso sembra quindi quasi che si ottenga senza sforzo, in maniera quasi parassitaria, utilizzando ciò che
sarebbe stato buttato. Il fatto che sso si ottenga senza fare alcuna grossa fatica è probabilmente il vero motivo per cui nel corso degli anni , la ricotta , o meglio il ” ricottaro” è stato associato per traslatzione a colui che campa sul lavoro altrui, senza fare alcuna fatica. Entrambe le attività appaiono infatti parassitarie, sfruttando le risorse altrui.
Tenete conto che in generale per estensione, il popolo napoletano identifica con il temine “ricuttaro “, non solo chi in maniera illegale sfrutta la prostituzione delle donne ( il magnaccia ) , ma anche tutti i parassiti , tutti coloro che vivono alle spalle degli altri sfuttando le varie situazioni. Ad esempio è un ricuttaro il collega che utilizza i risultati del tuo lavoro facendo credere che siano frutto del suo, un approfittatore.
N. B.Sembra comunque che il termine ricottaro derivi invece da “recoveta”, una parola di origini romane , usata da peronaggi malavitosi che per caratteristiche era molto simile al “pizzo ” . Essa identificava infatti una raccolta pseudo volontaria, di denaro che si chiedeva ai vari negozianti per aiutare le famiglie e per pagare gli avvocati di chi era finito in galera.
Questi malavitosi che estorcevano questa raccolta di soldi (raccoveta) erano quindi in qualche maniera considerati dei prottetori dal popolo per chi finiva in galera e si era affiliato al sistema della malavita organizzata. Da qui capite il termine protettore usato anche per ” proteggere ” una donna che svolgeva per suo rendiconto l’antico mestiere di prostituta , Questi schifosi personaggi promettendo di difenderle nel loro lavoro vivevano alle loro spalle sfruttandole.
Anche i camorristi di fine ottocento a Napoli ovviamente erano soliti usare questa tecnica di imporre con delle collette fatte in maniera ” pseudo-volontaria”dai commercianti (di fatto una tassa ) per finanziare le spese legali degli affiliati finiti in galera, in primis la parcella per l’avvocato, ma anche e sopratutto per sostenere le famiglie dei camorristi arrestati e finiti in carcere . perquando i camorristi venivano arrestati, L’organizzazione malavitosa, con questo sisteme di questua ( colletta ) pensava quindi a sostenere la famiglie del detenuto.
Tale colletta imposta al popolo era chiamata COVETA oppure RACCOVETA e il sui equivalente RECOVETA , i quali con gli anni hanno subìto una corruzione, una trasformazione, in ricotta per la somiglianza dei suoni. Da “ricotta” , a ricottaro il passo è breve e con questo termine si è finito con gli anni a definire in senso dispregiativo tutte quelle persone che vivono alle spalle degli altri come dei parassiti , Oggi, per estensione, ricuttaro è chiunque non svolga nessun lavoro (o lavoro considerato davvero tale) e campa benissimo sfruttando gli altri.
CURIOSITA’: Vi è anche una spiegazione certamente più erudita del temine “ricottaro “ma per certi versi anche meno credibile che fa risalire la parola nientepopodimeno che al re Enrico Ottavo, ed infatti ricottaro sembra quasi la corruzione lessicale di enricottavo. Il re Tudor di Inghilterra ad inizio del cinquecento ebbe infatti 6 mogli e chissà quante altre amanti; quindi un uomo che proteggeva le sue donne e questo sarebbe il collegamento semantico col ricuttaro inteso come protettore di donne; da enricottavo, enricuttaro, ricuttaro.
La parola recoveta,un tempo riferita a colui che campava sulle spalle della gente, raccogliendo soldi e guadagnando senza alcuna fatica, oggi viene spesso ancora usata per definire una raccoltadi soldi ma stavolta intesa nel senso di scadenza mensile, di pagamento cadenzato, Si usa infatti ancora oggi sporadicamente quando si riceve lo stipendio o la pensione : oggi, se un napoletano vi chiede se avete arrecuoveto, vi sta domandando se avete già preso ‘a mesata – lo stipendio – o la pensione… ma state attenti … potrebbe in maniera alludere al fatto che quello stipendio ricevuto quasi che non me lo foste meritato, che fosse uno stipendio o una pensione parassitaria.
Ma torniamo alla nostra IMBRECCIATA e agli affari loschi di Ciccio Cappuccio.
