Correva l’anno in cui la rivoluzione francese e la decapitazione dei due sovrani, Luigi XVI e Maria Antonietta, gettò nel panico tutte le monarchie europee ed anche la corte Napoletana, che reagì infittendo i controlli di polizia e perseguitando pesantemente l’opposizione interna.
Il periodo certamente non era dei migliori e un pò dappertutto si respirava aria di repubblica.
La regina Maria Carolina che inizialmente aveva addirittura appoggiato la Massoneria di quei tempi, era non solo molto amareggiata per la morte della sorella morta gigliottinata dai moti rivoluzionari del 1793, ma fortemente impaurita di perdere anche lei la testa.
Carica di odio nei confronti dei rivoluzionari liberali francesi la regina a quel punto era oramai convinta che il regno fosse pieno di giacobini pronti alla rivolta . Organizzò quindi subito una fitta rete di spionaggio che operava nei luoghi pubblici e nell’intimità delle case le cui spie erano sacerdoti , magistratie d alcuni nobili ( fra cui primeggiò Fabrizio Ruffo principe di Castelcicala). Essi conferivano di notte con la regina ed il re nella reggia nella sala chiamata “sala oscura”..
N.B. Un ruolo primario in questa circostanza lo ebbe il clero che oramai libero dalle restrizioni anticlericali del Tanucci era divenuto grosso amico della casa reale.
Nelle chiese e nei confessionali fu messa quindi in atto una vera campagna anti-giacobina rivolta ai fedeli nell’intento di aizzare il popolo contro i francesi.
La regina, carica di odio e fortemente rancorosa nei confronti dei francesi e dei repubblicani mise in atto in tutto il regno una vera e propria campagna di odio nei confronti dei giacobini e delle loro idee liberali ed a farne le spese furono inizialmente sopratutto molti intellettuali dell’epoca come i Pagano, Cirillo, ed il Conforti che furono spiati e malvisti ( i libri del Filangieri furono addirittura banditi dal Regno).
CURIOSITA’: Per comprendere il suo odio nei confronti di tutto cio’ che era francese e repubblicano basti pensare che tra i quadri del suo palazzo di corte a Napoli vi era una rappresentazione della morte di Luigi XVI e di sua moglie con in basso aggiunta una scritta per mano della stessa regina che diceva : Giuro di perseguire la mia vendetta fino alla tomba.
CURIOSITA’: Eppure la stessa regina fino a poco tempo prima, era quella che maggiormente appoggiava e proteggeva nel regno gli spiriti “illuminati” del tempo . Far parte della massoneria all’epoca significava infatti in quei tempi, anche essere membro del top dell’elite culturale) e in citta’ a quei tempi nacquero molte dottrine illuministiche. Con la sua politica, la regina , promosse numerose riforme che favorivano i movimenti massonici di quei tempi ( tutti i più grandi studiosi dell’epoca ne erano membri .La Corte borbonica aveva infatti fino ad allora offerto ospitalità a molti diversi intellettuali e Napoli era seconda solo a Parigi per il fiorire degli studi filosofici, giuridici e scientifici (Della Porta, Giannone, Vico, Genovesi, Filangieri), La stessa regina creò l’unica Loggia Massonica femminile al mondo mai esistita, e la creò a Napoli, ricevendone immense lodi dalla Francia.
N,B. Ciò è una delle prove che dimostra la sua volontà di riforme per la parità uomo-donna.
Ricordiamo che aprì anche collegi femminili, cosa unica al tempo e sopratutto per suo volere nello statuto della nuova nascente colonia di San Leucio venne stabilità per legge la parita uomo-donna ed il diritto delle donne.
All’arrivo di Napoleone in Italia che fu visto dalla corte borbonica come il diavolo, la regina, di carattere duro e insensibile, molto simile a quello della mamma Imperatrice, era quindi pronta a scontrarsi con Napoleone.
La corte reale borbonica provvide quindi immediatamente a potenziare l’esercito e fortificare il territorio con forte aggravio per l’Erario. Furono arruolati per l’occasione tutti gli uomini atti alle armi garantendo a chiunque si arruolasse una decennio di franchigia fiscale e assicurata un’immunità da eventuali condanne in atto.
Nel frattempo Napoleone, dopo la vittoriosa campagna d’Italia, si apprestava ad occupare Roma (10 febbraio 1798) e giunto in città, all’insegna delle tanto sbandierate “Libertè, Egalitè, Fraternitè” , proclamò la Repubblica Romana.
Qualche giorno dopo (15 febbraio 1798 ,in seguito ad una una sommossa popolare antifrancese ad opera di circa 500 ribelli patriotti , incitati dal famoso scultore giacobino , Giuseppe Ceracchi ,le truppe pontificie furono assalite nel più vicino quartiere dei soldati, che era quello di Ponte Sisto.

Ai conseguenti disagi economici si scatenò nei giorni seguenti una insurrezione popolare in alcuni rioni, che fu subito domata con conseguente fucilazione degli insorti in piazza del Popolo e consegna delle armi da parte della popolazione.
I pesanti tributi rivolti alle terre ed ai contadini colpirono ovviamente anche le vicine cittadine aziali come per esempio quella di Frosinone , dove ii ciociari erano stufi delle ingenti tassa imposte dopo il costituirsi della Repubblica Romana.
Accadde quindi che il 26 luglio 1798 , l’intera popolazione insorse cacciando la guarnigione francese, ma putroppo essa fu subito repressache portò al massacro di moltissimi innocenti ed anche al danneggiamento di alcuni edifici sacri.
Un’intera armata capeggiata dal generale Girardon saccheggiò la città, portando via molti valori.
N.B. I francesi iconoclasti, prelevandonlo dalla chiese fondevano anche argento e crocefissi d’oro, estraendone le pietre preziose.
Eppure, solo un anno dopo i frusinati nonostante le ferite ancora lontane dal richiudersi; vollero ugualmente festeggiare il carnevale. Non potevano non festeggiare la Radeca, e lo fecerocome vedremo successivamente con il tipico vezzo, incline alla beffa.
A questo punto Napoleone giunto a Roma il 15 febbraio 1798 , dopo aver conquistato la città e dichiarato cessato il tirannico Impero della chiesa, guardava a qul punto con un certo interesse al Regno di Napoli, che tra gli stati italiani era quello ancora rimasto sotto un vecchio governo monarca.
Subito dopo proclamata la repubblica, a Roma quindi Napoleone attraverso il suo generale BERTHIER mandò al re FERDINANDO il generale BALAIT per chiedergli che pagasse alla Repubblica Romana, erede della Santa Sede, il tributo dovutole come riconoscimento dell’alta sovranità, che restituisse i principati di Benevento e Pontecorvo e infine che licenziasse il ministro ACTON, nemico dichiarato della Francia.
La regina CAROLINA, nelle cui mani erano le redini dello Stato, respinse sdegnosamente le richieste del Berthier e tra le due parti si sarebbe venuti ad una guerra se il Direttorio francese, cui non sembrava opportuno creare in quel momento una rottura, non avesse creduto di intraprendere trattative per un accordo.
Questo accordo, fu poco dopo fatto: Ferdinando promise di tenere un contegno amichevole verso la Francia, fece finta, di rimuovere l’Acton sostituendogli il marchese del GALLO e ottenne Benevento e Pontecorvo rinunziando ai beni farnesani di Roma e obbligandosi al pagamento di venti milioni di franchi.
L’accordo concluso non fece però dissipare le reciproche diffidenze e i malumori.
