Il nome Borbone deriva dal feudo di Bourbon-l’Archambault che il capostipite della famiglia, Roberto di Clermont, incamerò, sposando nel 1279 Beatrice, figlia degli ultimi feudatari di quella regione ( Agnese di Dampierr e Giovanni di Borgogna).
Lasciando da parte le successive varie discendenze, vale la pena giungere direttamente a Filippo V di Borbone che è stato il primo re di Spagna della dinastia dei Borbone.
Nonostante sia stato un sovrano di Spagna egli discendeva da una celebre dinastia monarchica francese. Suo padre infatti era nientemeno che Luigi il gran Delfino di Francia e quindi suo nonno era di conseguenza Luigi XIV re di Francia denominato ” Re Sole“.
Filippo salì al trono di Spagna perchè sua nonna, la regina Maria Teresa, moglie del re sole, era figlia di Filippo IV di Spagna e sorellastra dell’ultimo re spagnolo della dinastia degli Asburgo, Carlo II di Spagna.
Avete capito? Si. Proprio così! Il Re Sole era il nonno di Filippo V.
Ma come è possibile che a divenire Re di Spagna fu un ipotetico possibile erede di uno dei più famosi sovrani di Francia?
Ma andiamo con ordine e prestatemi un pò di attenzione:
Filippo IV, re di di Spagna si sposò due volte ed ebbe dal primo matrimonio due figli di cui uno maschio ed ipotetico futuro erede ( Baltasar Carlos ) che però morì a soli 17 anni ed una figlia ( Maria Teresa) andata poi in sposa a Luigi IV.
Dalle seconde nozze nacquero invece ben due figli maschi: il primo Filippo Prospero che Velazquez dipinse in un famoso quadro pieno di amuleti per difenderlo dal suo precario state di salute iniziale ma che morì alla tenera età di 4 anni e Carlo II nato con un precario stato di salute che finì per affliggerlo per tutta la vita.
Egli era rachitico e basso di statura, afflitto da continue eruzioni erpetiche: non parlò fino a 4 anni e non camminò fino a otto anni. Da adulto era calvo e zoppicante e con il tipico mento asburgico tipico della famiglia reale.
Soffriva di violenti emicranie e crisi epilettiche al punto che fu soprannominato Hechizado ( stregato) e fu trattato come un bambino piccolo fino all’eta di 10 anni.
I suoi tutori per paura che si ammalasse sempre in maniera più grave evitavano di sottoporlo a qualsiasi sforzo sia intellettivo che fisico fino al punto di evitare l’igiene personale, bagni o lavaggi ( il fratellastro don Giovanni ad un certo punto gli impose di lavarsi).
Tutte queste nascite di eredi con gravi anomalie era dettata dalla politica endogamica di contrarre matrimoni tra stretti parenti per conservare terre e titoli.
Carlo II ereditò il titolo di re di Spagna in seguito alla morte del padre a soli 4 anni ma per la sua cagionevole salute e per la giovane età la reggenza del regno fu affidata da Filippo IV, alla regina Marianna d’Austria ( sua seconda moglie) e ad altri 6 funzionari.
Carlo II, dopo essersi sposato due volte senza avere figli perché sterile, nominò alla sua morte ( 39 anni ) suo erede e successore suo nipote Filippo d’Angiò ( figlio della sorellastra Maria Teresa) alla sola condizione che rinunciasse a nome suo e dei suoi figli ad ogni pretesa verso la corona di Francia ( evitando così la possibilità di riunire in un solo sovrano le corone di Spagna e Francia ).
Filippo V di Borbone così divenne il primo re di Spagna della dinastia dei Borbone.
Ma adesso vi starete domandando certamente come questa storia possa interessare Napoli ed il suo regno ……
Un po’ di pazienza. Seguitemi ….
Tutto nasce quando re Filippo V di Borbone, primo re di Spagna della dinastia dei Borbone, dopo la morte della sua prima moglie, sposa in seconde nozze Elisabetta Farnese, dalla cui unione nasce Il figlio Carlo.
Da quel momento, il principale obiettivo di Elisabetta fu la sistemazione su un trono reale di suo figlio. Il trono di Spagna era precluso , in quanto Carlo era preceduto nella linea di successione dai fratellastri Luigi e Ferdinando e l’unica possibilità di dare una corona al figlio era quella di trovarla in terra italiana, dove Elisabetta aspirava ad ereditare il Ducato di Parma e Piacenza. Elisabetta Farnese era infatti imparentata con il Farnese di Parma ed il Medici di Toscana che non avevano avuti eredi.
Elisabetta era una donna determinata ed ambiziosa e, avvalendosi dei preziosi consigli dell’Abate piacentino Giulio Alberoni, lottò energicamente per garantire il futuro come re del figlio Carlo e fece in modo che alla sola età di 15 anni prendesse possesso del ducato di Parma e Piacenza e ai 18 anni marciasse con un potente esercito alla volta della conquista del regno di Napoli contro le milizie austriache.
La marina Spagnola inflisse una pesante sconfitta alla flotta austriaca, mentre per via terra le truppe borboniche avanzavano inesorabilmente ottenendo continue vittorie nei confronti dell’esercito austriaco.
Il 9 aprile a Maddaloni una delegazione di eletti della città consegnò a Carlo le chiavi della città di Napoli, favorendo cosi la sua venuta ( i napoletani non avevano ben tollerato gli austriaci). I cittadini erano stufi di vedere il loro paese governato da un funzionario, in nome del re, come la provincia di un regno e speravano di avere finalmente un sovrano in un regno indipendente.
I napoletani dopo la lunga notte del vicereame, vedevano finalmente l’ occasione di “avere un re tutto per loro” …. e Carlo di Borbone di conseguenza fece il suo trionfale ingresso in città il 10 maggio 1734 entrando da Porta Capuana ( come tutti i conquistatori di Napoli ) tra la folla che lo applaudiva.
Il 15 maggio Filippo V ( primo re di Spagna della dinastia dei Borbone ) proclama l’indipendenza del Regno di Napoli, con suo figlio Carlo come re; la giovane età del sovrano impose che gli si affiancassero dignitari spagnoli ed in particolare Bernardo Tanucci la cui nomina a consigliere giuridico fu il primo atto del sovrano.
Elisabetta Farnese mise al fianco del figlio numerosi e fedelissimi collaboratori di sua fiducia che almeno inizialmente condizionarono le scelte di vita e politiche del figlio cercando di orientarle sempre verso gli interessi della Spagna.
Fece in modo da venire sempre informata quotidianamente della vita privata e di governo del figlio dal segretario di stato Giuseppe Gioacchino Montealegre ma tutto questo ebbe un giorno una fine ed esattamente l’anno 1746 ,in cui il segretario fu costretto da Carlo e Maria Amalia a lasciare Napoli e tornare in Spagna in quanto entrambi mal tolleravano l’invadente tutela.
Nel 1737 in seguito ad un trattato di pace firmato a Vienna, l’Austria riconosceva Carlo di Borbone sovrano del regno di Napoli, ma in cambio Carlo e la madre dovettero cedere all’ Austria i territori di Parma, Piacenza e Toscana conservando però il tesoro dei Farnese che potevano portare con se a Napoli.
I ducati di Parma, Piacenza e Toscana ( che nel suo disegno Elisabetta aveva destinato per l’altro suo figlio Filippo ) andarono così persi ma finalmente il figlio di Elisabetta era in questa maniera re di un suo Regno indipendente e qualche sacrificio era purtroppo indispensabile.
Nello stesso tempo Tanucci e il ministro austriaco ( Neipperg ) sottoscrivevano un trattato in cui si concordava che le due figlie dell’ Imperatrice d’Austria Maria Teresa sarebbero andate in spose una all’erede al trono di Spagna e l’altra all’erede al trono delle due Sicilie.
Nel 1738 Carlo sposò Maria Amalia di Sassonia ( lui aveva 22 anni e lei solo 14). La nuova regina al suo arrivo a Napoli fu accolta tra grandi feste.
Carlo fu marito innamorato e fedele oltre che certamente un buon re per Napoli a differenza purtroppo dei suoi successori; premuroso verso le esigenze del popolo, riflessivo, umano e attentissimo al dovere regale. Si mostrò molto rispettoso dei consigli dei suoi ministri che comportò di conseguenza un grande equilibrio di governo ed iniziò con il Tanucci un periodo di riforme nell’amministrazione ( anche se talvolta difettose o incomplete ) che erano per quei tempi molto liberali e ardite.
Risvegliò il settore commerciale, istituendo un tribunale di commercio ed un collegio nautico che tutelava la marina mercantile ( stipulò un trattato con l’impero ottomano che ridusse le azioni dei pirati ). Istituì l’imposta fondaria e fece il catasto, migliorò i tribunali e la procedura civile. Fece ogni sforzo per diminuire il potere delle feudalità e per sottrarre il regno all’influenza clericale.
Colpi la manomorta, ossia l’immunità dal fisco per alcuni immobili religiosi ( sancì l’imposizione fiscale ai beni religiosi prima esenti), cosa che ancora oggi il nostro attuale governo non ha il coraggio di fare ….
Stipulò col Vaticano (grazie alla politica anticlericale del Tanucci ) un concordato in cui si prevedeva la riduzione dei privilegi ecclesiastici, delle immunità, del numero dei chierici e si sospese il tribunale della inquisizione.
Nel 1746 il cardinale arcivescovo Spinelli tentò d’introdurre l’Inquisizione a Napoli: la reazione dei napoletani, tradizionalmente ostili al tribunale ecclesiastico, fu violenta. Implorato dai sudditi d’intervenire, re Carlo entrò nella Basilica del Carmine e toccando l’altare con la punta della spada giurò che non avrebbe permesso l’istituzione dell’Inquisizione nel suo regno. Lo Spinelli, che fin allora aveva goduto del favore del re e del popolo, fu allontanato dalla città.
Il concordato dava inoltre al re il controllo delle nomine dei vescovi e sanciva la riduzione del numero dei conventi.
In politica estera, fu avveduto e mai spericolato, coltivando l’alleanza con l’Austria che consolidò con il matrimonio del figlio Ferdinando con la figlia di Maria Teresa, Maria Carolina.
Riordinò il Bosco di Capodimonte e iniziò la costruzione delle Reggia di Capodimonte
La reggia fù progettata da G.A. Medrano nel 1738 e fu terminata 100 anni dopo.
Intorno al palazzo, il Sovrano aveva voluto due grandi boschi da destinare alla caccia e un enorme giardino. Nel 1839 fu destinata ad ospitare le collezioni Farnesiane, che il re aveva ereditato dalla madre Elisabetta e successivamente impiantò la fabbrica di porcellane in omaggio alla sposa sassone.
Fece costruire ( demolendo prima il vecchio San Bartolomeo) il Teatro San Carlo, su progetto di Antonio Medrano, che fu completato in soli otto mesi da Angelo Carasale e inaugurato il 4 novembre, festa di San Carlo e giorno dell’onomastico del sovrano.
Fu il teatro più grande e sontuoso in Italia, che divenne talmente famoso da divenire negli anni successivi tappa obbligatoria per tutti i visitatori italiani e stranieri.
Nel 1738 fu cominciata la Villa di Portici , con il suo Parco degradante verso il mare , arricchita con statue di Ercolano e Pompei che egli considerò la sua residenza estiva.
Molte famiglie gentilizie, per essere vicine ai sovrani, costruirono ville che costituirono il cosiddetto “ miglio d’oro “.
Per contenere il forte problema dei poveri ( in città erano 25.000) sulla forte spinta esercitata da padre Rocco, fece costruire il mastodontico Albergo dei poveri, affidandone l’incarico a Ferdinando Fuga.
L’edificio doveva accogliere 8000 persone e dare asilo ad una moltitudine di poveri senza dimora per toglierli dalle strade; doveva accoglierli in ospitalità coatta con separazione dei sessi e delle età. Esso doveva rappresentare la pietà illuminista della casa Borbonica.
Nel 1757 fu iniziata la costruzione dell’emiciclo al largo Mercatiello ( attuale Piazza Dante) dove, alcuni giorni della settimana, c’era il mercato.
La piazza prevedeva nel nicchione centrale la statua equestre di Carlo ( il modello in gesso esistente all’epoca fu poi distrutta dai giacobini nel 1799 ) e sul cornicione dell’emiciclo possiamo ancora oggi vedere le 28 statue allegoriche delle virtù del sovrano.
Altre opere pubbliche di rilievo furono: la sistemazione del Molo, l’apertura della strada di Mergellina e la costruzione dell’edificio dell’Immacolatella.
Ma Carlo desiderava una reggia di bellezza e magnificenza ben superiore. Con la reggia di Caserta egli intese uguagliare se non superare la grandiosità e la bellezza di Versailles.
Scelse come architetto il figlio del pittore fiammingo Van Wittel, Luigi Vanvitelli.
Altra grande opera meritoria di Carlo furono gli scavi di Ercolano e Pompei con cui egli portò alla luce un tesoro straordinario di reperti archeologici. Il suo merito fu di capire immediatamente l’importanza di tali ritrovamenti e di inaugurare una campagna archeologica continuata poi dai successori e in vigore ancora oggi.
Nel luglio del 1746 muore il re di Spagna Filippo V e gli successe sul trono di Spagna, il figlio Ferdinando VI che già cagionevole di salute, iniziò ben presto a manifestare i sintomi di quell’infermità mentale che aveva già colpito suo padre. Il nuovo re, dopo la morte della propria moglie che lui amava molto ( considerata da lui l’unica ragione della sua vita) dopo aver nominato Carlo suo successore al trono di Spagna si ritirò nel palazzo di Villaviciosa de Odon dove morì nell’agosto successivo.
Carlo fu quindi chiamato, contro ogni iniziale aspettativa, alla sovranità del Regno di Spagna e dovette pertanto lasciare il trono di Napoli dopo 25 anni di regno ( per farne altri 30 come re di Spagna).
Prima di partire per la Spagna, in un addio commosso e commovente dove tutti piangevano (i napoletani erano ben consapevoli di perdere un grande re) Carlo nominò Ferdinando, suo erede al trono di Napoli e di Sicilia (Ferdinando IV come re di Napoli e III come re di Sicilia e solo successivamente con l’unione del Regno di Napoli ed il Regno della Sicilia, che si ebbe dopo il trattato di Vienna, Ferdinando I di Borbone, re delle due Sicilie).
Il piccolo Ferdinando che aveva solo 9 anni, essendo minorenne fu posto sotto la tutela di un consiglio di reggenza presieduto da Bernardo Tanucci.
La designazione di Ferdinando fu dovuta al fatto che il primogenito, Filippo, affetto da infermità mentale era inabile al trono; soffriva di convulsioni epilettiche, lo stesso male che aveva colpito il padre e il fratellastro Ferdinando VI.
Il secondogenito Carlo (con il titolo di erede di Spagna), dovette invece seguire il padre per succedergli sul trono di Spagna.
Il diritto di ereditare quindi il Regno delle due Sicilie passò al terzo maschio Ferdinando fino ad allora destinato alla carriera ecclesiastica.
Il 6 ottobre Carlo di Borbone, dopo aver sottoscritto l’atto di abdicazione in favore del figlio, s’imbarcò per raggiungere il nuovo regno, dove l 11 settembre 1759 fu incoronato a Madrid re di Spagna.
Ferdinando, fino ad allora era cresciuto libero da impegni di educazione a corte e senza nessun canone che avrebbe dovuto formare un futuro regnante. Egli era destinato alla carriera ecclesiastica e nessuno avrebbe poi immaginato per lui uno scenario un domani come re. Non aveva avuto al suo servizio nobili dame, ma fu affidato a una popolana, una certa Agnese Rivelli, madre del piccolo Gennaro, un ragazzo con cui Ferdinando da piccolo trascorse tutta la sua fanciullezza assimilando dal suo coetaneo non solo la partenopea allegrezza ma anche il dialetto napoletano e il modo popolano di vestirsi.
Da piccolo amava vivere per strada, libero da impegni di educazione a corte, nei vari quartieri della città, vestito come un popolano e circondato da compagni di gioco suoi coetanei con i quali crebbe parlando il dialetto napoletano. Si sentiva uno del popolo ed il suo amore per le strade, gli usi ed i costumi della gente comune gli rimase dentro anche quando da adulto divenne sovrano al punto che spesso, appena poteva, continuava a fare vita libera nei vari quartieri dove amava mischiarsi con la gente comune con cui parlava benissimo il dialetto napoletano.
Egli si ritrovò a soli 9 anni re di Napoli e di Sicilia, solo e senza genitori posto sotto la tutela di un consiglio di reggenza presieduto dal toscano Bernardo Tanucci che si trasformò in Consiglio di Stato quando poi divenne maggiorenne.
La sua educazione fu affidata al principe di San Nicandro, definito dai contemporanei un uomo gretto, incapace, e perfino vizioso.
Da uomo ignorante, bigotto ed ipocrita si rilevò con il tempo un precettore mediocre capace di curare solo le apparenze disinteressandosi totalmente di impartire a Ferdinando una cultura consona al suo rango.
Egli si preoccupò di farne soprattutto un uomo robusto e fisicamente forte, ma non curò in egual misura la sua educazione intellettuale, culturale e spirituale (anche se il ragazzo possedeva una notevole intelligenza e vivacità ) riuscendo a fare del suo discepolo un uomo incolto e grossolano dai tratti rustici e volgari.
L’unico pensiero del principe di San Nicandro era quello di informare il re di Spagna di quanta selvaggina avesse ucciso il figlio.
A corte Ferdinando si esprimeva solo in Napoletano e alla compagnia dei cortigiani preferiva certamente quella con la gente semplice, che considerava certamente più sincera e leale.
Più che la mondanità di corte, lui amava stare all’aria aperta, dove poteva cavalcare ( il suo divertimento preferito). Adorava la caccia, e la pesca ( come il padre) e andava a letto sempre con la spada perché aveva paura del buio e non voleva mai restar solo.
Ebbe certamente atteggiamenti poco consoni rispetto a quello che era considerato il modello di monarca dell’ epoca ma per certi versi era molto piu’ vicino alla sua gente di tanti sovrani europei ed il suo buon carattere gli valse quantomeno il ritratto di un uomo che amava la sua citta’ ed il suo popolo, tanto da scegliere fin dalla giovane età di stare in mezzo alla gente e di voler parlare la Lingua Napoletana preferendo alla compagnia dei vari nobili e aristocratici di corte il contatto diretto con la gente semplice, come i pescatori del quartiere di Santa Lucia.
Ferdinando non era stupido ma solo totalmente refrattario a qualsiasi serio impegno a cominciare da quello dello studio . Non riuscì mai andare oltre le quattro operazioni aritmetiche, e tantomeno ad imparare una lingua (neanche quella italiana).
Egli credeva ciecamente in San Gennaro ma non conosceva i dieci comandamenti.
Parlava solo napoletano, frequentava gli scugnizzi di strada e passava intere giornate con loro a cacciare, pescare e a rivendere pesce e selvaggina al mercato.
Queste abitudini gli valsero l’affettuoso nome di ” Re Lazzarone” .
Anche quando raggiunta la maggiore età di 16 anni poi sali al trono non cambiò le sue abitudini rifiutandosi di occuparsi degli affari di stato; egli mal sopportava le riunioni del Governo alle quali partecipava con poca voglia e anzi per risparmiarsi anche la fatica di sottoscrivere i documenti fece preparare un sigillo col suo nome che affidò al Tanucci che così poteva provvedere in caso di necessità al suo posto.
Non poteva fare a meno di assistere ai consigli di stato ma aveva proibito alla sua vista la presenza di qualsiasi calamaio che potesse indurlo a firmare noiosi documenti.
In realtà il vero re era ancora Carlo che seguitava a governare attraverso il fidatissimo Tanucci che lo teneva al corrente di tutto e possiamo senz’altro affermare che durante tutto il tempo in cui il Tanucci, tenne la reggenza del governo , egli esercito’ effettivamente il potere sempre in nome di Ferdinando, curando sopratutto gli interessi del governo spagnolo.
Quando giunge il momento di contrarre matrimonio, il padre Carlo rimise alla scelta di Maria Teresa d’Austria quale delle sue figlie dovesse andare in sposa a Ferdinando.
L’Imperatrice opto’ per l’arciduchessa Maria Giovanna Gabriella d’Asburgo quasi coetanea di Ferdinando , ma quando oramai tutto era pronto per il matrimonio , poco prima di partire , la giovane si ammalo’ gravemente di vaiolo e a soli 16 anni mori’.
Il suo posto fu preso da Maria Carolina affettuosamente chiamata Carlotta in famiglia.
Il matrimonio fu celebrato come al solito per procura e nello stesso mese la sposa intraprese il suo viaggio verso Napoli.
Una clausola del contratto matrimoniale prevedeva che, la Regina entrava nel Consiglio di Stato appena partorito il primogenito principe ereditario.
L’imperatrice Maria Teresa infatti sapeva bene il carattere e lo spessore della figlia e volle inserire assolutamente quella clausola, che le avrebbe garantito gli interessi austriaci a discapito di quelli spagnoli.
