Giustino Fortunato , uno degli uomini dall’ingegno più alto, dalla cultura più vasta e dall’anima più pura e più nobile che abbia avuto l’Italia dopo l’Unità, nacque a Rionero in Vulture,in provincia di Potenza , il 4 Settembre 1848. La sua famiglia si era trasferita due secoli prima, da Sieti (un antico e ameno borgo della Valle del Picentino) in Basilicata ed era una ricca e laboriosa famiglia di agricoltori che aveva radicati sentimenti borbonici.

Figlio di  Pasquale e Antonia Rapolla, egli fu infatti il discendente di una famiglia che possedendo diversi possedimenti terrieri  aveva compiuto nel corso del XVIII secolo una rapida ascesa sociale.

CURIOSITA’:  Un figlio di Carmelo, Gennaro Fortunato, era stato tra il 1792 ed il 1799 l’ultimo vescovo di  Lavello . Un suo prozio, di nome anche lui Giustino  Fortunato   ebbe invece notevoli incarichi burocraticiː fu, infatti, giudice di pace durante la Repubblica napoletana  , procuratore e intendente sotto  Gioacchino Murat e primo ministro del Regno delle due sicilie dal 1849 a 1852.

Suo nonno Anselmo (fratello minore di Giustino senior) era un  notocarbonaro , mentre suo padre era invece fedele alla dinastia borbonica  , tanto che, a detta di Fortunato, “non credeva,  e non immaginava nemmeno l’unità d’Italia .. Durante le reazioni leggitimistiche che resero il Vulture uno dei maggiori centri del movimento ribellista, i suoi zii paterni Gennaro e Giuseppe furono arrestati con l’accusa di manutengolismo, essendo la famiglia Fortunato in rapporti con il capobrigante Carmine Crocco  e suo padre fu incarcerato per oltraggio all’ufficiale che eseguì il mandato di catturaː tuttavia, il padre e gli zii vennero, poi, scarcerati per insufficienza di prove nel 1862.

N.B.manutèngolo :  Chi tiene mano a malviventi, aiutandoli in azioni illecite o delittuose senza avervi parte determinante

Dopo il rilascio del padre, Fortunato, ancora adolescente, si trasferì con la famiglia a Napoli, dove  compì i suoi primi studi dapprima nel collegio dei Gesuiti, e poi in quello degli Scolopi, a San Carlo alle Mortelle. Conseguita la licenza liceale si iscrisse alla Facoltà di legge, seguendo contemporaneamente i corsi di letteratura italiana di Luigi Settembrini.

Conseguita la laurea in giurispudenza , non esecito’ comunque mai professioni giuridiche. Egli pur potendo vivere largamente di rendita, preferì comunque continuare  a studiare. Messi da   parte i libri giuridici e, dopo aver frequentato per un po’ di tempo gli studi dei famosi pittori Morelli e Palizzi, si dedicò alla sua grande passione nella lettura di opere di carattere soprattutto letterario e storico.

Fu in questo periodo allievo di intellettuali come  Francesco De Sanctis e Luigi Settembrini e rivolti  quindi  suoi studi  e interessi sopratutto  alla letteratura italiana incominciò a  focalizzare  la sua attenzione  sugli  aspetti umani delle singole vicende, soprattutto le più piccole e minute finì per focalizzare il suo manifesto obiettivo sulle  ansie e speranze di cui l’uomo  in quanto portatore di bisogno  e sentimenti continuamente necessitava.Fu attraverso questi suoi studi che si andò infatti convincendo che il Mezzogiorno, pur essendo stato una volta la florida terra della Magna Grecia, era andato incontro ad un processo di grave e tragico degrado, non solo economico ma anche morale.

NB. Luigi Settembrini  era molto affezzionato a Giustino Fortunato , Basti dire che l’ultima lettera, scritta da Settembrini poco prima di morire, fu diretta a questo suo diletto discepolo.

Dal 1872 al 1876, egli  fu poi abbastanza assiduo alle lezioni di Francesco De Sanctis e conobbe, in quella scuola, Antonio Calandra, Giorgio Arcoleo, Alberto Marghieri e Francesco Torraca. Lesse allora, con grande passione, scrittori e poeti antichi e moderni. Gli autori maggiormente preferiti furono tre: Orazio, Dante e Manzoni.Quando egli leggeva la Divina Commedia si trasfigurava ed aveva l’abilità di farla gustare, in modo impressionante, anche agli amici che lo ascoltavano. Ancora più accentuata fu la sua ammirazione per il Manzoni. Non passava giorno, in cui egli non rileggesse qualche brano dei Promessi Sposi.

In questo periodo seguì con molta   passione  le lezioni di letteratura e storia di di Francesco De Sanctis , che costuì per lui  un punto di riferimento intellettuale e morale imprescindibile

N.B.Un giorno, Giustino Fortunato , commemorando la morte di De Sanctis, disse, con grande consapevolezza, che costui, insieme col padre, era stato l’uomo più importante della sua vita.

Negli  stessi  anni iniziò a collaborare con le riviste moderate «La Patria» e l’«Unità Nazionale» e, a partire dal 1872, iscritto  alla sezione di Napoli del Club Alpino , inizio a scrivere sul  «Bollettino»  delle relazioni di viaggio sugli Appennini del Mezzogiorno ,

Grazie all’attività giornalistica, che caratterizzò questa parte della sua vita , Fortunato iniziò quindi sempre di più a occuparsi di temi che lo portano progressivamente a indagare le condizioni economiche e sociali del Mezzogiorno e mettere a fuoco  le possibili cause di arretratezza non solo economica dell’intero  territorio del Mezzogiorno.

Secondo Fortunato,  lo Stato, dall’Unità alla fine dell’Ottocento, non era stato in grado di creare, attraverso politiche appropriate, i prerequisiti dello sviluppo nel Mezzogiorno, fatta eccezione per la politica di espansione della rete ferroviaria. Egli studiando in maniera approfondita  i problemi riguardanti la crisi sociale ed economica del sud dopo  l’unità nazionale  d’Italia , illustrò nelle sue opere una serie di interventi programmati per fronteggiare la cosiddetta questione meridionale .

Egli sviluppando con Il suo pensiero aspetti geologici, economici, e storici  del meridione, esercitò una grande influenza su numerosi meridionalisti e sul panorama politico-culturale del tempo ma, al tempo stesso, fu penalizzato dal suo notorio pessimismo, che lo rendeva sconfortato verso le istituzioni e lo spingeva spesso ad isolarsi dai vari  schieramenti politici, ricevendo da parte dei suoi detrattori il malevolo nomignolo di “apostolo del nulla”

Tuttavia Fortunato considerò il suo pessimismo “una filosofia del costume”. Fu, altresì, tra i primi che compresero la minaccia del fascismo  e figurò in seguito tra i firmatari del  Manifesto degli intellettuali antifascisti.

Il suo pessimismo derivava dalla consapevolezza che il Sud , nonostantel’unione d’Italia .fosse comunque rimasto quello di una volta. Egli si rese infatti presto conto che il  tutto era particolarmente difficile, perché bisognava recuperare molti secoli di ritardo e temeva sopratutto quel  federalismo, che, dando potere legislativo ed esecutivo alle regioni, e movendosi in senso contrario all’unità nazionale, avrebbe sicuramente consegnato il Sud alle forze politiche, economiche e sociali peggiori, cioè alla alla camorra,  al clero , ed ai vari nobili  signorotti che si affannavano per ottenere incarichi politici locali.

 

N.B.Un elemento fondamentale della biografia di Fortunato riguarda la decisione del fratello Ernesto, nel 1873, di abbandonare la carriera legale per condurre in prima persona( cercando di riformare gli antichi metodi di conduzione agricola) , i possedimenti di famiglia a Gaudiano. Questo, oltre a garantire l’indipendenza economica a Fortunato, gli permette di riflettere sulla possibilità concreta di riforma «illuminata» nelle campagne attraverso l’interessamento diretto dei proprietari terrieri .L’indagine sul campo secondo questo programma era  il primo passo di una politica di intervento. Solo la comprensione della realtà economica e sociale poteva infatti  orientare la politica, combatterne gli errori e sconfiggere le ideologie estremiste.

 

Nel 1880 Fortunato  debuttando in politica , venne eletto deputato del collegio di Melfi , un incarico  che egli ricoprì fino al 1909, anno in cui venne poi  nominato senatore.