Questi, anzi aumentarono quando la regina Carolina vide giungere a Napoli quale rappresentante della Francia quel cittadino GARAT che aveva letto al cognato Luigi XVI la sentenza di morte alla ghigliottina.
Non bisogna inoltre dimenticare che la flotta francese del BRUYES concentrata a Tolone per l’impresa d’Egitto rappresentava agli occhi dei sovrani napoletani una continua minaccia rivolta alla Sicilia. Temendo perciò che da un momento all’altro, era presumibile un assalto dei Francesi, e non volendo esser colto alla sprovvista, il re di Napoli, da un lato mandò truppe e navi a difesa dell’isola e radunò un esercito di sessantamila uomini negli Abruzzi e nella Terra di Lavoro, dall’altro iniziò con l’Austria trattative per una lega difensiva che ben presto fu ratificato.
l trattato tra il Regno di Napoli e l’Austria fu firmato a Vienna il 19 maggio del 1798 dal ministro THUGUT e dal duca di CAMPOCHIARO. Con questo patto i due sovrani, in vista di nuovi conflitti in Europa con la Francia , allo scopo di premunirsi si impegnavano a tener pronti ciascuno un esercito, per coreerre in aiuto di una delle due nazioni laddove questi fossero minacciati dalla Francia.
Ma lo stesso giorno che il re e l’imperatore stipulavano la lega difensiva, il BRUYES partiva da Tolone con tredici vascelli di linea, diciassette fregate e trecento navi onerarie. Aveva con sé diecimila marinai e conduceva trentaseimila soldati comandati dal BONAPARTE.
La flotta francese si presentava il 9 giugno dinanzi a Malta e gli intimava la resa.
GOZZO resistette valorosamente, salvando l’onore dell’Ordine Gerosolimitano cui apparteneva quel gruppo di isole, ma il Gran Maestro, barone FERDINANDO HOMPESCH di Brandeburgo, nulla seppe fare per difendere i domini dell’Ordine e lasciò che Malta, con una vergognosa capitolazione, cadesse il 12 giugno nelle mani dei Francesi. Da Malta poi la flotta fece vela verso l’Egitto. Il 1° luglio il Bonaparte sbarcava con le sue truppe, il 2 s’impadroniva di Alessandria e, dicendo di voler liberare il paese dalla tirannide dei Mamelucchi, li sconfiggeva presso le piramidi di Gizech e il 13 luglio entrava al Cairo.
Bonaparte con i suoi successi sembrava quindi invicibile e crea va a questo punto non poche preoccupazioni alla corte borbonica.
Come risposta quindi Ferdinando allestì un esercito di 40.000 soldati, che affidò al generale Mack ( chiamato dall’austria su consiglio della Regina) e subito convocò un consiglio per decidere se muovere guerra o meno all’esercito napoleonico stazionato a Roma.
Prevalse ovviamente l’idea dalla Regina e di Acton che erano in favore della guerra. Essi riuscirono a convincere Ferdinando del fatto che presto l’Austria avrebbe mandato le sue truppe in aiuto e che il generale Austriaco Barone Carl von Mack da loro ingaggiato era un grande condottiero ed il migliore nel suo campo.
Ulteriore punto a favore nel marciare su Roma era il fatto che Napoleone era momentaneamente bloccato in Egitto.
La scintilla scattò quando l’ammiraglio Nelson distrusse la flotta francese ad Abukir.
Accadde infatti che il l° agosto l’ammiraglio inglese NELSON attaccò la flotta francese ancorata nella rada di Abukir e, dopo una terribile battaglia, durata trentasei ore circa, nella quale cadde l’ammiraglio Brueys, la distrusse tutta, eccetto due vascelli e due fregate. Quando la notizia arrivò alla corte di Napoli la notizia della sconfitta francese , la gioia fu immensa L’episodio fu accolto a Napoli con grande euforia come se la vittoria fosse stata napoletana e non inglese.
La regina Carolina chiamò il Nelson “liberatore” e quando, il 22 settembre, l’ammiraglio vincitore comparve nelle acque napoletane fu accolto con grandi onoranze.
ll re e la regina accompagnati dall’ambasciatore Hamilton e dalla sua bellissima consorte (Emma Lyon) andarono incontro all’ammiraglio tributandogli grandi elogi mentre in città furono organizzate grandi feste.
Ferdinando IV gli andò incontro festante e lo accompagnò fino dentro alla capitale che gli tributò entusiastiche accoglienze.
N.B. Questo contegno della corte napoletana, apertamente ostile alla Francia trovava la sua giustificazione in precedenti azioni della repubblica, e specialmente nella presa di Malta, che era una palese violazione dei diritti che su quell’isola vantava il re di Napoli.
Presi da rinnovato entusiasmo l’esercito napoletano agendo su più fronti partì quindi alla riconquista di Roma.
Il fronte più agguerrito era quello centrale comandato dal generale Mack con al seguito il re e la regina (che sopra una quadriga con abito di amazzone incitava le file dei soldati) e la bella Lady Hamilton che sfoggiava il suo dominio su Nelson.
Approfittando che le forze francesi erano sopratutto concentrate in Abruzzo, l’avanzata delle milizie borboniche avvenne indisturbata fino a Roma dove il re una volta preso alloggio, cantando troppo presto vittoria, offrì subito al papa l’opportunità di ritornare in sede.
Il Direttorio francese, memore anche dell’alleanza che si andava stringendo tra Russia, Austria, Inghilterra, Turchia e Regno di Napoli contro la Francia, per mezzo del suo rappresentante, invece di protestare, usò un linguaggio molto moderato e, non volendo spingere le cose agli estremi, né fare il gioco dell’Inghilterra che stava abilmente soffiando sul fuoco, decise persino di sostituire il malvisto GARAT con il LACOMBE SAINT-MICHEL e di offrire a Ferdinando IV la cessione di Malta.
A Napoli però la volontà del re non contava niente; chi comandava era la regina e questa si lasciava guidare in politica dal suo odio verso la repubblica francese e dai consigli dell’Acton, del Nelson e di Lady Hamilton.
La corte di Napoli aveva a quel punto deciso di muover guerra alla Francia; il numero dei soldati sotto le armi era stato accresciuto di parecchie migliaia; il comando dell’esercito era stato affidato al generale austriaco MACK giunto a Caserta fin dal 9 ottobre, e il 24 novembre era stato pubblicato un manifesto, che equivaleva ad una dichiarazione di guerra, nel quale Ferdinando IV, annunziando che l’occupazione francese di Malta e “le continue minacce di prossima invasione lo avevano determinato a far avanzare il suo esercito nello Stato romano fin dove l’urgenza lo avrebbe richiesto per ristabilirvi la cattolica religione, far cessare l’anarchia e metterlo sotto il regolare governo del suo legittimo sovrano”, dichiarava di non voler muover guerra a nessuno ma nello stesso tempo “ammoniva i comandanti di qualunque esercito straniero a ritirare le truppe fuori dal territorio romano”.
All’avvicinarsi. dei Napoletani il generale CHAMPIONNET mandò a chiedere al MACK ragione dell’avanzata. Il generale austriaco rispose, che il re di Napoli non riconosceva gli stravolgimenti avvenuti dopo la pace di Campoformio nelle province romane usurpate dalla Francia, e che avrebbe sospeso le operazioni di guerra solo se i Francesi si fossero ritirati dallo Stato Pontificio senza invadere alcun altro stato e in modo speciale la Toscana.