Dovete infatti sapere che a guastare i piani di Ciccio Cappuccio e di tutto il team malavitoso che regnava incontrastato nella zona, è stato stranamente proprio lo Stato Italiano, che dopo l’unità d’Italia, nel 1876 inaugura i casini di Stato e termina l’esperienza di prostituzione nel quartiere dell’Imbrecciata.
N.B. I casini nacquero, in realtà, anche per combattere il dilagare delle malattie veneree conseguenti alla promiscuità scellerata cui il quartiere era abituato, regolandone attività, tariffe, sanzioni e modalità. La prostituzione migrò, dunque, anche in altri quartieri e smise di essere esclusiva del borgo di Sant’Antonio Abate.
Dal Quattrocento all’Ottocento l’imbreciata era quindi un sobborgo considerato in citta come un luogo di perdizione e al tempo stesso molto pericoloso, ma pieno, zeppo di taverne( più che altro erano baracche ) dove ci si poteva ristorare , bere del buon vino ed avere anche la possibilità di andare a donne e sfogare i propri bassi istinti.
CURIOSITA’: Una delle più celebri taverne della Napoli rinascimentale,fu quella quella del Crispano, di proprieta del nobile marchese napoletano Matteo Crispano ,discendente di quella famiglia illustre che vide il suo avo Sergio coprire la presigiosa carica di doge della Repubblica napoletana. .
Matteo Crispano in qualità di fidato consigliere del re Federico d’Aragona , ricevette in cocessione per se e per i suoi eredi il permesso dell’esercizio d’una taverna in questa zona e inoltre il privilegio di non dover pagare la gabella del terzo del vino che lui stesso controllava come delegato del re.
CURIOSITA’; La taverna del Crispano, era molto famosa in citta e rappresentava per la gente del luogo ma anche dei quartieri limitrofi , il posto ideale per trascorrere qualche ora in allegra compagnia lontani dal centro della citta godendo dell’aria suggestiva della campagna.
N.B. Il grande successo che scuoteva la taverna del Crispano con la sua enorme clientela incitò, nel borgo vicino di S. Antonio, l’apertura di altre taverne come quella dgli Incarnati nella stessa contrada , quelle dei Zingari a Porta Capuana, quella di Porta Capuana presso all’arco omonimo, e in su, verso Poggio Reale le altre dette di Poggio Reale e dell’Acqua della Bufola, tutte prosperanti ancora e notissime fino al decimottavo secolo.
Al tramonto, come scendevano nella zona le ombre della sera i labirintici vicoli degl’ Incarnati e di S. Antonio Abate si popolavano di gente che occupapando i vari tavoli rustici piantati in maniera selvaggia un po ovunque occupavano il vico per buon tratto ( proprio come adesso ) mangiavano , cantavano , ridevano e spesso ballavano al suono della musica.
La luce presente che si rifletteva suelle tavole era solo quella primitiva allora esistente di lucerne attaccate al muro che certo favoriva il trascorrere del successivo tempo con Bacco e Venere.
Il borgo molto famoso per le sue tavenne in citta era infatti altrettanto famoso per essere il luogo a luci rosse della città a tal punto che nel 1781 l’Imbrecciata fu riconosciuta come l’unico quartiere in cui il meretricio era ufficialmente ammesso. Onde evitare pericolosi sconfinamenti, a metà Ottocento fu addirittura eretto un muro con un solo ingresso sorvegliato dalla polizia, che si assicurava della cessazione di ogni attività entro la mezzanotte. «Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori» urlava ai clienti dei postriboli una sentinella chiamata simpaticamente”Papà”. La quale ogni notte aveva a che fare con chi si tratteneva oltre gli orari consentiti.
CURIOSITA ‘; Celebre prostituta dell’Imbrecciata, nel Seicento, fu Bernardina di Pisa, bellissima e scaltra donna che fu moglie di Masaniello. Caduta in disgrazia dopo la fallita rivolta – fu invitata a corte dalla viceregina, davanti alla quale, vestita elegantemente, per non rinnegare il suo popolo si ribattezzò “duchessa delle sarde” – fu costretta, secondo quanto scritto da Salvatore Di Giacomo a guadagnarsi da vivere concedendo il corpo. Di lei si presero beffa i soldati spagnoli, che approfittando della sua condizione abusavano senza pagar-la, spesso percuotendola. Aveva soli ventitré anni, Bernardina, quando la vita le voltò le spalle. Morì con grande sofferenza a trentuno, nel 1656, contraendo la peste. Non aveva amici, tantomeno protettori. Anche perché solo nell’Ottocento capitò che le meretrici finissero sotto l’influenza di sfruttatori o esseri abietti, i cosiddetti “ricottari” – e la ricotta, nella parlata dei camorristi dell’epoca, era sinonimo di sperma.