Nel lungo periodo in carica da parlamentare, mostrando  sempre un atteggiamento e un giudizio indipendenti nei confronti delle vicende politiche italiane  e non riconoscendosi  appieno in nessun schieramento politico,  appoggiò   il solo governo De pretis e, dopo la sua caduta, non sostenne in alcun modo  il programma e la politica di Francesco Crispi

Con il  suo programma politico,egli  comunque fucertamente  tra i primi a cogliere con chiarezza e a inserire in un quadro unitario di riflessione l’analisi dell’arretratezza del Mezzogiorno,

Egli pur ammettendo che l’Unita d’Italia  , restava pur sempre una  “miracolosa e magnifica opera d’arte”,capì ben presto e prima di tutti che  la realtà per il sud non per quella  che si andava raccontando cossì da tentarne, con opportuni rimedi, una piu’ giusta ed adeguata  rinascita del meridione . Egli profondamente informato della condizione in cui versava il sud in quel periodo , cercò nel suo mandato di sostenere continuamente  delle  politiche necessarie per risollevare il Mezzogiorno e per far uscire dalla miseria la maggioranza della popolazione meridionale.

La questione meridionale divenne per lui motivo di maggior interesse politico e la questione nazionale per eccellenza di cui  il nuovo stato italiano doveve occuparsi. L’ignoranza in cui versava gran parte della popolazione e la estrema miseria,in cui versava la plebe , divenne per lui  più che un bisogno, ma  una imprescindibile necessità di cui doveva occuparsi il nuovo governo.

«il paese non è solido finché le classi inferiori sono prive d’ogni tutela, d’ogni patrocinio, d’ogni bene della civiltà» (G. Fortunato, I partiti storici e la XIV legislatura, 1892).

Grazie alla collaborazione con la «Rassegna settimanale» Fortunato approfondisce sopratutto alcuni temi, per lui  strettamente legati alle prospettive di sviluppo del Mezzogiorno, come  la riforma dei monti frumentari , la questione demaniale e l’analisi dell’emigrazione. Accanto a questi prende corpo una dura critica nei confronti delle classi dirigenti meridionali, della borghesia urbana e terriera che non si è fatta carico dell’obiettivo di ‘modernizzare’ il Mezzogiorno.

Le maggiori accuse che egli muoveva alla borghesia terriera consistevano proprio infatti nella loro mancata visione di capire la necessità e lesigenze di modernizzazione il sistema agricolo. L’esempio che egli continuamente portava ad esempio per risolvere il problema di questa arretratezza agricola era quella azienda modello in Basilicata del  deputato di Cerignola Giuseppe Pavoncelli , grande proprietario terriero che aveva investito per la conversione delle colture estensive all’«agricoltura industrializzata».

Il nostro Giustino era un uomo politico convinto che il sud poichè era ricco di terre agricole doveva puntare per la sua possibile fortuna , su una efficiente trasformazione dello sfuttamento agricolo dei campi . Ma sapeva ben  questa situazione economicamente conveniente era comunque  complicata nella sua applicazione dal fatto che  la conduzione agricola  nelle campagne del sud Italia , era nelle mani , gia prima dell’Unione d’Italia ,di un pugno di latifondisti che possedevano quasi tutta la ricchezza del paese; un modesto nucleo di artigiani poveri , una grande quantità  di contadini miseri e affamati ed una  piccola borghesia, fatta soprattutto di piccoli proprietari, e di professionisti che  assuefatti per secoli a ritmi indolenti, erano abituati a  sdegnare la trafila burocratica per affidarsi a procedure che consentivano transiti obliqui e maniere affidate a scappatoie.

L’economia industriale e agricola del sud nel periodo borbonico era comunque  protetta da  barriere doganali con cui lo stato  proteggeva i suoi prodotti da esportare , impedendo ad altri paesi l’importazion di  prodotti come frutta, vini, formaggi, solfo e seta .Essa era stata imposta dai sovrani borbonici per consentire nel regno ai stranieri la sola importazione di prodotti  che il paese non era in grado di produrre.

Con l’unita d’Italia , il sud risenti molto  dell’ abolizione di queste  barriere doganali  . Esse eliminate per consentire una reciprocità di trattamento e scambi commerciali , si rivelarono disasrosi per l’intero mezzogiorno. La  soppressione post unitaria  di  queste barriere doganali di matrice borbonica che favorivano  le industrie meridionali  permettendo  loro il monopolio del mercato indusriale e agricolo , contribuì certamente ad una flessione del commercio e ad aggravare il ritardo del Sud.

Il sistema economico ed industriale costruito di borbone , aveva infatti  comunque  Il difetto di avere un  lento sistema di trasporto delle sue materie prime di estrazione (zolfo) o di coltivazione (frumento ed agrumi), che favorito da un ampio sviluppo costiero e da un regime daziario protezionistico nei riguardi delle merci d’importazione, avveniva quasi esclusivamente per via marittima in quanto la  rete ferroviaria rimase per lungo tempo  circoscritta solo a quel primo tronco Napoli-Portici .

Il Nord  nel frattempo, si era dotato di una rete ferroviaria  di circa duemila chilometri. Questo ovviamente favoriva piu di ogni altra cosa il commercio e la distrbuzione delle merci.

Il famoso sbarramento dell’acqua santa di cui parlava Ferdinando II, nonostante fosse crollato non portò quindi certo ad una nuova distribuzione del benessere e  della ricchezza , e il continuo costante disinteresse del nuovo governo , verso le esigenze del Sud portò nuove forme di disuguaglianza che da 150 anni ad oggi non accennano purtroppo ancora a dimunuire.

Il cambio di staffetta e testimone , avvenuto con ll’Unificazione del Meridione, non diede infatti luogo a nessun beneficio all’intero  territorio meridionale ma diede solo avvio ad una lunga e sanguinosa occupazione militare volta a sedare la ribellione che, in opposizione al nuovo Stato era ufficialmente  sostenuta da finanziamenti borbonici ed in maniera occulta dal clero , e aveva coinvolto in maniera diretta o indiretta larghe fasce di popolazione fino a trasformarsi nella protesta sociale che aveva alimentato il brigantaggio. Questo, sintomo di un male profondo ed antico, con tutto il carattere disperato che lo sosteneva, aveva trovato alimento nell’imposizione di tutte quelle norme e leggi piemontesi, estranee al sentire della gente e tra cui ebbero un impatto dirompente la proscrizione obbligatoria di cinque anni del servizio di leva militare  e la mancata risoluzione dei vincoli che opprimevano un’agricoltura involuta ed improduttiva. Nel Meridione in genere e, nella Sicilia in particolare,continuavano a questo proposito  residui feudali in cui i contadini, mal pagati e sfruttati, venivano ammucchiati in alloggi dove trovava spesso riparo l’animale di sostegno , Essi nonostante al governo non vi era più un sovrano borbonico ma questa volta uno sabaudo , continuavano a  vivere  una condizione disagiata.

Se inoltre consideriamo che quelli che erano prima comunque i soldi   delle casse borboniche , una volta passati nelle mani sabaude , venivano impiegati sopratutto per ammodernare e favorire le strutture agricole ed industrili del nord, si può subito comprendere come la gente del Meridione mal sopportava di essere amministrata da funzionari piemontesi. Questi, non comprendendo il linguaggio e riluttanti a comunicare, non sapevano cogliere le esigenze di comunità bisognose di rinnovamento e, soprattutto, erano mal guidati da una amministrazione centrale lontana, imbarazzata ed incapace di fornire suggerimenti idonei ad affrontare, con gli scarsi mezzi a disposizione, le pressanti problematiche locali.

La politica accentratice  di un governo lontano e poco attento verso le reali esigenze del sud in quel momento, i diversi investimenti economici post-unitari fatti quasi tutti prevalenttemente al nord  (fatti tra l’altro con le ex casse borboniche )  e la soppressione post unitaria  di barriere doganali di matrice borbonica che favorivano  le industrie meridionali , certo non aiutò molto lo sviluppo del mezzogiorno d’Italia che da quel momento incomicio a crescere  ad un ritmo diverso e più lento rispetto al nord Italia .