Avuta questa risposta, il generale Championnet decise di far abbandonare Roma dal suo esercito lascando solo un piccolo mugliaia dei suoi uomini a difendere il presidio del forte di Castel Sant’Angelo e nello stesso tempo incaricò il MACDONALD di comandare la retroguardia e proteggere le strade di accesso, infine ordinò ai consoli di trasferirsi a Perugia.
La mattina successiva un GENNARO VALENTINO assunse il titolo di commissario napoletano e il popolo assalì con furore gli ultimi carri dei francesi che attraversavano le vie della città. Dal forte furono allora sparate alcune cannonate a mitraglia e il Macdonald, rientrato subito a Roma con alcune migliaia dei suoi, vi restò parecchie ore, impegnando qua e là scaramucce con i cittadini.
La sera del 27 invece entrarono nella metropoli dodicimila napoletani e la mattina del 28 fece il suo ingresso in Roma FERDINANDO IV accolto dalle acclamazioni del popolo, che diede sfogo alla sua ira contro i Francesi abbattendo stemmi, insultando i patrioti e gli ebrei e demolendo il monumento marmoreo che era stato eretto poche settimane prima in memoria del generale Duphot.
Vi era a quel punto tra le file delle truppe borboniche e dei reali partenopei un grande entusiasmo , ma ben presto però queste furono smorzate per le energiche misure repressive prese dal governo provvisorio composto dal principe ALDOBRANDINI, dal principe GABRIELLI, dal Marchese MASSINI e dal cav. RICCI.
Il giorno stesso infatti che i Napoletani entravano in Roma, il MICHEROUX con i suoi settemila uomini scontratosi in battaglia con i DUEHESNE a Torre di Palma, presso il Porto di Fermo, fu sconfitto da soli tremila Francesi e Cisalpini e costretto a ripassare il Tronto.
Era questa la prima disfatta dei Napoletani, i quali, sebbene superiori numericamente al nemico, erano, mal addestrati alle armi oltre che essere comandati da ufficiali inetti e da un generale vanaglorioso quanto inabile a guidare in campagna un esercito.
A questa sconfitta seguì, pochi giorni dopo, quella toccata allo steso generalissimo MACK. Questi, diviso il grosso delle sue truppe in cinque colonne, il 5 dicembre si scagliò contro il Macdonald a Civita Castellana; ma fu sbaragliato e, inseguito a Nepi, a Falleri, a Vignanello e a Rignano, lasciò in mano del nemico duemila prigionieri, ventitré cannoni e quarantacinque carri di munizioni.
In questo modo giunto giunto dall’Abruzzo il generale Championnet con il suo esercito, riuscì facilmente ad avanzare fino a Roma sbaragliando facilmente lo spezzettato battaglione borbonico , organizzato da Mack in piccoli reparti .
CURIOSITA’ :Negli Abruzzi i Francesi non incontrarono che scarsissima resistenza da parte delle milizie regolari napoletane, ma trovarono un forte ostacolo nelle popolazioni, le quali, rispondendo all’appello lanciato dal sovrano, spinte dal desiderio di vendicare le violenze commesse dal nemico nei primi giorni dell’invasione, stimolate da sentimento religioso e nazionale ed eccitate da preti e frati, si levarono in armi e iniziarono una spietata guerriglia contro i Francesi, causando a questi gravi perdite e spronando con l’esempio le regioni vicine alla resistenza o alla rivolta. Ma la guerriglia degli Abruzzesi, per quanto fosse condotta con valore, non poteva arrestare la marcia delle truppe repubblicane.
L’esercito napoletano ebbe alla quindi la peggio, ( il Mack fuggì miserevolmente ) ed il re con il suo seguito dovettero ritirarsi precipitosamente a Napoli.
Tutto questo mostrò l’incompetenza del generale Mack …
A lui sarebbe stato infatti agevole avere ragione degli avversari se avesse portato successivamente tutto il peso del suo esercito contro ciascuno dei vari corpi francesi. Invece il generale austriaco pensò di opporre ad ogni corpo nemico un corpo delle sue truppe: contro il Duhesme mandò lungo l’Adriatico il Micheroux con settemila uomini; contro Terni inviò il colonnello S. Filippo con quattromila soldati; altri ottomila con il generale Damas, fuoruscito francese li mandò lungo la Via Appia; mentre lui e il re con il grosso dell’esercito, per la Via Latina, marciò su Roma
Il MACK, sicuro di sbaragliare facilmente i quindicimila francesi di cui nella Repubblica Romana disponeva il generale Championnet, mosse da S. Germano il 23 novembre con un esercito di circa quarantamila soldati. Le forze del nemico, oltre che esigue, si trovavano per necessità politiche come vi abbiamo accennato divise nelle varie province: tremila uomini, sotto il Duhesme, stavano nella Marca d’Ancona; altrettanti, sotto il Lemoine, presso Terni: il resto con lo Championnet e il Macdonald difendeva Roma e la Campagna romana.
In questo modo giunto giunto dall’Abruzzo il generale Championnet con il suo esercito, riuscì facilmente ad avanzare fino a Roma sbaragliando facilmente lo spezzettato battaglione borbonico , organizzato da Mack in piccoli reparti .
Miglior successo infatti non ebbero neanche le altre imprese tentate dai Napoletani: il colonnello S. FILIPPO, che era riuscito ad occupare Rieti e muoveva incontro al Mack, a Papigno fu sconfitto e fatto prigioniero, e il 9 dicembre, a Calvi, il luogotenente METCH, assalito e circondato dal Macdonald, dopo una breve battaglia fu sconfitto e anche lui catturato con tutti i suoi.
L’esercito napoletano ebbe quindi la peggio, ( il Mack fuggì miserevolmente ) ed il re con il suo seguito dovettero ritirarsi precipitosamente a Napoli.

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Quando il re si trovava ad Albano , giunse a lui, dal quartier generale dove risiedeva Mack, una lettera scritta che gli consigliava di mettersi in salvo non essendovi più speranza di fermare il nemico.
Alle notizie delle ultime disfatte, il re, che certamente non brillava di coraggio fuggi verso Caserta, travestendosi nella fuga con i vestiti del suo cortigiano e scudiero il duca d’Ascoli.
Una volta scambiati gli abiti egli si sedette a sinistra nella carrozza, ordinò al duca di dargli del tu, e lo servì lungo tutta la strada come se lui fosse stato il duca d’Ascoli, e questi fosse stato re Ferdinando.
Le ultime truppe napoletane sgombrarono Roma il 12 dicembre e il 14 i Francesi, usciti da Castel Sant’Angelo, rioccuparono la città. Rimaneva tagliato dal grosso il generale DAMAS, che si era spinto fino a Civita Castellana non avendo ricevuto l’ordine della ritirata. Tornato indietro e trovata Roma in mano del nemico, trattò con il commissario francese WALVILLE, il quale gli promise libero passaggio attraverso la città. Ma più tardi i Francesi, avendo ricevuti rinforzi, mancando alla promessa, gli intimarono di arrendersi. Il Damas rifiutò e retrocedette per la via Cassia, molestato prima dal presidio di Roma, poi dal Kellermann, con il quale il 18 dicembre sostenne un vigoroso combattimento a Montalto. Riuscito ad entrare in Orbetello, pattuì un accordo con il nemico, che gli concesse di imbarcarsi con tutte le truppe dal porto di S. Stefano a condizione che lasciasse nelle mani del Kellermann tutte le artiglierie.
Così terminava l’ impresa romana: l’esercito napoletano non aveva avuto che un migliaio di morti ed altrettanti feriti; ma aveva lasciato in mano ai francesi diecimila prigionieri, trenta cannoni e numerosissime salmerie, aveva perso la riputazione di cui fino allora aveva goduto e quel che era peggio si tirava dietro, nella ritirata, le truppe Francesi che, incalzandolo, si preparavano ad invadere il Regno di Napoli e ad abbattervi il regime monarchico.