Quando Ferdinando vide per la prima volta Carolina rimase affascinato dalla sua regalità e dalla giovane bellezza mentre lei fu colpita dai suoi modi rozzi ( scriverà alla sua ex governante “mio marito è ripugnante” ).
Carolina proveniva da una educazione raffinata ed elegante ed era cresciuta in una famiglia dove l’etichetta di corte era la regola principale. Raffinata, colta ed evoluta, la principessa proveniva dalle corte di Vienna dove in quel periodo aleggiava un forte razionalismo illuminista. Ferdinando invece proveniva dai vicoli e dalle strade di Napoli dove amava vivere mischiato tra la gente comune, e almeno inizialmente non rappresentava certamente il prototipo ideale di marito che lei aveva immaginato accanto a se per la sua vita per i suoi modi rozzi e l’oscenità del linguaggio.
Molte persone a corte vedendo Carolina e la sua classe erano almeno inizialmente convinti che la nuova sovrana potesse essere in grado di cambiare il Re ma altri erano invece convinti del contrario e cioè che Ferdinando con il tempo fosse in grado addirittura di guastare la Regina.
Il loro matrimonio, nonostante tutto, tra luci ed ombre, durò comunque 46 anni, rappresentando uno dei legami più longevi che la storia ricordi con ben 17 figli ( secondo l’abitudine dell’epoca ) anche se solo quattro di loro riuscirono a sopravvivere ai loro genitori.
Maria Carolina incominciò subito ad interessarsi attivamente della vita politica del Regno (pro Austria) finendo presto a giungere in aperto contrasto con il Tanucci (pro Spagna) .
Tanucci rappresentava Carlo III vale a dire il vincolo che subordinava Napoli alla Spagna mentre per Tanucci, Carolina rappresentava invece la lunga mano degli Asburgo per attrarre il reame nell’orbita della sua famiglia austriaca.
Maria Carolina mirò a svincolare lo Stato dalla tutela spagnola, e criticava continuamente qualsiasi tipo di decisione presa dal Tanucci al solo scopo di denigrarlo agli occhi del re e del consiglio di stato.
La regina creò intorno a se una squadra di intellettuali dalle idee progressiste, massoniche, che erano invise al ministro Tanucci e il suo salotto fu presto frequentato non solo dai nobili più importanti e dai cortigiani, ma da tutte le più erudite, intellettuali e colte menti che si potevano trovare a Napoli, giovani e meno giovani, alle quali dava il benvenuto e protezione. Lo stesso Ferdinando come risulta dalla corrispondenza tra Ferdinando ed il padre, fu costretto a studiare “dalla mattina alla sera”.
Lo scontro tra il Tanucci e Carolina fu inevitabile e la lotta tra i due molto accesa ma alla fine ebbe la meglio la regina.
Tanucci non potè evitare la scalata di Maria Carolina alla “stanza dei bottoni ” e quando ciò avvenne il suo destino fu segnato. Egli dovette dapprima acconsentire di vedersi molto ridotto il suo raggio di azione per poi rassegnarsi ad uscire completamente di scena.
Dopo la nascita di Carlo Tito (morto a tre anni), la regina divenne sovrana a tutti gli effetti sedendo in Consiglio di Stato come da contratto materno e a quel punto il ministro Tanucci fu licenziato e con malo modo allontanato dalla corte dopo 42 anni di fedeltà alla corona.
Ferdinando si guardò bene dall’entrare nello scontro nato tra il Tanucci e la regina e quando quest’ultima prese saldamente in mano le redini del governo egli fu ben contento di affidargli un compito da lui ritenuto noioso e impegnativo al punto da richiedere un notevole dispendio di forza e tempo. Poco incline all’etichetta di corte, preferì alla politica di corte certamente la sua passione per la caccia e alla regina Carolina le belle contadine della campagna di San Leucio.
Maria Carolina per prima cosa allora cercò di eliminare dal Regno l’influenza monarchica spagnola e per farlo doveva innanzitutto tagliare il cordone ombelicale che collegava Ferdinando con il padre. Non potendo far nulla nel confronti del potente suocero, decide di agire sul marito allontanando dal padre.
Ben presto Maria Carolina apparve come una nemica agli occhi di Re Carlo che ben aveva capito il gioco e cercò di mettere in guardia il figlio ma Ferdinando non era uno sciocco (poco colto si ma non certamente sciocco ) e capì perfettamente che il padre tanto ne parlava male perchè profondamente non voleva di fatto rendere indipendente il Regno dal suo controllo. Oramai cresciuto era stanco della tutela paterna e resosi conto delle buone capacità governative della moglie penso’ bene di affidare alla stessa la messa in opera di tutte le sue idee rinnovatrici.
In tal modo, la politica del regno di Napoli passò per volere della Regina dalla dipendenza della Spagna a quella austriaca e, quando scoppiò la rivoluzione francese, si trovò vincolato alla politica austro-inglese.
Fu quindi inevitabile pertanto, in seguito a questi eventi, anche la progressiva rottura con Madrid, in cui la regina riuscì a coinvolgere anche Ferdinando che mostrò poco carattere di fronte alla stessa che ad un certo punto lo dominava completamente.
La sua arrendevolezza fu ragione di profondo dolore per l’ormai anziano re di Spagna che si vedeva in un certo senso sfuggire non solo e non tanto il potere politico quanto in un certo senso anche la persona stessa del figlio Ferdinando.
Il re Carlo fu indignato dall’uscita di scene del Tanucci e ingiunse il figlio di sostituire il Tanucci con una persona altrettanto fedele e leale individuata in La Sambuca che fu subito inviso e successivamente licenziato da Carolina che era ben decisa di fare di Napoli una potenza asburgica. La politica della Regina mirava infatti sopratutto a salvaguardare gli interessi austriaci e mettere in atto un nuovo governo fatto di soli uomini di sua personale fiducia.
Per evitare rappresaglie da parte del Re Carlo inizialmente il suo posto fu affidato al marchese Caracciolo e solo dopo la morte di quest’ultimo al favorito della regina il ministro inglese principe John Acton che nel corso degli anni godette della completa fiducia dei Reali facendo cosi passare il Regno di Napoli dall’orbita spagnola a quella austriaca.
Questo portò a far gravitare sul regno anche l’influenza britannica e la presenza a corte di numerosi personaggi e amici inglesi che tanto influirono poi sulle future discutibili decisioni prese da Maria Carolina in occasione dei moti repubblicani quando in contrasto con quanto promesso dal Cardinale Ruffo rinnega tutte le condizioni della resa concordate con i repubblicani e condanna alla morte in un vero massacro centinaia di patrioti tra cui la parte migliore dell’intellighenzia meridionale.
La regina prese quindi a governare senza che Ferdinando opponesse resistenza ben felice di essere lasciato ai suoi svaghi e fu lei da quel momento, la vera sovrana del Regno dando una svolta alle scelte di governo, specie in politica estera dove oltre che aderire alla politica austriaca favorì certamente anche quella inglese ( influenzata da Acton ) che mirava a disporre di basi navali per la sua flotta ( affidata a Nelson ) nel regno per contrastare alla Francia il dominio del Mediterraneo.
Di carattere duro e insensibile, molto simile a quello dell’Imperatrice, la regina piacque molto comunque molto alla corte ed al popolo per la sua intraprendenza e dinamismo abbinata alla sua giovane età.
Si mostrò una donna di forte carattere e di grandi ambizioni.
La sua politica promosse numerose riforme mostrandosi protettrice di spiriti “illuminati”.
La loro Corte offrì ospitalità agli intellettuali e Napoli era seconda solo a Parigi per il fiorire degli studi filosofici, giuridici e scientifici (Della Porta, Giannone, Vico, Genovesi, Filangieri), e in citta’ nacquero molte dottrine illuministiche.
Appoggiò la Massoneria del tempo, ricordando che far parte di essa all’epoca significava anche essere membro del top dell’elite culturale, e tutti i piu grandi studiosi ne erano membri. La regina creò l’unica Loggia Massonica femminile al mondo mai esistita, e la creò a Napoli, ricevendone immense lodi dalla Francia.Ciò è una delle prove che dimostra la sua volontà di riforme per la parità uomo-donna.
Ricordiamo che aprì anche collegi femminili, cosa unica al tempo e sopratutto per suo volere nello statuto della nuova nascente colonia di San Leucio venne stabilità per legge la parita uomo-donna ed il diritto delle donne.
Il suo forte carattere, le sue grandi ambizioni, e sopratutto la sua sfrenata smania di potenza la portò addirittura a scontrarsi con Napoleone.
Ferdinando fu comunque nonostante tutto un re molto amato dal popolo napoletano che vedeva in lui un pò se stesso. Era un re tutto napoletano, nato e cresciuto nelle strade della città che parlava e si comportava come loro ( fu soprannominato Re Lazzarone ).
Non aveva superbia e trattava tutti alla pari anche se a volte lo faceva in modo paternalistico. Non importava niente se, indolente per gli affari di Stato lasciava fare tutto alla Regina che poi in effetto governava bene il Regno (paradossalmente la scarsa partecipazione alle faccende politiche del Re costituisce forse il suo maggior merito).
Durante il suo regno fu proseguita l’opera di rinnovamento e di abbellimento iniziata dal padre Carlo e la citta’ prese nel complesso un aspetto piu’ decoroso e confacente ad una capitale .
Furono abbattute le porte di Chiaia e quella Reale per rendere più agevole il traffico delle carrozze e riqualificata via Toledo. I banconi, le baracche, le chiance e le pennate che ingombravano la strada rendendola maleodorante e intransitabile vennero trasferite alla Pignasecca trasformando così la strada nel luogo preferito per le passeggiate dei napoletani.
Contemporaneamente fu allargata e pavimentata via Foria e risistemata la riviera di Chiaia che divenne una strada panoramica ed elegante dove erano solito soggiornare personaggi illustri che venivano a visitare la città.
Fece creare da Luigi Vanvitelli nel 1778, davanti alla stessa Riviera di Chiaia un giardino pubblico per il “Real Passeggio” che fu chiamato Villa Reale.
Il Real Passeggio era il luogo d’incontro dell’aristocrazia napoletana, vietato, tranne che nel giorno della festa di Piedigrotta, ai poveri, ai servitori ed alle persone malvestite.
Un luogo di ritrovo e di divertimento per la nobiltà napoletana che fu talmente entusiasta della Villa da chiamarla pomposamente la ” Tuglieria ” in ricordo dei celebri giardini francesi Tuilieres a Parigi, fatti costruire da Luigi XIV.
La città fu ripartita in 12 quartieri e furono apposte targhe stradali e numeri civici.
Effettua il tentativo della colonia di San Leucio, un vecchio progetto dell’ ormai defunto Filangieri e che Ferdinando IV fa suo.
Egli creò in questo luogo un vero e proprio borgo dove realizzo’ una vera e propria industria tessile ( con l’uso di macchinari ritenuti all’avanguardia per l’epoca ) , per la produzione della seta dando lavoro a migliaia di persone.
Istituò a Serre un centro di selezione equina, finalizzata a rinsaldare le tradizioni cavallerizze napoletane, dando origine ad una stirpe di robusti cavalli famosi in tutta Europa.
Riorganizzò la flotta militare e sotto la sua direzione la Real Marina del Regno delle Due Sicilie arrivò a contare 39 navi armate, con 962 cannoni.
Fondò il Cantiere navale di Castellammare di Stabia, che fu subito messo in moto per nuove costruzioni e potenziò la formazione dei giovani ufficiali fondando la Reale Accademia Militare.
Furono portati a compimento gli scavi archeologici di Pompei ed Ercolano, la fabbricazione delle Porcellane di Capodimonte e la Reggia di Caserta capolavoro di Luigi Vanvitelli.
Fece trasferire da Roma a Napoli la famosa Collezione archeologica Farnese, di sua personale proprietà e di incommensurabile valore, donata al Museo Borbonico, ancora oggi uno dei più importanti del mondo (dopo l’annessione, fu ribattezzato “Museo nazionale”).
Per rimarcare la propria indipendenza dal papato nel 1776 Ferdinando IV soppresse la secolare usanza dell’omaggio feudale alla Chiesa, la cosiddetta la Chinea (una mula bianca con relativa somma di denaro che ogni anno il 28 giugno i re meridionali offrivano al papa in segno di vassallaggio), sopravvissuta al concordato del 1741.
Nel campo teatrale Ferdinando fece di suo il teatro dell’opera buffa che prese il suo nome, come quello dell’opera seria prese il nome del padre, esempio esemplificativo della differenza caratteriale tra i due sovrani.
La rivoluzione francese e la decapitazione dei due sovrani, Luigi XVI e Maria Antonietta, gettò nel panico la corte Napoletana, che reagì infittendo i controlli di polizia e perseguitando pesantemente l’opposizione interna.
Il periodo certamente non era dei migliori e un pò dappertutto si respirava aria di repubblica.
La regina, convinta che il regno fosse pieno di giacobini pronti alla rivolta organizzò una fitta rete di spionaggio che operava nei luoghi pubblici e nell’intimità delle case, conferendo di notte con le spie della reggia nella sala chiamata “sala oscura”. Esercitavano lo spionaggio sacerdoti, magistrati , ed alcuni nobili ( fra cui primeggiò Fabrizio Ruffo principe di Castelcicala).
Un ruolo primario lo ebbe il clero che oramai libero dalle restrizioni anticlericali del Tanucci era divenuto grosso amico della casa reale.
Nelle chiese e nei confessionali fu messa in atto una vera campagna anti-giacobina rivolta ai fedeli nell’intento di aizzare il popolo contro i francesi.
Fu ordita in tutto il regno una vera e propria campagna di odio nei confronti dei giacobini e delle loro idee liberali ed a farne le spese furono inizialmente sopratutto molti intellettuali dell’epoca come i Pagano, Cirillo, ed il Conforti che furono spiati e malvisti.
I libri del Filangieri furono addirittura banditi dal Regno.
All’arrivo di Napoleone in Italia visto come il diavolo (si temeva sopratutto per le loro teste) si provvide immediatamente a potenziare l’esercito e fortificare il territorio con forte aggravio per l’Erario.
Furono arruolati tutti gli uomini atti alle armi garantendo a chiunque si arruolasse una decennio di franchigia fiscale e assicurata un’immunità da eventuali condanne in atto.
Napoleone giunto a Roma il 15 febbraio 1798 , espatriò il papa Pio VI ( mori dopo sei mesi chiuso in un oscuro deposito ) e dichiarò cessato il tirannico Impero della chiesa.
Ferdinando intanto allestito un esercito di 40.000 soldati, che affidò al generale Mack ( chiamato dall’austria su consiglio della Regina) convocò un consiglio per decidere se muovere guerra o meno all’esercito napoleonico stazionato a Roma.
Prevalse ovviamente l’idea dalla Regina e di Acton che erano in favore della guerra. Essi riuscirono a convincere Ferdinando del fatto che presto l’Austria avrebbe mandato le sue truppe in aiuto e che il generale Austriaco Barone Carl von Mack da loro ingaggiato era un grande condottiero ed il migliore nel suo campo.
Ulteriore punto a favore nel marciare su Roma era il fatto che Napoleone era momentaneamente bloccato in Egitto.
La scintilla scattò quando l’ammiraglio Nelson distrusse la flotta francese ad Abukir.
L’episodio fu accolto a Napoli con grande euforia come se la vittoria fosse stata napoletana e non inglese.
Nelson di ritorno a Napoli fu accolto con grandi onoranze: il re e la regina accompagnati dall’ambasciatore Hamilton e dalla sua bellissima consorte (Emma Lyon) andarono incontro all’ammiraglio tributandogli grandi elogi mentre in città furono organizzate grandi feste.
Presi da rinnovato entusiasmo l’esercito napoletano agendo su più fronti partì quindi alla riconquista di Roma.
Il fronte più agguerrito era quello centrale comandato dal generale Mack con al seguito il re e la regina (che sopra una quadriga con abito di amazzone incitava le file dei soldati) e la bella Lady Hamilton che sfoggiava il suo dominio su Nelson.
Approfittando che le forze francesi erano sopratutto concentrate in Abruzzo, l’avanzata delle milizie borboniche avvenne indisturbata fino a Roma dove il re una volta preso alloggio, cantando troppo presto vittoria, offrì subito al papa l’opportunità di ritornare in sede.
Ma l’esercito napoleonico mosso dall’Abruzzo con a capo il generale Championnet riuscì facilmente ad avere ragione dello spezzettato battaglione borbonico organizzato da Mack in piccoli reparti
.
I francesi avanzarono fino a Roma sbaragliando facilmente l’esercito napoletano ( il Mack fuggì miserevolmente ) ed il re con il suo seguito dovettero ritirarsi precipitosamente a Napoli.
In questa occasione il re che certamente non brillava di coraggio si racconta che fuggi travestendosi nella fuga con i vestiti del suo cortigiano e scudiero il duca d’Ascoli.
Una volta scambiati gli abiti egli si sedette a sinistra nella carrozza, ordinò al duca di dargli del tu, e lo servì lungo tutta la strada come se lui fosse stato il duca d’Ascoli, e questi fosse stato re Ferdinando.
Le truppe francesi a quel punto minacciavano di marciare su Napoli e Ferdinando a questo punto, terrorizzato, dopo aver emanato un appello al popolo affinché si armasse e si opponesse ai nemici del Re, della Patria e della Religione decise insieme alla corte ed ai nuovi amici inglesi Hamilton, Nelson e Acton di scappare da Napoli per rifugiarsi a Palermo portando con se tutto il danaro dei banchi pubblici, mobili e casse di capolavori d’arte.
Il popolo e particolarmente i ‘lazzari’ si affollarono sotto la reggia e invocarono il re a non abbandonare il Regno dicendosi pronti a sacrificare la propria vita per difenderlo.
Ferdinando di fronte alla prova di affetto del suo popolo cominciò a tentennare ma l’inflessibile Maria Carolina lo spinse alla partenza.
Caricarono il tutto sulle navi inglesi che li scortavano guidate dall’ammiraglio Nelson sempre accompagnati da lady Hamilton (di cui oramai Nelson era profondamente e perdutamente innamorato) .
Le navi vennero colte da una tempesta di proporzioni eccezionali che rese la traversata difficilissima. Da questa brutta situazione che si venne a creare le navi ne vennero fuori solo grazie alla bravura dell’ammiraglio Francesco Caracciolo che desto’l’ammirazione del re che ne vantò le lodi.
Questo episodio scatenò una terribile gelosia in Nelson a tal punto che una volta giunto in Sicilia egli insieme al ministro Acton costrinsero Caracciolo a disarmare la sua nave.
Incollerito e deluso a questo punto l’abile uomo di mare chiese ed ottenne di tornare a Napoli per curare il propri interessi (con grande gioia di Nelson).
Questo episodio condizionò enormemente il napoletano nel prendere la decisione di assumere successivamente il comando della flotta repubblicana e le sue simpatie per gli ideali giacobini.
Quando tornò a Napoli fu accolto con onore ed ebbe la proposta di aderire alla repubblica e comandare i resti della flotta. Dopo qualche esitazione, convintosi che si trattava dell’occasione giusta per riscattare il regno dalla pessima e cieca amministrazione borbonica, pensò bene di accettare la proposta.
Successivamente dimostrò quindi le sue qualità nella difesa dalla flotta inglese che minacciava Napoli dalle isole di Ischia e Procida al punto da combattere contro la stessa flotta reale di ritorno a Napoli.
Dopo la fine della repubblica, si nascose nei suoi feudi a Calvizzano, ma fu tradito da un servo e consegnato a Nelson, che ne impose l’impiccagione ad un albero della nave. Il corpo, gettato in mare, fu raccolto dai marinai e sepolto nella chiesa della Madonna della Catena a Santa Lucia.
Intanto a Napoli il proclama del re non fu evaso e migliaia di uomini di ceto medio ma sopratutto il popolo ed in particolar modo i Lazzari opposero una tenace resistenza ai francesi combattendo strada per strada e casa per casa in maniera eroica.
La lotta fu epica specie a Porta Capuana e dopo tre giorni di scontro più che le armi furono le trattative a decidere le sorti della città.
I napoletani accettarono di non opporsi all’occupazione francese a patto che non profanassero le chiese e che non venissero perseguitati i combattenti.
Championnet per rassicurare il popolo dispose un picchetto francese al Duomo e la guardia d’onore alla cappella di San Gennaro.
Il 24 gennaio il generale Championnet proclamò in San Lorenzo la Repubblica Partenopea ma questa era già stata proclamata due giorni prima nel Castel S. elmo dai patrioti napoletani.
Tutto questo a dimostrazione che la repubblica napoletana non fu figlia di quella francese, anzi possiamo dire che essa sorse contro la volontà del governo francese.
La Francia era infatti ostile alla formazione di nuove repubbliche che riteneva fonte continua di guerre e difatti non riconobbe mai ufficialmente la repubblica napoletana rifiutandosi sempre di ricevere una loro delegazione.