A dimostrazione di tutto questo  basta vedere il triste destino a cui fu sottoposta la  fabbrica del Reale Opificio di Pietrarsa cioè una grande  industria siderurgica voluto da Ferdinando di Borbone nel 1840  che  suddivisa in quattro padiglioni , grazie ad efficaci fucine e forni, era deputato alla costruzione di locomotive a vapore. La  fabbrica , capace di dare lavoro a circa 700 operai , era  al momento dell’unita’ la piu grande fabbrica d’Italia,  e l’unica in grado di fabbricare motrici navali in tutta la  penisola senza doversi avvalere di macchinisti inglesi per la loro costruzione e che possiamo considerare il primo e più importante nucleo industriale italiano presente nella nostra penisola oltre mezzo secolo prima che nascesse la Fiat . La fabbrica era famosa e conosciuta in tutta Europa con grande gelosia del solo governo inglese e nel suo periodo di maggiore attività fu visitato da noti ed importanti  personaggi come lo zar di Russia Nicola I  che manifestò l’intenzione di prendere Pietrarsa a modello per il complesso ferroviario di  Kronstad e anche dal papa Pio IX. .

Gli oltre 700 operai ,  oltre ad essere ben pagati , avevano diritto alla pensione e sopratutto ricevevano puntualmente ogni mese la loro paga .Cosa diversa a quello che avvenne poi con l’ instaurarsi della monarchia sabauda che non solo abbasso’ le paghe ma grazie ad una serie di licenziamenti ridusse anche il personale . L’intera Europa  guardava con ammirazione   questa nostra grande industria , la sua perfetta organizzazione ed il suo  modello gestionale , ma non Il nuovo governo piemontese , che  subito dopo l’annessione di Napoli al Regno d’Italia  , anziché essere fiero di questo piccolo gioiello che tutta l’Europa ci invidiava , penso’ invece solamente di smantellarlo inviando a Napoli il generale Alfonso La Marmora affinché ne visitasse le officine e studiasse la possibilità di impiantarne una analoga a Torino . Nel 1861, l’Opificio . colpevole del solo fatto di essere presente nel sud Italia , fu considerato dal governo piemontese come una fabbrica  poco utile con una attività  peraltro poco redditiva e una volta dichiarato antieconomico da una relazione fatta da un loro ingegnere emerse addirittura la volontà da parte delle istituzioni piemontesi di venderlo o addirittura demolirlo .

Ora se solo per un attimo volessimo dar ragione a questa fantomatica relazione piemontese ci risulta però altrettanto  difficile poi capire perchè mai invece , lo zar di Russia Nicola I , ordinò addirittura di prenderla a modello per la realizzazione del complesso ferroviario di Kronstad  .

Con l’unità d’Italia,  l’Opificio fu quindi subito considerato antieconomico e  successivamente adibirlo solo alla rimessa in sesto di  rotte locomotive. La fabbrica di conseguenza attraversò un periodo di grande difficoltà, che portò  a licenziamenti e ad una serie di proteste e scioperi da parte dei  lavoratori sedate spesso con violenza come dimostrano antichi documenti ritrovati non  molti anni fa nel fondo della Questura dell’Archivio di Stato. I documenti  raccontano di un eccidio verificatosi nei confronti degli operai in sciopero nel 1863 da parte della nuova subentrata “ Italia “ . Le forze armate italiane,  agli ordini della monarchia sabauda  , il 6 agosto di quell’anno , intervennero sparando sulla folla che scioperando manifestava i suoi diritti contro impropri licenziamenti e abbassamento della paga di lavoro . Il bilancio delle povere vittime operaie fu quello di sei feriti e quattro morti.

La Sicilia, inoltre, aveva un motivo aggiuntivo di risentimento in quanto si era vista negare la promessa di una forma di autonomia e l’abolizione della luogotenenza non fu intesa come una facilitazione all’integrazione ma piuttosto come una spinta alla centralizzazione.
I nuovi governanti, da Cavour in poi, si rifugiarono nell’opinione che il Meridione, pur naturalmente ricco, fosse condannato all’arretratezza scontando i danni del malgoverno borbonico, tralasciando il particolare che la Sardegna, da un secolo e mezzo governata dai Savoia, si trovava in condizioni di arretratezza ancor peggiori. Pertanto mai presero in considerazione, malgrado le sollecitazioni , la possibilità di recarsi in quei luoghi per assumere una conoscenza diretta delle problematiche che limitavano la crescita di quelle genti di cui si marcavano solitamente gli aspetti deteriori (delinquenza, corruzione, analfabetismo e superstizione) e verso cui da più parti si manifestava disprezzo (“un esercito di barbari accampato fra di noi”) fino a proporne l’abbandono al loro destino poiché le altre regioni non erano in grado di sopportare l’onere della loro emancipazione.

“L’unità d’Italia è stata purtroppo la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico sano e profittevole. L’ unità ci ha perduti.  E come se questo non bastasse, è provato, contrariamente all’opinione di tutti, che lo stato italiano profonde i suoi benefici finanziari nelle province settentrionali in misura ben maggiore che in quelle meridionali – GIUSTINO FORTUNATO –

Come storico  il nostro Giustino Fortunato era comunque anche molto critico nei confronti del Regno delle due Sicilie , del quale criticava la politica di spesa, rivolta soprattutto alle forze armate, mentre si spendeva molto meno per tutti gli altri servizi pubblici,

Dopo che Ferdinando fece infatti ritorno a Napoli dopo il suo esilio forzato decennale in Sicilia , egli terrorizzatodalla rivoluzione del 48 incominciò ad adottare  una politica assolutamente tiranna ed inacettabile e proprio quando nel resto dell’Europa prendevano piede ed il sopravvento  le idee liberali.

L’angoscia  di perdere di nuovo il suo regno e la paura di ritrovarsi di nuovo nelle stesse condizioni di dover fuggire per non essere ucciso come accaduto con il precedente arrivo delle truppe francesi giacobine , portò  lo stato borbonico  ad investire i soldi che in cassa provenivano dalle imposte percepite dai suoi sudditi , maggiormente e principalmete per rafforzare il suo esercito militare . Di conseguenza  le maggiori  spese del bilancio statale borbonico,  erano assorbite principalmente dalle forze armate ( esercito, marina,  polizia,)  mentre settori come istruzione, sanità, e opere pubbliche ricevevano pochissimi fondi .

Questa politica oscurantista , portò le condizioni del popolo , seppure in maggior parte quasi tutto schierato in favore della monarchia ,  certamente portò ad un peggioramento delle condizioni di vita dell’intera popolazione del regno. L’alimentazione dei più poveri escludeva infatti carne e pesce , e  la maggior parte delle persone del popolino erano analfabete  ( l’analfabetismo nel Sud colpiva l’87% della popolazione; a dispetto di quella nel Nord che era del  54%.)  , e solo il 18% dei bambini contro  Il 90% dei bambini del Nord andava alla scuola primaria .

La spesa pubblica  destinava quindi il grosso del bilancio alle forze armate, che avevano come fine principale tutelare le loro persone e quelle dei loro fedeli, le loro proprietà ed i loro privilegiI  ( alla Real casa, ossia a sé stesso, alla sua famiglia, ai parenti, agli amici,ed ai suoi piu stretti collaboratori ,era assegnata una cifra che superava largamente quella spesa per le opere pubbliche e le necessità sociali della popolazione dell’intero regno ) . Come tutte le monarchie , anche quella borbonica era costituita  quindi come potete osservare da un  gruppo  di pochi governanti  che spesso si  mostrava essere  noncurante  della vita quotidiana della grande  massa di poveri o poverissimi, e  prelevava a proprio uso dal bilancio pubblico somme superiori a quelle spese per milioni di sudditi. 

Con l’Unificazione d’Italia  le cose comunque non migliorano di certo e le imposte questa  volta vennero sopratutto inidirizzate  all’assestamento del deficitario bilancio del nuovo Stato che si trascinava dietro il debito pubblico più elevato d’Europa,. Il Piemonte volto  infatti in quel periodo ad una politica espansionistica di annessioni incominciò ad accumulare  molti  debiti legati sopratutto ai necessari  investimenti infrastrutturali,. Essi ad un certo punto poichè  aumentarono vertiginosamente finirono ovviamente per  abbattersi sopratutto sul contribuente meridionale che si ritrovò improvvisamente oneri fino ad allora sconosciuti

Per reperire infatti maggiori risorse volte a riequilibrare il bilancio , venne adottata,   trascurando  le eventuali ripercussioni sociali , una severa ed impopolare stretta fiscale con l’imposizione di pesanti tributi , tra cui la più odiosa fu la tassa sul macinato  che, malgrado gli scarsi vantaggi apportati all’erario e le rivolte popolari causate per l’aumento del prezzo del pane, venne comunque conservata .