Le truppe francesi a quel punto minacciavano di marciare su Napoli e Ferdinando a questo punto, terrorizzato dalla lettera del generalissimo Mack, dopo aver emanato un appello al popolo affinché si armasse e si opponesse ai nemici del Re, della Patria e della Religione decise insieme alla corte ed ai nuovi amici inglesi Hamilton, Nelson e Acton di scappare da Napoli per rifugiarsi a Palermo portando con se tutto il danaro dei banchi pubblici, mobili e casse di capolavori d’arte.
La popolazione della capitale amareggiata da quanto accaduto in totale subbuglio non sapeva cosa fare. Per tre giorni consecutivi il popolo e particolarmente i ‘lazzari’ si affollarono a rumoreggiare sotto la reggia invocando il re a non abbandonare il Regno dicendosi pronti a sacrificare la propria vita per difenderlo.
Il parossismo del popolo giunse a tal grado che un corriere di gabinetto, certo ANTONIO FERRERI, scambiato per una spia francese, fu catturato, linciato, trucidato e trascinato sotto le finestre della Reggia dalla plebe furente che si calmò solo quando Ferdinando e Maria Carolina promisero di rimanere in mezzo ai loro fedeli sudditi.
Il popolo accalcatasi intorno al palazzo reale, contuava a supplicare il sovrano affinché non abbandonasse la città, dicendosi pronta a difenderlo e Ferdinando di fronte alla prova di affetto del suo popolo cominciò a tentennare ma l’inflessibile Maria Carolina lo spinse alla partenza.
I sovrani non avevano infatti inproprio nessuna intenzione di restare a Napoli. Infatti, nel frattempo, avevano posto in salvo su alcune navi le opere più pregevoli delle gallerie e dei musei, i gioielli della corona e il denaro dei banchi per un valore di oltre settantadue milioni.
Accadde così che nella notte dal 21 al 22 dicembre, passando per un sotterraneo, s’imbarcarono sulla “Vanguardia”, la nave ammiraglia del Nelson. Caricarono il tutto sulle navi inglesi che li scortavano guidate dall’ammiraglio Nelson sempre accompagnati da lady Hamilton (di cui oramai Nelson era profondamente e perdutamente innamorato) .
La mattina seguente, sparsasi la notizia dell’imbarco dei Sovrani, tutti i corpi civici mandarono sulla nave deputati a pregare il re che ritornasse in città; ma Ferdinando non si piegò e, affidata l’autorità di vicario generale al principe FRANCESCO PIGNATELLI di Strongoli e impartiti gli ultimi ordini per la difesa al Mack chiamato apposta dal quartier generale, il giorno 23, accompagnato dagli ambasciatori austriaco e inglese e da un largo seguito, fece vela per Palermo, nel cui porto giunse la sera del 25 dicembre dopo una traversata faticosa, durante la quale perdette l’infante Don Alberto, suo terzogenito.
Le navi vennero infatti colte da una tempesta di proporzioni eccezionali che rese la traversata difficilissima. Da questa brutta situazione che si venne a creare le navi ne vennero fuori solo grazie alla bravura dell’ammiraglio Francesco Caracciolo che desto ‘l’ammirazione del re che ne vantò le lodi.
Questo episodio scatenò una terribile gelosia in Nelson a tal punto che una volta giunto in Sicilia egli insieme al ministro Acton costrinsero Caracciolo a disarmare la sua nave.
Incollerito e deluso a questo punto l’abile uomo di mare chiese ed ottenne di tornare a Napoli per curare il propri interessi (con grande gioia di Nelson).

CURIOSITA’: Questo episodio condizionò enormemente il napoletano nel prendere la decisione di assumere successivamente il comando della flotta repubblicana e le sue simpatie per gli ideali giacobini. Quando infatti Caracciolo tornò a Napoli fu accolto con grande onore ed ebbe subito la proposta di aderire alla repubblica per comandare i resti della flotta. Dopo qualche esitazione, convintosi che si trattava dell’occasione giusta per riscattare il regno dalla pessima e cieca amministrazione borbonica, pensò bene di accettare la proposta.
Successivamente dimostrò quindi le sue qualità nella difesa dalla flotta inglese che minacciava Napoli dalle isole di Ischia e Procida al punto da combattere contro la stessa flotta reale di ritorno a Napoli.
Dopo la fine della repubblica, si nascose nei suoi feudi a Calvizzano, ma fu tradito da un servo e consegnato a Nelson, che ne impose l’impiccagione ad un albero della nave. Il corpo, gettato in mare, fu raccolto dai marinai e sepolto nella chiesa della Madonna della Catena a Santa Lucia.
I Siciliani si mostrarono comunque non ben disposti verso il loro sovrano, quando egli sbarco in Sicilia visto che proprio nel corso dell’anno aveva tentato di violare l’antica costituzione dell’ isola imponendo un donativo straordinario di duecentocinquantamila lire al mese per tutta la durata della guerra; tuttavia, quando videro sbarcare il loro re, affranto dal dolore, e udirono la regina che con voce di pianto diceva: “Ci volete fra voi, figli miei?” dimenticarono i torti ricevuti e offrirono il loro sangue e le loro sostanze per difendere il trono.
Mentre comunque Ferdinando riceveva generose accoglienze in Sicilia, il Principe Pignatelli si preparava intanto a costituire in città una milizia urbana atta a prendere quei provvedimenti che gli sembravano utili a mantener l’ordine in una città minacciata dal nemico, abbandonata dal sovrano e agitata da contrarie passioni; ma fin dai primi giorni fu costretto a lottare contro gli “Eletti”, rappresentanti della nobiltà e del popolo, che, invitati a collaborare con lui, volevano prima unirsi nel governo ma poi finirono con lo schierarsi contro, appoggiando (opportunisticamente) chi stava per vincere
N.B.: Questo possiamo definirlo un secondo errore dell’intera storia. QuestI Francesi sarebbero stati ridotti a mal partitostutti rimanevano uniti. Invece non si seppe trarre profitto dalla rivolta e gli eletti mostrarono tutta la propria inettitudine chiedendo a più riprese la tregua e non mantenendo i dovuti contatti con il principe Pignatelli. Il quale, continuamente osteggiato dagli Eletti e privo del favore popolare, alla fine pur di uscire dalla difficile situazione in cui si trovava, era disposto a venire a patti con il nemico.
Il generale Championnet intanto nella sua discesa verso Napoli mentre era a Venafro ricevette la visita del principe di Migliano e del duca di Gesso che si presentarono a lui inviati dal Vicario generale,
Iniziate subito le trattative, queste condussero alla TREGUA di SPARANISE, firmata il 12 gennaio del 1799, con la quale la guerra fu sospesa per due mesi, Capua, Acerra e Benevento furono cedute ai Francesi con il territorio che andava fino ad una linea le cui estremità erano segnate dalla foce dei Regi Lagni e quella dell’Ofanto e del Lombardo, si dichiaravano neutrali i porti del Regno e il governo regio, ci s’impegnava di pagare alla Francia dieci milioni di lire tornesi, metà al 15 e metà al 25 gennaio.