Il luogo peraltro era anche citato da Gustave Flaubert, l’autore di Madame Bovary, che aveva visitato Napoli nel 1851 scrivendo : “ Napoli è affascinante per la quantità di donne che ci sono. Un intero quartiere è abitato da prostitute che stanno davanti alle loro porte; è una vera e propria suburra. Quando si passa per la strada, arrotolano le loro vesti fino alle ascelle per mostrarvi il culo, per avere due o tre soldi.”
L’imbrecciata era un tempo, un luogo quindi paradossalmente molto noto in tutta Europa e rappresentava spesso una sorta di meta obbligatoria del peccato per i giovani rampolli nobili o borghesi che desiderassero godersi la vita e per completare la formazione culturale in Italia .
In passato i giovani rampolli di aristocratiche famiglie europee per conoscere il mondo e arricchire le proprie conoscenze erano soliti partire per il Grand Tour . Si trattava di un lungo viaggio nei luoghi più significativi d’Europa ed in particolare dItalia, considerato allora, un importante momento di completamento della propria formazione culturale , storica e letteraria. finì per rappresentare un importante momento per ognuno di loro, nel passaggio dalla giovinezza al mondo adulto. Durante il viaggio, infatti il giovane , passando il suo tempo in giro per i vari luoghi turistici aveva modo di conoscere come oggi succede con l’Erasmus la vita al di fuori della sua famiglia ,migliorando in generale il loro bagaglio culturale di base , imparare nuove lingue, studiare e conoscere l’arte , l’architettura e la storia di antiche gloriose città’ europee migliorando in assoluto il loro bagaglio culturale di base
Napoli era insomma non solo un luogo ricco si storia e cultura dove scoprrire. le rovine di Pompei, di Ercolano e dei Campi Flegrei che in più offrivano la possibilità di studiare anche i fenomeni naturali legati alla sua attività vulcanica , ma anche un luogo considerato allora come la capitale mondiale del piacere sessuale.
N.B. Le testimonianze arrivano senza troppi problemi ad inizio ‘500 quando è documentata la concentrazione di postriboli ( case di prostituzione, bordelli )nella zona del Borgo di Sant’Antonio ad opera di Don Pedro De Toledo.
Figuratevi ora dei giovani che nel pieno del loro picco testosteronico giovanile giungevano a Napoli per visitare luogi di arte e cultura ma venivano contemporaneamente messi a conoscenza che in un quariere denominato ” imbrecciata”esisteva il primo quartiere a luci rosse del mondo …
L’imbrecciata era un luogo in cui si ritrovano tra il XV e il XIX secolo, molte taverne dove cibarsi bere e divertirsi ma anche un luogo molto famoso dai clienti dove trovare molti bordelli ,e tante prostitute , a tal punto che a fine ‘700, Ferdinando I di Borbone, emanò addirittura un editto con il quale consacrava la zona al meretricio e autorizzava nonchè concentrava la prostituzione dell’intera città solo in quella zona. Ferdinando II, nel 1855, come abbiamo visto , se mise ‘a coppa costruendo un muro per isolare i clienti che cercavano piacere e sollazzo, in cambio di denaro.
La nostra città in quel periodo godeva purtroppo quindi come avete potuto capire anche del triste primato di essere in Europa una delle capitali europee della prostituzione. non solo femminile ma anche maschile.
CURIOSITA’: All’interno di questo rione, c’era anche un viale tutto frequentato da omosessuali e travestiti, che prendeva il nome di Vico Femminelle. Il vico si chiama, ora, Via Pietro Antonio Lettieri.
