“Nell’ultimo quarto del secolo decimottavo fu in Napoli oggetto di generale interessamento e finanche di entusiastici fervori un brigante, noto col nomignolo di ” Angiolillo” e che si chiamava Angelo Duca”.
Questo è niente altro che l’inizio di un omaggio che il nostro grande Benedetto Croce fece ad Angelo Duca detto Angiolillo in un suo breve saggio scritto nel 1936 nel quale racconta la biografia di un tranquillo contadino che dovette poi darsi alla macchia nel 1780 per essere entrato in lite con il latifondista marchese Francesco Caracciolo.
Angiolillo, era infatti un uomo che fin quasi alla soglia dei cinquant’anni aveva vissuto dei frutti di un suo modesto podere, ed aveva fama a San Gregorio di essere un uomo retto e fidato , senza paure ma compassionevole che però al contempo non si lasciava mai passare la mosca per il naso.Egli veniva considerato in paese “ un uomo giusto” e solo per sua somma sfortuna il caso , nel 1780 lo condusse a farsi brigante.
Ora vi starete certamente domandando del perché Benedetto Croce si interessi di un Brigante .
Ma se mi seguite capirete presto che Angiolillo non era un brigante qualsiasi ed il grande Benedetto Croce ha solo voluto rendere giustizia a colui che può a pieno titolo essere annoverato tra i briganti che davano alle loro azioni ribelli un’impronta “sociale”.
Tra i briganti che popolavano il regno di Napoli negli anni intorno al 1760, quando sul trono di Napoli vi era il re Ferdinando IV , operava anche un famoso Robin Hood meridionale di nome Angelo Duca, detto Angiolillo, di San Gregorio Magno, in Provincia di Salerno. Il popolo lo chiamava con il vezzeggiativo “Angiolillo” proprio perché combatteva contro i nobili senza usare la violenza e tanto meno le armi: chiedeva i soldi amichevolmente adottando un comportamento tanto particolare da guadagnarsi la stima dei signorotti locali e destinava ai contadini il denaro che riusciva a sottrarre a coloro che si erano arricchiti sfruttando la povera gente.
La sua azione di banditismo , lontana da gravi delitti, incarnò la figura del “ brigante sociale”, che combattè contro i nobili, destinando ai contadini e ai bisognosi il denaro dei ricchi per darlo ai poveri. Distribuiva il suo bottino sottratto ai nobili ricchi distribuendolo alle misere plebi di quei luoghi e dovunque andava largheggiava di elemosine, comprava grani per sfamare la povera gente e dotava le povere fanciulle da marito.
Angiolillo, fu quindi un “brigante” positivo e molto amato dal popolo e non condusse mai i suoi uomini a commettere ammazzamenti o violenze su indifesi, limitandosi a richiedere il danaro, per lettera, alle persone che potevano dargliene. Egli quindi non era visto dal popolo , soprattutto i contadini, come un vero e proprio brigante ma come una vera anima nobile della Campania e del Sud, in un periodo in cui i proprietari terrieri , spesso abitanti lontano dalle loro terre , volevano ricavare il massimo profitto senza far niente per migliorarle . I contadini , già costretti a vivere in miseria ,erano in quel periodo costretti a dare a questi proprietari la decima parte del prodotto totale del loro raccolto e dovevano in più pagare loro gli strumenti di lavoro. I poveri contadini dovevano poi pagare anche un ulteriore decima parte del guadagno del loro raccolto , anche alle autorità ecclesiastiche ed infine pagare le imposte allo stato ed ai vari governanti locali.
Resisteva insomma nelle terre di lavoro meridionali un vero abuso di un antico feudalesimo che impoverendo e tassando le classi sociali più deboli , non permetteva ai contadini di avere nemmeno i mezzi per costruirsi delle vere e proprie case.
Secondo una grande opera scritta dal Galanti in quel periodo , su richiesta del re , le campagne del mezzogiorno a seguito di questo persistere feudalesimo , erano quasi disabitate in quanto molti uomini e donne in un grande movimento migratorio si trasferivano nella capitale per trovare piccoli impieghi nella corte reale e nelle piccole corti delle famiglie nobili o trovare lavoro nei diversi settori economici come il porto , l’arsenale ,l’edilizia ed il commercio.