La notizia dell’ignominiosa tregua appena si sparse a Napoli mise in fermento la plebe, che accusava il vicario di tradimento. Il fermento diventò tumulto quando la sera del 14 gennaio, giunse il commissario francese ARCAMBAL incaricato di riscuotere il giorno dopo i primi cinque milioni. La plebe, credendo che fosse venuto a prendere possesso della città, circondò minacciosa l’albergo in cui aveva preso alloggio, ma non avendolo potuto avere tra le mani perchè il Pignatelli lo aveva fatto partire di nascosto, assalì le case del principe di Migliano e del duca di Gesso e disarmò la milizia urbana.
Il giorno dopo il tumulto aumentò di intensità: la plebe, sorda alle ammonizioni del Cardinale arcivescovo CAPECE (che da un lato si faceva vedere pacificatore, dall’altro incitava alla rivolta), percorse le vie al grido di “Viva la Santa Fede ! Viva S. Gennaro ! Morte ai Giacobini !” quindi andò al porto a saccheggiare le navi giunte proprio in quel momento da Livorno con parte delle truppe del Naselli, aprì le carceri da cui uscirono seimila malfattori che, mischiatisi alla folla, si diedero ad ogni sorta di violenze e a far rapine nelle case, infine occupò gli arsenali e i castelli facendosi consegnare le armi dai presidi..
Padroni della capitale, i lazzari mossero verso Casoria per togliere il comando al generale Mack. Questi si era avvicinato alla città per esortare i ribelli alla calma ma, quando vide che -ormai senza freno- anche contro di lui era rivolta l’ira irrazionale popolare, rifugiatosi in una casa. indossò la divisa austriaca e il 16 gennaio si recò dallo Championnet, dal quale ricevette un passaporto; sperava di raggiungere il territorio austriaco; invece a Bologna venne arrestato e quindi mandato a Digione come prigioniero di guerra.
II generale Salandra, a cui il Mack aveva lasciato il comando, cercava nel frattempo di riordinare l’esercito, ma non vi riuscì; molti soldati si sbandarono, molti altri fecero causa comune con i popolani, e il generale stesso, assalito con parecchi ufficiali da una banda di Lazzaroni tra Caivano e Casoria, fu ferito gravemente.
Il 16 gennaio la plebe acclamò generale del popolo il colonnello GIROLAMO PIGNATEA di Moliterno, che si era distinto combattendo a capo della cavalleria napoletana, nel 1794, contro i Francesi in Lombardia. Gli “Eletti”, riuniti a S. Lorenzo Maggiore, gli confermarono la nomina ed elessero a loro volta, come generale in sott’ordine, un altro prode, il colonnello LUCIO CARACCIOLO che aveva sconfitto il Macdonald a Cajazzo; quindi inviarono una deputazione al vicario generale ingiungendogli di rassegnare il potere se non voleva che glielo strappassero con la forza.
Il vicario, che ormai aveva perso ogni autorità, mise in salvo sopra una fregata, tutto il denaro che aveva in custodia e la notte del 16, si imbarcò segretamente e fece vela per Palermo, dove, appena giunto, fu incarcerato per ordine di Ferdinando IV.
Fuggito il vicario, il Moliterno si adoperò a fare tornare la calma nella città; fece sì che la custodia dei quattro principali castelli fosse affidata a patrizi (il Castel Nuovo a D. Giambattista Caracciolo di Vietri, quello di S. Elmo a D. Nicola Caracciolo di Roccaromana, quello del Carmine a D. Fabio Caracciolo dei principi di Forino e quello dell’ Uovo a D. Luigi Muscettola dei principi di Luperano), ordinò alla plebe la restituzione delle armi, minacciò i facinorosi di severissime punizioni; e perché si costatasse che faceva sul serio e che le sue non erano vane minacce fece rizzare in anticipo le forche.
Nel frattempo il governo prendeva vari provvedimenti per l’annona, per la zecca, per il tesoro e per il porto e cercava di indurre i Francesi a concludere una pace onorevole. A tale scopo il 18 gennaio mandava allo Championnet una deputazione per farlo desistere dal proposito di entrare a Napoli e confermare i patti della tregua; ma il generale francese che, considerando rotto l’armistizio, era avanzato fino ai sobborghi della capitale, rispose – “È forse vincitore il popolo napoletano e vinto l’esercito francese? “.
L’infelice esito di questa missione esasperò la plebe. Non curandosi degli ordini e delle raccomandazioni di Girolamo Pignatelli e di Lucio Caracciolo, che già cominciavano ad accusare di tradimento, i Lazzaroni ricominciarono a tumultuare, abbatterono le forche e la sera dello stesso giorno 18 s’impadronirono nuovamente delle armi che avevano poco prima restituite.
Il giorno 19 acclamarono loro capi due popolani, un PAGGIO mercante di farine un certo MICHELE il PAZZO, servo di un vinaio; quindi uscirono confusamente dalla città con il proposito di dare battaglia ai Francesi. Un piccolo presidio nemico, che guardava il Ponte Rotto, fu sbaragliato, ma oltre il fiume Lagni i Francesi affrontarono i Lazzaroni e li costrinsero a tornare in disordine nella città, dove la plebe si diede a febbrili preparativi e a fare barricate per sbarrare la via al nemico.
Ma non tutti erano animati da sentimenti patriottici; molti desideravano pescare nel torbido, altri bramavano estinguere la loro sete di sangue. Corse voce che il Duca della Torre fosse in segreto rapporto epistolare con lo Championnet, e bastò quella voce e subito una turba inferocita corse al suo palazzo incendiandolo. Il duca della Torre e il fratello Clemente Filomarino furono catturati, condotti alla Marina della Strada Nuova legati a un palo e bruciati vivi.
Dopo questo fatto la plebe corse alla casa di NICOLA FASULO, dove di solito si adunava il Comitato Centrale dei Patrioti, ma vi giunse quando Nicola e il fratello erano fuggiti. Cercarono l’elenco dei Patrioti, ma la sorella dei Fasulo l’aveva dato già alle fiamme; trovarono invece una cassa piena di coccarde francesi e questo bastò perché la casa venisse saccheggiata e poi incendiata.
Per salvare Napoli dall’anarchia in cui era caduta, la sera del 19 il Cardinale arcivescovo fece esporre in Duomo la testa e il sangue di S. Gennaro poi uscì in processione per le vie, seguito da un numeroso codazzo di fedeli tra cui si notava GIROLAMO PIGNATELLI di Moliterno in veste da penitente.
La vista del “capitano del popolo”, scalzo, con i capelli disciolti e in atteggiamento di umiltà, commosse i ribelli. Quando, verso la mezzanotte, la processione ritornò in chiesa, il Pignatelli rivolse al popolo accorate parole di fede, interrotte spesso da singhiozzi, e disse di sperare nella protezione del Santo Patrono, esortò tutti a tornare nelle proprie case e a trovarsi la mattina seguente nella piazza di S. Lorenzo da dove si sarebbero poi mossi per andare ad affrontare l’esercito francese.
Il giorno dopo i Lazzaroni si trovarono nel luogo stabilito e, presi dai castelli alcuni cannoni, uscirono dalla città in disordine ma pieni di esaltazione pronti a dare battaglia al nemico. Nell’irruenza travolsero al primo assalto le grandi guardie prese alla sprovvista, poi assalirono furiosamente il campo francese posto tra Averla e Capua; ma il loro caotico entusiasmo si spezzò di fronte alla disciplina del nemico, che dopo un ricompattamento e una breve mischia li costrinsero a ritornare precipitosamente a Napoli.