Il “femminéllo”, nonostante il trucco pesante, l’abbigliamento femminile spesso non propriamente raffinato, le movenze e le tonalità caricaturali, è una figura molto rispettata nella nostra città , sopratutto nei quartieri popolari , dove il terzo sesso è sempre stato non solo tollerato ma rispettato nel suo ruolo e mostrato senza pudore. Accettati da sempre nel loro genere, in tutto e per tutto dalla tollerante società napoletana,non è detto che debbano per forza prostituirsi. Facendo parte del tessuto sociale cittadino essi sono addirittura considerate delle persone che portano fortuna. Per questa ragione è invalso l’uso (sempre nei quartieri popolari) di mettergli in braccio il bimbo appena nato e scattargli la foto; oppure farlo partecipare a giochi di società quali la tombola.
La popolarità di cui gode ha sempre fatto sì che la sua presenza fosse necessaria in alcune manifestazioni tradizionali, tra queste, la più conosciuta è la tombola Vajassa (detta scostumata) in cui la figura del Femminiello è deputata all’estrazione del numero come portafortuna nella buona riuscita del gioco natalizio. Questa rituale estrazione dei numeri della Tombola costituisce senz’altro una delle più caratteristica espressioni della tradizione popolare napoletana . In questa , Il panariello spinto dalla mano degli dei o chi per esso , esprime attraverso la figura del femminiello che, a sua volta, utilizza il codice della Smorfia, le storie dai numeri che escono .
La tradizione della “ Tombola Vajassa” ,esiste ( e resiste ) da secoli nei quartieri popolari di Napoli . Ad essa possano partecipare esclusivamente donne e/o femminielli. Il gioco avviene generalmente in un “basso”, e fino a qualche anno fa gli uomini potevano assistere al gioco purché essi restassero rigorosamente alla porta o a guardare dalla finestra senza accedere in alcun modo nella stanza dove si svolgeva la tombola ( oggi comunque in alcune Tombole Vajassa possono partecipare anche gli uomini ).
Il gioco procede in modo rumoroso, sboccato, canzonatorio. Generalmente è il femminiello che tira a sorte i numeri proclamandoli ad alta voce secondo il significato della smorfia napoletana . Il numero sorteggiato può anche non essere annunciato in modo palese; infatti, basandosi sulla smorfia napoletana, al posto del numero egli può semplicemente dire il suo significato più diffuso e risaputo, che i presenti immancabilmente conoscono ed intendono.
Il divertimento della tombolata con i femminielli è dato proprio dalla “smorfia”: infatti, man mano che i numeri escono, il femmenèlla concatena in una sequenza logica e cronologica i relativi significati, creando una storia che si forma dalla casualità del sorteggio e dalla sua fantasia : è un “evento” che il femmenèlla ricorda man mano che esso si sviluppa e che viene commentato rumorosamente con divertimento o con finto scalpore dagli stessi femminielli e soprattutto dalle donne presenti al gioco.
Il linguaggio utilizzato in questa spettacolarizzazione del gioco della tombola , è quanto di più fantasioso e colorito si riesce a immaginare, senza alcun pelo sulla lingua e ovviamente senza limiti alla fantasia ma soprattutto alla volgarità …. ma i doppi sensi e le continue allusioni sessuali rimangono . Il bravo Femminiello riesce comunque a farlo senza mai scadere nel volgare esprimendosi in un dialetto napoletano che risulta comprensibile a tutti, perfino dai tanti stranieri oggi sempre più presenti .
Tra gli altri riti celebrati dai femminielli, famosi sono anche quelli dello Spusalizio mascolino, la Covata dei femminielli e la Figliata dei femminielli.
Nel primo, due femminielli si uniscono a nozze in forma privata, poi i novelli consorti si ritiravano in camera dove consumavano il matrimonio.
Con la Covata, mentre la donna partorisce, il marito mima a sua volta il parto, imitando le doglie con pianti e grida e ricevendo per questo tutte le attenzioni normalmente riservate alla partoriente. Col tempo il femminiello sostituisce il marito e, con la sua presunta carica di positività, è di buon auspicio alla neo mamma e al neonato.
Il cosiddetto rito della “figliata dei femmenelli” invece consiste nella simulazione, dietro un velo, del parto da parte dei femmenelli, con tanto di doglie ed è oggi considerato un rito apotropaico di buon auspicio.
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Quest’ultima tradizione è descritta in un mirabile capitolo de La pelle di Curzio Malaparte e si svolge ancor oggi in altre zone della città, come i Quartieri Spagnoli. , ma sopratutto spesso rappresentat da un grande arista come Peppe Barra che tra l’altro ha dedicato all’imbrecciata la celebre canzone Aitano in cui un travestito esercitava il mestiere dipingendosi la faccia da Pulcinella.