Il nuovo sistema fiscale quindi certo non migliorò e  le cose non andarone bene neanche con le industire autarchiche  come quelle siderurgiche  dell’Ansaldo  ed i cotonifici di Salerno  che sotto il regno borbonico godevano di un protezionismo industriale  fatto di rigide barriere doganali volte a favorire l’industria locale.  Essi furono presto soppiantate da quelle liguri e lombarde che producevano a minor costo ed avevano certamente a loro favore una migliore e piu organizzata rete di trasporto.che venne sempre più ampliata e meglio organizzata grazie ai nuovi introiti economici provenienti dalle casse borboniche. L’unificazione della nazione , realizzata all’insegna del centralismo, evidenziò maggiormente le diverse entità economiche che vedeva le regioni del Nord proiettate in un processo di modernizzazione volto a sviluppare il settore industriale attraverso la meccanizzazione dei processi produttivi ed investimenti nel settore delle infrastrutture (ferrovie, strade, canali).  Tutto questo fu possibile grazie alle nuove entrate economiche della ricche casse borbonico che all’epoca era la terza potenza economica europea , che rappresentò una vera e propia boccata di ossigeno per le magre finanze sabaude  che pur di adeguare le sue infrastrutture a più moderni sistemi di produzione, avevano portato ad un grosso debito pubblico  .

“Il Regno delle Due Sicilie aveva due volte più monete di tutti gli altri Stati della Penisola messi insieme –FRANCESCO SAVERIO NITTI – ”

L’agricoltura padana , grazie a questo indebitamento si era inoltre comunque giovata di nuove attrazzature e più moderni sistemi produttivi che portarono  nel tempo ad una  più evoluta gestione delle  aziende capaci di integrare le coltivazioni con allevamenti di bestiame e caseifici.  Nelle regioni meridionali invece  permaneva una diversa e più  equilibrata agricoltura che  si affidava a metodi tradizionali, corretti con procedimenti di coltivazione aggiornati ma sobri, e produceva  solo quanto necessario. Il settore agricolo nel sud , ad eccezione di pochi esempi , non viveva di moderni processi produttivi ma principalmente di un processo produttivo basato su una manodopera pricipalmente familiare in cui il figlio maschio rapprentava una enorme risorsa produttiva .

Le campagne senza più braccia giovani e forti , tutte destinate ad un lungo servizio obbligatorio di leva e senza moderni strumenti vennero progressivamente abbandonate dando luogo ad un primo grosso esodo immigratorio delle popolazioni del Mezzogiorno verso altri paesi esteri. In queste regioni in quel periodo si verificò un esodo di tale portata che la popolazione locale diminuì in valori assoluti mentre l’economia toccò bassi livelli mai visti prima di cui ancora oggi si sentono gli effetti.

Il sistema agricolo meridionale  appariva quindi sostanzialmente più debole ed  arretrato di fronte a quella del nord e  come sempre avviene in questi casi , l’unificazione con una diversa economia molto più accentrata in un solo luogo diede vita ad una diseguagliata fase di sviluppo che in poco tempo  distrusse la sua produzione primitiva che non dimentichiamo era comunque , sopratutto per quanto riguarda la produzione dei prodotti bufalini , dalla metà del 1700 fino all’unità d’Italia,  uno dei primi esempi di industria casearia d’Europa, ed era in continua crescita .

Molti di questi I prodotti erano ignoti al resto d’Italia e tanta era l’ignoranza riguardo i prodotti di bufala nel resto d’Italia che riguardo il caciocavallo: “Il Gorani (Giuseppe Gorani, conte e scrittore Milanese, del 1740), alle favole del suo viaggio alle corti meridionali, associa errori ridicoli. Egli  dice che tal formaggio si fa dal latte di cavalla

Con l’unità d’Italia ormai avvenuta, il quadro cambiò notevolmente giacchè il numero dei capi fu ridotto a poco più di un terzo come conseguenza diretta ed immediata delle bonifiche che interessarono le piane intorno al Volturno, recuperando terre all’agricoltura, ma riducendo drasticamente quelle idonee all’habitat bufalino. Dal 1861 al 1871, come tutta l’industria meridionale dell’epoca, anche la produzione della mozzarella di bufala si fermò e molte pagliare vennero dismesse, ed abbandonate. In questo modo , Carditello, la Campania e l’Italia persero purtroppo uno dei primi esempi in Europa d’industrializzazione casearia, e la produzione ebbe un lento declino fino agli anni 50 e 60 del novecento, che portò l’industria bufalina quasi a scomparire.

Da quel momento , a parte alcune e limitate zone privilegiate coltivate ad agrumi, in agricoltura si evidenziarono quindi ancora di piu i contrasti tipici del sottosviluppo dove, accanto ad immensi latifondi prevalentemente sterili in cui l’agricoltura era incredibilmente misera, esisteva una piccola proprietà sminuzzata in inadeguati appezzamenti che utilizzavano solo concimi naturali, mezzi rudimentali (aratro a chiodo) e, non applicando la rotazione agraria, ottenevano raccolti insufficienti anche nelle annate normali.  Il contadino , ad eccezione di alcune zone come per esempio San Leucio , possedeva  una moneta e vendevano  animali , corrispondeva  esattamente gli affitti e  con poco alimentava la famiglia,  e tutti, in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato materiale.   Se  a tutto questo aggiungiamo poi il fenomeno dell’ immigrazione  delle popolazioni del Mezzogiorno  verso altri paesi esteri. e l’obbligo prolungato di leva militare a cui dovevano sottostare tutti i giovani , fate un po voi i calcoli ….

Quella famosa unificazione d’Italia che nelle promesse iniziali doveva migliorare le condizioni del popolo meridionale , non diede quindi luogo a nessun beneficio all’intero  territorio meridionale ma diede solo avvio ad una lunga serie di malcontenti che si estesero e coinvolsero in maniera diretta o indiretta larghe fasce di popolazione . Ad alimentere una protesta sociale poi sfociata nel famoso brigantaggio furono sopratutto la mancata risoluzione dei vincoli che opprimevano un’agricoltura involuta ed improduttiva e sopratutto  l’introduzione di un servizio di leva obboligatorio di ben cinque anni ( poi divenuti sette ) che sottraeva giovani braccia all’agricoltura familiare .

Le terre , in assenza di forze di lavoro , furono quasi tutte abbandonate . I contadini  sottratti della forza produttiva dei propri figli che o partivano per la leva obbligatoria o si davano per sfuggire ad essa al ” brigantaggio ” , in assenza di nuovi sistemo agricoli di produzione , furono quasi tutti costretti ad emigrare .all’estero .

“Caro Presidente, ti salutano qui ottomila moliternesi: tremila sono emigrati in America; gli altri cinquemila si accingono a farlo – Lettera del sindaco di Moliterno (PZ) al primo ministro Giuseppe Zanardelli 1901 .

Il nuovo stato , in una guerra ad oltranza durata  quasi un decennio, combatté contro il brigantaggio con l’impiego di un esercito smisurato ed atrocità che coinvolsero indiscriminatamente comunità inermi, e marcarono così una profonda rottura tra le popolazioni meridionali ed il nuovo Stato, verso cui si manifestò una avversione maggiore di quella contro il precedente regime borbonico .