La borghesia e la maggioranza dell’aristocrazia assistono terrorizzate al susseguirsi degli eventi fino a quando il partito giacobino, su imbeccata dello stesso Championnet, incominciò ad escogitare a quel punto un piano ben preciso : bisognava subito impadronirsi di castel Sant’Elmo, chiave di volta delle difese della città per la sua posizione dominante, e dar così man forte ai francesi quando attaccheranno.
A tal proposito l’avv. GIUSEPPE LOGOTETA preparò un progetto in undici articoli per dichiarar vacante il trono e stabilire gli ordinamenti del nuovo governo, poi scrisse agli Eletti di adoperarsi per far deporre le armi alla plebe. Questa però più che mai, con le armi in mano, era decisa ad impedire al nemico di far progressi nella città; a quel punto Francesi e patrioti dovettero pensarci loro a organizzare la caccia nei quartieri in cui si erano asserragliati i ribelli.
Intanto a Napoli la situazione peggiorava di giorno in giorno . Il re e la regina con tutta sua corte erano fuggiti a Palermo, mentre l’esercito borbonico nell’operazione di sganciamento,aveva perso oltre la metà dei suoi uomini . Tutto questo comportò che agli inizi del mese di gennaio del 1799, l’armata francese agli ordini del generale Championnet, si ritrovò , senza colpo ferire, libera la strada per piombare su Napoli, grazie all’improvvisa ritirata, dal munitissimo campo trincerato di Capua, delle truppe guidate dal generale Mack .
Praticamente il popolo napoletano stava assistendo inerme ad una disfatta senza combattere.
La notizia del rapido imminete giungere delle truppe francesi in città si sparse rapidamente per la capitale indifesa, e se prima era soltanto sussurrato, ora si parlava apertamente di tradimento. Di ciò ne era fermamente convinta quella parte del popolo napoletano più fiera e combattiva, che era rappresentata dai lazzari. La devozione di quest’ultimi ai Borbone era infatti eguagliata soltanto da un’altrettanta smisurata devozione per Napoli.
Saranno infatti i lazzari a rappresentare l’estrema difesa della città.
Quel proclama che il re Ferdinando aveva rivolto al popolo affinché si armasse e si opponesse ai nemici del Re, della Patria e della Religione non fu quel punto evaso e migliaia di uomini di ceto medio ma sopratutto il popolo ed in particolar modo i Lazzari si preparavano ad una tenace resistenza ai francesi .
CURIOSITA’: Dopo l’episodio del 28 dicembre che vide una parte della flotta napolitana, all’ancora nella cala di Mergellina, dolosamente incendiata, si faceva sempre più largo tra il popolo ( sopratutto tra i lazzari ) la trama del tradimento, ordita ai danni di re Ferdinando e del regno borbonico. Il successivo 8 gennaio 1799 , stessa sorte spetterà anche alla rimanente parte della flotta alla fonda nel porto. Bruciarono come torce in quella circostanza , gli splendidi vascelli orgoglio della marineria napoletana, quali il Tancredi, il Guiscardo, il Partenope, il Pallade. Infine la ritirata di Mack da Capua…Il tradimento era dunque certezza…
Ferdinando venne di conseguenza considerato dal popolo una vittima costretta a fuggire da Napoli solo per le insistenze dalla sua corte che trovava questo sistema quello più utile alla sicurezza della sua vita.
Alla sua immediata partenza per la Sicilia, i lazzari ricordavano molto più volentieri le parole di re Ferdinando con le quali egli ostentava la certezza che nessuna guarnigione potesse garantirgli la salvezza meglio dei suoi fedelissimi lazzari, ed indicava quindi la colonna di 1200 armati guidati dal capo-lazzaro De Simone, che aveva scelto per vessillo la bianca bandiera dei Borbone,
N.B. Un’insegna del tutto simile alzerà qualche tempo dopo l’armata sanfedista del cardinal Rufffo.
Il re poverino, per i lazzari era solo una vittima degli eventi e aveva dovuto abbandonare Napoli solo per gli intrighi dei cortigiani che l’avevano spuntato sulla volontà del monarca,
Di lui era meglio ricordare che il 21 dicembre 1798 aveva firmato un proclama con il quale informava il suo amatissimo popolo che si recava a Palermo a preparare la riscossa.
Ferdinando certo non poteva contare su quella borghesia che come sempre, pensava più a difendere i suoi interessi in pericolo e negoziava sotto banco con i giacobini e i francesi…
Lui aveva intuito che poteva contare e fare affidamento sopratutto con quelli che urlavano per le strade che “chi tene pane e vino/add’esse giacubbino”.
Invece di maestosi ed aristocratici generali , era giunto il momento di affidare la difesa del suo regno a popolani armati delle sole mani o al più delle rudimentali “peroccole” (sorta di mazza nodosa con la cima a forma di pera), che roteate con perizia sono un’arma micidiale, che ferisce ed uccide, i lazzari, al grido di “viva San Gennaro” e ” viva ‘o Rre nuosto”. percorrono le strade della capitale alla caccia dei giacobini.
Egli in quel momento aveva bisogno di un esercito senza strateghi,che percorrendo le strade del regno della capitale vedevano nei giacobini i loro nemici .
Aveva bisogno sopratutto di lazzari che come un fiume in piena muovessero la caccia ai giacobini.
Egli con il suo proclamo chiamò a raccolta ed alle armi tutti quelli che hanno a cuore la difesa di Napoli contro il nemico alle porte.
Il re chiamava … ed il popolo ubbidì ..
il proclama del re non fu quindi evaso e migliaia di uomini di ceto medio ma sopratutto il popolo ed in particolar modo i Lazzari erano pronti ad una tenace resistenza ai francesi combattendo strada per strada e casa per casa in maniera eroica.
Accaddè così che nella notte tra il 14 e 15 gennaio 1799 avvenne spontanea la mobilitazione del popolo napoletano. Ai lazzari si unirono i cavatori di tufo della Sanità, i conciapelli dei vicoli delle Concerie, gli scaricanti del Porto, gli ortolani e i fruttaioli del Mercato, i marinai e i pescatori di Santa Lucia, il più borbonico dei quartieri cittadini.
Nella giornata del 15 la folla in tumulto trasformò in un fiume in piena che nessuno poteva più fermare. Risuonava ovunque il terribile l’antico grido del “serra serra” per chiamare a raccolta ed alle armi tutti quelli che avevano a cuore la difesa di Napoli contro il nemico alle porte. Senza strateghi, armati all’inizio delle sole mani o al più delle rudimentali “peroccole” (sorta di mazza nodosa con la cima a forma di pera), che roteate con perizia sono un’arma micidiale, che ferisce ed uccide, i lazzari, al grido di “viva San Gennaro” e ” viva ‘o Rre nuosto”, incominciarono a percorrere le strade della capitale alla caccia dei giacobini.
Questa folla di eroici napoletani , pur senza la guida di veri capi militari, occupa presto tutti i punti strategici di Napoli. S’impadronisce così delle porte e delle fortificazioni, inalberando il vessillo reale a castel Nuovo, castel Sant’Elmo, forte del Carmine e castel dell’Ovo. Poi disarma i 12.000 uomini della milizia civica, rifornendosi quindi di fucili, munizioni e perfino di cannoni. Infine dà l’assalto alle carceri, liberando 6.000 prigionieri, in gran parte ladri. Nella logica dei lazzari quest’ultimi meritano la libertà perché hanno rubato ai borghesi, che sono tutti traditori, prima verso il re ed ora verso la città.
Nei giorni seguenti viene presidiata l’altura di Capodichino e la zona di Poggioreale, ingressi obbligati, fin dai tempi antichi, per un esercito che voglia invadere Napoli.