CURIOSITA’: A causa della sua diversità, la figura del femminiello assume anche poteri vaticinanti. Pensiamo alla scostumatissima tombola che si tiene nel periodo natalizio e che a Napoli ha la sua massima espressione nell’attore Gino Curcione. Il fascino di questi personaggi, nell’ultimo trentennio, ha rapito intellettuali e artisti: i femminielli sono protagonisti ne La gatta Cenerentola (1976) di Roberto De Simone o del romanzo Scende giù per Toledo(1975) di Giuseppe Patroni Griffi attraverso la figura di Rosalinda Sprint, che si strugge tra prostituzione e innamoramenti. Il boom dal punto di vista culturale è negli anni Ottanta, grazie alla Nuova Drammaturgia Napoletana e alle opere di autori come Annibale Ruccello.
CURIOSITA’ Prima di terminare questo articolo ci sembra giusto anche spendere due parole alla ricotta, intesa come nobile latticino vistoa la sua assonanza fatta in questo articolo con ripugnanti personaggi.
La ricotta è un sottoprodotto della lavorazione dei latticini eppure ci sono persone, che adorano la ricotta più della stessa mozzarella.
È il simbolo del biancore e della purezza ed originalmente nel parlare di lei ci si riferiva alla tipica ricottina campana, la ricotta di fuscella. che traeva il suo nome da quel canestino di paglia chiamato fiscella o fuscella , dove si deponevano le ricottine molli. Il canestrino consentiva la fuoriuscita del siero e la formazione della ricotta.
Oggi purtroppo le fuscelle di vimini non ci sono quasi più, e la nostra attuale ricotta la si trova perlopiù solo in plastica bianca tutte bucherellate.
Ma se talvolta vi ferramte in qualche mozzarellificio aversano o della zona di Battipaglia spesso vi capeterà si poetrla assagnare e magari riceverla in maniera gratuita se acquistate della mozzarella di bufala.
Questa ricotta certamente buonissima dovete però sapere che ha origini diverse .La ricotta di bufala fa infatti origini vesuviane e fa parte storicamente della tradizione culinaria vesuviana, perché ancora nel secondo Ottocento i bufali erano allevati nei luoghi paludosi di Acerra e di Cimitile e sguazzando nelle acque dei canali del Sarno evitavano che essi ristagnassero.
A vendere la ricotta per le strade di queste localita era “‘a ricuttara”, e il suo “grido” fu per secoli uno solo: “ E’ chella d’ ‘e fuscelle”. Ed erano “fuscelle” garantite, fatte con i giunchi di Volla, di Acerra, del fiume Sarno, e con una tecnica particolare.
N.B. La carne di bufalo si vendeva comunque dovunque :alcuni beccai di Palma Campania controllavano il mercato e i pastori avellinesi che in inverno istallavano greggi e officine lungo gli alvei vesuviani lavoravano nella produzione di ricotta e formaggi anche latte di bufala.
Il luogo pricipale dove per antonomasia si produceva per tutti la più buona ricotta finissima di fuscella, era la localita di Sant’ Anastasia. Esso era il luogo più famoso dove comprare questa prelibata pietanza considerata fino a qualche decennio fa un perfetto alimento per i figli. Per chi non poteva recarsi a Sant’Anestesia , nelle nostre strade fino a qualche anno fa, decine di venditori ambulanti giungevano nelle nostre piazze e nei nostri vicoli con i cesti sulla testa per vendere a chi lo desiderava leggerissimi panini con la ricotta.
N.B. Il formaggio,per lungo tempo nei secoli è stato bersaglio di terribili giudizi formulati da medici, filosofi e teologi. Scrive Piero Camporesi che esso era “connesso alla luna, simbolo di morte apparente” e che la “fermentazione era sentita come prodigio e come pericolo”. In tempi in cui si riteneva che l’aria e gli odori fossero l’origine di ogni malattia, il formaggio veniva condannato dal suo stesso lezzo, oltre che dal fatto che nasceva dalla fermentazione e dalla decomposizione del latte: solo nel 1669 Johan Becker incominciò a spiegare che la fermentazione era un processo diverso dalla putrefazione. Ma a lungo il formaggio restò alimento per villani e straccioni, abituati a mangiare, diceva Campanella, “brutti cibi”.