Elenchiamo a tal proposito  quanto scritto negli anni a seguire da qualcuno che ha voluto poi leggere la storia senza alcuna benda sugli occhi ed in maniera obiettiva :

“Gli scrittori italianissimi inventarono dunque i briganti, come avevano inventato i tiranni; ed oltraggiarono, con le loro menzogne, un popolo intero sollevato per la sua indipendenza, come avevano oltraggiato principi, re ed anche regine colle loro rozze e odiose calunnie. Inventarono la felicità di un popolo disceso all’ultimo gradino della miseria, come avevano inventato la sua servitù al tempo de’ sui legittimi sovrani. – HERCULE DE SAUCLIERES, 1863 – ”

“Il governo piemontese che si vede presto costretto ad abbandonare il suolo napoletano, si vendica mettendo tutto a ferro e fuoco. Raccolti incendiati, provvigioni annientate, case demolite, mandrie sgozzate in massa. I piemontesi adoperano tutti i mezzi più orribili per togliere ogni risorsa al nemico, e finalmente arrivarono le fucilazioni! Si fucilarono senza distinzione i pacifici abitatori delle campagne, le donne e fino i fanciulli. – L’ OSSERVATORE ROMANO, 1863 – ”

“In un solo mese nella provincia di Girgenti, le presenze dei detenuti nelle prigioni furono 32000. Non si turbino! Ho qui il certificato, la nota è officialissima, 32.000 presenze in carcere, solo nei trenta giorni del mese. Ed ora, codeste essendo le cifre, io domando all’onorevole ministro dell’Interno: ne avete ancora da arrestare? – FRANCESCO CRISPI – ”

“Potete chiamarli briganti ma combattono sotto la loro bandiera nazionale. Potete chiamarli briganti ma i padri di quei briganti hanno riportato due volte i Borboni sul trono di Napoli. E’ possibile, come il mal governo vuol far credere, che 1500 uomini comandati da due o tre vagabondi tengano testa ad un esercito regolare di 120 mila uomini? Ho visto una città di 5 mila abitanti completamente rasa al suolo e non dai briganti. – GIUSEPPE FERRARI -”

“La guerra contro il brigantaggio, insorto contro lo Stato unitario, costò più morti di tutti quelli del Risorgimento. Abbiamo sempre vissuto si dei falsi: il falso del Risorgimento che assomiglia ben poco a quello che ci fanno studiare a scuola – INDRO MONTANELLI –

“Non parliamo delle dimostrazioni brutali contro i giornali; non parliamo dell’esilio inflitto per via economica; non parliamo delle fucilazioni operate qua e là per isbaglio dalle autorità militari; ma degli arresti arbitrari di tanti miseri accatastati nelle prigioni senza essere mai interrogati. – IL NOMADE, giornale liberale 12 settembre 1861”

“Sorsero bande armate, che fan la guerra per la causa della legittimità; guerra di buon diritto perché si fa contro un oppressore che viene gratuitamente a metterci una catena di servaggio. I piemontesi incendiarono non una, non cento case, ma interi paesi, lasciando migliaia di famiglie nell’orrore e nella desolazione; fucilarono impunemente chiunque venne nelle loro mani, non risparmiando vecchi e fanciulli – GIACINTO DE SIVO – ”

“Aborre invero e rifugge l’animo per dolore e trepida nel rammentare più paesi del regno napoletano incendiati e rasi al suolo, e quasi innumerevoli integerrimi sacerdoti e religiosi e cittadini di ogni età, sesso e condizione, e gli stessi malati indegnissimamente ingiuriati, e poi eziando senza processo, o gettati nelle carceri o crudelissimamente uccisi. – PAPA PIO IX, 30 settembre 1861 – ”

“Posso assicurare alla Camera che specialmente in alcune province, quasi non vi è famiglia, la quale non tremi dell’onnipotenza dell’autorità di polizia, dei suoi errori ed abusi. Sotto la fallace apparenza della persecuzione del brigantaggio si vuole avere in mano la facoltà di arrestare o mandare al domicilio coatto ogni specie di persone al Governo sospette. – PASQUALE STANISLAO MANCINI, intervento alla Camera, 1864 – ”

“L’Italia, dove per sostenere quanto gli usurpatori hanno denominato ‘liberalismo’, si stanno barbicando dalla radice tutti i diritti, manomettendo quanto vi ha di più santo e sacro sulla terra. Italia, dove sono devastati i campi, incenerite le città, fucilati a centinaia i difensori della loro indipendenza – NOCEDAL deputato spagnolo, 1863 – ”

“Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti – ANTONIO GRAMSCI -”

“I Borboni non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno – NAPOLEONE III (lettera a Vittorio Emanuele II, 1861 ) ”

“Non vi può essere storia più iniqua di quella dei piemontesi nell’occupazione dell’Italia Meridionale. In quel luogo di pace, di prosperità, di contento generale che si erano promessi e proclamati come conseguenza certa dell’unità d’Italia, non si ha altro di effettivo che la stampa imbavagliata, le prigioni ripiene, le nazionalità schiacciate ed una sognata unione che in realtà è uno scherno, una burla, un impostura – MCGUIRE deputato scozzese, 1863 –

”“Pare non bastino sessanta battaglioni per tenere il Regno. Ma, si diranno, e il suffraggio universale? Io non so niente di suffraggio, so che al di qua del Tronto non ci vogliono sessanta battaglioni e di là si. Si deve dunque aver commesso qualche errore; si deve quindi o cambiar principi o cambiar atti e trovar modo di sapere dai napoletani, una buona volta, se ci vogliono si o no. Agli italiani che, rimanendo italiani, non vogliono unirsi a noi, non abbiamo diritto di dare archibugiate – MASSIMO D’AZELIO – ”

“Quelli che hanno chiamato i piemontesi e che hanno consegnato loro il Regno delle Due Sicilie sono un’impercettibile minoranza. I sintomi della reazione si vedono ovunque – JORNAL DE DEBATS, novembre 1860 – ”

Lo stesso Garibaldi che rimase nella nostra città solo per pochi mesi , in una sua lettera  scritta ad Adelaide Cairoli nel 1868 scrisse : ” Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio.”  La lettera è firmata da Giuseppe Garibaldi

Questa invece è firmata Lord Lennox : .“Sento il debito di protestare contro questo sistema. Ciò che è chiamata unità italiana deve principalmente la sua esistenza alla protezione e all’aiuto morale dell’Inghilterra, deve più a questa che a Garibaldi, che non agli eserciti stessi vittoriosi della Francia, e però, in nome dell’Inghilterra, denuncio tali barbarie atrocità, e protesto contro l’egidia della libera Inghilterra così prostituita – LORD LENNOX, parlamentare inglese, 1863 – ”

A tutto questo per la verità bisogna anche comunque riconoscere che la maggior parte del popolo nella nostra  città ,sopratutto nell’ultima fase del regno  borbonico , viveva  in condizioni veramente disagiate . Essa   è vero che era meta di viaggi di gentiluomini ed intellettuali attirati dal ricchissimo patrimonio artistico e dall’alto livello culturale del paese, ma è altrettanto vero che molti degli innumerevoli viaggiatori che giunsero nella Napoli settecentesca riportarono testimonianze abbastanza concordi sul contrasto fra la bellezza dei palazzi e delle chiese da una parte, la moltitudine di miserabili,  e  lazzaroni, dall’altra. Non possiamo quindi non ricordare che  quasi tutti    gli stranieri che scendevano a Napoli nel loro tour de l’Italie erano colpiti negativamente dalla quantità di poverissimi che abitavano nella nostra grande capitale.  Le condizioni igieniche in cui viveva molta gente povera  erano infatti  assolutamente  disastrose.  La  plebe si ammassava in fondaci e bassi quasi tutti sprovvisti di acqua e luce . Le stette strade ed i vicoli , nel loro continuo rivolo di acqua sporca , oltre che contenere l’acqua piovana , spesso conteneva anche i resti dei miseri pasti , la lisciva del bucato ed anche a volte i propri residui organici . Gli effuluvi dei bassi erano della peggiore specie ,ed  i rifuiti si accumulavano negli angoli  per giorni e giorni , ma certamente tutto questo non è certamente  poi cambiato  quando il regno divenne parte di quell’unità d’Italia tanto propugnata da Mazzini ,Gioberti ed il furbo Cavour.

Ecco a questo proposito quanto a noi pervenuto e scritto da FRANCESCO PROTO CARAFA, Duca di Maddaloni: 

Intere famiglie veggonsi accattar l’elemosina; diminuito, anzi annullato il commercio; serrati i privati opifici. E frattanto tutto si fa venir dal Piemonte, persino le cassette della posta, la carta per gli uffici e le pubbliche amministrazioni. Non vi ha faccenda nella quale un onest’ uomo possa buscarsi alcun ducato che non si chiami un piemontese a sbrigarla. Ai mercanti del Piemonte si danno le forniture più lucrose: burocrati del Piemonte occupano tutti i pubblici uffizi, gente spesso ben più corrotta degli antichi burocrati napoletani. Anche a fabricar le ferrovie si mandano operai piemontesi i quali oltraggiosamente pagansi il doppio dei napoletani. A facchin della dogana, a camerieri a birri, vengono uomini del Piemonte. Questa è invasione non unione, non annessione! Questo è voler sfruttare la nostra terra di conquista. Il governo di Piemonte vuole trattare le province meridionali come il Cortez ed il Pizzarro facevano nel Perù e nel Messico, come gli inglesi nel regno del Bengala. –FRANCESCO PROTO CARAFA, Duca di Maddaloni .