N.B.: La maggior pare della popolazione del regno era all’epoca concentrata in un semicerchio attorno a Napoli , esteso da Pozzuoli , Aversa, Capua , fino ad Avellino per richiudersi a sud di Salerno . La citta di Napoli risultava quindi sovrappopolata mentre il resto del regno era quasi disabitato ( escludendo la Sicilia, il regno contava circa 4.950.000 abitanti di solo cui 1.284.000 in Campania ).
I pochi rimasti contadini , legati alla loro terra erano invece vessati dai continui soprusi di cattive leggi in cui baroni ed ecclesiastici sguazzavano a loro discapito, per cui molti di loro vivevano in semplici buie misere capanne coperte di paglia ,con un’unica stanza sporca e maleodorante con un giaciglio posto a fianco dell’asino e del maiale ( i più fortunati disponevano di un muretto di fango per separare il giaciglio dall’ambiente riservato agli animali ).Non era un caso quindi che in quegli anni si assistette ad una recrudescenza del fenomeno banditismo in tante campagne del sud Italia. Le condizioni economiche di miseria ed i soprusi che si dovevano continuamente subire dai signorotti locali , favorì la creazione di bande organizzate secondo principi militari che si segnalavano per i furti ,rapine , incursioni violente nelle proprietà, rapimenti , sequestro di giovani ragazzi e altri gravi delitti commessi come lo stupro di giovani donne.
Ma fortunatamente non tutti i briganti erano cosi cattivi e ben presto nell’entroterra di Salerno, Avellino , Basilicata settentrionale, Cassano Irpino, Avigliano, Muro Lucano, Calitri, Ruoti e Rionero in Vulture si diffusero le gesta di un “ nuovo brigante “ dalla grande umanità che procurava la dote alle ragazze povere, elargiva denaro e grano, ed era protagonista di altri nobili atti di generosità verso gli umili .
Egli era soprannominato Angiolillo ed incarnava la figura del brigante sociale , una sorta di Robin Hood meridionale , sulla cui vita e gesta incominciarono a fiorire una serie di leggende e racconti che esaltavano le sue doti di umana solidarietà e avversione alle ingiustizie. In tali territori Angiolillo era amato in quanto, a differenza degli altri banditi e briganti, proteggeva l’oppresso contro l’oppressore, il povero dal ricco. Si raccontava che bruciasse i registri degli avari usurai per rendere liberi i debitori, che fermasse le carrozze dove viaggiavano “ vescovi e prelati” ai quali toglieva gran parte dei loro averi, richiamandoli alla “povertà evangelica che dovrebbe essere il loro abito”.
Il suo brigantaggio di stampo sociale improntato prevalentemente sulla difesa dei poveri, non ha mancato di attrarre nel corso del tempo anche l’attenzione di diversi vari scrittori e storici . Personaggi come Alexandre Dumas, Eric Hobsbawam Benedetto Croce, Hans Mathes Merkel, Francesco Saverio Nitti e tanti altri , hanno infatti voluto dedicare ad Angelo Duca parole ricche di ammirazione.
Il tedesco Hans Mathes Merkel, dedicò alla sua figura di brigante gentiluomo un’opera intitolata Il buon diritto del brigante Angelo Duca.
Francesco Saverio Nitti nel saggio Eroi e Briganti, mise in risalto di questo generoso brigante il desiderio di proteggere l’onore delle fanciulle dalle prepotenze di taluni baroni che erano soliti abusare di loro in modo indegno.
Lo storico inglese Hobsbawm lo indicò come «l’esempio forse più puro di banditismo sociale».
Benedetto Croce, in una breve biografia, scrisse che il suo esempio, pur non potendosi ascrivere nell’ambito di un programma di carattere politico – sociale, rappresentò, in relazione al brigantaggio delle nostre province, la pura anima sociale ed ideale, quegli “sparsi elementi di bontà, di generosità, di eroismo, coi quali il Cervantes compose la sua figura ideale”.