N.B.Il vicario del re intanto, come se niente fosse, tratta un’armistizio vergognoso con Championnet.
Il 20 gennaio f u la vigilia di quelle tre storiche giornate, in cui la stragrande maggioranza del popolo napoletano, e per esso i lazzari in prima linea, rivendicarono , per propria scelta, con un grosso tributo di sangue e un eroismo che meritava miglior sorte, il diritto alla dignità di essere nazione e di scegliersi liberamente i propri ordinamenti politici.
La diana di guerra suonò alle prime luci dell’alba del 21 gennaio 1799.
Per una maggiore sicurezza delle loro retrovie, i francesi iniziano col radere al suolo il villaggio di Pomigliano d’Arco. Da questo crudele segno si capisce che non concederanno nessuna tregua ai napoletani, né la chiederanno. Sarà battaglia all’ultimo sangue. Scrive di quel momento il Colletta: “Napoli non ha bastioni, o cinta di muri, o porte chiuse; ma la difendevano popolo immenso, case l’una all’altra addossate, fanatismo di fede, odio ai francesi”.
In questa giornata una folla di 40.000 lazzari giura alla presenza delle sante reliquie di san Gennaro, di morire in difesa della comune patria. Loro insegna sarà una bandiera con l’effigie di un teschio e la scritta “evviva il Santo Ianuario nostro generalissimo”.
La lotta che seguì fu epica specie a Porta Capuana dove gli invasori francesi presto cominciano ad assaporare la collera dei popoli meridionali e a rendersi conto che entrare in Napoli non era poi una passeggiata.
Il 21 gennaio il generale Championnet si preparò ad assalire Napoli e, levato il campo, divise il suo esercito in quattro colonne: una, sotto il comando del Duhesme doveva puntare su Porta Capuana, un’altra, sotto il Dufresse, doveva puntare a Castel Sant’ Elmo, un’altra ancora agli ordini del generale Dufresne doveva dirigersi su Capodimonte, mentre l’ultima sotto il generale Kellerman, doveva dirigersi al castello del Carmine. Un’altra colonna al comando di Broussier sarà di riserva, e ciò anche per concedere riposo ai suoi uomini provati dai precedente scontri.
Il generale francese in questo modo era infatti convinto di potersi impadronirsi di Napoli con poca difficoltà, essendo la città priva di bastioni ed uno dei principali forti in mano dei patrioti. Invece incontrò una resistenza accanita da parte dei Lazzaroni, i quali si batterono per tre giorni fino allo spasimo.
Le colonne entrano subito in contatto con gli avamposti dei lazzari, che contrattaccano impavidi con la fronte serrata da colorati fazzoletti, sotto cui è riposta l’immagine miracolosa da San Gennaro. È l’inizio di una spaventosa mattanza. Fare il resoconto dettagliato della battaglia, che durerà ininterrottamente per tre giorni, è impresa disperata perché mille e mille gli episodi degni di menzione.
La colonna del Dufresne , avanzandosi lentamente riuscì la sera del 21 a stabilirsi a Capodimonte.
Negli altri avamposti i francesi non passano. Le baionette dei loro battaglioni s’infrangono letteralmente contro un muro di carne umana. I corpi dei caduti diventano barricate per i lazzari superstiti. Anche per gli attaccanti il tributo in morti e feriti è altissimo. Dappertutto si spande l’acre odore della polvere da sparo, e, tra il denso fumo, s’intravede lo scintillìo terribile delle armi bianche, che squarciano, mutilano.
La punta di lancia del dispositivo d’attacco era comunque la colonna Duhesme, che marciava fiancheggiatato alla destra dal Rusca e alla sinistra dal MEUNIER. che gli facev da avanguardia
Quest’ultimo giunto a un ponticello presso Porta Capuana,fu qui accolto dal fuoco dei popolani che lo costrinsero ad indietreggiare.
Subito soccorso dal Duhesne con il grosso della colonna, cercò di forzare la difesa e si spinse fino a piazza Capuana; ma qui, investito da raffiche furiose di moschetteria che partivano dalle case circostanti, non riuscì a resistere e fu costretto a ritirarsi con gravi perdite incalzato dai lazzari.
Ritornato all’assalto, il Meunier, con il grosso delle sue truppe caricò alla baionetta le barricate di porta Capuana. Ma qui a difesa della porta trovarono duemila napoletani, spalleggiati da alcune centinaia di svizzeri della Guardia Reale Borbonica. Il coraggioso Monnier si rende conto che di qui non si passa, se non sul corpo dei difensori. La lotta è asprissima. L’eroismo del lazzari contagia gli svizzeri, che si battono anch’essi come leoni. La disciplina e l’esperienza dei soldati francesi riescono ad aver ragione per un momento di tanta intrepidezza, d’un balzo essi sono al di là della porta e sbucano nell’omonima piazza. Dalle finestre e dai tetti delle case tutt’intorno è fuoco a volontà. Il generale Monnier cade colpito a morte, i suoi soldati furnoo decimati.
I superstiti indietreggiarono, per poi ritirarsi precipitosamente, presi d’infilata dal tiro di alcuni cannoni, messi immediatamente in posizione dai napoletani. A questo punto se cedono i battaglioni di Duhesme è la fine per l’intera armata. La situazione diventa veramente critica, quando sopraggiunge una forte colonna di tremila lazzari. Ma essi purtroppo non conoscono l’arte militare e ignorano cosa significhi lo sfruttamento del successo, pertanto si attardano a festeggiare la momentanea vittoria.
Il sangue freddo di un Thìebault dello stato maggiore francese fa poi il resto e le sorti della giornata, già compromesse per le armi repubblicane, si riequilibrano. Infatti, con i suoi uomini impegna i sopraggiunti lazzari, poi, d’accordo con Duhesme, simula una ritirata. I realisti si gettano con foga all’inseguimento e s’infilano nella trappola loro tesa. Vengono così presi di fianco da un nutrito fuoco di fucileria; sono i granatieri che sparano ordinatamente e ad ondate successive, come fossero alle manovre.
Sotto questa grandinata di proiettili i lazzari cadono a fila serrate.
Sul finire della giornata la truppa di Duhesme, a conclusione di una serie di reiterati feroci assalti, espugna porta Capuana. I francesi, incattiviti dalla testarda resistenza e timorosi che possa ripetersi quanto accaduto in mattinata, danno fuoco a tutti i palazzi circostanti per eliminare i cecchini trucidandone gli occupanti.
I sinistri bagliori degli incendi illuminano così tragicamente quella notte da tregenda. Lo spirito combattivo dei lazzari però non è per nulla ancora fiaccato.
Mentre infatti la colonna s’accaniva dalla parte di Porta Capuana, una moltitudine di lazzari e di contadini assalì alle spalle il campo del Duhesme e avrebbe messo a mal partito il nemico se a soccorrerlo non fosse giunto in tempo da Benevento il capobrigata Broussier, che mise in fuga i Napoletani verso il Ponte della Maddalena che difeso da un battaglione albanese e da una banda di lazzari , fu alla fine espugnato dalla brigata del Broussier.
La battaglia fu interrotta dalla notte, ma ricominciò ancora più furiosa il mattino del 22 dove però dopo essere ricominciata, essa si frazionò poi in tante piccole azioni nei vari rioni, ma senza alcun risultato né da una parte né dall’altra.
Dufresne era infatti ancora fermo a Capodimonte, mentre Kellerman era nel frattempo riuscito soltanto ad oltrepassare il ponte della Maddalena.