Championnet, da buon giacobino l’appoggiò fino a quando restò con le sue truppe, diventando così inviso al Direttorio francese che una volta richiamatolo in patria lo fece arrestare.
Il fallimento della rivoluzione napoletana fu il semplice fatto che la sua matrice non nasceva dal popolo ma solo da un gruppo di intellettuali patrioti che non aveva coinvolto il popolo che infatti rimase fedele al re al punto da difendere con le armi il suo regno contro quelli che venivano dichiarati nemici francesi e non amici.
Non essendo un’espressione del popolo, i giacobini vennero considerati dalla maggior parte del popolo traditori in quanto si erano ribellati al re e alle autorità costituite e solo da pochi considerati patrioti. Essi erano per la maggior parte giovani aristocratici colti portatori di idee e di ideali lontane dall’esigenza dell’uomo di strada e la loro colpa fu quella di non arrivare a spiegare e a far capire al popolo i vantaggi delle loro nuove idee.
Il popolo ignorante insomma non capì mai chi erano e cosa volevano questi giacobini creando in tal modo una vera e propria frattura di classe.
Essi secondo la maggior parte di loro instaurarono una repubblica rivoluzionaria fondata sulle armi di un invasore straniero contro la volontà della popolazione del Regno fermamente fedele invece al re.
Ferdinando intanto era fuggito a Palermo e la prima cosa che fece fu quella di potenziare e rinforzare nel sistema difensivo l’isola siciliana vista come il loro ultimo ed estremo rifugio: vennero presidiate le coste, armati i porti, restaurate le antiche fortezze e strette alleanza con Austria, Russia ed ovviamente Inghilterra.
Entrò a questo punto in scena il Cardinale Ruffo che seguito i sovrani in Sicilia gli fu da questi, in una storica riunione, conferito il titolo di Vicario generale del Regno ed affidato il compito, con pieni poteri della riconquista del Regno.
Il Cardinale Ruffo contava, armato del solo crocifisso e della sua mente di sollevare il popolo contro gli stessi rivoluzionari, contando sopratutto sulla Calabria, terra di molti suoi feudi.
Partì da Palermo con un gruppo di uomini con scarse provvigioni e pochi denari e una volta giunto nella terra natale, emanò un proclama ai bravi e coraggiosi calabresi perchè vendicassero le offese fatte alla religione, al re e alla Patria invitandoli a unirsi sotto il vessillo della Santa Croce, per scacciare i francesi dal regno di Napoli e ristabilire la monarchia.
Radunò i volontari, sopratutto contadini a Pizzo Calabro e incominciò una lunga marcia verso Napoli, alla raccolta di soldati volontari.
Ben presto cominciò a formarsi un piccolo esercito che raccoglieva uomini di tutti i ceti sociali e finanche carcerati e briganti. Non aveva importanza chi fossero: nobili e plebei, villici e cittadini, briganti e galantuomini, sbandati, malfattori, disertori, reclusi, evasi e frati sfratati, erano tutti bene accetti per formare l’esercito della Santa Fede.
Il Cardinale infatti emise un editto che garantiva il perdono a tutti i galeotti o banditi che si fossero pentiti e uniti al suo esercito e fu instaurata a tal proposito una grazia sovrana che condonava colpe e delitti che riguardava sopratutto i capimassa.
Al cardinale si unirono quindi anche numerosi briganti tra cui anche Michele Pezza detto “fra diavolo” ( che si diceva mangiasse in teschi umani) e Gaetano Mammone.
Il suo piccolo esercito presto si ingigantì fino a contare 25.000 uomini divenendo, sotto le bandiere borbonica e della Chiesa, l’Esercito della Santa Fede. Ruffo conquistò tutte le città e i villaggi che attaccò.
Il cardinale emise inoltre un altro editto con il quale garantiva il perdono a tutti i rivoluzionari che si fossero pentiti, che gli consentì di avanzare rapidamente e di giungere presto alle porte di Resina e di occupare il palazzo reale di Portici.
Intanto i francesi battuti nell’Alto Adige erano costretti ad indietreggiare dal territorio Italiano. Per rinforzare il loro esercito decimato e stanco richiamarono uomini dai presidi dislocati nelle varie regioni d’Italia, compreso quello dalla Repubblica Partenopea.
Lasciarono quindi solo 900 uomini a Napoli nel Castel sant’Elmo affidando la sorte della Repubblica in città alle poche forze liberali.
Russi e Turchi, alleati di Ferdinando erano già sbarcati a Brindisi mentre la flotta Spagnola comandata da Nelson giungeva via mare.
Nei pressi del ponte della Maddalena i giacobini opposero resistenza asserragliati nel forte di Vigliena. La difesa fu vana e i rivoluzionari si fecero saltare in aria insieme al forte in un suicidio collettivo.
L’ultimo presidio della repubblica a quel punto fu Castel Sant’Elmo, ma ben presto capitolò anche questo e i rivoluzionari accettarono la resa a cui fu promessa salva la vita dallo stesso Cardinale Ruffo.
Con la promessa di essere poi condotti in Francia, i repubblicani si arresero e vennero arrestati; i capitolati tra cui Eleonora Pimentel Fonseca, furono portati sulle navi inglesi, pronte a partire per la Francia.
Il 24 giugno, giunse la flotta di Nelson, il quale a questo punto prese nelle sue mani la situazione e non rispettò le onorevoli condizioni della resa garantite da Ruffo, cioè ” salva la vita a tutti “.
Nelson non rispettò i termini dell’accordo e, facendosi mano armata di Ferdinando IV, ordinò di fermare la partenza delle navi dando disposizione di riportare a terra tutti quelli che dovevano essere giudicati.
Migliaia di cittadini vengono arrestati e molte centinaia giustiziati. Caddero in quel tempo i nomi più illustri della cultura e del patriottismo napoletano.
Non venendo rispettate le condizioni della resa che garantiva salva la vita a tutti e venendo meno all’accordo si commise un vero e proprio massacro.
Furono condannati a morte tutti i giacobini e tra questi personaggi illustri come l’ammiraglio Caracciolo, il conte Rufo Ettore Carafa, il principe Colonna, il duca di Cassano, Mario e Ferdinando Pignatelli, Domenico Cirillo, i vescovi Natale e Serrao, Gennaro Serra di Cassano, Luigia Sanfelice, il giurista Francesco Conforti, il colonnello Gabriele Manthoné, gli scrittori Vincenzo Russo e Mario Pagano, Ignazio Ciaia, Giuseppe Logoteta.
La restaurazione borbonica, insomma, in brevissimo tempo falciò quello che Benedetto Croce definirà “il fiore dell’intelligenza meridionale”.
Il primo fu Caracciolo che pagò anche per l’odio che Nelson nutriva nei suoi confronti. Fu impiccato ad un pennone della sua nave ed il suo corpo fu gettato in mare.
Sui motivi che indussero Orazio Nelson ad operare in modo così poco onorevole, influì certamente la sua passione per lady Hamilton, la moglie dell’ambasciatore inglese e amica intima, MOLTO INTIMA di Maria Carolina, la quale si servì appunto della sua amica per far pressione sull’ambasciatore e soddisfare tutto l’odio che nutriva per i repubblicani.
Nelson era pazzamente invaghito della bella Emma Lyon ( avventuriera di gran classe che era riuscita ad irretire fino a farsi sposare, Sir William Hamilton ) che per espresso desiderio di Maria Carolina era a bordo dell’ammiraglia.
Indignato e sinceramente addolorato, il cardinale tentò in tutti i modi di evitare la feroce carneficina e resosi conto che Nelson li avrebbe massacrati tutti, offrì ai prigionieri la possibilità della fuga via terra; ma questi purtroppo non si fidarono di lui e si consegnarono all’ammiraglio inglese, il quale con con l’approvazione di Maria Carolina più che di Ferdinando fece impiccare ben 99 di loro.
Il cardinale minacciato addirittura di arresto, assistette impotente agli orrori della repressione e molto amareggiato decise di ritirarsi prima a Roma e più tardi a Parigi ( al seguito di papa Pio VII in prigionia ). Solo dopo quindici anni tornerà a Napoli trascorrendo gli ultimi anni della sua vita nella sontuosa dimora di famiglia, Palazzo Bagnara, nell’attuale Piazza Dante, numero 89. Alla sua morte fu sepolto nella sontuosa Cappella di famiglia, nella chiesa di San Domenico.
Il tradimento compiuto da Ferdinando e dai suoi alleati dei patti sottoscritti, lo macchierà da questo momento in poi per sempre quale individuo vile ed inaffidabile creando di fatto una frattura tra la monarchia e i ceti colti che non si ricucirà mai più.
Ferdinando giunse a Napoli il 10 luglio e si trattene fino ai primi di agosto, ma non entrò in città, rimase a bordo della nave che lo aveva trasportato da Palermo. Egli si limitò ad osservare gli eventi, diede alcune disposizioni e senza mai essere sceso a terra si fece poi riportare in Sicilia.
Non tornò subito a Napoli poichè visti gli avvenimenti che si svolgevano in Europa riteneva ancora Palermo una città più sicura.
A Napoli ritornò solo dopo due anni ma ai napoletani pero’ si lascio’ intendere che il re rimaneva lontano perché ancora sdegnato contro la città che si era data ai francesi.
In Francia intanto, pervenuti le notizie dei rovesci subìti dalle armate francesi, Napoleone pensò bene di lasciare il comando dell’esercito in Egitto al suo generale e fare ritorno in patria. Giunto a Parigi, destituì con un colpo di stato il Direttorio e si fece nominare primo Console. Decise quindi di marciare verso l’Italia e valicare le Alpi.
Il ritorno vittorioso di Napoleone con la battaglia di Marengo e la successiva sconfitta subita a Siena dal contingente napoletano spaventarono molto Ferdinando.
La conseguenza fu un trattato di armistizio con Napoleone e l’accettazione di tutte le condizioni francesi dettate con il trattato di pace di Firenze del 28 marzo del 1801.
Ferdinando perdeva così a favore della Francia tutti i presidi della Toscana ed il controllo dei porti pugliesi presidiati dai francesi nonchè una forte somma di denaro da sborsare come indennità di guerra.
Il trattato di pace prevedeva tra l’altro la chiusura dei porti del Regno agli inglesi e ai turchi e la cessazione della persecuzione dei patrioti con l’amnistia di quanti erano ancora in attesa di giudizio.
Inoltre impose ed ottenne l’allontanamento da Napoli del ministro Acton, considerato il principale fautore della politica inglese alla corte borbonica.
Soltanto a queste condizioni Napoleone acconsentì a non invadere il regno di Napoli e a ritirare i presidi francesi e solo allora Ferdinando si decise di far ritorno nella capitale.
Ferdinando costretto a liberare i patrioti decise allora con un editto di far liberare anche i fedeli Lazzari rinchiusi per comuni reati che ovviamente fu ben accetto dal popolo che non mancò al suo ritorno di tributargli calorose e commoventi manifestazioni di affetto.
Dopo due mesi, proveniente da Vienna giunse anche la Regina ed a festeggiare il suo arrivo furono solo i Lazzari in quanto gli altri ceti sociali erano oramai divisi dalla monarchia borbonica dopo che molti giovani nobili erano rimasti vittima dei moti rivoluzionari in cui la regina si era resa certamente protagonista.
La regina non ne fu rammaricata anzi era soddisfatta di aver potuto sfogare tutto il suo odio nei confronti dei francesi e dei repubblicani e di aver potuto in parte vendicare la sorella Maria Antonietta, regina di Francia ghigliottinata dai rivoluzionari nel 1793.
Per comprendere il suo odio nei confronti di tutto cio’ che era francese e repubblicano basti pensare che tra i quadri del suo palazzo di corte a Napoli vi era una rappresentazione della morte di Luigi XVI e di sua moglie con in basso aggiunta una scritta per mano della regina che diceva : Giuro di perseguire la mia vendetta fino alla tomba.
Cosi’ mentre il re accettava le condizioni dettate da Napoleone, la regina trattava segretamente con la Russia e l’Inghilterra e in tutta Europa si tramava per un’altra guerra nei confronti della Francia.
Il precedente trattato di pace prevedeva il ritiro da Malta dell’Inghilterra la quale cosciente dell’importanza strategica dell’isola nel Mediterraneo, rifiutò di lasciarla.
Napoleone allora si rivolse a Ferdinando affinchè obbligasse con la forza gli inglesi ad andarsene( in quanto egli aveva la sovranità di Malta ) e una volta resosi conto che tutto questo non avveniva, cominciò ad ammassare truppe e navi nel porto dello stretto di Calais con l’evidente disegno di invadere le coste inglesi.
L’Inghilterra, la Russia e la Turchia non volevano assolutamente riconoscere Napoleone come Imperatore dei francesi e crearono una coalizione insieme ad Austria e Svezia, che dichiarò ben presto guerra alla Francia.
Maria Carolina approfittò subito di questa nuova situazione e si allea con la Russia e ovviamente con l’Inghilterra senza informare l’ambasciatore napoletano a Parigi.
Subito dopo Ferdinando provvede a sottoscrivere un trattato di neutralità con la Francia, ma pochi giorni dopo compie, sempre influenzato dalla regina, un altro voltafaccia e firma un trattato di alleanza con l’Austria e la Russia nel quale con una dichiarazione scritta affermava di non avere nessuna intenzione di rispettare i patti firmati con la Francia in quanto questi erano stati imposti con minacce.
Maria Carolina animata sempre dal desiderio di vendetta per tutte le umiliazioni subite sollecitò l’invio di truppe anglo-russe per poter difendere il Regno dall’inevitabile oramai attacco francese.
Sbarcarono così a Napoli quasi 20 mila uomini tra russi ed inglesi ai quali si aggiunsero i 40 mila napoletani per marciare poi contro l’esercito francese in Italia.
Ma tutti questi uomini non ebbero neanche il tempo di mettersi in marcia che Napoleone sbaragliando ad Austerlitz l’esercito dei coalizzatori in una epica battaglia, impose ad essi le condizioni per la pace.
Durante le trattative Napoleone non volle neppure sentire parlare dei Borbone e preannunciò le sue intenzioni annunciando: “La dinastia di Napoli ha cessato di esistere“.
Il fratello di Napoleone, Giuseppe Bonaparte , si mise allora in marcia con un potente esercito per occupare il Regno di Napoli.
Il 23 gennaio del 1806 Ferdinando scappa per la seconda volta a Palermo, e per la fretta e per la paura stavolta abbandona anche la famiglia.
Questa volta l’esilio volontario siciliano durerà circa dieci anni che Ferdinando spende tra le sue vecchie passioni: la caccia e la pesca ma anche con la chiacchierata favorita Lucia Migliaccio Principessa di Partanna.
La regina Maria Carolina rimase a Napoli, sperando nell’esercito e nei Lazzari ma la borghesia e la nobiltà oramai contrari ai Borbone impedirono l’armamento della plebe.
Quando la regina vide che anche le bande organizzate degli ex- capi Sanfedisti, unitisi all’esercito ritennero impossibile la difesa della capitale ( si ritirarono in Calabria dove meglio potevano fronteggiare i francesi ) anche lei a quel punto s’imbarco per raggiungere il re a Palermo.
Il 15 febbraio Giuseppe Bonaparte fece il suo ingresso solenne a Napoli e successivamente con un decreto datato 30 marzo 1806 Napoleone nomino’ Giuseppe Bonaparte nuovo re del Regno di Napoli.
Questi resto’ solo due anni e mezzo sul trono per poi passare su quello di Spagna.
Il successore fu Gioacchino Murat , cognato dell’Imperatore .
Ferdinando intanto in Sicilia su suggerimento dell’ambasciatore inglese Bentinck decise che per fronteggiare i sempre più numerosi liberali, di emanare il rilascio di una costituzione, e l’allontanamento della moglie Maria Carolina che recatasi in viaggio a Vienna fu poi colpita da una grave malattia che la portò alla morte il 9 settembre del 1814.
Cinquanta giorni dopo sposa morganaticamente la Principessa di Partanna ( vedova del
Principe di Partanna ) insignita del titolo di Duchessa di Floridia.
A Lipsia nel 1813 si andava intanto compiendo il destino di Napoleone che una volta sconfitto fu poi deposto e arrestato. La conseguenza fu la reinstallazione delle vecchie casate monarchiche in tutta Europa.
Il congresso di Vienna riportano il fratello di Luigi XVI sul trono di Francia con il nome di Luigi XVIII, il trono di Spagna ai suoi legittimi sovrani e il Regno delle due Sicilie a Ferdinando.
Il 9 giugno del 1815, Ferdinando torna quindi finalmente e nuovamente a Napoli ed in conseguenza di un atto decretato l’anno prima che unificava i due regni del mezzogiorno egli dal titolo di Ferdinando IV di Napoli e III di Sicilia , prende il titolo di Ferdinando I, Re del Regno delle due Sicilie; un contingente austriaco gli garantisce l’assolutismo regio, voluto dalla Santa Alleanza, e l’annullamento della Costituzione siciliana.
Il suo primo problema era quello di restituire agli ordini religiosi i beni confiscati e venduti per ricucire i rapporti con la Santa Fede.
Nel 1818 firmo’ quindi un concordato con la Chiesa che ripristinava quasi tutti i privilegi del clero e riconosceva la religione cattolica come il solo culto consentito.
Il secondo problema fu invece rappresentato dalle sette carbonare che radunava nel suo interno tutti gli scontenti e cosa ancora piu’ grave numerosi componenti dell’esercito borbonico.
Nel 1820 a seguito di una rivolta militare guidata dal Generale Guglielmo Pepe che capeggiava un elevato numero di adepti carbonari che in gran numero ( 7000) giunsero davanti al Palazzo Reale, chiedendo la Costituzione, Ferdinando decise di concedere la stessa giurando solennemente l’osservanza della stessa sul Vangelo.
Gli austriaci manifestarono tutta la loro indignazione ai fatti accaduti ed insieme alle altre forze europee ( Prussia e Russia) decise di inviare truppe militari per ripristinare tutto alla normalità.
Ferdinando fu chiamato a Lubiana per essere richiamato ai suoi doveri nei confronti della Santa Alleanza ( un’allenza fra quasi tutti gli stati europei contro i movimenti liberal-nazionali che con un patto impegnava i sovrani cristiani in una mutua collaborazione per il benessere e la felicita’ dei popoli e per il mantenimento della pace ).
A Lubiana Ferdinando richiede agli alleati di intervenire con le armi per ristabilire il potere assoluto.
I carbonari capeggiati da Gugliemo Pepe decidono di muovere guerra alla Santa Alleanza e decisero di presidiare con truppe il Garigliano e di inviarne altre in Abruzzo.
Alla fine vennero alle armi e incominciò una battaglia che finì con la sconfitta di Pepe a Rieti e l’entrata degli austriaci in Napoli.
La costituzione fu abolita e i carbonari fuggirono.
Ferdinando dopo una prima epurazione concesse un’amnistia e da quel momento regnò finalmente sereno dedicandosi sempre più alla sua famiglia e sopratutto ai suoi nipoti.
Ferdinando, che il popolo chiama a affettuosamente ‘ re nasone ‘ per la eccessiva prominenza del suo naso, morì il 4 gennaio del 1825 all’età di 74 anni di cui 65 di regno.
A Ferdinando successe il figlio Francesco che aveva già 47 anni, il quale rimase sovrano del Regno solo 6 anni durante i quali non lasciò nessun segno di vitalità o energia.
Egli arrivò al trono in età avanzata, non bene in salute ma sopratutto stanco per le responsabilità che si era dovuto assumere durante il difficile periodo delle reggenze cui lo aveva costretto il padre. Una delle reggenze più difficili e stancanti fu quella in cui dovette reggere il regno come vicario durante i moti del 1820.
Nel regno erano presenti le truppe austriache con a capo l’autoritario Metternich ed egli mostrando una totale abulia verso le questioni di governo lascio’ ogni potere in questo campo al fedele Luigi de’ Medici.
I suoi quasi 6 anni di regno trascorsero tranquilli senza avvenimenti di rilievo e nel suo pieno grigiore non apportò nessun cambiamento amministrativo o politico mantenendosi neutrale a qualsiasi avvenimento avveniva in campo internazionale.
Durante il suo regno nulla cambiò di quanto già c’era e niente accadde di nuovo.
Sposo’ in seconde nozze Maria Isabella di Spagna dalla quale ebbe 12 figli tra cui il futuro re Ferdinando
In un vicendevole scambio di favori ed i interessi monarchici, il principe ereditario, suo figlio Ferdinando sposò Maria Cristina di Savoia ( figlia di Vittorio Emanuele I, re di Sardegna), mentre sua figlia Maria Cristina di Borbone fu promessa in sposa a Ferdinando VII re di Spagna.
Il re accompagnò la figlia a Madrid ma durante il viaggio mori il fedele de’ Medici.
Rientrato dal viaggio, in seguito ad un aggravamento della sua malattia, anche lui dovette lasciare i suoi cari morendo l’ 8 luglio 1830.