Benedetto Croce sottolinea anche nel suo breve saggio che il brigantaggio, incarnato da Angelo Duca e da coloro che lo seguivano, era mirato a distinguersi nettamente dal brigantaggio di delinquenza comune, che Angiolillo non solo respingeva, ma verso cui prendeva una posizione di decisa ripugnanza, usando il termine di “ malfattori” nei confronti dei briganti- delinquenti comuni, additandoli altresì alle autorità quando gli si presentava l’occasione.
CURIOSITA’: Alla banda di Angelo Duca , per la loro attività incentrate prevalentemente sulla difesa dei poveri era riservata da parte dei monaci una “ speciale “protezione e ospitalità in conventi e monasteri,dove spesso si recavano per riposarsi o per curare le ferite, ma soprattutto per sottrarsi agli insecutori. C’erano per questa banda sempre apparecchiate mense di ottimi pasti e di vini squisiti; i frati andavano attorno tutti lieti e contenti, ed echeggiavano pel refettorio allegri brindisi ad Angiolillo, a Costantino, a Peppe Russo.
Ma chi era allora veramente questo “ brigante “ per attrarre l’attenzione addirittura di molti scrittori stranieri e italiani nonché del nostro grande filosofo Benedetto Croce che a lui dedicò nel 1936 sulle pagine della “Critica” addirittura un breve saggio ?
Nato a San Gregorio Magno in provincia di Salerno nel 1734, Angelo Duca era un contadino che possedeva animali, come anche un campicello che coltivava, e quindi da considerare un contadino che in quei tempi si poteva considerare agiato. Infatti poteva permettersi di vivere una vita tranquilla, e affidava il piccolo gregge di cui era in possesso alle cure di un ragazzo che era suo nipote, il quale un giorno le portò abusivamente a pascolare sulle terre del Duca di Martina. Il guardiano, colto sul fatto il ragazzo con il suo gregge ad invadere le terre di Francesco Caracciolo incominciò con violenza a picchiare con botte a più riprese il giovane battendolo aspramente. Angelo, che era poco lontano, accorse in difesa del nipote per cercare di chiarire la situazione con il guardiano, in quanto il ragazzo gli aveva riferito che non era riuscito a tenere a bada il gregge, mentre invadeva le terre del Duca Caracciolo. Dalle parole si passò ai fatti con ricorso alle armi e la più che animata discussione terminò alla fine con l’uccisione di un cavallo del Duca di Martina.
Angelo Duca per reazione alla ennesima aggressione del violento guardiano sparò il suo fucile contro il guardiano, che stava a cavallo; e il colpo ammazzò il cavallo. II guardiano si rialzò subito, e inseguì Angelo, che si mise in salvo.
Ma ora continuiamo il nostro racconto con le parole scritte dal nostro grande Benedetto Croce :
L’occorso fu riferito al duca di Martina, e con tinte così accese che il bollente barone entrò in furore di vendicarsi dell’audace contadino, e per quel sol delitto principale, ossia per l’uccisione della giumenta, di cento e mille colpe lo fa reo”. Angelo Duca pensò di rivolgersi al Principe di Torella Giuseppe Caracciolo per protezione. Con la livrea del Principe di Torella Angelo Duca si presentò per chiedere perdono, ma il duca di Martina rispose che avrebbe avuto soddisfazione solo quando avrebbe avuto la sua testa.
In un secondo momento il Duca promise poi il suo perdono, a patto che egli si fosse presentato alla Giustizia, ma Angelo non si fidava della parola ducale e anche dai governatori, feudali e regi, e dalle Udienze. Il padre di “Angiolillo” allora pensò che l’idea migliore fosse di espatriare in Ungheria, ma Angelo non volle e “ la prepotenza di un signore, la nessuna garanzia della giustizia fecero, dunque, dell’onesto Angelo Duca un brigante. E l’opinione pubblica non errava nel considerarlo ingiustamente perseguitato.