Il fenomeno dell’emigrazione verso l’estero dalle campagne nel 1879 venne  definito da Fortunato come «una piaga misteriosa,  un fenomeno di oscura malattia sociale, ed un enigma pauroso del nostro avvenire ma progressivamente in un riflessione certamente più ottimistica il fenomeno apparve a lui assumere  una luce diversa .

Per l’ottimista Giustino il fenomeno divenne in alcuni suoi scritti un elemento incalcolabile di civiltà e benessere per il nostro paese dal momento che allentò la pressione demografica nelle campagne e contribuì  all’incremento della disponibilità di capitali tramite le rimesse degli emigranti. L’emigrazione, in definitiva, ha salvato l’Italia da «altri mali infinitamente più gravi» , vale a dire dal brigantaggio, dalla povertà e dalla miseria più estrema, e ha contribuito alla riduzione della tensione sociale, misurabile tramite la diminuzione del numero di omicidi e del ribellismo nelle campagne. Fortunato, con un insolito eccesso di ottimismo, arriva a sostenere che grazie all’emigrazione è stata «debellata l’usura» nelle province meridionali.

Una versione certamente molto edulcorata del fenomeno che non tiene certamente conto di quanto poi accaduto in seguito all’accentramento amministrativo del regno che escludeva il meridione, dalla vendita all’asta dei beni demaniali ed ecclesiastici che acquistati da nuovi ricchi creo’ nuovi padroni più avari e tirannici dei nobili precedenti,,

Le  forti imposizioni fiscali, e l’obbligo della ferma di leva militare per 7 anni che sottraeva le braccia dei figli al lavoro della terra ai contadini, nonchè  il regime violento esercitato da carabinieri furono certamente gli elementi scatenanti diella immigrazione di massa che in quel periodo caratterizzò il sud.

La legge che più di tutte  fece insorgere le masse fu l’obbligo della leva militare nell’esercito sabaudo per lunghi sette anni. In una terra di contadini in cui i figli erano tutto sottrarre questi figli significava spesso abbandonare le campagne. Tanti ragazzi si rifiuteranno  e per questo verranno trattati da ” briganti “. E molti in una sorta di vera e propria reazione popolare al nuovo governo, vista l’occasione briganti lo diverranno davvero.

Si calcola che le bande dei briganti arrivarono ad essere più di 350 che trovavano sempre più nuovi adepti nel grosso serbatoio delle masse contadine.


I briganti venivano visti come una sorta di moderno Robin Hood, una sorta di eroici paladini contro i soprusi dei ricchi e nuovi padroni, protetti ed armati talvolta dalla stessa chiesa inizialmente contraria al primo parlamento italiano sopratutto per le numerose espropriazioni di beni che dovette cedere.

Il re borbonico Francesco appoggiato almeno inizialmente dalla chiesa tentò di reclutare interi settori di popolazioni disposti a portare avanti l’insurrezione tramite lo spagnolo Borjes che per mesi girò l’intero meridione.
Alle azioni talvolta anche violente delle numerose bande di Crocco, Ninco Nanco, Tortora, Schiavone, il nuovo governo rispose con una energica, feroce e sanguinosa azione di repressione guidata dal generale Cialdini che durò fino al 1865 e vide la soppressione per fucilazione o per combattimento di migliaia di ” cosiddetti Briganti ” .


CURIOSITA’: Cialdini è stato uno degli uomini più cattivi, violenti e fetenti che la nostra storia ricordi  poiché fu autore di diverse stragi di popolazioni del Sud durante l’invasione e la conquista del Regno delle Due Sicilie. Egli è responsabile del massacro di Pontelandolfo e Casalduni, così come del bombardamento di Gaeta nonostante la roccaforte si fosse già arresa, provocando morti inutili e incredibilmente crudeli.


Ad un certo punto era  chiamato ” brigante ”  qualsiasi persona che non condivideva la politica piemontese o era dissenziente dalle loro idee o dalle loro leggi. Era brigante anche chi  solamente rifiutava di passare nell’esercito dei Savoia o che solamente mostrava fedeltà alla vecchia monarchia.

I piemontesi con sempre maggiore forza incominciarono ad imporre il loro modo di fare con il potere e la violenza  dei fucili. I meridionali piuttosto che sottostare ai nuovi padroni preferirono darsi alla macchia e agli stenti e ai sacrifici che essa comportava.
Ad un certo punto i comuni di Pontelandolfo, Casalduni e Campolattaro si ribellarono ed  abbatterono le insegne savoiarde issando  nuovamente le bandiere borboniche. Il generale piemontese Cialdini, da Napoli, diede ordini precisi di stroncare col sangue qualsiasi accenno o fermento di ribellione. I paesi furono completamente distrutti e saccheggiati. Si diede fuoco a tutte le case e operato un vero massacro a danno dei locali. I piemontesi spararono contro vecchi, donne e bambini, sorpresi nel sonno. I paesi divennero un immenso rogo. Uccisioni, stupri, fucilate, grida, urla e saccheggio si susseguirono per un’intera giornata e alla fine i morti che si potevano contare erano a migliaia.

“Entrammo nel paese, subito abbiamo incominciato a fucilare i preti e gli uomini, quanti capitava, indi il soldato saccheggiava ed infine abbiamo dato l’incendio al paese abitato da circa 4500 abitanti . quale desolazione, non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti e chi sotto le rovine delle case – CARLO MARGOLFO, bersagliere entrato a Pontelandoflo, 1861 -”

Giustino Fortunato, da grande meridionalista e perfetto conoscitore storico,  si prodigò  molto da uomo politico , per mettere in evidenza l’aspro problema del Mezzogiorno nel giovane nuovo governo seguito all’Unione d’Italia .

Egli nel nuovo appena formato nuovo governo , fu uno degli uomini dall’ingegno più alto, dalla cultura più vasta e dall’anima più pura e più nobile che abbia avuto l’Italia dopo l’Unità. In quel periodo e nella sua intera vita  s’impose all’ammirazione di tutta la Nazione e godette l’altissima stima persino di Benedetto Croce, di Giovanni Gentile e di Francesco Torraca.

Di sentimenti politici moderati e conservativamente riformatori, Fortunato fu molto vicino agli intellettuali napoletani sia di destra che di sinostra . Il suo conservatorismo non erainfatti  grettamente chiuso nella difesa dei più retrogradi rapporti sociali, ma si apriva ad una visione riformistica che non intendeva negare, bensì superare la “questione sociale”. Egli si battè fortemente affinche  il nuovo stato emergente fondasse il suo consenso non con un ruolo repressivo ma con  un più ampio consenso delle masse essenzialmente contadine.

Giustino, auspicava sopratutto ad una riforma  istituzionale che riguardasse il mondo agricolo che secondo il suo pensiero necessitava da parte delle classi dirigenti del paese, di una nuova  moderna capacità produttica . Solo essa poteva infatti nelle campagne  garantire la civilizzazione delle masse contadine, e offrire un solido retroterra a qualunque ipotesi di sviluppo.

Egli da questo punto di vista  fu il politico che parlò per la prima volta alla Camera  a favore dei contadini del Mezzogiorno e sulla questione demaniale.

La classe contadina del Sud per Giustino, era un nodo cruciale da sciogliere. La riforma agraria un fattore fondamentale da risolvere e la  questione demaniale secondo Fortunato, nei decenni successivi all’Unità, aveva ormai perso la connotazione di un problema strettamente economico. Restavano infatti ancora aperti degli strascichi che derivavano dalla mancata assegnazione delle terre demaniali .

Giustino Fortunato con il fratello Ernesto, vissero in maniera pratica il problema dell’agricoltura nel meridione . Entrambi seppero  costruire un’azienda agricola, che si mostrò essere  un modello di virtuosismo, lungimiranza ed umanità. Egli era infatti convinto che solo una moderna capacità produttiva dell’agricoltura potesse trarre il Sud fuori dalla spirale di abbrutimento sui era avviluppata da secoli

L’essere soggetto attivo sul campo, lo pose nella condizione avvantaggiata di poter intendere i problemi del Sud. Viaggiò per questo molto, nelle terre meridionali, e seppe dare un quadro in parlamento, grazie a questa esperienza attiva che lo vedeva parte in causa.