La struttura molle di alcuni formaggi, e della ricotta in primo luogo, e la persuasione che il cacio fermentato fosse il diabolico alimento di cafoni e villani fecero sì che l’atto di mangiar formaggi venisse abbinato all’ immagine della voracità famelica, della cucchiaiata ingorda: il tutto è stato luminosamente rappresentato dal quadro di Vincenzo Campi, in cui il bianco della ricotta è una macchia aggressiva di colore straniante tra i rossi e i bruni delle facce “villane”, dei grugni stravolti dei mangiatori. Uno di essi, quello accanto alla donna, è una mascherina diabolica che “smiccia” le generose poppe della “vaiassa”: a ricordarci i molti significati che ha sempre avuto la parola “ricotta”.
La ricotta venne ovviamente coinvolta nella condanna, anche se qualche medico sosteneva che, poiché era consumata fresca, faceva meno danni dei formaggi stagionati. A Roma e a Napoli l’immagine della “ricotta” venne usata come metafora sessuale di assai facile lettura, e il “ricottaro” come vi abbiamo prima accennato , fu l’agente delle prostitute, protettore e sfruttatore.
Ma oggi ricotta e provola sono alimento nobile e casto: le suore napoletane hanno provveduto a dare dignità alla ricotta scegliendola come ingrediente essenziale dei “piatti” della Pasqua, e nell’ Ottocento frati, monaci e preti vesuviani e nolani spargevano sui maccheroni dosi abbondanti di cacio di Crotone grattugiato, rispettando nello stesso tempo le ragioni del gusto e quelle della moderazione e dell’umiltà, perché il cacio di Crotone, dal sapore intenso e pungente, era il “parmigiano” dei poveri.
La ricotta salata per la sua consistenza dura particolare dura che deriva dalla maggiore sapidità, oggi rappresenta un elemento fondamentale del pranzo pasquale di ogni napoletano perchè ricorda e invoca l’unione e la compatezza della famiglia o della comunione religiosa, in senso più ampio.
La ricotta è inoltre considerata un simbolo di abbondanza legato alla Pasqua, ma più in generale alla stagione primaverile, quando il latte ovino e caprino raggiunge l’apice della qualità .
Quella romana venduta una volta dai salumieri in forme grandi oggi tutti a Napoli la usiamo per fare la pastiera.
Ma la ricotta difficile da dimentico nella nostra città è certamente quella che le nostre mamme aggiungevano una volta sul ragu domenicale. Prima resa di un colore rosato mischiandola con un po di sugo e poi generosamente aggiunta a cucchiaiate sugli ziti al ragù.
Da qui nasce il Manfredi con la ricotta , un primo piatto che solitamente a Napoli viene preparato nei giorni di festa,, oppure di domenica. Ad essere utlizzata in questo caso come pasta sono le mafalde , un tempo dette ” fettuccelle ” , una pasta prodotta esclusivamente con farine di grano duro che solitamente, almeno fino a qualche tempo fa , veniva a mano fatta in casa dalle nostre nonne . Esse si prestano ad essere condite con vari sughi di carne, ma ‘ a morte dei manfredi è sicuramente sopratutto con la ricotta e col ragù.
La storia di questa pietanza conserva un’antichissima leggenda, secondo cui questo piatto fu inventato nel lontano 1250, per il Re di Sicilia, Manfredi di Svevia. Il Re era in guerra con il Papato per poter ottenere il possesso totale dell’Italia Meridionale, e quando giunse con tutte le sue truppe nel Sannio, fu accolto dalla popolazione con un delizioso piatto di pasta insaporito con il suo formaggio preferito, la ricotta. di cui era ghiotto Questo gesto non fu solo un cortese benvenuto ma anche un modo per aggiudicarsi la simpatia del Re di Sicilia.Da quel momento il piatto prese il nome di Manfredi con la ricotta”.
Nacque così da un’idea improvvisa, uno dei piatti che col tempo e l’aggiunta di un ingrediente, il pomodoro, che nel 1250 era completamente sconosciuto, è divenuto un simbolo della cucina napoletana, da molti ritenuto all’epoca e ancora oggi ” ‘o piatto d”e feste”. I manfredi infatti sono facili e veloci da preparare, ma assicurano la gioia indiscussa di quanti “il giorno della festa”, siederanno a tavola con voi.
Ricordiamoci comunque che l’aggiunta del pomodoro è solo una modifica del piatto originale in quanto il pomodoro a quei tempi era ancora sconosciuto .