Alla morte di Francesco I, successe al trono il suo primo figlio Ferdinando ( nato a Palermo il 12 gennaio 1810 durante la permanenza della famiglia reale in Sicilia in seguito all’occupazione francese di Napoli).
Egli una volta salito al trono (1830) dopo due anni sposo’ Maria Cristina di Savoia, che dopo tante preoccupazioni riesce finalmente a mettere al mondo il tanto sospirato erede al trono Francesco ma subito dopo muore colpita da una grave infezione puerperale che si sviluppò nel periodo del post-partum.
In seguito sposò poi l’Arciduchessa d’Austria Maria Teresa dalla quale ebbe dodici figli.
Ferdinando II fu un personaggio difficilmente definibile oscillante a tratti tra la grettezza e l’ignoranza del nonno e del padre e ad altri tratti invece mostratosi brillante e capace di grandi iniziative progressiste.
Il popolo in particolare il basso ceto lo amava mentre non si puo’ dire lo stesso per la borghesia e gli intellettuali che lui disprezzava e dispregiativamente chiamava ” pennaioli ”
Il suo regno lo si potrebbe dividere in due grandi fasi: una prima caratterizzata da riforme e lungimiranza, ed un ’altra fatta da isolamento internazionale per non aver saputo ben reagire alle istanze liberali e ai sabotaggi internazionali ( fattore che ha poi condotto alla caduta delle Due Sicilie ).
Ha sicuramente regnato in un periodo difficile dove i moti liberali insurrezionali erano forti in tutta Europa e una diversa presa di coscienza nazionale animava la ragione della classe intellettuale che aspirava a partecipare alla vita attiva del Regno .
I liberali dal canto loro certamente esagerarono non accontentandosi di procedere lentamente nel cambiamento volendo tutto e subito e alla fine non ottenendo nulla.
La sospensione della Costituzione è in parte da attribuire alla loro intemperanza.
Ferdinando mostrò un’apertura nei loro confronti accettando di sedersi al tavolo delle trattative e stilare un trattato costituzionale in un’ottica di rinnovamento monarchico.
I liberali volevano in realtà addirittura destituire la figura monarchica del re e da questo punto di vista possiamo dire che il successivo operato del re fu una legittima difesa contro chi voleva sovvertire il suo Regno.
Bisogna ricordare i tempi e nessun monarca in quell’epoca era certamente disposto a cedere il proprio ruolo tantomeno Ferdinando che geloso del suo potere ( cosa comune a quei tempi a tutti i regnanti ) difese ostinatamente e nel modo più assoluto le prerogative regie con ogni mezzo contro quelli che in apparenza innovatori miravano invece poi a destituirlo.
L’Inghilterra gli remò contro in maniera subdola e il suo Regno dava sicuramente fastidio al mondo politico europeo che si andava costituendo.
Non seppe approfittare della occasione avuta di essere lui il trascinatore e la guida della nuova nascente nazione italiana permettendo ai Savoia di cogliere un’occasione unica per conquistare Regno, fama e sopratutto denaro per pagare i propri debiti.
Per il profondo rispetto nei confronti del Papa e della chiesa non accettò infatti, nell’anno 1831, la corona d’Italia che gli fu offerta per mezzo del giovane Nicola del Preite in seguito ad una decisione presa in un congresso del partito liberale riunito a Bologna.
I primi dieci anni di governo furono splendenti, attuando una serie di riforme che attestarono le Due Sicilie tra il novero delle grandi nazioni europee.
Nella fase iniziale del suo regno animato da buoni propositi diede subito l’impressione a tutti di essere un sovrano illuminato da idee liberali intento a ripudiare le tendenze assolutistiche che avevano caratterizzato i regni del padre e del nonno Ferdinando I.
In questa prima fase del suo regno caratterizzato da una serie di riforme innovatrici, soprattutto in campo amministrativo, dove mostra intelligenza e acume politico, riesce ad acquistare in campo nazionale un forte rispetto e ammirazione e da molti viene candidato come il possibile futuro re d’Italia.
L’entusiasmo provocato dall’attivismo del giovane re accese le speranze del movimento liberale italiano, al punto che poi gli fu offerta la corona d’Italia.
Nei primi anni del suo Regno egli si mostrò come un re energico, intelligente e intraprendente ispirando fiducia: concesse l’amnistia ai condannati politici (molti esuli poterono cosi finalmente tornare in patria ), e operò bene per l’economia del paese eliminando molte spese superflue a cominciare da quelle della propria corte.
Dimezzò lo stipendio dei ministri e ridusse le spese per la guerra e per la marina, inoltre ridusse i costi della politica abbassando le spese per tutti i dipartimenti governativi.
Combatte la corruzione cacciando i cortigiani ed i poliziotti corrotti e ripartì tra i cittadini più indigenti le terre appartenenti al demanio.
Negli anni più difficili del suo Regno a causa del crescente isolamento internazionale, cercò di economizzare su tutto, pur di non mettere nuove tasse : cercò sempre e sopratutto di evitare principalmente le imposte sui consumi popolari.
Il Re diede il buon esempio, riducendo per primo il suo appannaggio, fatto questo non comune nella storia dei principi europei di allora come di oggi ( vedi il nostro governo ).
Durante il suo Regno ci fu una grande crescita industriale (nacquero fabbriche di vetro, di mobili, di guanti ) e ci fu un forte sviluppo nel settore siderurgico e metalmeccanico grazie all’ingrandimento dei cantieri navali di Castellammare di Stabia .
Vennero costruiti dei ponti sospesi in ferro sul Garigliano e sul Calore.
Il commercio ebbe un momento di grande sviluppo grazie alla riduzione di tasse e allo sviluppo di nuove strade: aumentarono i negozi, le tipografie e gli artigiani.
Quasi ogni nuova invenzione trovava attuazione, in Italia, per prima a Napoli e poi nel resto del Paese. Tra i record troviamo la prima linea ferroviaria ( Napoli- Portici ) , lo stesso ponte sul Garigliano, la fabbrica di Pietrarsa “ ( per non ricorrere a fabbriche straniere ed essere autonomi ) ,la prima compagnia di battelli a vapore del Mediterraneo ed il primo centro vulcanologico del mondo (Osservatorio Metereologico Vesuviano).
Bonificando e incanalando il lago di Fucino, vicino L’Aquila, restituì terre coltivabili ai contadini e altrettanto fece nel Tavoliere delle Puglie. Secondo alcune fonti il volume del commercio crebbe di 50 volte in 30 anni. Aderì alla lega contro la tratta degli schiavi e riorganizzò il suo esercito mettendo nelle posizioni chiave dell’esercito i migliori uomini scegliendoli anche tra coloro che erano stati fedeli a Murat.
Alla classe borghese preferiva quella del ceto popolare che era continuamente al centro della sua attenzione.
Mostrò molta umanità e amore per loro sopratutto in occasione della terribile epidemia di colera che colpì la città scendendo personalmente in campo incurante di ogni pericolo alla sua salute.
Già quando scoppiò l’epidemia di colera che ebbe inizio ad Ancona il re dispose subito che venissero sospesi tutti i traffici con i luoghi colpiti dal morbo e fissò delle pene molto severe per tutti coloro che avessero trasgredito alle disposizioni sanitarie e di igiene che erano state già emanate.
Lo si vide in prima linea nei rioni più popolari della città, agli ambulatori, poi ai lazzaretti e infine nelle caserme, dove consumava il rancio tra i suoi soldati.
Diede ordine e fece in modo che venissero distribuiti gratuitamente il maggior numero di medicinali atti a frenare la malattia ( cosa certo non facile a quei tempi).
Per meglio conoscere le esigenze dei suoi sudditi moltiplicò le udienze ( fino a 50 al giorno ) per ascoltare chiunque avesse da porgli una supplica e sottoporgli i propri problemi per chiedergli soccorso: tranne rari casi, esaudiva le richieste.
Istituì una regia commissione di Carità che aveva il compito di esaminare le richieste di concessioni di sussidi e di beneficenza in genere per i bisognosi.
Il sistema di previdenza ( unico in Europa ) da lui creato prevedeva che le pensioni per i dipendenti venissero costituite con trattenute sugli stipendi.
Viaggiò parecchio nelle proprie province, ispezionando di persona le strade ed i luoghi per capire le necessità del popolo.
In città costruì l’attuale corso Vittorio Emanuele cui diede il nome di corso Maria Teresa, il nuovo Cimitero di Poggioreale e finalmente Napoli ebbe l’illuminazione a gas.
Questo tipo di politica infiammò gli animi di chi voleva unire tutto lo stivale, chiedendo proprio a Ferdinando II di capeggiare le lotte per scacciare gli austriaci dal Nord Italia e procedere, man mano, a unificare l’Italia.
Sul letto di morte confessò di aver rinunciato alla corona d’Italia per non ledere il diritto degli altri regnanti italiani, specialmente quello del Papa, in ossequio perciò al profondo senso religioso col quale era stato educato.
Nel 1833 aveva tuttavia proposto a Carlo Alberto di Savoia, al Granduca di Toscana Leopoldo II e al Papa Gregorio XVI di realizzare un’unione tra gli stati italiani, senza ricevere risposta.
Ovviamente l’ Austria , la Francia e specialmente l’Inghilterra non vedevano certamente di buon occhio la figura di Ferdinando, il quale rischiava di compromettere l’egemonia anglo-francese nell’assetto politico europeo e nel tempo fecero di tutto pur di non concedergli spazio e potere.
In quel periodo in tutta Europa si registrano forti fermenti liberali e repubblicani e la stessa penisola italiana venne di conseguenza investita da numerosi moti liberali che minacciando ripetutamente la propria sovranità, portarono progressivamente Ferdinando II, inizialmente ad arroccarsi sulle proprie posizioni restauratrici e infine a raggiungere purtroppo livelli di intransigenza e brutalità pari a quelli dei suoi parenti predecessori.
I moti incominciarono progressivamente ad estenderei a macchia d’olio un pò in tutta la penisola : quelli di una certa consistenza si ebbero a Penne nell’Abruzzo e poi a Cosenza , Messina , Siracusa , Catania, Aquila e Crotone.
Le prime vittime si ebbero in provincia di Cosenza dove i fratelli Bandiera, nobili veneziani che sposata la causa mazziniana, disertarono dalla marina austriaca per andare a fare la rivoluzione in Calabria ma vennero subito intercettati, catturati e giustiziati: insieme ad altri sette compagni furono fucilati nel vallone di Rovito.
Ma il vero episodio che cambio’ le cose fu l’insurrezione scoppiata a Palermo che in breve si estese a tutta la Sicilia.
Ora prima di continuare bisogna dire che Ferdinando era un forte ‘nazionalista” del suo Regno che considerava indipendente dal resto dell’Europa di cui lui poteva fare a meno e faceva di tutto pur di non ricorrere all’eventuale aiuto o manodopera di altri ed essere quindi autosufficiente. La dimostrazione era la fabbrica Pietrarsa che lui costruì con un preciso intento “perché del braccio straniero a fabbricare le macchine mosse dal vapore, il Regno delle Due Sicilie più non abbisognasse”.
Era talmente un nazionalista nell’affermare l’indipendenza del suo regno dalle ingerenze esterne, da sostenere profondamente la cultura della lingua napoletana che a corte era la lingua ufficiale.
Parlava il dialetto stretto ed altrettanto facevano tutti i membri della famiglia, compresa la regina Maria Cristina di Savoia.
Inoltre era un fervente e rispettoso cattolico in un periodo in cui la chiesa e tutti gli ecclesiastici non erano ben visti dai movimenti liberali che crescevano come funghi in tutta Europa (era solito dire “che il Regno era difeso per tre lati dall’acqua di mare e per il quarto dall’acqua santa”).
Dopo aver recitato ogni sera il Rosario con la famiglia si dice che rimaneva poi lungamente inginocchiato a pregare
D’altronde la chiesa possedeva nel regno la gran parte dei terreni ed esercitava di conseguenza un potere enorme e incondizionato, basti vedere alcuni suoi decreti dove egli consegnava l’istruzione primaria nelle scuole alla esclusiva direzione del clero.
La Sicilia da secoli aveva sempre rivendicato una propria autonomia e nel corso della storia ha sempre approfittato di qualsiasi episodio per manifestare il proprio malcontento e reclamare una sua autonomia nei confronti del Regno di Napoli.
La loro indipendenza però stavolta era fomentata da una neanche tanto oscura manovra dell’Inghilterra che mal sopportava l’unificazione del Regno delle due Sicilie.
Iniziò cosi a fomentare lo scontento nei Siciliani, e ad appoggiare le loro rivolte del 1820, del 1848 e del 1860.
L’Inghilterra temeva, all’approssimarsi dell’apertura del canale di Suez, che ci potesse essere anche un’altra grande potenza che potesse sottrarre la propria egemonia nel Mediterraneo.
I rapporti con il regno inglese erano in verità già da tempo in buona parte compromessi grazie alle intemperanze del fratello Carlo, principe di Capua.
Questi sin da adolescente era stato fonte di preoccupazione per Ferdinando e per tutta la famiglia reale mostrando grande interesse solo per le donne e il gioco d’azzardo.
Carlo, nella sua vita disordinata ad un certo punto si innamorò seriamente di una giovane irlandese di nome Penelope Smith, appartenente ad una nobile famiglia della contea di Wateford e chiese al re, suo fratello, il permesso di poterla sposare.
Ferdinando, fortemente intransigente sul decoro della propria famiglia oppose il suo rifiuto ma egli a quel punto pensò bene di fuggire con la donna in Inghilterra dove poi si unirono in matrimonio.
In un secondo momento chiesero poi al primo ministro inglese Lord Palmerson di intervenire presso Ferdinando affinchè riconoscesse la legittimità dell’unione con tutti i diritti conseguenti.
Ma il re fu intransigente e rifacendosi ad un vecchio decreto secondo il quale era vietato ai principi di casa reale di uscire dal regno senza un esplicito assenso del re rifiutò di riconoscere il matrimonio.
Questo episodio irritò moltissimo il ministro inglese ( anche perchè Penelope era una sua parente ) e certamente contribuì ad inasprire i rapporti tra i due.
Ma il vero pomo della discordia erano le miniere di zolfo presenti in Sicilia (indispensabile per la produzione degli esplosivi) che rappresentavano all’epoca quello che oggi è per noi il Litio o il petrolio.
Ferdinando, in un’ottica di favorire il commercio e l’industria locale, resosi conto che la più valida risorsa mineraria della Sicilia era quella dello zolfo cercò di favorirne il commercio e anche di ottimizzarne i profitti ( come qualsiasi buon imprenditore)
Fino ad allora l’estrazione dello zolfo, essenziale per produrre la polvere da sparo, era sotto un sostanziale monopolio britannico. Questi facevano la politica dei prezzi a loro piacimento in danno del regno e dei minatori.
Ferdinando ottenendo condizioni migliori da una società francese, firmò un’intesa con la società Taix-Aycard di Marsiglia per l’estrazione dello zolfo in Sicilia, sottraendo di fatto il monopolio agli inglesi. Fu quindi stipulata una convenzione con la ditta francese più vantaggiosa di quella precedentemente in vigore con gli inglesi.
Le proteste di Lord Palmerston, primo ministro inglese, furono talmente violente che giunsero fino al punto di ordinare alle navi britanniche di compiere manovre preparatorie alla guerra del Golfo di Napoli.
Ferdinando, di fronte alla minaccia, si preparò alla guerra inviando in Sicilia ben 12.000 soldati decretando l’embargo a tutte le navi britanniche.
Ferdinando era oramai pronto alla guerra se non fosse stato per la mediazione di Vienna e Parigi: il re francese Luigi Filippo adoperò la sua diplomazia revocando il privilegio alla Taix-Aycard, e rendendo di fatto nullo il contratto tra questa e il regno borbonico.
La crisi rientrò ma il Regno dovette versare degli indennizzi alle ditte francesi.
La conseguenza fu il guasto dei rapporti sia con la Francia che con l’Austria, oltre che con l’Inghilterra e di conseguenza ad un isolamento politico dal resto dell’Europa mostrando risentito poi la mancanza totale di interesse nei confronti di ciò che avveniva al di fuori dei confini napoletani e siciliani.
I britannici non contenti avviarono una politica destabilizzante nei confronti del Regno delle Due Sicilie ( che culminerà con l’appoggio alla spedizione dei Mille nel 1860 ed alla annessione del Regno al fidato Piemonte).
Il governo inglese si adoperò per creare ad arte frequenti “incidenti diplomatici”.
Lord Palmerston fu protagonista di un’ignobile calunnia che certo non fece onore al suo buon nome. Egli d’intesa con un tale Lord Gladstone fece diffondere la lettera da quest’ultimo inviate al ministro degli esteri, lord Aberdeen, nelle quali si etichettava il regno del Sud come la “negazione di Dio eretta a sistema di governo” causa della violazione sistematica di tutte le leggi umane e divine.
Il Gladstone riferiva di una visita, in realtà mai avvenuta, alle carceri napoletane. L’Inghilterra gridò così ad alta voce al mondo intero il proprio sdegno per le asserite disumane condizioni in cui erano tenuti i detenuti politici e queste notizie trovarono ampie casse di risonanza sui giornali di Torino e negli ambienti ambienti degli oppositori borbonici. Nascondendo il vero motivo economico di questa disonorevole bugia il poco Lord Palmerson insieme all’altro suo amico, Gladstone, gettarono volutamente per i propri interessi fango su Ferdinando ed il suo Regno.
In seguito a questa infamia tutta l’Europa di conseguenza cominciò a odiare Ferdinando II
finché Gladstone ammise di aver scritto quelle lettere senza aver mai visitato il regno, ma avendole compilate in pratica su dettato degli uomini cui fu affidato da Lord Palmerston.
A”giochi fatti”, cioè dopo l’annessione piemontese, il deputato inglese Gladstone ( avete visto come si fa carriera? ) ammise candidamente la menzogna e confessò che egli non aveva mai visitato alcun carcere . Confesso’ di aver scritto quella lettera per incarico di lord Palmerston, e su dettato dei suoi uomini .
Successivamente Lord Aberdeen, in Parlamento, fu protagonista di una furiosa orazione di condanna nei confronti di quelle calunnie scoperchiando una delle piu’ tristi pagine della storia Inglese.
Infatti , sempre dai lavori del Parlamento inglese, dopo 1861, emergono le condanne all’appoggio britannico circa la conquista piemontese del Regno delle Due Sicilie, giudicata una lesione del diritto internazionale e cagionatrice di crimini più orrendi e più gravi di quelli che erano stati attribuiti a Ferdinando II.
Intanto però il guaio era stato fatto, poiché Ferdinando restò circondato da un alone di sospetto e possiamo senz’altro dire che questa seconda parte del suo Regno questo momento coincide con la parabola discendente del suo operato : il rispetto e l’ammirazione relativi ai suoi primi dieci anni di regno all’insegna di idee liberali andranno completamenti persi nel tentativo di non perdere potere monarchico e difendere l’assolutismo del suo Regno .
In Sicilia egli concesse il ripristino della Costituzione precedentemente concessa nel 1812 da Ferdinando IV, ma nonostante questo i più rivoluzionari si mostravano sempre scontenti ed esigevano sempre di più; la Sicilia, che aveva chiesto l’autonomia, arrivò a chiedere infine addirittura l’indipendenza.
Ferdinando II commise l’errore di non capire che dietro vi erano i disegni di altre potenze ( sopratutto Inghilterra) e vista minacciata la sua sovranità pensò di risolvere a questo punto ogni cosa con l’assolutismo. Sospese la Costituzione e mise a tacere ogni sommossa con la forza militare.
Gli inglesi ed il subdolo Conte Cavour non aspettavano altro ed approfittarono di tutto ciò per infangare ulteriormente il regno borbonico e candidarsi ad unici e veri tenutari di un nuovo spirito di libertà.
L’Inghilterra con il fondamentale interesse di conquistare e mantenere uno sbocco sul Mediterraneo incominciò a favorire i fermenti autonomistici della Sicilia mentre Cavour da gran furbo aveva ben capito che fruttando la situazione geopolitica che si era venuta a creare poteva risolvere il debito pubblico del regno sabaudo ed i guai economici sia personali che della sua banca; il bilancio in attivo e le riserve delle Regno delle Due Sicilie erano ideali per dare ossigeno alle disastrate casse di Torino, che aveva debiti con inglesi e francesi.
L’intera Sicilia ad un certo punto cominciò ad insorgere contro il governo borbonico con l’appoggio discreto dell’Inghilterra, interessata ad ostacolare la politica di Ferdinando nell’unico solo intento di “mettere le mani” sulla Sicilia, considerata un’isola strategica per il controllo del Mediterraneo.
Ferdinando in seguito incaricò il generale Carlo Filangieri di rioccupare la Sicilia e la sommossa fu domata dalle truppe borboniche con le armi e vinta grazie ad un assiduo bombardamento su Messina che valse il soprannome a Ferdinando di “Re bomba”.