N.B. Con la sua azienda, fu il primo barone meridionale a comprare a sue spese ed a distribuire il chinino.  Inoltre si batté per un’azione di profilassi, onde prevenire un problema atavico.

Percorrendo la terra meridionale egli ebbe modo di rendersi conto di quanto fosse grave il problema agricolo al sud  per il mancato ammodernamento delle strutture  e le condizioni disagiate in cui versavano i contadini . Il malcontento che caratterizzava gli agricoltori ,e lele giuste recriminazioni che essi sostenevano con vigore , poteva sfociare in sommovimenti molto pericolosi e per questo era necessaria l’opera riformatrice.

Egli fu infatti il primo politico nel  periodo post unitario, a portare in parlamento la questione meridionale che per molti era un  mondo sconosciuto . In quegli anni infatti  in  parlamento l’asse centrale risiedeva soprattto  intorno agli interessi Sabaudi e la nuova fusione delle due Italie, quella del Sud e quella del Nord, poco si faceva carico dei problemi che viaggiavano a diverse velocità.Fortunato era un patriottico ed in parlamento e nella sua carriera di studioso, si batté per costruire una classe dirigente che capisse a fondo i problemi, per poi rendersi autrice di un autentico riformismo. Non importa se di destra o di sinistra. Egli diede alla camera ed al parlamento i temi su cui lavorare, anche se inficiati dalla sua visione pessimistica sul buon fine dell’Unità. Da studioso raffinato , fece intendere ai suoi colleghi parlamentari quanto le condizioni  del Sud erano  considerate con superficialità  e come tale cosa faceva da elemento ostativo allo stesso  sviluppo del meridione.

Se nel giovane parlamento italiano si parlò per la prima volta di “questione meridionale” lo si deve a lui. E quindi alla sua opera di divulgatore e di storico che, con un grande potere narrativo, sapeva coniugare grandi questioni teoriche a piccole questioni pratiche.

L’unità politica del Paese era per Fortunato un processo irreversibile ma doveva essere portato a compimento tramite la rimozione di tutti i fattori di arretratezza e fondando l’unità generale non sulla forza degli interessi costituiti nelle due Italie ma promuovendo, con una politica riequilibratrice, le forze più aperte della produzione e della cultura .

Lo scritto in cui Fortunato espone in modo sistematico la propria visione sulla politica economica necessaria per superare i problemi derivanti al Mezzogiorno dalla politica commerciale e fiscale dei governi postunitari è La questione meridionale e la riforma tributaria del 1904.

Il saggio si apre riaffermando la necessità di chiarire in quali termini esiste una questione meridionale. Per il nostro Giustino Fortunato , c’era tra il Nord e il Sud della penisola una sproporzione nel campo delle attività umane, nella intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione, e, quindi anche una profonda diversità fra le consuetudini, le tradizioni,ed  il mondo intellettuale e morale ( La questione meridionale e la riforma tributaria, 1904).

Le cause di questa situazione sono allo stesso tempo di matrice storica, per via dei diversi assetti istituzionali e amministrativi fra Nord e Sud a partire dal Medioevo, e geografica, di povertà e dissesto del territorio. Questi due ordini di fattori si intrecciano e si rafforzano nel tempo e non è pensabile per Fortunato risolvere un problema così complesso tramite l’intervento straordinario.  Per Fortunato l’ indirizzo più equilibrato sarebbe stato quello di riformare il sistema tributario e la politica doganale protezionistica .

Nel primo caso Fortunato propose  una riduzione delle imposte allo scopo di far aumentare i capitali disponibili per l’investimento, nella speranza di risollevare l’agricoltura, unica fonte di reddito derivato dalla produzione nel Mezzogiorno, e risolvere il problema della povertà che non dipendeva secondo lui  da un problema di distribuzione della ricchezza ma dal livello molto basso della produttività. Occorreva in sostanza correggere la sperequazione tributaria che si era stabilita dopo l’unificazione. Fortunatoa tal proposito era solito  citare i lavori di Nitti, Maffeo Pantaleoni e Luigi Bodio per dimostrare che i cespiti del bilancio dello Stato non erano stati decisi secondo un piano preordinato ma sotto la spinta di situazioni contingenti. Il risultato era una pressione fiscale, rispetto alla ricchezza prodotta, proporzionalmente maggiore nel Mezzogiorno.

Nel citare l’indagine di Nitti, Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-1897, opera poi ridotta e pubblicata nel 1900 con il titolo Nord e Sud, Fortunato però non aderisce alla tesi centrale del lavoro secondo cui il Mezzogiorno all’unificazione aveva già avviato il processo di modernizzazione verso un’economia capitalistica e che l’Unità, e l’unificazione del bilancio dello Stato, avevano interrotto questo processo. A tale proposito sostiene che il Mezzogiorno all’unificazione non aveva queste caratteristiche ma, al contrario, «viveva di un’economia primitiva, in cui quasi non esisteva la divisione del lavoro, e gli scambi erano ridotti al minimo» , la maggior parte della produzione serviva per l’autoconsumo e non esisteva una vera e propria economia di mercato. Quest’arretratezza non era stata però sconfitta dalle politiche postunitarie che, soprattutto tramite la pressione fiscale, impedivano l’avviarsi di un processo autonomo di cambiamento.

Il secondo provvedimento considerato necessario per rimuovere l’arretratezza riguarda la revisione della politica di conduzione protezionistica dell’economia italiana che, a partire dal 1887, aveva prodotto due effetti negativi sull’economia meridionale: l’aumento dei prezzi dei beni precedentemente importati e quindi un peggioramento delle condizioni di vita per le fasce più povere e le difficoltà di esportazione sui mercati europei dei prodotti dell’agricoltura meridionale, a causa della battaglia commerciale con la Francia innescata dalla tariffa protezionistica . Fortunato era  contrario al protezionismo,e  in Parlamento votò contro la tariffa del 1887 anche se era comunque  consapevole di andare contro gli interessi dei grandi proprietari terrieri che traevano  vantaggio dall’aumento del prezzo dei cereali e dall’incremento degli affitti dei terreni. L’orientamento protezionista però non tenendo  conto degli effetti sulla capacità di consumo delle «classi lavoratrici», poteva essere vantaggioso per le entrate dello Stato ma nuocere allo sviluppo naturale della produzione e del consumo, essendo matematicamente provato, che la protezione non crea capitale, ma semplicemente li sposta .

Fortunato criticanei suoi scritti  anche gli effetti della politica protezionistica sul versante della produzione industriale. L’industrializzazione che è stata realizzata ha generato scompensi sociali e di ordine pubblico dovuti agli «spostamenti artificiali nelle masse proletarie». Questa politica ha prodotto il paradosso per lo Stato che, da un lato, si deve difendere dal movimento operario e, dall’altro, si trova a perpetuare  uno stato innaturale di cose, secondo cui il pane degli operai di una regione sia pagato con la fame dei contadini del resto d’Italia .

La politica di industrializzazione per il Nord del Paese e le politiche di intervento speciale nel Mezzogiorno del periodo giolittiano, che Fortunato con disprezzo definì come «la politica pitocca del tozzo di pane»  secodo Fortunato portarono solo ad   una distorsione nella vita economica del Paese ed  esonerato lo Stato da una politica organica di riforma tributaria che doveva negli intenti iniziali   ristabilire  l’equità nei rapporti con lo Stato fra Nord e Sud del paese.

Non bisogna mai dimenticare infatti parlando di industrializzazione del nuovo stato italiano venutosi a creare che precedentemente all’unione dell’Italia , le industrie  tessili e siderurgico, erano seppur concentrate per la maggior parte  a Salerno e nella provincia di Napoli erano tutte   comunque  attive ed economicamente salde .

A Pietrarsa  si costruivano caldaie a vapore per attrezzare locomotive e piroscafi che avevano potenziato la terza flotta mercantile (quella borbonica) più potente in Europa (dopo Inghilterra e Francia) per numero di navi e tonnellaggio.