Di questo primo episodio, dice Croce, esistono altre versioni nelle quali si racconta che fosse stato il guardiano a sparare per primo, e che avesse già altre volte malmenato il ragazzo. Come che fu, a questo punto della storia, anche Croce ritenendo che la scelta “dell’onesto” Angelo Duca di non fidarsi del tritacarne-giustizia fosse obbligata, egli si dà alla macchia, unendosi poi alla Banda Freda, di Andretta; ma dopo otto mesi Angiolillo pensò di formare una compagnia da sè.
Fu così che Angiolillo iniziò la sua attività di brigante con una banda propria, di cui facevano parte, tra gli altri, altri Costantino Rocco, alias “Re di Balvano”, Giuseppe Russo di Buccino, Gian Giacomo Barberio di San Gregorio, Giovanni Gallo di Montemarano, Ciccio Zaccarino di Caposele e due fratelli dal cognome che è tutto un programma: Parapiglia.
Le gesta della banda sul territorio, campano, lucano e pugliese, incominciarono a diffondersi per l’intero regno e la sulla vita e gesta del nuovo Robin Hood incominciarono a fiorire una serie di leggende e racconti che esaltavano le sue doti di umana solidarietà e avversione alle ingiustizie.
Si raccontava di un’epica battaglia combattuta dal solo Angiolillo contro un gruppo di soldati. «…Si trovava sconosciuto in un’osteria, quando sentì che un gruppo di soldati nella stessa stanza discorrevano vantandosi che avrebbero presto ammazzato o pigliato Angiolillo. Saltò subito in piedi, gridando: Angiolillo sono io: pigliatemi, se ne avete il coraggio! Quelli, passato il primo momento di sbalordimento, gli si avventarono contro; ma Angiolillo, afferrato un grosso pezzo di baccalà che pendeva per insegna all’ osteria, menando botte a destra e a sinistra, li costrinse alla fuga.
Ma anche di un famoso episodio accaduto ad Ascoli quando Angiolillo irruppe nel palazzo del duca Sebastiano Marulli, ove era imbandito un sontuoso banchetto, chiedendo ed ottenendo che venisse preparato un pranzo anche per il popolo.
L’episodio è ricordato nei versi della Bellissima Istoria:
“Lui salì sopra, quindici zecchini si fece dar da tutti quei signori; calò poi abbasso e , a donne , e poverini un pranzo fece far di bei sapori, con dir : Se festa fa la signoria, pure alla povertà festa si dia”.
E ancora quello certamente più simpatico riguardante un giorno un’anziana signora che si avvicinò ad una radura dove dei ricchi signori, dopo una battuta di caccia, riposavano intorno al fuoco mentre i loro servi cuocevano della selvaggina per il pranzo. Uno dei nobili restò stupito quando la donna, senza cerimonie, afferrò un pezzo d’uccello arrostito per mangiarlo e le chiese come mai andasse tutta sola per il bosco senza paura dei briganti. La donna, senza sapere che l’uomo che le stava. davanti era Ferdinando IV di Borbone con il suo seguito, sorridendo, rispose che il brigante più temuto, Angiolillo appunto, rubava soltanto ai ricchi ed era sempre pronto a dare una parte del bottino alla povera gente, mentre il re con le tasse rubava anche al più povero per dividere quanto riusciva a racimolare con i nobili. Angiolillo, continuò a dire la vecchia, era sempre pronto ad aiutare la gente povera fino al punto che, avendo saputo che dei nobili stavano preparando una festa riservata ai ricchi, aveva fatto preparare, immediatamente, un banchetto per gli abitanti di tutto il paese, affermando che quando un nobile festeggia tutto il popolo ha diritto di divertirsi. La signora, finito di mangiare il pezzo di uccello, si alzò e si allontanò concludendo che il re avrebbe potuto essere stimato e amato dalla popolazione soltanto se avesse cercato di comportarsi come il brigante.
Per il successo popolare che il brigante buono andava riscontrando , il governo borbonico iniziò contro di lui una dura repressione: Angiolillo si presentava infatti come portatore di un modello di giustizia alternativo e vicino alla povera gente, ragione per la quale la sua fama si era estesa non solo al paese natale, ma a tutta la provincia.