E’ da notare a tal proposito come la storia e chi la scrive talvolta sia di parte , basti pensare solo che Vittorio Emanuele II, che fece successivamente bombardare le case di Genova, Gaeta, Capua ed Ancona (dopo la resa) e Palermo con la stessa intensità fu invece dichiarato “galantuomo” e “padre della patria”!
In tutto il Regno ben presto cominciarono a circolare gli scritti di Gioberti e di Mazzini ed i napoletani liberali che già da qualche mese si agitavano, incoraggiati dal primo iniziale successo della rivolta siciliana, promossero una manifestazione per le vie della città chiedendo a viva voce la legge costituzionale. Una folle enorme si recò innanzi al palazzo Reale inneggiando all’indipendenza italiana protesa a cacciare dalla Lombardia e dal Veneto gli austriaci.
Ferdinando promise la costituzione: l’11 febbraio fu promulgata con decreto del re ed il 24 febbraio del 1848 la giurò nella chiesa di S. francesco di Paola alla presenza delle autorità dello stato, dei dignitari del Regno e del consesso cittadino.
Inizialmente ci furono pero’ divergenze sulla formula del patto costituzionale in quanto il re voleva imporre una versione da lui stesso dettata di cui non era disposto ad accettare alcuna modifica.
Essa conteneva caratteri comuni allo Statuto Albertino, ma secondo i liberali in talune parti vi era un eccesso di difesa a favore del clero: la religione cattolica, oltre ad essere quella di Stato, era l’unica ammessa, vietandosi la professione di culti diversi.
Fu un errore questo di cui poi pagò le conseguenze perché non trovò più l’appoggio di tutte le ricche e potenti comunità ebraiche presenti in Italia che si schiereranno in larga parte a favore del movimento unitario a guida sabauda e dei finanziamenti a tale causa concessi dai potentati internazionali (compresa la massoneria inglese).
Un altro punto dolente della politica ferdinandea fu la gestione del rapporto con il ceto borghese. Il suo errore fu quello di non accattivarsi il ceto nobile verso il quale per la verità non nutriva grande stima, ed i letterati nei confronti dei quali nutrì un’aperta diffidenza definendoli in maniera dispregiativa “pennaioli”.
Vari governi si susseguirono ma puntualmente naufragarono.
Nell’ ultimo governo affidato a Carlo Troya, venne dichiarata guerra all’Austria ed organizzati preparativi e truppe che partite per il nord Italia, vennero affidate al comando di Guglielmo Pepe.
Vennero nominati i primi 50 parlamentari che si riunirono a Monteoliveto.
Poiche’ occorreva prestare giuramento al re e alla costituzione, i repubblicani che erano più numerosi manifestarono la volontà di modificare la formula del giuramento.
Ferdinando si barcamenava abilmente concedendo il concedibile e alla fine acconsenti’ a condizione che non venisse modificata la Costituzione.
Le parti erano comunque sedute ad un tavolo e dialogando stavano venendo ad un accordo quando qualcuno alzo’ la voce dicendo che si voleva forzare la mano al parlamento. Ci furono proteste e discussioni e cominciarono a diffondersi voci allarmistiche che passando di bocca in bocca vennero gonfiate e deformate.
Sorsero contrasti sulla formula di giuramento dei deputati e del sovrano che alimentavano sospetti sulla buona fede del re fino a sfociare, il successivo 14 maggio, nello scoppio della rivolta.
Un movimento di truppe segnalato dai passi cadenzati e dai rulli dei tamburi che solitamente avveniva senza che mai nessuno ci facesse caso, venne stavolta diversamente interpretato dai più esagitati e si gridò al tradimento. Si sparse la voce che il re mandava i soldati a sciogliere il parlamento e ad arrestare i deputati.
Cominciarono a sorgere delle barricate per porre un ostacolo tra i presunti assalitori e la sede del Parlamento.
Dopo una notte di vigile attesa le truppe borboniche ordinarono lo smantellamento delle barricate. Improvvisamente si incominciò a sparare( non si è mai saputo chi sia stato il primo a sparare). Le truppe borboniche mossero di conseguenza subito all’assalto delle barricate per rimettere ordine. Incominciò purtroppo una vera battaglia che portò centinaia di morti e feriti.
Da quel momento venne organizzata una repressione in piena regola, con cariche della cavalleria nelle strade cittadine, arresti di centinaia di rivoltosi e fucilazioni di massa.
Per espugnare alcune barricate si rese necessario anche l’uso del cannone.
Lungo via Toledo i soldati dopo aver demolito le barricate per avanzare dovettero conquistare i palazzi uno per uno perchè i rivoluzionari vi si rifugiarono e dalle finestre continuavano a sparare sulla truppa e a buttar giù qualsiasi cosa poteva costituire elemento di offesa.
Seguivano la truppa poi numerosi gruppi di Lazzari i quali approfittando dell’occasione entravano nelle case e facevano man bassa su tutto quello che trovavano.
Quella giornata fu davvero terribile per la città e quando cadde l’ultima barricata si contarono 150 morti tra militari e civili, 270 feriti e 520 arresti.
Era il 15 maggio del 1848 e ancora oggi per indicare un avvenimento confuso e violento si suole dire < e’ succieso o’ quarantotto >.
Questi avvenimenti pesarono non poco sul carattere e sull’entusiasmo del Re e si può certamente affermare che è da questo momento che il Borbone diventa il monarca autoritario iniziando i processi contro i rivoluzionari e mettendo da parte il governo e la costituzione.
Ferdinando dopo aver nominato un nuovo capo del governo sciolse le camere e la guardia nazionale e fece rientrare le truppe che si trovavano in alta Italia.
Il sovrano di fatto non riuscì a capire realmente cosa volessero i liberali.
La costituzione l’avevano avuta, il giuramento da parte sua era stato dato, il parlamento era stato democraticamente costituito, nel ministero erano entrati vari esponenti di parte liberale ed il nuovo governo del Regno aveva contribuito alla prima guerra di indipendenza d’Italia con un grosso contingente di truppe ed armi.
Non aveva capito il vero complotto politico inglese, francese e sabaudo che tramava alle sue spalle. Capì quindi che per quanto avrebbe anche potuto coprirli d’oro non avrebbe mai risolto nulla e di conseguenza ritornò ad un più sicuro regime totalitaristico che se non altro gli garantiva il possesso certo del suo Regno.
Seguirono subito numerosi decreti restrittivi come il divieto di riunione, di stampa e lo scioglimento della camera.
I liberali si resero conto a questo punto dell’ impossibilità di fare del regno delle due Sicilie uno stato retto da leggi costituzionali e democratiche perchè il re non avrebbe mai rinunciato al potere assoluto. Pensarono a questo punto di cambiare indirizzo politico e cominciarono a pensare al regno come una parte dell’Italia unificata sotto lo scettro di una casa italiana regnante: quelle dei Savoia.
I principali fautori ed esponenti di questa nuova politica furono Silvio Spaventa, Luigi Settembrini, Michele Agresti e Carlo Poerio i quali costituirono una Società segreta il cui compito era quello di propagandare le nuove idee politiche alla ricerca di adepti ( specie tra il popolo ed i soldati ) e organizzare poi una rivolta per abbattere il regime borbonico.
Vennero stampati e distribuiti i proclami ma il movimento fu presto scoperto dalla polizia e vennero tutti arrestati. Dopo un anno di processo vennero condannati alla pena capitale Luigi Settembrini , Filippo Agresti e Silvio Spaventa mentre gli altri vennero condannati all’ergastolo (Carlo Poerio)
Nonostante la commutazione delle pene capitali in ergastolo le condanne furono giudicate in malo modo dal resto dell’Europa ( ovviamente).
I liberali sempre più incoraggiati dai paesi europei (sempre più contrari ai borbone ) incominciarono tutti a convergere nel movimento nazionale italiano di cui il maggior esponente era Giuseppe Mazzini che rinnegava ogni forma di monarchia e propugnava un ordinamento repubblicano.
Oramai divenuto per tutti un personaggio scomodo viene organizzato anche un attentato alla sua persona: L’8 dicembre del 1856, mentre passa in rassegna le truppe, al campo di Marte, un soldato ( Agesilao Milano) abbandona improvvisamente i ranghi e lo assale con una baionetta riuscendo però soltanto a ferirlo; il soldato è un patriota mazziniano arruolatosi con il preciso intento di assassinare il re.
Dalla ricostruzione dei fatti sembra che il soldato fosse stato incaricato dai mazziniani di compiere l’insano gesto.
Verrà condannato a morte per attentato alla vita del sovrano, e successivamente impiccato
Ferdinando si salvò ma la ferita, mal curata, si infettò e continuò a cagionargli problemi di salute fino a condurlo alla morte.
Agli inizi del 1859 Ferdinando non ascoltò i medici e si mise in viaggio per accogliere il 3 febbraio Maria Sofia di Baviera, sorella della famosa principessa Sissi, novella sposa del primogenito ed erede al trono Francesco, tuttavia durante il viaggio le condizioni di salute peggiorarono. L’infezione purulenta si diffuse in tutto il corpo causando una setticemia. Quando venne eseguito l’intervento, era troppo tardi.
Mentre era infermo, perdonando il suo attentatore soleva invece attribuire la colpa della sua malattia da buon superstizioso alla Jettatura. Ripeteva infatti continuamente “M’ hanno Jettato“.
Superstizioso come un vero napoletano del popolo, credeva nella Jettatura e da sempre nella sua vita alla vista di un gobbo, di un calvo e di un cappuccino si era reso protagonista di scongiuri irripetibili. Sul letto di morte Ferdinando II ordinò che le Due Sicilie restassero neutrali, alla guerra in atto tra Austria, Piemonte e francesi, insistendo fino alla fine nell’isolamento del suo Regno.
Prima di morire, il 22 maggio 1859, confessò di aver rifiutato nel 1832 la corona d’Italia per non vivere con il rimorso di aver fatto un torto agli altri sovrani italiani ed in particolare alla chiesa.
Se non avesse rifiutato probabilmente non avremmo avuto poi un’occupazione piemontese ma una vera unità d’Italia fatta da un Regno che era molto più ricco e potente, e da un sovrano certamente con una maggiore volontà di affermare l’indipendenza del suo regno dalle ingerenze esterne, senza essere uno stato vassallo delle altre potenze, quale è oggi il nostro. Ma quello che è certo è il fatto che la sua eventuale accettazione avrebbe certamente cambiato la storia della nostra città e forse dell’ intero nostro paese.
La mentalità dei Savoia non era italiana. Ricordatevi che Cavour parlava francese.
Quando incominciò la loro invasione questi in primo luogo si impossessarono delle terre demaniali e ecclesiastiche (solo quest’ultime ammontavano al 40% del territorio).
Queste terre furono vendute con aste frettolose, per fare cassa, e rastrellare denaro per pagare i loro debiti. Ne conseguì la creazione di latifondi privati scarsamente produttivi e il conseguente abbandono dei contadini dalle loro terre.
I pochi superstiti delle stragi e delle rappresaglie nonchè delle sommarie esecuzioni perpetrate dall’esercito piemontese avvenuta in seguito alla sanguinosa resistenza incominciarono ad espatriare in massa.
Risparmi e capitali meridionali, vennero investiti dai vincitori dappertutto per più di un secolo nello sviluppo della penisola tranne che nel Sud.
Se solo Ferdinando avesse solo lontanamente immaginato questo scenario probabilmente non avrebbe mai rifiutato la corona d’Italia per non ledere il diritto degli altri regnanti italiani.
La sua famiglia certo non l’aiutò molto. Il primo suo fratello Carlo principe di Capua e Comandante della Real Marina, oltre ai fatti precedentemente accennati partecipò alla congiura dell’Angelotti che si prefiggeva di uccidere il Re e di sostituirlo con lo stesso Carlo. Una volta sventato il complotto, Ferdinando, come unico provvedimento, lo esonerò dalla carica.
Gli altri due fratelli del Re, Leopoldo, Conte di Siracusa luogotenente della polizia e Luigi, Conte d’Aquila tradiranno il Regno dopo la morte di Ferdinando.
In particolare il peggiore dei due fu Luigi, che riuscendo a trascinare nel suo gruppo quasi tutti i comandanti delle navi da guerra, con il suo comportamento rese possibile l’invasione piemontese e la conseguente spoliazione economica del Meridione.
Ferdinando morì il 22 maggio 1859 a nemmeno 50 anni. I suoi resti riposano a Napoli in Santa Chiara.
Dopo la sua morte ad ereditare il Regno fu il figlio Francesco II (chiamato comunemente dai napoletani Francischiello) figlio della prima moglie di Ferdinando, Maria Cristina di Savoia.
Detto ” lasa” dal padre (da lasagna) per la sua debolezza a tavola era caratterialmente schivo, apatico, privo di carattere, poco energico ed estremamente religioso (bigotto).
Il suo regno durò appena 18 mesi, travolto dal ciclone garibaldini che approfittò della sua inconsistenza sul trono. Il giovane re aveva infatti un carattere totalmente opposto a quello risoluto e determinato del padre e si trovò ad affrontare una realtà politica allora estremamente critica.
L’Austria aveva inviato un ultimatum al Piemonte di tre giorni per procedere al disarmo.
Il Piemonte chiese nella persona di Vittorio Emanuele una sua alleanza nella guerra contro l’ Austria. Egli proponeva di unirsi contro l’Austria, e di stipulare un patto in cui si garantivano reciprocamente l’indipendenza territoriale dei due territori senza mai farsi guerra. A fine guerra proponeva inoltre la concessione della Costituzione.
Francesco volle rispettare il testamento politico del padre che gli raccomandava la neutralità delle dispute e declinò cortesemente l’invito.
Non ascoltò nemmeno il consiglio del suo anziano ministro Carlo Filangieri, principe di Satriano che invece, invano tentò di convincerlo ad accettare le proposte del Piemonte. Egli in seguito a questo rifiuto poi si dimise dalla carica.
A questo punto il machiavellico Cavour chiese ed ottenne protezione dalla Francia, cedendo in cambio i territori di Nizza e Savoia ( a tal proposito mi piace ricordarvi che Cavour aveva una conoscenza molto imperfetta dell’italiano e preferiva scrivere e parlare in francese).
La Francia a questo punto fece presente all’Austria che un’eventuale invasione del Piemonte sarebbe stata considerata un atto contro la propria sovranità.
Cosi Francia e Austria si riappacificarono mentre il perfido e diabolico Cavour trattava segretamente con gli inglesi progettando la spedizione dei mille con i soldi della massoneria presente nei circoli politici inglesi e scozzesi anti papista.
A tal proposito ricordiamo che nel ‘68, Giulio Di Vita, studioso massone, presentò un rapporto al Collegio Maestri Venerabili del Piemonte. Titolo: ‘Finanziamento della spedizione dei Mille’. Di Vita scopre negli archivi londinesi che i britannici versarono a Garibaldi 3 milioni di franchi francesi in ‘piastre’ oro turche. Una cifra enorme per convertire molti dignitari borbonici alla democrazia liberale (in poche parole a corrompere i comandanti dell’esercito Borbonico).
Sfruttando il crescente numero di adepti che i due mazziniani Rosolino Pilo e Francesco Crispi raccoglievano nella sempre irrequieta Sicilia, Cavour manifestò al governo britannico un piano per liberarsi del” fastidioso ” regno Borbonico.
La Sicilia per l’ennesima volta ripropose la sua eterna velleità di indipendenza facendo appello proprio al Piemonte e questi subito ne approfittò.
Francesco era preoccupato ma fu ben presto rassicurato dall’inviato piemontese marchese di Villamarina il quale aveva avuto incarico da Vittorio Emanuele di informare subito il Borbone che egli non avrebbe mai turbato la pace e l’indipendenza del Regno.
L’ipocrita cugino ( erano purtroppo parenti : mai fidarsi!!) aveva però già manifestato al governo inglese le sue reali intenzioni di annettere al Piemonte il Regno delle due Sicilie.
Infatti nel mentre Cavour già stava progettando insieme a Garibaldi la spedizione dei mille e la conquista dell’isola siciliana.
La scelta di sbarcare in Sicilia per l’invasione non fu casuale poiché insurrezioni di masse popolari reclamavano da sempre ed ultimamente sempre di più l’indipendenza dell’isola da Napoli.
Francesco informato delle reali intenzione del suo parente ( serpente) fece in maniera che ben 14 navi presiedessero le acque siciliane per impedire ogni tentativo di sbarco ad appena 1000 uomini peraltro improvvisati e mal addestrati.
Il governo di Sicilia era infatti ben informato non solo dello sbarco ma anche che sarebbe avvenuto a Marsala, noto feudo britannico con la protezione di due navi da guerra di sua maestà che circolavano nel porto.
Quando Garibaldi sbarcò a Marsala stranamente non vi erano truppe di guerra o navi borboniche. Ad accoglierlo e solo a sbarco avvenuto arrivarono due navi che non avendo truppe da sbarco si limitarono a tirare alcune cannonate senza alcun danno per gli sbarcati oramai al sicuro.
Una volta sbarcato Garibaldi, Francesco Crispi proclamò la caduta del Regno Borbonico e in nome e per conto di Vittorio Emanuele, offre la Sicilia a Garibaldi.
Da questo momento in poi prendono maggiormente corpo l’incapacità, l’incompetenza, la codardia e sopratutto l’infedeltà dei più stretti collaboratori di Francesco che favorirono la fine del Regno Borbonico.
A Calatafimi vi fu la battaglia decisiva che ancora oggi resta per molti un inspiegabile enigma. Il generale borbonico Francesco Landi comandava ben 4000 soldati ed era dotato di una possente artiglieria mentre l’esercito garibaldino era formato da appena 1000 uomini male armati e poco formati alla guerra.
Dopo un’intera giornata di fuoco, quando oramai i garibaldini erano esausti e quasi senza più munizioni, inspiegabilmente il generale Landi, tra lo stupore dei suoi uomini ordinò la ritirata e lasciò la via libera per Palermo.
Nel campo avverso dei garibaldini Nino Bixio resosi conto che difficilmente avrebbero potuto resistere ad un ulteriore attacco aveva già dato ordine di apprestarsi alla ritirata. Sotto lo sguardo incredulo dei Garibaldini l’esercito borbonico incominciò invece a ritirarsi e questo fatto apparve talmente strano e illogico ai garibaldini che temendo una trappola per una buona ora non seppero cosa fare e si limitarono ad osservare le manovre di ripiego dei reparti nemici senza sferrare un contrattacco.
Si è tanto parlato nel tempo di questa ingiustificata ritirata dei Napoletani dal campo di battaglia ed è oramai chiaro attraverso vari documenti recuperati, che si trattò di una grossa opera di corruzione operata da emissari del Regno di Sardegna a vantaggio del generale Landi. Oggi sappiamo che egli tentò successivamente a questo episodio di scambiare una fede di credito del valore di 14.000 Ducati datagli da Garibaldi in cambio del tradimento.
La stessa famosa frase detta da Garibaldi nei confronti di Bixio avvenuta dopo il suo ordine di ritirarsi è oggi oggetto di rivalutazione ” Nino, qui si fa l’Italia o si muore!“.
Pare che egli già sapesse circa la corruzione dei nemici ed il suo gesto di lanciarsi all’attacco come ultimo tentativo di fermare l’attacco borbonico ad armi bianche fosse ben meditato e certamente meno eroico.
La capitolazione di Palermo, si dice, avvenne con l’oro dato al generale Lanza ed ancora oggi appare poco chiaro il fatto che 20000 soldati borbonici , padroni dei forti e protetti dal mare dai cannoni delle navi schierate in rada accettassero la capitolazione e si ritirassero lasciando Palermo in potere di Garibaldi.
Tutto quello che avvenne dopo fu la conseguenza di questo primo scontro perché alla notizia della ritirata di Landi, Palermo insorse e agevolò l’entrata di Garibaldi mentre schiere di volontari andarono ad ingrossare le file dei mille.
Venivano arruolati con il facile soldo centinaia di nuovi combattenti, molti dei quali passavano in cambio di raddoppiato stipendio dall’esercito borbonico a quello sabaudo, basti pensare che un’armata di appena 1.085 uomini sbarcata a Marsala, in Sicilia, in breve tempo ( un mese ) era divenuta di 43 mila uomini.
La cassa e l’amministrazione di questo tesoro con cui erano sbarcati i mille (si parlava di un finanziamento di 10 mila piastre turche paragonabili a circa 15 milioni di euro attuali) che era arrivato a Garibaldi dalla massoneria inglese, era tenuta dal preciso contabile garibaldino Ippolito Nievo che non mancava di annotare tutto quanto speso e per conto di chi.
Egli conservava tutto quanto in una cassa, da cui non si separava mai. Nel suo interno erano contenuti soldi, ricevute, fatture, lettere e tutto quello che riguardava la gestione dell’ingente patrimonio garibaldino e di quello poi “trovato” nelle casse delle banche siciliane.