Il   cantiere navale di Castellammare di Stabia con 1800 operai era il primo del Mediterraneo per grandezza e faceva invidia a parecchie regioni d’Europa (Nei due grandi cantieri arsenali- navali del golfo lavoravano 3400 operai su 6650 del ramo in tutta l’ Italia ), e non dobbiamo mai dimenticare che da  questo cantiere sono uscite numerose grandi navi compresa la Amerigo Vespucci, la quale ancora oggi desta stupore e meraviglia in tutto il mondo.

Sul vicino ponte della Maddalena, fondata da un inglese (notate quanti interessi avevano sul regno gli inglesi) era inoltre presente un opificio metalmeccanico chiamato Guppy con 600 operai; Si producevano macchine pneumatiche, strumenti ottici, utensili chirurgici, orologi e armi. Questo gruppo tra l’altro fornì il supporto per la prima illuminazione a gas della capitale.

Napoli era inoltre specializzata nella produzione di guanti, 500.000 dozzine di guanti l’anno contro le 100.000 del nord e noti come “con lavorazione d’Aragona” ( il nome ad uno dei più’ popolari quartieri di Napoli) erano reputati i migliori d’Europa.

La Macry ed Henry aveva 600 operai e produceva strutture metalliche per le navi militari e per gli ingranaggi.

La Real Fonderia ubicata in Castel Nuovo fabbricava cannoni, fornaci ed altri utensili di tipo industriale e presero ad operare 150 addetti di alta specializzazione. Era inoltre presente una scuola per carpentieri, fonditori, ottonai e macchinisti.

Nel cuore della montagna calabra, attorno a Serra San Bruno, sorgeva lo stabilimento di Mongiana e più tardi venne costruita Ferdinandea. Oggi Mongiana è un piccolo borgo con pochi abitanti e Ferdinandea è spopolata. Queste fonderie furono smantellate nel post-unità poichè situate in posti poco accessibili e lontano dal mare, cioè dalla maggiore via di trasporto dell’epoca. Ovviamente una volta smontate vennero riaperte al Nord. (Immaginatesolo per un momento  quanto è costato in termini occupazionale, sociale, territoriale, di sviluppo complessivo e di emigrazione massiccia). Quando venne proclamato il Regno d’Italia nel 1861 gli addetti alla ferriera di Mongiana erano 762 unita’ e si produceva ferro e ghisa di ottima qualità. Da Mongiana usci’ il ferro forgiato per produrre le catena che pesavano 180 tonnellate, per i due magnifici ponti sul Garigliano e sul Calore.
Sempre a Morgiana, accanto alla fabbrica, sorse anche una fabbrica di armi e altre ferriere sorsero a Bivonzi e Pazzano.

“Come ha potuto solo per un momento uno spirito fine come il tuo, credere che noi vogliamo che il Re di Napoli conceda la Costituzione. Quello che noi vogliamo e che faremo è impadronirsi dei suoi Stati – CAVOUR (all’ambasciatore Ruggero Gabaleone) – ”

“Napoli è da sette interi anni un paese invaso, i cui abitanti sono alla mercè dei loro padroni. L’immoralità dell’amministrazione ha distrutto tutto, la prosperità del passato, la ricchezza del presente e le risorse del futuro. Si è pagato la camorra come i plebisciti, le elezioni come i comitati e gli agenti rivoluzionari. – PIETRO CALA ULLOA – ”

Un altro tema ricorrente delle riflessioni,di Giustino Fortunato  di cui si occupò sin dal 1874, riguardò la questione bancaria, in generale, e il finanziamento dell’agricoltura e delle attività produttive tramite la creazione delle banche di credito popolare.

N.B. Fortunato commenta la creazione di una banca di credito a Rionero, mettendo in evidenza gli aspetti positivi di questa forma societaria che permette di contrastare il fenomeno dell’usura e di attivare la produzione nei luoghi più remoti della nazione (Le cooperative di credito nel Mezzogiorno.

Il nodo centrale riguardava  la formazione del capitale perché nel Mezzogiorno  l’assoluta mancanza di capitali er auna sorte comune a proprietari e proletari, borghesi e contadini, galantuomini e cafoni.   L’esperienza delle banche locali , negli anni Ottanta dell’Ottocento, si risolse in un generale fallimento anche per effetto della politica di emissione delle banche centrali che culminò con lo scandalo della Banca Romana.  Fortunato era contrario al progetto di riforma del sistema creditizio varato da Giovanni Giolitti nel 1893 e, in un discorso in Parlamento, si dichiarà favorevole alla creazione di un unico istituto di emissione .

Quello che preoccupava  Fortunato era il fatto che  , nonostante le riforme, il problema della disponibilità dei capitali per l’investimento agricolo, per trasformare l’agricoltura meridionale da estensiva a intensiva, rimase  in definitiva irrisolto. Nel Mezzogiorno poiche era   un problema di accumulazione di capitali, secondo Fortunato occorreva  «produrre di più, consumare meno, e risparmiare molto»

Gli obiettivi che le zone più arretrate del Paese dovrebbero perseguire sono sostanzialmente due: il tenue costo del denaro, che solo è capace di dare stimolo al lavoro, e l’investimento nelle imprese delle attività private, particolarmente dell’agricoltura

A causa  del suo carattere scettico, polemico e forse eccessivamente delicato, Giustino Fortunato rifiutò diversi incarichi ministeriali. Egli  ricoprì la mansione di segretario alla Presidenza della Camera dal 1886al 1897 e fu nominato senatore nel 1909  . Nello stesso anno dopo quasi un quarto di secolo di vita parlamentare, annunciò il suo congedo “con la coscienza di avere per ventinove anni consacrato al delicato ufficio quanto ebbe di intelletto e di volontà, e con l’orgoglio di lasciarlo moralmente sano e amministrativamente libero come nessuno altro in Italia.

La  sua salute non più sana non gli permise di essere assiduo alle sessioni del Senato , ma nonostante questo egli nel   1915 ,insieme ad altri  220 senatori approvarono la guerra . Egli era inizialmente  per la neutralità assoluta ma, in seguito alle parole di  Antonio Salandra  si convinse dell’intervento.

Gli ultimi anni furono tristi: dovette allontanarsi dal suo paese natio a causa dell’incomprensione dei concittadini e di alcuni incidenti che gli mostrarono l’ingratitudine del popolo, come ad esempio nel 1917  , quando venne accoltellato da un soldato in licenza a Rionero, che lo accusava di aver appoggiato la guerra . Suo fratello Ernesto, a cui era molto legato, morì nel 1921.

Fuori dalla Camera per risolvere i problema della malaria che falcidiava le terre del sud , costituì  la fondazione della Società per gli studi della  malaria  e ne fu presidente; dentro e fuori tanto fece affinché fosse votata la legge per la vendita del chinino, farmaco utile per la guarigione dalla malattia.

Nella sua casa nobiliare di marchese,a Napoli , ma spesso anche a Rionero in Vulture e Gaudiano ( frazione di Lavello )  riunì un cenacolo di pensatori meridionalisti, volti ad incidere in anni cruciali per la costruzione della nazione.I rinomati intellettuali ospiti erano personaggi come Bendetto Croce, Francesco Saverio Mercadante e Gaetano Salvemini.

Con l’instaurazione del regime fascista, Fortunato cercò di mantenere in vita il suo impegno meridionalista e, in clandestinità, cercò di divulgare i suoi pensieri antifascisti. In questo periodo, scrisse il saggio Nel regime fascista  che, onde evitare il pericolo della censura, fu stampato in poche copie e distribuito agli amici più intimi .Egli comprese infatti sin dal principio le gravi conseguenze che il fascismo avrebbe poi  portato. A tal proposito criticò molto le avventure coloniali del  Regno d’Italia .

CURIOSITA’: Nel 1930 , nella sua residenza napoletana invitò un giovane IndroMontanelli   , al tempo redattore di un piccolo quindicinale fiorentino, con cui tenne un discorso sulla questione meridionale. Montanelli lo definirà anni dopo «il più grande e illuminato studioso del Meridione»

Giustino Fortunato morì a Napoli il 23 luglio del 1932, lasciandoci in eredità un metodo e la sua opera infaticabile, senza la quale il Sud non sarebbe stato una “questione”, ma sospeso nel limbo delle tante pratiche da sbrigare, in una Italia affannata a costruirsi.

 

 

 

 

 

 

 

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