Benedetto Croce a tal proposito ci scrive che comunque seppure fosse un brigante “ Angiolillo era un brigante di buona pasta, coraggioso, ingegnoso, e di una certa elevatezza d’animo”.
Il successo popolare di Angiolillo , ritenuto scomodo dal re , dovette quindi indurre il governo di Napoli a incrementare le attività per la sua cattura. Sfuggito a una serie di agguati,infatti per sconfiggerlo definitivamente i Borbone decisero alla fine di affidarsi ad un “ ministro diligente” nella persona del conte don Vincenzo Paternò, giudice criminale della Gran Corte della Vicaria nel 1783
Riuscirono comunque a catturarlo solo grazie al tradimento di uno degli uomini più fidati della banda , un tale Ciccio Zuccarino, un giovane di Caposele che in breve tempo si era conquistato la fiducia di Angiolillo . Dopo aver trattato ed ottenuto la salvezza per sé, Zuccarino guidò un nutrito gruppo di soldati borbonici comandate dal tenente Quintana presso il convento dei cappuccini di Muro Lucano, dove si erano rifugiati, Angiolillo già ferito e il Russo ammalato: in seguito alla soffiata una squadra di fucilieri locali e un’altra inviata dal tribunale di Salerno diedero fuoco al convento. Russo vi rimane orrendamente ustionato e Angiolillo, in un disperato tentativo di fuga si lanciò dal tetto in fiamme, «in un mantello involto, saltò in aria come uccello!». La caduta comunque rallentò la sua fuga e ormai circondati dalle forze nemiche vennero entrambi catturati e condotti come prigionieri a Salerno .
Il giorno successivo Angiolillo e Peppe Duca si trovavano di fronte alla Gran Corte di Salerno, dove si doveva apprestare il processo con valenti avvocati che si accingevano a difenderli. Ben diversa era l’idea del re Borbone, il quale, tramite un biglietto, ordinò che i due fossero impiccati senza alcun forma di processo.
Secondo alcune fonti storiche la cattura era avvenuta il 10 aprile 1784, mentre nel primo pomeriggio del 26 aprile 1784, venne prima impiccato Peppe Russo, già morto in carcere il giorno prima, e successivamente anche Angiolillo, anche lui mezzo morto.
N.B. Il Russo moriva prima del giorno dell’esecuzione tramite impiccagione, ma fu ugualmente impiccato e allora come non ricordare con questo episodio le famose parole di Dostoevskij nel suo capolavoro intitolato l’idiota «Uccidere chi ha ucciso è un delitto incomparabilmente più grande del delitto stesso
Angiolillo , colui che incarnò la figura del “ brigante sociale”, fu quindi fatto decapitare dal tiranno borbone Ferdinando IV senza alcun processo e come se non bastasse, il despota , secondo la macabra usanza del tempo, fece la sera stessa smembrare a pezzi il suo corpo, e poi esporrela sua testa per lungo tempo sulla “Porta di Nanno” a Calitri.
Benedetto Croce a questo proposito scrive : …. troncate le teste e fatti a pezzi i corpi, le teste e le membra furono mandate a esporre nei luoghi ch’erano stati un tempo quelli dei maggiori trionfi dell’eroe di San Gregorio.
Benedetto Croce inoltre conclude il suo ricordo del brigante Angelo Duca, catturato e giustiziato a Salerno nel 1784, rimarcando che ” era un brigante, ma, e per la cagione che lo aveva gittato alla campagna e per il suo procedere ardito, abile, leale, mite, caritatevole, lo si teneva degno d’indulgenza”. Tuttavia il filosofo, storico, critico letterario e scrittore abruzzese, innamorato di Napoli, non esita ad evidenziare che “ è da credere, che, spento quello uomo straordinario, la sua banda diventasse un banda delle solite, coi soliti eccessi, e senza quel carattere ideale che vi aveva impresso il suo primo capo.
Ah ! Dimenticavo …il nobile Giuseppe Caracciolo sarà poi perseguitato come repubblicano nei mesi della Repubblica Napoletana, condannato a morte con pena commutata in ergastolo perpetuo nell’isola di Favignana, nella tetra fossa di S. Caterina.
Così giustizia divina fu finalmente fatta.