La resa dell’isola fu firmata a Palermo su una nave di bandiera britannica ( ??) e una volta ottenuto l’armistizio con l’esercito Borbonico si passò alla requisizione del Banco di Sicilia e ai suoi soldi ( 5 milioni di Ducati cioe’ circa 200 milioni di euro di oggi ).
I corrotti generali borbonici si arresero in cambio di parte del danaro prelevato dalle casse del Banco di Sicilia ( il prezzo dell’armistizio pare sia costato circa 60.000 Ducati ).
Sentirete dire che l’evacuazione dell’esercito borbonico da Palermo finì il 19 giugno 1860, quando la Banca di Sicilia era ancora chiusa al pubblico. Al pubblico sì, ma non ai direttori, ai presidenti e ai tesorieri del Banco. Furono essi responsabili, insieme a Crispi, del pagamento ai generali borbonici, perché lasciassero Palermo senza più combattere. Il pagamento avvenne con soldi prelevati dai conti correnti dei palermitani. Il Banco fu poi successivamente rimborsato, per la Legge del 1867 sul ripianamento dei debiti contratti da Garibaldi sul Banco di Sicilia e di Napoli nel 1860. Ma alcune partite non furono rimborsate, perché non furono presentate pezze d’appoggio valide.
Quindi la liberazione di Palermo avvenne addirittura con i denari dei siciliani e non solo degli inglesi e se di alcune partite non si ebbe il rimborso fu perché non si poteva dire come i denari erano stati usati.
Dopo solo un anno dallo sbarco dei mille, la Sicilia era stata completamente annessa al territorio sabaudo, grazie sopratutto ai soldi usati per corrompere alte cariche ufficiali e civili ed un piccolo manipolo di appena 1000 uomini sbarcati a Marsala aveva messo in fuga paradossalmente 100mila uomini al prezzo di soli 78 caduti ( un vero miracolo !!).
Il danaro provenienti da fondi internazionali serviva per foraggiare e stipendiare tutti; corrotti appalti, false commesse militari, sprechi, promozioni facili, aumento di stipendi spesso raddoppiati e rendite elargite ai potenti del posto.
I Garibaldini facevano una carriera molto rapida e su 24.000 combattenti vi erano 6 mila ufficiali ben pagati ( in un normale esercito dell’epoca vi era un solo ufficiale ogni 30.000 soldati).
Il Vice Intendente idealista Ippolito Nievo era rimasto nauseato da ciò che aveva visto, da come veniva trattato il popolo siciliano e di come le cose erano andate contro le sue aspirazioni.
Egli aveva minuziosamente annotato nei suoi registri tutte le entrate e le uscite dei soldi finanziati per la spedizione dei mille ivi compresi le ingenti somme usate per corrompere l’esercito borbonico ( aveva annotato nomi , cifre , somme e tanti segreti ) e trascrisse tutte le irregolarità in maniera rigorosa nei suoi libri contabili.
Nel suo rendiconto, Ippolito Nevio, dimostrava, con meticolosa precisione, l’operato di tutta l’Intendenza delle finanze garibaldine. Nel fascicolo erano contenute notizie riservate, che non sarebbe stato opportuno rivelare perché avrebbero acclarato il coinvolgimento dell’Inghilterra nel finanziare la spedizione dei mille.
La cosa interessante fu che successivamente alla conquista del Regno da parte piemontese ed esattamente tredici giorni prima della proclamazione dell’Unità d’Italia, sparì nel nulla, in mare aperto, tra Palermo e Napoli, un piroscafo di nome “Ercole” tra i cui passeggeri era presente proprio Ippolito Nievo con il compito di portare a Torino la documentazione economica relativa alla spedizione militare dei Mille custodita gelosamente in una cassa.
Ippolito era stato invitato a presentarsi con urgenza a Torino, dal suo diretto superiore, il generale Acerbi, insieme alla sua cassa (con le piastre turche e i preziosi libri contabili) dopo che l’ala conservatrice aveva sollevato una questione sulla dubbia amministrazione della spedizione.
L’intendente generale Acerbi, il 16 marzo, aveva infatti inviato a Ippolito Nievo, un telegramma imponendogli di lasciare Palermo al più presto con incarico di riportare nella capitale piemontese nel più breve tempo possibile la scottante documentazione. Era cosa molto urgente, in quanto il governo si trovava in forte imbarazzo e il fatidico giorno della proclamazione dell’unità d’Italia era oramai troppo vicino ( non si poteva certo mostrare che l’Italia si fondava sulla corruzione ……) .
Era in atto da qualche settimana una campagna di stampa e discussione sui beni economici e sulla gestione dei fondi dissipati in malo modo dai Garibaldini e se quelle carte fossero arrivate nelle mani di un tribunale ma anche se il solo Nevio avesse potuto parlare davanti ad un giudice molte persone avrebbero potuto subire conseguenze abbastanza imbarazzanti in Italia e all’estero.
Nevio era stato convocato a Torino perchè doveva dare conto della gestione e amministrazione finanziaria dei mille ma il rendiconto non arrivò mai a Torino.
Il piroscafo Ercole con il suo prezioso carico sparì nel nulla e nessuno si premurò di cercarlo. Le sue carte non sarebbero dovute arrivare a Torino e all’estero dove c’era qualcuno che temeva clamorose rivelazioni.
A Napoli nessuno si accorse del mancato arrivo e trascorsero parecchi giorni senza che nessuno si desse da fare per cercare l’Ercole.
Lo stesso giornale ufficiale di Palermo non dà nessuna notizia del mancato arrivo di questo battello che faceva servizio normalmente tra Palermo e Napoli.
Tutti fanno finta di niente e nessuno lo cerca; mancano pochi giorni (12) alla proclamazione del regno d’Italia e Ippolito e la sua documentazione rappresentano un pericolo per il futuro regno d’Italia.
Solo i portuali si resero conto che il vapore non aveva gettato le cime in banchina. Oramai erano trascorsi troppi giorni: undici. Nessuno si mosse, neppure il ministero della Guerra, né la compagnia marittima, né le autorità portuali. I giornali tacquero, le famiglie rimasero ignare.
Solo dopo 2 settimane si ha qualche sporadica e generica notizia della barca sparita nel nulla; un qualsiasi naufragio lascia sempre dei resti della imbarcazione evidenti in superficie, sopratutto se il relitto è fatto di legno e invece nulla, proprio nulla si ritrova della nave .
Dopo la capitolazione di Palermo e la perdita dell’intera Sicilia, Francesco dopo aver indetto un consiglio di stato decide di concedere la Costituzione, ma oramai era troppo tardi e qualche mese dopo la sanguinosa giornata di Milazzo, Garibaldi mise piede sul continente ed entrava in Reggio.
Anche nella battaglia di Milazzo ci fu un altro tradimento o meglio un’altro episodio di corruzione: la pirocorvetta Tukory, passò dalle truppe borboniche a quelle garibaldine, grazie al tradimento del capitano Aguissola. Questa era dotata di 10 potenti cannoni che in quella circostanza invece di sparare sui garibaldini, fece fuoco contro lo stesso esercito borbonico.
Le forze borboniche in Calabria ammontavano a 12 mila uomini ma nessun generale si mosse per contrastare la marcia dei garibaldini tanto che durante la ritirata su Monteleone un generale venne ucciso dai soldati, indignati di dover fuggire davanti ad un nemico inferiore per uomini e per mezzi.
Da Reggio a Napoli non vi furono più combattimenti; procedendo nella sua marcia Garibaldi incontrava corpi di esercito che si arrendevano senza sparare un colpo, come a Severia Mannelli dove deposero le armi ben 10000 uomini.
Intanto a Napoli, la confusione era enorme ed i fedeli del re scomparivano dal governo dopo aver consegnato nelle sue mani le cariche che ricoprivano.
Il governo rassegnò le dimissioni.
I napoletani erano in fermento e Francischiello tentò la carta della costituzione per placare gli animi concedendo un’amnistia generale.
Ma gli animi furono placati soltanto dal nuovo capo della polizia, Liborio Romano che non esitò a ricorrere all’aiuto della camorra, alla quale era fortemente legato per riportare l’ordine in città.
Francesco, su consiglio probabilmente dello stesso Liberio Romano, dopo aver scritto e pubblicato un’accorata lettera ai suoi sudditi decide di lasciare Napoli per risparmiare alla città gli orrori e le rovine della guerra e tentare con l’esercito l’ultima difesa del Regno tra il Volturno ed il Garigliano .
Liberino Romano intanto anche lui tradendo, entrava in contatto con Garibaldi offrendogli il suo aiuto per organizzare il suo ingresso in Napoli.
L’eroe dei due mondi giunse a Salerno a bordo di un treno. Ad accoglierlo furono tutte le più alte personalità che contavano in città. In testa al corteo Liborio Romano, Ministro di Polizia ed ora anche ministro degli interni, e Salvatore De Crescenzo, capo della camorra dell’epoca, detto “Tore ‘e Criscienzo”, i cui uomini mantennero l’ordine pubblico.
Garibaldi quel giorno dopo aver percorso via Marina, essere passato dinanzi il Maschio Angioino ed essersi fermato al Duomo per ascoltare il “Te Deum “e a Largo di Palazzo ( attuale piazza del Plebiscito) si diresse a Palazzo Doria D’Angri, dal cui balcone proclamò l’annessione delle province meridionali al Regno sabaudo.
Questa data segnò l’inizio della fine del Regno delle due Sicilie e l’inizio del patto tra Stato e Camorra a Napoli. A sostegno di quest’ultima tesi le carte che dimostrano che il 26 ottobre 1860 Garibaldi pagò una pensione vitalizia di 12 ducati mensili a nome di Antonietta Pace, Carmela Faucitano, Costanza Leipnecher, Pasquarella Proto e Marianna De Crescenzo, le principali esponenti femminili della Camorra napoletana. Quest’ultima era sorella proprio di quel De Crescenzo che aveva camminato accanto a Garibaldi al suo ingresso a Napoli. Il losco personaggio aveva acquistato il ruolo di intermediario tra politica e camorra quando Liborio Romano per contrastare le sommosse nate sulla scia di quella siciliana del 1848 lo chiamò per chiedergli di radunare tutti i capi-quartieri della città e stipulare un patto di aiuto reciproco.
Liborio Romano non reclutò solo “Tore”, già nel luglio 1860 altri camorristi furono nominati funzionari di polizia.
Liborio Romano era il corrispondente di Camillo Benso di Cavour e ovviamente appena Garibaldi entrò a Napoli, formò immediatamente un governo con a capo proprio Liberio Romano ( guarda caso ) che come primo atto ufficiale cedette al Piemonte la potente flotta da guerra borbonica.
Intanto sul Volturno si schierava l’esercito borbonico che facendo perno su Capua poteva contare su Caserta e su Napoli. Il morale delle truppe era alto perché la presenza del re aveva suscitato un grosso entusiasmo e rincuorato lo stesso sovrano il quale aveva ben compreso che una eventuale vittoria avrebbe ridimensionato Garibaldi, svalutata la rivoluzione e rimesso tutto in discussione.
Questo lo sapeva anche Garibaldi che per la prima volta dall’inizio della campagna si trovava ad affrontare un esercito bene organizzato in una vera e propria battaglia campale.
In questa epica battaglia Garibaldi mostrò tutto il suo valore tattico e alla fine nonostante le 12 ore di eroica battaglia i borbonici si ritirarono sconfitti a Capua.
I soldati non ebbero nulla da rimproverarsi e più che per loro demerito la battaglia fu persa per problemi tattici poichè le forze militari vennero mal disposte e gli ordini furono imprecisi.
Nel frattempo Cavour incominciava ad essere preoccupato del successo di Garibaldi e temendo una sua marcia su Roma solo dopo 4 giorni dalla entrata dell’eroe dei due mondi a Napoli, ordinò all’esercito piemontese di varcare la frontiera dello stato pontificio e dirigersi verso il sud.
Garibaldi andava fermato ed era necessario agire per non farne accrescere ulteriormente la fama perchè altrimenti si correva il rischio che l’Italia non sarebbe stata di Vittorio Emanuele ma di Garibaldi.
Con un esercito di 30 mila uomini dopo aver conquistato Pesaro, Perugia, Spoleto e Ancona invase lo stato della chiesa e si diressero verso Napoli per congiungersi con i garibaldini.
Il 26 ottobre, secondo molti a Vairano e non a Teano o Caianello avvenne il famoso incontro tra il generale e Vittorio Emanuele dove Garibaldi gli consegnò il regno da lui conquistato.
Il 7 novembre Vittorio Emanuele fece il suo ingresso a Napoli, con Garibaldi che gli sedeva accanto nella carrozza tra una folla di persone plaudenti. Le acclamazioni erano tutte per Garibaldi e Vittorio Emanuele anche se seccato non lasciò trasparire nulla, contento che quel personaggio tanto famoso gli aveva conquistato un regno.
Eppure il giorno prima gli aveva fatto uno sgarbo non andando nel Parco della Reggia dove i 12 mila volontari dell’esercito di Garibaldi attesero inutilmente dopo l’orario stabilito l’arrivo di Vittorio Emanuele, schierati in parata, disciplinati, con le divise lise e con le bandiere ridotte a brandelli. Garibaldi attese con gli occhi lucidi a cavallo dinanzi all’entrata del palazzo inutilmente Vittorio Emanuele che ringraziasse quei volontari che tanto avevano dato per l’unita d’Italia ed erano meritevoli di un riconoscimento, ma egli li snobbò e con grande ingratitudine non si presentò non considerandolo un regolare esercito.
I garibaldini mutamente fissavano interrogando Garibaldi che con lo sguardo triste e addolorato non sapeva cosa rispondere.
Vittorio Emanuele fece capire a Garibaldi che era venuto il momento di lasciare il campo ( e aggiungerei la gloria ) alle truppe piemontesi e freddamente lo ringraziò per la straordinaria impresa compiuta tutta a suo vantaggio.
Fu accompagnato a Napoli e invitato a partire per la sua Caprera.
Tre giorno dopo Garibaldi s’ imbarcò per far ritorno a Caprera portando con se un rotolo di merluzzo secco, un sacco di grano e poche centinaia di lire.
Intanto Francesco ed i suoi uomini si erano asserragliati a Capua.
Il 1 novembre i piemontesi incominciarono a bombardare Capua. La città capitolò e i borbonici si ritirarono in Gaeta.
L’assedio durò novanta giorni e vide in prima linea lo stesso Francesco con al suo fianco la regina Maria Sofia.
Intanto il 21 ottobre del 1860 si organizzò a Napoli un discutibile plebiscito la cui formula era ” il popolo vuole l’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele II e i suoi legittimi discendenti ? ”
Questa strana dicitura della formula un pò ambigua, ancora oggi appare molto discussa e criticabile in quanto subdola e ingannevole. Nascondeva in una frase di un’Italia unica ed indivisibile anche l’inganno della monarchia sabauda.
Il voto era viziato dalla volontà di tutti i liberali di avere finalmente un’Italia unica ma certamente non era idea di tutti , quello di avere una monarchia sabauda.
Tutto sta che quasi tutti votarono a favore dell’unità d’Italia.
Per evitare ulteriore sangue il 13 febbraio 1861 fu negoziata la resa di Gaeta con l’onore delle armi e firmata la capitolazione e con essa la fine del Regno delle due Sicilie. Napoli cessa di essere una capitale per sempre!
Ovviamente l’Inghilterra fu la prima nazione a riconoscere il Regno d’Italia.
Francesco e la regina partirono per recarsi in esilio ospiti del papa verso lo stato pontificio e raggiunta Roma si trasferirono in palazzo Farnese calando il sipario sul regno borbonico.
Il meridione da monarchico stato autonomo divenne da quel momento parte di un’altro stato monarchico. Fu solo il passaggio da una tirannia assolutistica ad una occupante costituzionale. Per il meridione non fu alla lunga una liberazione ma solo la fine di un regno autonomo e l’avvento di un colonialismo vero e proprio.
Le ricchezze dei Borbone vennero incamerate dalle scarne risorse finanziarie del nuovo stato Italiano ( i piemontesi erano certamente prima della guerra in difficoltà finanziarie ). Il popolo venne vessato con le tasse e l’illusione di benessere e rivincita sociale delle classi più umili fu presto infranta. La tanta promessa e agognata riforma agraria che doveva destinare la terra ai contadini fu dimenticata e mai fatta. I sentimenti dei settentrionali nei confronti dei meridionali furono astiosi.
Essi dimostrarono ben presto di odiare i meridionali che consideravano fannulloni, perdigiorno e incapaci di qualsiasi cosa .
La realtà apparve ben presto in tutte le sue sfaccettature negative per i napoletani e tutti i meridionali .
Appena dopo il passaggio di Garibaldi, i comitati liberali composti dai ricchi borghesi e dai massoni, ferventi “unitaristi”, s’impossessarono delle amministrazioni comunali e delle relative casse, misero mano ai documenti relativi alle assegnazioni degli usi civici, ne delinearono la consistenza e li misero all’asta; fu così che il patrimonio rurale passò velocemente nelle loro tasche; ai contadini rimasero due possibilità, come disse Giustino Fortunato, “o brigante o emigrante”.
Le strutture economiche e sociali rimasero immutate e molti ordinamenti provinciali e comunali passarono sotto la diretta dipendenza di Torino.
Il governo centrale di Torino, lontano da Napoli e dai suoi problemi impose le sue leggi cancellando quelle funzionanti del Regno Borbonico.
Questo trasferimento di poteri colpì la Giustizia, la scuola, le poste, la stampa, la corte dei conti, la zecca e tante altre istituzioni.
Tutto questo portò allo smantellamento di molti uffici con il conseguente licenziamento o la messa in riposo degli impiegati che dopo anni di lavoro si videro messi in strada.
Il governo era lontano e non poteva rendersi conto dei veri problemi del popolo e a tutti sembrava di essere tornati ai tempi dei viceré.
Molte delle industrie vennero trasferite al nord e le poche che rimasero furono costrette a chiudere per la concorrenza delle stesse fabbriche settentrionali che potevano contare su una più facile ( maggiore sviluppo della rete viaria ) e vicina importazione di materie prime.
Ma sopratutto potevano contare su un minor costo della manodopera grazie al largo uso delle donne e dei ragazzi che percepivano una paga inferiore a quella degli uomini.
Un altro grande problema fu la confisca delle terre appartenenti al clero che portò via al meridione e sopratutto ai contadini un’enorme quantità di capitale relativi al raccolto ed ai pagamenti immediati che esso comportava.
Ben presto i meridionali capirono che oltre alla perdita dell’autonomia, dovevano fare i conti anche con una perdita della propria economia.
Non ci furono programmi per una crescita uguale dei due territori e ben presto si istituì una disuguale distribuzione del benessere e della ricchezza.
La ribellione del popolo meridionale si fece presto sentire con il cosidetto fenomeno del brigantaggio ( specie tra le classi dei contadini deluse dai nuovi rapporti di proprietà ) che portò ad una vera e propria ribellione armata.
L’accentramento amministrativo del regno che escludeva il meridione, la vendita all’asta dei beni demaniali ed ecclesiastici che acquistati da nuovi ricchi creo’ nuovi padroni più avari e tirannici dei nobili precedenti, le forti imposizioni fiscali, l’obbligo della ferma di leva militare per 7 anni che sottraeva le braccia dei figli al lavoro della terra ai contadini, ed il regime violento esercitato da carabinieri furono certamente gli elementi scatenanti di una vera e propria reazione popolare al nuovo governo.
La legge che più di tutte fece insorgere le masse fu l’obbligo della leva militare nell’esercito sabaudo per lunghi sette anni. In una terra di contadini in cui i figli erano tutto sottrarre questi figli significava spesso abbandonare le campagne. Tanti ragazzi si rifiuteranno e per questo verranno trattati da ” briganti “. E molti vista l’occasione briganti lo diverranno davvero.
Si calcola che le bande dei briganti arrivarono ad essere più di 350 che trovavano sempre più nuovi adepti nel grosso serbatoio delle masse contadine.
I briganti venivano visti come una sorta di moderno Robin Hood, una sorta di eroici paladini contro i soprusi dei ricchi e nuovi padroni, protetti ed armati talvolta dalla stessa chiesa inizialmente contraria al primo parlamento italiano sopratutto per le numerose espropriazioni di beni che dovette cedere.
Francesco appoggiato almeno inizialmente dalla chiesa tentò di reclutare interi settori di popolazioni disposti a portare avanti l’insurrezione tramite lo spagnolo Borjes che per mesi girò l’intero meridione.
Alle azioni talvolta anche violente delle numerose bande di Crocco, Ninco Nanco, Tortora, Schiavone, il nuovo governo rispose con una energica, feroce e sanguinosa azione di repressione guidata dal generale Cialdini che durò fino al 1865 e vide la soppressione per fucilazione o per combattimento di migliaia di ” cosiddetti Briganti ” .
Cialdini è stato uno degli uomini più cattivi, violenti e fetenti che la nostra storia ricordi poiché fu autore di diverse stragi di popolazioni del Sud durante l’invasione e la conquista del Regno delle Due Sicilie. Egli è responsabile del massacro di Pontelandolfo e Casalduni, così come del bombardamento di Gaeta nonostante la roccaforte si fosse già arresa, provocando morti inutili e incredibilmente crudeli.
Ad un certo punto era chiamato ” brigante ” qualsiasi persona che non condivideva la politica piemontese o era dissenziente dalle loro idee o dalle loro leggi. Era brigante anche chi solamente rifiutava di passare nell’esercito dei Savoia o che solamente mostrava fedeltà alla vecchia monarchia.
I piemontesi con sempre maggiore forza incominciarono ad imporre il loro modo di fare con il potere e la violenza dei fucili. I meridionali piuttosto che sottostare ai nuovi padroni preferirono darsi alla macchia e agli stenti e ai sacrifici che essa comportava.
Ad un certo punto i comuni di Pontelandolfo, Casalduni e Campolattaro si ribellarono ed abbatterono le insegne savoiarde issando nuovamente le bandiere borboniche. Il generale piemontese Cialdini, da Napoli, diede ordini precisi di stroncare col sangue qualsiasi accenno o fermento di ribellione. I paesi furono completamente distrutti e saccheggiati. Si diede fuoco a tutte le case e operato un vero massacro a danno dei locali. I piemontesi spararono contro vecchi, donne e bambini, sorpresi nel sonno. I paesi divennero un immenso rogo. Uccisioni, stupri, fucilate, grida, urla e saccheggio si susseguirono per un’intera giornata e alla fine i morti che si potevano contare erano a migliaia.
“Entrammo nel paese, subito abbiamo incominciato a fucilare i preti e gli uomini, quanti capitava, indi il soldato saccheggiava ed infine abbiamo dato l’incendio al paese abitato da circa 4500 abitanti . quale desolazione, non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti e chi sotto le rovine delle case – CARLO MARGOLFO, bersagliere entrato a Pontelandoflo, 1861 -”
Per capire con quale spirito i piemontesi erano venuti nel Meridione, basta leggere il contenuto di un bando che un capitano dei bersaglieri piemontesi aveva fatto affiggere per le vie di un paese.
1) Chiunque tratterà o alloggerà briganti sarà fucilato.
2) Chiunque darà segno di tollerare o favorire il più piccolo tentativo di reazione sarà fucilato.
3) Chiunque verrà incontrato per le vie interne o per le campagne con provvigioni alimentari superiori ai propri bisogni, o con munizioni da fuoco per ingiustificato uso, sarà fucilato.
4) Chiunque, avendo notizie dei movimenti delle bande non sarà sollecito di avvisare il sottoscritto, verrà considerato nanutengolo o come tale fucilato.
Furono operate deportazione in veri e propri campi di concentramento ( o di sterminio, nel quale confluivano i briganti o le truppe di Francesco II che si erano rifiutate di passare nell’esercito dei Savoia ( anch’essi dichiarati briganti).
Tra questi veri e propri lager ricordiamo i campi di prigionia di San Maurizio nella zona nord di Torino detta delle Vaude. In questo posto i soldati dell’esercito di “Franceschiello” che rifiutando di riconoscere il nuovo goveno sabaudo, venivano rinchiusi e ritenuti bisognosi di rieducazione morale e civile. Vi giungevano spesso dopo tre-quattro giorni di nave che li portava a Genova, stipati sottocoperta come facevano gli schiavisti nelle Americhe e poi a piedi, in marcia per almeno una settimana, con abiti sempre più rotti e con scarpe sempre più sfondate. Non arrivavano tutti, ma per chi aveva la fortuna (se di fortuna si può parlare) di resistere, cominciavano i tormenti. Stremati dalle fatiche solo colpevoli di essere ancora fedeli al loro re avevano diritto a “mezza razione di cattivo pane” e una ciotola d’acqua sporca che, secondo l’ufficiale di rancio, era minestra.
In una terra dove l’autunno è freddo e l’inverno freddissimo, dormivano in tende senza giaciglio e con ripari approssimativi. Morivano di fame e di freddo ma dei loro decessi nella maggior parte dei casi non esiste traccia, perché i cadaveri venivano ammassati in botole di calce viva che riuscì a liquefarne anche le ossa.
Cercarono di cancellare anche la memoria. Morti senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo.
I prigionieri arrivavano a frotte e alla fine furono quasi 40 mila i prigionieri.
Ma il vero inferno fu attrezzato a Fenestrelle, all’imbocco della Val Chisone, dove ancora oggi sorge una fortezza situata a quasi duemila metri di altezza .
In questo posto dove l’inverno era tremendo, all’arrivo dei prigionieri borbonici, i comandanti di Finestrelle, in pieno inverno fecero togliere i vetri dai locali dove alloggiavano affinché i cafoni deportati si civilizzassero!
Uomini nati e cresciuti in clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimare di fame e di stento per le ghiacciaie”.
Vivevano con un camice di tela quando i montanari di la indossavano tre maglioni, uno sull’altro.
Quelli che dopo i primi mesi sopravvivevano erano poi costretti ai lavori forzati.
Per sbarazzarsi, in maniera definitiva, di quella massa sempre più numerosa di meridionali che da anni, ormai, marcivano nei loro campi di prigionia tentarono addirittura di ottenere dal governo portoghese la concessione di un’isola disabitata nel bel mezzo dell’Oceano Atlantico dove “depositare” i prigionieri napoletani, togliendoseli, così, definitivamente di torno.
Questo fatti indignò talmente tanto l’opinione pubblica e la stampa locale che fortunatamente alla fine i portoghesi opposero un netto rifiuto e l’infame disegno non poté andare in porto.
Molti di questi prigionieri alla fine addirittura si suicidavano. Nel corso delle deportazioni mediante nave, molti dei prigionieri erano stipati all’inverosimile sia sottocoperta che sopra. In quella situazione di particolare disagio, molti prigionieri ricorrevano al suicidio gettandosi in mare. In alcune occasioni, si verificarono suicidi in massa. Le autorità preposte, intervennero e risolsero il problema: le navi venivano accompagnate nel loro viaggio, da alcune piccole imbarcazioni che avevano lo scopo di raccogliere quelli che tentavano il suicidio. I prigionieri non avevano il diritto di suicidarsi; la loro vita apparteneva ai padroni, allo stato, al re Savoia.
Ma il maggior numero dei suicidi avveniva con la constatazione della realtà dei lager, nella quale erano portati a vivere. Era meglio morire!
Da questi campi andavano via solo quelli che accettavano di vestire altra divisa ma e’ anche vero che venivano esclusi coloro che non avevano le attitudini necessarie.
Gli altri per andare via dovevano solo morire di stenti o di malattia o per fucilazione poichè ribelli.
Intanto le campagne senza più braccia giovani e forti e senza moderni strumenti vennero progressivamente abbandonate dando luogo ad un primo grosso esodo immigratorio delle popolazioni del Mezzogiorno verso altri paesi esteri. In queste regioni in quel periodo si verificò un esodo di tale portata che la popolazione locale diminuì in valori assoluti mentre l’economia toccò bassi livelli mai visti prima di cui ancora oggi si sentono gli effetti.
Elenchiamo a tal proposito quanto scritto negli anni a seguire da qualcuno che ha voluto poi leggere la storia senza alcuna benda sugli occhi ed in maniera obiettiva :
“Gli scrittori italianissimi inventarono dunque i briganti, come avevano inventato i tiranni; ed oltraggiarono, con le loro menzogne, un popolo intero sollevato per la sua indipendenza, come avevano oltraggiato principi, re ed anche regine colle loro rozze e odiose calunnie. Inventarono la felicità di un popolo disceso all’ultimo gradino della miseria, come avevano inventato la sua servitù al tempo de’ sui legittimi sovrani. – HERCULE DE SAUCLIERES, 1863 – ”
“Il governo piemontese che si vede presto costretto ad abbandonare il suolo napoletano, si vendica mettendo tutto a ferro e fuoco. Raccolti incendiati, provvigioni annientate, case demolite, mandrie sgozzate in massa. I piemontesi adoperano tutti i mezzi più orribili per togliere ogni risorsa al nemico, e finalmente arrivarono le fucilazioni! Si fucilarono senza distinzione i pacifici abitatori delle campagne, le donne e fino i fanciulli. – L’ OSSERVATORE ROMANO, 1863 – ”
“In un solo mese nella provincia di Girgenti, le presenze dei detenuti nelle prigioni furono 32000. Non si turbino! Ho qui il certificato, la nota è officialissima, 32.000 presenze in carcere, solo nei trenta giorni del mese. Ed ora, codeste essendo le cifre, io domando all’onorevole ministro dell’Interno: ne avete ancora da arrestare? – FRANCESCO CRISPI – ”
“Potete chiamarli briganti ma combattono sotto la loro bandiera nazionale. Potete chiamarli briganti ma i padri di quei briganti hanno riportato due volte i Borboni sul trono di Napoli. E’ possibile, come il mal governo vuol far credere, che 1500 uomini comandati da due o tre vagabondi tengano testa ad un esercito regolare di 120 mila uomini? Ho visto una città di 5 mila abitanti completamente rasa al suolo e non dai briganti. – GIUSEPPE FERRARI -”
“La guerra contro il brigantaggio, insorto contro lo Stato unitario, costò più morti di tutti quelli del Risorgimento. Abbiamo sempre vissuto si dei falsi: il falso del Risorgimento che assomiglia ben poco a quello che ci fanno studiare a scuola – INDRO MONTANELLI –
“Non parliamo delle dimostrazioni brutali contro i giornali; non parliamo dell’esilio inflitto per via economica; non parliamo delle fucilazioni operate qua e là per isbaglio dalle autorità militari; ma degli arresti arbitrari di tanti miseri accatastati nelle prigioni senza essere mai interrogati. – IL NOMADE, giornale liberale 12 settembre 1861”
“Sorsero bande armate, che fan la guerra per la causa della legittimità; guerra di buon diritto perché si fa contro un oppressore che viene gratuitamente a metterci una catena di servaggio. I piemontesi incendiarono non una, non cento case, ma interi paesi, lasciando migliaia di famiglie nell’orrore e nella desolazione; fucilarono impunemente chiunque venne nelle loro mani, non risparmiando vecchi e fanciulli – GIACINTO DE SIVO – ”
“Aborre invero e rifugge l’animo per dolore e trepida nel rammentare più paesi del regno napoletano incendiati e rasi al suolo, e quasi innumerevoli integerrimi sacerdoti e religiosi e cittadini di ogni età, sesso e condizione, e gli stessi malati indegnissimamente ingiuriati, e poi eziando senza processo, o gettati nelle carceri o crudelissimamente uccisi. – PAPA PIO IX, 30 settembre 1861 – ”
“Posso assicurare alla Camera che specialmente in alcune province, quasi non vi è famiglia, la quale non tremi dell’onnipotenza dell’autorità di polizia, dei suoi errori ed abusi. Sotto la fallace apparenza della persecuzione del brigantaggio si vuole avere in mano la facoltà di arrestare o mandare al domicilio coatto ogni specie di persone al Governo sospette. – PASQUALE STANISLAO MANCINI, intervento alla Camera, 1864 – ”
“L’Italia, dove per sostenere quanto gli usurpatori hanno denominato ‘liberalismo’, si stanno barbicando dalla radice tutti i diritti, manomettendo quanto vi ha di più santo e sacro sulla terra. Italia, dove sono devastati i campi, incenerite le città, fucilati a centinaia i difensori della loro indipendenza – NOCEDAL deputato spagnolo, 1863 – ”
“Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti – ANTONIO GRAMSCI -”
“I Borboni non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno – NAPOLEONE III (lettera a Vittorio Emanuele II, 1861 ) ”
“Non vi può essere storia più iniqua di quella dei piemontesi nell’occupazione dell’Italia Meridionale. In quel luogo di pace, di prosperità, di contento generale che si erano promessi e proclamati come conseguenza certa dell’unità d’Italia, non si ha altro di effettivo che la stampa imbavagliata, le prigioni ripiene, le nazionalità schiacciate ed una sognata unione che in realtà è uno scherno, una burla, un impostura – MCGUIRE deputato scozzese, 1863 –
”“Pare non bastino sessanta battaglioni per tenere il Regno. Ma, si diranno, e il suffraggio universale? Io non so niente di suffraggio, so che al di qua del Tronto non ci vogliono sessanta battaglioni e di là si. Si deve dunque aver commesso qualche errore; si deve quindi o cambiar principi o cambiar atti e trovar modo di sapere dai napoletani, una buona volta, se ci vogliono si o no. Agli italiani che, rimanendo italiani, non vogliono unirsi a noi, non abbiamo diritto di dare archibugiate – MASSIMO D’AZELIO – ”
“Quelli che hanno chiamato i piemontesi e che hanno consegnato loro il Regno delle Due Sicilie sono un’impercettibile minoranza. I sintomi della reazione si vedono ovunque – JORNAL DE DEBATS, novembre 1860 – ”
N.B. Un altro grande ribelle al regno Sabaudo ( e quindi brigante ) possiamo definirlo San Gennaro che a modo suo si oppose ai nuovi CONQUISTATORI visto che in alcuni anni il prodigio non si é mai verificato in presenza dei sovrani di Casa Savoia (nel 1861, 1870 e 1931).
Garibaldi che rimase nella nostra città solo per pochi mesi che si rilevarono troppo pochi per far sentire il suo peso , riuscì comunque a compiere poche ma significative leggi tutte a vantaggio delle classi più deboli e povere .Egli istituì dodici asili infantili gratuiti ed un collegio anc’esso gratuito in cui si insegnavano le materie fondamentali come le arti ed i mestieri ; dispose la chiusura del gioco del lotto interpretato come come strumento borbonico per lucrare a spese dell’ignoranza della povera gente , decretò l’apertura di Via Duomo , la creazione di un nuovo quartiere a Chiaia e la costruzione di nuovi alloggi popolari .
A proposito di Garibaldi , vi allego una parte di una sua lettera scritta ad Adelaide Cairolinel 1868 :
” Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio.” La lettera è firmata da Giuseppe Garibaldi
Questa invece è firmata Lord Lennox : .“Sento il debito di protestare contro questo sistema. Ciò che è chiamata unità italiana deve principalmente la sua esistenza alla protezione e all’aiuto morale dell’Inghilterra, deve più a questa che a Garibaldi, che non agli eserciti stessi vittoriosi della Francia, e però, in nome dell’Inghilterra, denuncio tali barbarie atrocità, e protesto contro l’egidia della libera Inghilterra così prostituita – LORD LENNOX, parlamentare inglese, 1863 – ”
A distanza di anni , lasciando comunque da parte le varie suggestioni patriottiche ed esaminando la questione con animo distaccato non possiamo certo riconoscere l’importanza dell’essere oggi costituiti in un’ unica nazione , e comunque riconoscere che la rovina del regno fu in gran parte conseguenza della lunga politica oscurantista e despota tenuta da Ferdinando I ( sopratutto dopo il rientro dal suo obbligato soggiorno decennale in Sicilia ) e Ferdinando II. Quest’ ultimo in particolare , dopo aver assecondato in gioventù una politica alquanto liberale , poi , terrorizzato dalla rivoluzione del 48 aveva adottato una politica assolutamente tiranna ed inacettabile e proprio quando nel resto dell’Europa prendevano piede ed il sopravvento le idee liberali.
In quel periodo , arroccata su posizioni fuori dalle idee liberali che aleggiavano e soffiavano in tutta Europa , la monarchia borbonica non appariva certamente ben difesa e facilmente sostenibile da nessun altro paese europeo che anche se a malincuore si apriva al ciclone liberale. Le condizioni del popolo , seppure in maggior parte quasi tutto schierato in favore della monarchia erano certamente non delle migliori. L’alimentazione dei più poveri escludeva carne e pesce , e la maggior parte delle persone del popolino erano analfabete ( l’analfabetismo nel Sud colpiva l’87% della popolazione; a dispetto di quella nel Nord che era del 54%.) , e solo il 18% dei bambini contro Il 90% dei bambini del Nord andava alla scuola primaria . Le varie imposte erano spesso mal ripartite e le maggiori spese del bilancio statale borbonico, erano assorbite principalmente dalle forze armate ( esercito, marina, polizia,) mentre settori come istruzione, sanità, e opere pubbliche ricevevano pochissimi fondi . La spesa pubblica destinava quindi il grosso del bilancio alle forze armate, che avevano come fine principale tutelare le loro persone e quelle dei loro fedeli, le loro proprietà ed i loro privilegiI ( alla Real casa, ossia a sé stesso, alla sua famiglia, ai parenti, agli amici,ed ai suoi piu stretti collaboratori ,era assegnata una cifra che superava largamente quella spesa per le opere pubbliche e le necessità sociali della popolazione dell’intero regno ) . Come tutte le monarchie , anche quella borbonica era costituita quindi come potete osservare da un gruppo di pochi governanti che spesso si mostrava essere noncurante della vita quotidiana della grande massa di poveri o poverissimi, e prelevava a proprio uso dal bilancio pubblico somme superiori a quelle spese per milioni di sudditi.
Il Sud borbonico era fatto di un pugno di latifondisti che possedevano quasi tutta la ricchezza del paese; un modesto nucleo di artigiani poveri , una grande quantità di contadini miseri e affamati ed una piccola borghesia, fatta soprattutto di piccoli proprietari, e di professionisti che assuefatti per secoli a ritmi indolenti, erano abituati a sdegnare la trafila burocratica per affidarsi a procedure che consentivano transiti obliqui e maniere affidate a scappatoie.
L’economia industriale e agricola del sud era comunque protetta da barriere doganali con cui lo stato borbonico proteggeva i suoi prodotti da esportare , impedendo ad altri paesi l’importazion di prodotti come frutta, vini, formaggi, solfo e seta . Essa risentì quindi moltississimo dell’ abolizione di queste barriere doganali che consentivano nella reciprocità di trattamento , ai stranieri la sola importazione di prodotti che il paese non era in grado di produrre. .
Luigi Eunaidi a tal proposito scrisse : “Si è vero, noi settentrionali abbiamo contribuito qualcosa di meno ed abbiamo profittato qualcosa di più delle spese fatte dallo Stato italiano, peccammo di egoismo quando il settentrione riuscì a cingere di una forte barriera doganale il territorio ed ad assicurare così alle proprie industrie il monopolio del mercato meridionale – LUIGI EINAUDI –
Il sistema economico ed industriale aveva comunque Il difetto di avere un lento sistema di trasporto delle sue materie prime di estrazione (solfo) o di coltivazione (frumento ed agrumi), che favorito da un ampio sviluppo costiero e da un regime daziario protezionistico nei riguardi delle merci d’importazione, continuava ad avvenire, come nei secoli precedenti, per via marittima in quanto la rete ferroviaria rimase per lungo tempo circoscritta solo a quel primo tronco Napoli-Portici ,mentre nel frattempo, il Nord si era dotato di una rete di duemila chilometri. Questo ovviamente favoriva piu di ogni altra cosa il commercio e la distrbuzione delle merci.
Le industrie tessili e siderurgico, erano seppur concentrate sopratutto a Salerno e nella provincia di Napoli comunque attive ed economicamente salde prima che avvenisse l’unione d’Italia.
A Pietrarsa si costruivano caldaie a vapore per attrezzare locomotive e piroscafi che avevano potenziato la terza flotta mercantile (quella borbonica) più potente in Europa (dopo Inghilterra e Francia) per numero di navi e tonnellaggio.
Il cantiere navale di Castellammare di Stabia con 1800 operai era il primo del Mediterraneo per grandezza e faceva invidia a parecchie regioni d’Europa (Nei due grandi cantieri arsenali- navali del golfo lavoravano 3400 operai su 6650 del ramo in tutta l’ Italia ), e non dobbiamo mai dimenticare che da questo cantiere sono uscite numerose grandi navi compresa la Amerigo Vespucci, la quale ancora oggi desta stupore e meraviglia in tutto il mondo.
Sul vicino ponte della Maddalena, fondata da un inglese (notate quanti interessi avevano sul regno gli inglesi) era inoltre presente un opificio metalmeccanico chiamato Guppy con 600 operai; Si producevano macchine pneumatiche, strumenti ottici, utensili chirurgici, orologi e armi. Questo gruppo tra l’altro fornì il supporto per la prima illuminazione a gas della capitale.
Napoli era inoltre specializzata nella produzione di guanti, 500.000 dozzine di guanti l’anno contro le 100.000 del nord e noti come “con lavorazione d’Aragona” ( il nome ad uno dei più’ popolari quartieri di Napoli) erano reputati i migliori d’Europa.
La Macry ed Henry aveva 600 operai e produceva strutture metalliche per le navi militari e per gli ingranaggi.
La Real Fonderia ubicata in Castel Nuovo fabbricava cannoni, fornaci ed altri utensili di tipo industriale e presero ad operare 150 addetti di alta specializzazione. Era inoltre presente una scuola per carpentieri, fonditori, ottonai e macchinisti.
Nel cuore della montagna calabra, attorno a Serra San Bruno, sorgeva lo stabilimento di Mongiana e più tardi venne costruita Ferdinandea. Oggi Mongiana è un piccolo borgo con pochi abitanti e Ferdinandea è spopolata. Queste fonderie furono smantellate nel post-unità poichè situate in posti poco accessibili e lontano dal mare, cioè dalla maggiore via di trasporto dell’epoca. Ovviamente una volta smontate vennero riaperte al Nord. (Immaginatesolo per un momento quanto è costato in termini occupazionale, sociale, territoriale, di sviluppo complessivo e di emigrazione massiccia). Quando venne proclamato il Regno d’Italia nel 1861 gli addetti alla ferriera di Mongiana erano 762 unita’ e si produceva ferro e ghisa di ottima qualità. Da Mongiana usci’ il ferro forgiato per produrre le catena che pesavano 180 tonnellate, per i due magnifici ponti sul Garigliano e sul Calore.
Sempre a Morgiana, accanto alla fabbrica, sorse anche una fabbrica di armi e altre ferriere sorsero a Bivonzi e Pazzano.
La politica accentratice di un governo lontano e poco attento verso le reali esigenze del sud in quel momento, i diversi investimenti economici post-unitari fatti quasi tutti prevalenttemente al nord (fatti tra l’altro con le ex casse borboniche ) e la soppressione post unitaria di barriere doganali di matrice borbonica che favorivano le industrie meridionali permettendo loro il monopolio del mercato indusriale e agricolo , contribuì certamente ad una flessione del commercio e ad aggravare il ritardo del Sud. Se inoltre consideriamo che quelli che erano prima comunque i soldi delle casse borboniche , una volta passati nelle mani sabaude , venivano impiegati sopratutto per ammodernare e favorire le strutture agricole ed industrili del nord, si può subito comprendere come la gente del Meridione mal sopportava di essere amministrata da funzionari piemontesi. Questi, non comprendendo il linguaggio e riluttanti a comunicare, non sapevano cogliere le esigenze di comunità bisognose di rinnovamento e, soprattutto, erano mal guidati da una amministrazione centrale lontana, imbarazzata ed incapace di fornire suggerimenti idonei ad affrontare, con gli scarsi mezzi a disposizione, le pressanti problematiche locali.
A dimostrazione di tutto questo basta vedere il triste destino a cui fu sottoposta la fabbrica del Reale Opificio di Pietrarsa cioè una grande industria siderurgica voluto da Ferdinando di Borbone nel 1840 che suddivisa in quattro padiglioni , grazie ad efficaci fucine e forni, era deputato alla costruzione di locomotive a vapore. La fabbrica , capace di dare lavoro a circa 700 operai , era al momento dell’unita’ la piu grande fabbrica d’Italia, e l’unica in grado di fabbricare motrici navali in tutta la penisola senza doversi avvalere di macchinisti inglesi per la loro costruzione e che possiamo considerare il primo e più importante nucleo industriale italiano presente nella nostra penisola oltre mezzo secolo prima che nascesse la Fiat . La fabbrica era famosa e conosciuta in tutta Europa con grande gelosia del solo governo inglese e nel suo periodo di maggiore attività fu visitato da noti ed importanti personaggi come lo zar di Russia Nicola I che manifestò l’intenzione di prendere Pietrarsa a modello per il complesso ferroviario di Kronstad e anche dal papa Pio IX. .
Gli oltre 700 operai , oltre ad essere ben pagati , avevano diritto alla pensione e sopratutto ricevevano puntualmente ogni mese la loro paga .Cosa diversa a quello che avvenne poi con l’ instaurarsi della monarchia sabauda che non solo abbasso’ le paghe ma grazie ad una serie di licenziamenti ridusse anche il personale . L’intera Europa guardava con ammirazione questa nostra grande industria , la sua perfetta organizzazione ed il suo modello gestionale , ma non Il nuovo governo piemontese , che subito dopo l’annessione di Napoli al Regno d’Italia , anziché essere fiero di questo piccolo gioiello che tutta l’Europa ci invidiava , penso’ invece solamente di smantellarlo inviando a Napoli il generale Alfonso La Marmora affinché ne visitasse le officine e studiasse la possibilità di impiantarne una analoga a Torino . Nel 1861, l’Opificio . colpevole del solo fatto di essere presente nel sud Italia , fu considerato dal governo piemontese come una fabbrica poco utile con una attività peraltro poco redditiva e una volta dichiarato antieconomico da una relazione fatta da un loro ingegnere emerse addirittura la volontà da parte delle istituzioni piemontesi di venderlo o addirittura demolirlo .
Ora se solo per un attimo volessimo dar ragione a questa fantomatica relazione piemontese ci risulta però altrettanto difficile poi capire perchè mai invece , lo zar di Russia Nicola I , ordinò addirittura di prenderla a modello per la realizzazione del complesso ferroviario di Kronstad .
Con l’unità d’Italia, l’Opificio fu quindi subito considerato antieconomico e successivamente adibirlo solo alla rimessa in sesto di rotte locomotive. La fabbrica di conseguenza attraversò un periodo di grande difficoltà, che portò a licenziamenti e ad una serie di proteste e scioperi da parte dei lavoratori sedate spesso con violenza come dimostrano antichi documenti ritrovati non molti anni fa nel fondo della Questura dell’Archivio di Stato. I documenti raccontano di un eccidio verificatosi nei confronti degli operai in sciopero nel 1863 da parte della nuova subentrata “ Italia “ . Le forze armate italiane, agli ordini della monarchia sabauda , il 6 agosto di quell’anno , intervennero sparando sulla folla che scioperando manifestava i suoi diritti contro impropri licenziamenti e abbassamento della paga di lavoro . Il bilancio delle povere vittime operaie fu quello di sei feriti e quattro morti.
La Sicilia, inoltre, aveva un motivo aggiuntivo di risentimento in quanto si era vista negare la promessa di una forma di autonomia e l’abolizione della luogotenenza non fu intesa come una facilitazione all’integrazione ma piuttosto come una spinta alla centralizzazione.
I nuovi governanti, da Cavour in poi, si rifugiarono nell’opinione che il Meridione, pur naturalmente ricco, fosse condannato all’arretratezza scontando i danni del malgoverno borbonico, tralasciando il particolare che la Sardegna, da un secolo e mezzo governata dai Savoia, si trovava in condizioni di arretratezza ancor peggiori. Pertanto mai presero in considerazione, malgrado le sollecitazioni , la possibilità di recarsi in quei luoghi per assumere una conoscenza diretta delle problematiche che limitavano la crescita di quelle genti di cui si marcavano solitamente gli aspetti deteriori (delinquenza, corruzione, analfabetismo e superstizione) e verso cui da più parti si manifestava disprezzo (“un esercito di barbari accampato fra di noi”) fino a proporne l’abbandono al loro destino poiché le altre regioni non erano in grado di sopportare l’onere della loro emancipazione
Il famoso sbarramento dell’acqua santa di cui parlava Ferdinando II, nonostante fosse crollato non portò quindi certo ad una nuova distribuzione del benessere e della ricchezza , e il continuo costante disinteresse del nuovo governo , verso le esigenze del Sud portò nuove forme di disuguaglianza che da 150 anni ad oggi non accennano purtroppo ancora a dimunuire. Il cambio di saffetta e testimone , avvenuto con ll’Unificazione del Meridione, non diede luogo a nessun beneficio all’intero territorio meridionale ma diede solo avvio ad una lunga e sanguinosa occupazione militare volta a sedare la ribellione che, in opposizione al nuovo Stato era ufficialmente sostenuta da finanziamenti borbonici ed in maniera occulta dal clero , e aveva coinvolto in maniera diretta o indiretta larghe fasce di popolazione fino a trasformarsi nella protesta sociale che aveva alimentato il brigantaggio. Questo, sintomo di un male profondo ed antico, con tutto il carattere disperato che lo sosteneva, aveva trovato alimento nell’imposizione di tutte quelle norme e leggi piemontesi, estranee al sentire della gente e tra cui ebbero un impatto dirompente la proscrizione obbligatoria di cinque anni e la mancata risoluzione dei vincoli che opprimevano un’agricoltura involuta ed improduttiva. Nel Meridione in genere e, nella Sicilia in particolare, sopravvivevano residui feudali in cui i contadini, mal pagati e sfruttati, venivano ammucchiati in alloggi dove trovava spesso riparo l’animale di sostegno , Essi nonostante al governo non vi era più un sovrano borbonico ma questa volta uno sabaudo , continuavano a vivere una condizione disagiata
Il nuovo stato , in una guerra ad oltranza durata quasi un decennio, combatté contro il brigantaggio con l’impiego di un esercito smisurato ed atrocità che coinvolsero indiscriminatamente comunità inermi, e marcarono così una profonda rottura tra le popolazioni meridionali ed il nuovo Stato, verso cui si manifestò una avversione maggiore di quella contro il precedente regime borbonico . Con l’Unificazione, le imposte volte all’assestamento del deficitario bilancio del nuovo Stato che si trascinava dietro il debito pubblico più elevato d’Europa, accumulato dal Piemonte per la politica espansionistica di annessioni e per gli investimenti infrastrutturali, aumentarono vertiginosamente e si abbatterono sul contribuente meridionale oneri fino ad allora sconosciuti, Per reperire infatti maggiori risorse volte a riequilibrare il bilancio , venne adottata, trascurando le eventuali ripercussioni sociali , una severa ed impopolare stretta fiscale con l’imposizione di pesanti tributi , tra cui la più odiosa fu la tassa sul macinato che, malgrado gli scarsi vantaggi apportati all’erario e le rivolte popolari causate per l’aumento del prezzo del pane, venne comunque conservata .
Il sistema fiscale quindi certo non migliorò e le cose non andarone bene neanche con le industire autarchiche come quelle siderurgiche dell’Ansaldo ed i cotonifici di Salerno che sotto il regno borbonico godevano di un protezionismo industriale fatto di rigide barriere doganali volte a favorire l’industria locale. Essi furono presto soppiantate da quelle liguri e lombarde che producevano a minor costo ed avevano certamente a loro favore una migliore e piu organizzata rete di trasporto.che venne sempre più ampliata e meglio organizzata grazie ai nuovi introiti economici provenienti dalle casse borboniche. L’unificazione della nazione , realizzata all’insegna del centralismo, evidenziò maggiormente le diverse entità economiche che vedeva le regioni del Nord proiettate in un processo di modernizzazione volto a sviluppare il settore industriale attraverso la meccanizzazione dei processi produttivi ed investimenti nel settore delle infrastrutture (ferrovie, strade, canali). Tutto questo fu possibile grazie alle nuove entrate economiche della ricche casse borbonico che all’epoca era la terza potenza economica europea , che rappresentò una vera e propia boccata di ossigeno per le magre finanze sabaude che pur di adeguare le sue infrastrutture a più moderni sistemi di produzione, avevano portato ad un grosso debito pubblico .
“Il Regno delle Due Sicilie aveva due volte più monete di tutti gli altri Stati della Penisola messi insieme –FRANCESCO SAVERIO NITTI – ”
L’agricoltura padana , grazie a questo indebitamento si era comunque giovata di nuove attrazzature e più moderni sistemi produttivi che portarono nel tempo ad una più evoluta gestione delle aziende capaci di integrare le coltivazioni con allevamenti di bestiame e caseifici. Nelle regioni meridionali invece permaneva una diversa e più equilibrata agricoltura che si affidava a metodi tradizionali, corretti con procedimenti di coltivazione aggiornati ma sobri, e produceva solo quanto necessario. Il settore agricolo nel sud , ad eccezione di pochi esempi , non viveva di moderni processi produttivi ma principalmente di un processo produttivo basato su una manodopera pricipalmente familiare in cui il figlio maschio rapprentava una enorme risorsa produttiva . Essa appariva quindi sostanzialmente più debole ed arretrata di fronte a quella del nord e come sempre avviene in questi casi , l’unificazione con una diversa economia molto più accentrata in un solo luogo diede vita ad una diseguagliata fase di sviluppo che in poco tempo distrusse la sua produzione primitiva che non dimentichiamo era comunque , sopratutto per quanto riguarda la produzione dei prodotti bufalini , dalla metà del 1700 fino all’unità d’Italia, uno dei primi esempi di industria casearia d’Europa, ed era in continua crescita .
Molti di questi I prodotti erano ignoti al resto d’Italia e tanta era l’ignoranza riguardo i prodotti di bufala nel resto d’Italia che riguardo il caciocavallo: “Il Gorani (Giuseppe Gorani, conte e scrittore Milanese, del 1740), alle favole del suo viaggio alle corti meridionali, associa errori ridicoli. Egli dice che tal formaggio si fa dal latte di cavalla”
Con l’unità d’Italia ormai avvenuta, il quadro cambiò notevolmente giacchè il numero dei capi fu ridotto a poco più di un terzo come conseguenza diretta ed immediata delle bonifiche che interessarono le piane intorno al Volturno, recuperando terre all’agricoltura, ma riducendo drasticamente quelle idonee all’habitat bufalino. Dal 1861 al 1871, come tutta l’industria meridionale dell’epoca, anche la produzione della mozzarella di bufala si fermò e molte pagliare vennero dismesse, ed abbandonate. In questo modo , Carditello, la Campania e l’Italia persero purtroppo uno dei primi esempi in Europa d’industrializzazione casearia, e la produzione ebbe un lento declino fino agli anni 50 e 60 del novecento, che portò l’industria bufalina quasi a scomparire.
Da quel momento , a parte alcune e limitate zone privilegiate coltivate ad agrumi, in agricoltura si evidenziarono quindi ancora di piu i contrasti tipici del sottosviluppo dove, accanto ad immensi latifondi prevalentemente sterili in cui l’agricoltura era incredibilmente misera, esisteva una piccola proprietà sminuzzata in inadeguati appezzamenti che utilizzavano solo concimi naturali, mezzi rudimentali (aratro a chiodo) e, non applicando la rotazione agraria, ottenevano raccolti insufficienti anche nelle annate normali. Il contadino , ad eccezione di alcune zone come per esempio San Leucio , possedeva una moneta e vendevano animali , corrispondeva esattamente gli affitti e con poco alimentava la famiglia, e tutti, in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato materiale. Se a tutto questo aggiungiamo poi il fenomeno dell’ immigrazione delle popolazioni del Mezzogiorno verso altri paesi esteri. e l’obbligo prolungato di leva militare a cui dovevano sottostare tutti i giovani , fate un po voi i calcoli ….
Le terre , in assenza di forze di lavoro , furono quasi tutte abbandonate . I contadini sottratti della forza produttiva dei propri figli che o partivano per la leva obbligatoria o si davano per sfuggire ad essa al ” brigantaggio ” , in assenza di nuovi sistemo agricoli di produzione , furono quasi tutti costretti ad emigrare .all’estero .
“Caro Presidente, ti salutano qui ottomila moliternesi: tremila sono emigrati in America; gli altri cinquemila si accingono a farlo – Lettera del sindaco di Moliterno (PZ) al primo ministro Giuseppe Zanardelli 1901 -”
“Nel secolo precedente, il Meridioned’Italia rappresentò un vero e proprio eden per tanti svizzeri, che vi emigrarono, spinti soprattutto da ragioni economiche, oltre che dalla bellezza dei luoghi e della qualità della vita. Luogo di principale attrazione Napoli, verso cui, ad ondate, tanti svizzeri, soprattutto svizzeri tedeschi di tutte le estrazioni sociali, emigrarono, con diversi obiettivi personali. Verso la metà dell’Ottocento, nella capitale del Regno delle Due Sicilie quella svizzera era tra le più numerose comunità estere – CLAUDE DUVOISIN, Console svizzero, 2006 -”
Bisogna anche comunque riconoscere che la nostra città , è vero che era meta di viaggi di gentiluomini ed intellettuali attirati dal ricchissimo patrimonio artistico e dall’alto livello culturale del paese, ma è altrettanto vero che molti degli innumerevoli viaggiatori che giunsero nella Napoli settecentesca riportarono testimonianze abbastanza concordi sul contrasto fra la bellezza dei palazzi e delle chiese da una parte, la moltitudine di miserabili, e lazzaroni, dall’altra. Non possiamo quindi non ricordare che quasi tutti gli stranieri che scendevano a Napoli nel loro tour de l’Italie erano colpiti negativamente dalla quantità di poverissimi che abitavano nella nostra grande capitale. Le condizioni igieniche in cui viveva molta gente povera erano infatti assolutamente disastrose. La plebe si ammassava in fondaci e bassi quasi tutti sprovvisti di acqua e luce . Le stette strade ed i vicoli , nel loro continuo rivolo di acqua sporca , oltre che contenere l’acqua piovana , spesso conteneva anche i resti dei miseri pasti , la lisciva del bucato ed anche a volte i propri residui organici . Gli effuluvi dei bassi erano della peggiore specie ,ed i rifuiti si accumulavano negli angoli per giorni e giorni , ma certamente tutto questo non è certamente poi cambiato quando il regno divenne parte di quell’unità d’Italia tanto propugnata da Mazzini ,Gioberti ed il furbo Cavour
.“Come ha potuto solo per un momento uno spirito fine come il tuo, credere che noi vogliamo che il Re di Napoli conceda la Costituzione. Quello che noi vogliamo e che faremo è impadronirsi dei suoi Stati – CAVOUR (all’ambasciatore Ruggero Gabaleone) – ”
“Napoli è da sette interi anni un paese invaso, i cui abitanti sono alla mercè dei loro padroni. L’immoralità dell’amministrazione ha distrutto tutto, la prosperità del passato, la ricchezza del presente e le risorse del futuro. Si è pagato la camorra come i plebisciti, le elezioni come i comitati e gli agenti rivoluzionari. – PIETRO CALA ULLOA – ”
“Intere famiglie veggonsi accattar l’elemosina; diminuito, anzi annullato il commercio; serrati i privati opifici. E frattanto tutto si fa venir dal Piemonte, persino le cassette della posta, la carta per gli uffici e le pubbliche amministrazioni. Non vi ha faccenda nella quale un onest’ uomo possa buscarsi alcun ducato che non si chiami un piemontese a sbrigarla. Ai mercanti del Piemonte si danno le forniture più lucrose: burocrati del Piemonte occupano tutti i pubblici uffizi, gente spesso ben più corrotta degli antichi burocrati napoletani. Anche a fabricar le ferrovie si mandano operai piemontesi i quali oltraggiosamente pagansi il doppio dei napoletani. A facchin della dogana, a camerieri a birri, vengono uomini del Piemonte. Questa è invasione non unione, non annessione! Questo è voler sfruttare la nostra terra di conquista. Il governo di Piemonte vuole trattare le province meridionali come il Cortez ed il Pizzarro facevano nel Perù e nel Messico, come gli inglesi nel regno del Bengala. –FRANCESCO PROTO CARAFA, Duca di Maddaloni – ”
“L’unità d’Italia è stata purtroppo la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico sano e profittevole. L’ unità ci ha perduti. E come se questo non bastasse, è provato, contrariamente all’opinione di tutti, che lo stato italiano profonde i suoi benefici finanziari nelle province settentrionali in misura ben maggiore che in quelle meridionali – GIUSTINO FORTUNATO – ”
“Se dall’unità d’Italia, il Mezzogiorno è stato rovinato, Napoli è stata addirittura assassinata. E’ caduta in una crisi che ha tolto il pane a migliaia e migliaia di persone – GAETANO SALVEMINI -”
Il problema centrale dell’intera vicenda è che nel 1860 l’Italia si fece, ma si fece malissimo e la verità unica è quella che In realtà, al di là delle orribili stragi che l’unità apportò, le genti del Sud patiscono ancora ed in maniera evidentissima i guasti di un processo di unificazione politica dell’Italia che fu attuato senza tenere in minimo conto le diversità, le esigenze economiche e le aspirazioni delle popolazioni che venivano aggregate.
Molto in tanti anni è stato scritto sulla unificazione dell’Italia e nessuno vuole non ricoscere quanto sia stato importante unificare tutti noi in un’unica grande nazione .Le monarchie sono sempre state per definizione contro le libertà e i bisogni dei popoli e la monarchi borbonica per molti versi non si è comportata diversamente dalle altre. se pensiamo solo per un momento al sistema repressivo con cui furono uccise tramite esecuzione pubblica, centinaia di giovani operai e intellettuali durante la repubblica napoletana, oppure le migliaia di persone uccise durante i bombardamenti su Messina nel 48, ma questi fanno certamente il paio con la monarchia sabauda che la vide protagonista delle stragi di Pontelandolfo,di Casalduni,le fenestrelle, degli operai di Pietrarsa e il massacro di lavoratori del generale bava beccaris .
Io credo pertanto che nella vecchia diatriba tra chi sia stato il buono o il cattivo , non vi siano buoni o cattivi ma solo cattivi e che tutto sommato da qualsiasi punto uno lo veda ,non sono altro che lo stesso vero antagonismo ideologico di sempre , cioe quello fra padroni e servi, capitale e lavoro, ricchi e poveri, e uomini liberi e oppressori.
ARTICOLO DI ANTONIO CIVETTA