L’ unica grande novità strategica ai fini della battaglia fu che intanto veniva consumato un altro tradimento alle spalle degli insorti. I giacobini napoletani, con uno stratagemma, si sono impadroniti di Sant’Elmo, disarmando i popolani di guardia. I cannoni del forte, che dominano la città, da ora in avanti tuoneranno per i francesi.
CURIOSITA’ : I patrioti napoletani, segretamente favoriti da Girolamo Pignatelli e da Lucio Caracciolo, portavano a termine quell’audace impresa da tempo tramata
Trentuno di loro, tra cui notiamo Vincenzo Pignatelli di Strongoli, Vincenzo Pignatelli dei principi di Marsico, Vincenzo e Giuseppe Viario dei duchi di Corleto, Leopoldo Poerio, Gaetano Simone, Antonio Napoletano, Giuseppe Laghezza, Francesco Grimaldi, Raffaele Fargo, Antonio Sicardi, Alfonso Prato e Nicola Verdinois, travestiti ed inermi, sotto pretesto di rafforzar la guarnigione durante la sortita del popolo, s’introdussero a Castel Sant’ Elmo, presidiato da centocinquantotto tra soldati e Lazzaroni capitanati da un certo Luigi Brandi. Il comandante del forte, D. Nicola Caracciolo, che era d’accordo con i patrioti, mandò fuori la maggior parte della guarnigione, formando due ronde di vigilanza, quindi disarmò con uno stratagenmma gli altri, fece legare e chiudere in una prigione il Brandi e ordinò che fossero chiuse le porte affinché gli usciti non potessero più rientrare. Impadronitisi, senza spargimento di sangue, dell’importantissimo castello, i patrioti issarono una bandiera tricolore, che doveva annunciare, secondo il convenuto, allo Championnet la presa del forte, e diedero ospitalità a molti altri novatori, tra cui si ricordata l’ insigne poetessa ELEONORA FONSECA-PIMENTEL
Per il generale Championnet questo era un grosso punto a suo favore, d’altronde per ottenere tale scopo aveva brigato non poco nei giorni precedenti.
La mattina del 22 i combattimenti, mai del tutto cessati, riprendono con più accanimento. Championnet, con Sant’Elmo in suo potere, procede rapidamente alla modifica del primitivo piano di operazioni, che prevedeva, una volta sfondato a porta Capuana, la conversione della colonna Duhesme in direzione di piazza Mercato e del forte del Carmine, prendendo di fianco il grosso dell’armata dei lazzari di circa ottomila combattenti, tenuti a bada nel frattempo dalla colonna Kellerman, proveniente dal ponte della Maddalena.
Il piano, valido dal punto di vista militare e già a buon punto per il successo di Duhesme, sarebbe però costato troppo in termini di vite umane ai francesi, vista la caparbia resistenza ad oltranza dei lazzari. Quest’ultima considerazione muove dunque Championnet ai cambiamenti operativi. Dà ordine alle truppe di riserva, al comando di Broussier, di avanzare al ponte della Maddalena, con la consegna di tenere soltanto le posizioni; mentre Kellerman, il più brillante dei suoi generali, viene spedito celermente a Capodimonte a trarre d’impaccio Dufresne in grosse difficoltà, per poi piombare alle spalle dei difensori delle barricate del Carmine.
Le sorti della battaglia doveva invece decidersi il giorno seguente.
Il 23 gennaio, il generale Championnet diede infatti l’ordine dell’assalto generale.
Una banda di patrioti, uscita dal forte S. Elmo, occupò l’Ospedale degli Incurabili ed altre località; il Broussier dal Ponte della Maddalena, il Duhesme e il Rusca da Porta Nolana puntarono contro il forte del Carmine e dopo un vivace combattimento lo espugnarono,
Il Kellermann, spalleggiato da numerosi patrioti, scese dall’altura di S. Lucia de’ Monti occupata il giorno prima e, investito Castel Nuovo, se ne impadronì, mentre il Dufresse, calato da Capodimonte, penetrava nella via di Toledo e lo Championnet dal largo delle Pigne dirigeva come meglio poteva le operazioni di assalto.
I lazzari compresero subito che la battaglia era oramai ad una svolta decisiva. Ora combattevano alla disperata, con selvaggia determinazione strada per strada e casa per casa in maniera eroica a tal punto che un ufficiale francese, che li invitò alla resa, venne in quella circostanza fatto a pezzi
I capi-lazzari infine diedero ordine a quel che restava delle bande di riparare nel vasto pianoro di Largo delle Pigne (ora piazza Cavour), che divenne un’unica immensa barricata. Ci vollero sette ore di reiterati attacchi per aver ragione di quella eroica testarda resistenza. Eroismo disperato anche a Santa Lucia e alla Madonna dei Sette Dolori.
La battaglia in questi luoghi fu terribile e i Francesi che non facavano prigionieri (un gruppo di quaranta lazzari venne , seduta stante, fucilato sul posto ) furono costretti a conquistare a palmo a palmo il terreno, conteso dai lazzari con valore straordinario .
Per la notte Championnet diede ordine ai suoi di accamparsi nell’appena conquistato Largo delle Pigne.
Furono comunque alla fine i cannoni di Sant’Elmo, all’alba di quel livido 23 gennaio 1799, a dare il segnale d’inizio per la spallata conclusiva dei repubblicani. Da Castel dell’Elmo dove lo sventolio del tricolore francese gela il cuore degli insorti , incominciarono infatti a venir giù cannonate sui punti della città, dove era più forte la resistenza.
Cominciò contemporaneamente il cecchinaggio dei fautori del partito giacobino, che dai palazzi sparavano alle spalle dei difensori. Gli agguati fecero incrudelire i lazzari, che si vendicano incendiando le case dei simpatizzanti giacobini e massacrando sul posto i sospettati.
Fu l’inizio di guerra civile ancor più rabbiosa di quella contro i francesi.
I lazzari capirono subito a quel punto del tradimento consumato ai loro danni, ma questo non bastò a scemare la loro determinazione alla lotta, tanto che gli uomini di Kellerman, appoggiati da gruppi di giacobini napoletani in armi, e che scendono baldanzosi dalle colline, vengono fermati dai lazzari di Foria e di Chiaia, che li inchiodano sul posto. Soltanto l’intervento di un altro battaglione, che cala da Capodichino, sblocca la situazione nella zona di Foria, prendendo di fianco i difensori.
Le forze della Lazzaria controllavano ormai solo il cuore della vecchia Napoli, cioè l’intricato quartiere Mercato e parte di via Toledo ) con i capisaldi di castello del Carmine, castel Nuovo e castello dell’Ovo.
In questi luoghi dalle case e dietro le barricate, con sprezzo della vita, bersagliavano incessantemente il nemico, poi in certe azioni scacciati dalle loro postazioni, tornavano furiosamente all’assalto; sebbene spossati da circa tre giorni di accanito combattimento e fulminati dalle artiglierie e minacciati dagli incendi provocati dalle torce incendiarie dei Francesi, si ostinavano a resistere e mostravano un’audacia e un tale eroismo da meravigliare lo steso Championnet,
Ma purtroppo la colonna di Kellerman in quella tragica giornata del 23 prese di fianco i lazzari, attestati a difesa di via Toledo, e li ricacciò fino a Largo Castello.
Inoltre prese d’assalto Castel Nuovo e una volta espugnato espugnato. incominciò con i cannoni di questo castello, a colpire gli ottomila lazzari, che appoggiati tatticamente alle fortificazioni del Carmine, tenevano in scacco le forze di Broussier.
Soltanto nel pomeriggio viene conquistato alla baionetta dagli uomini del generale Rusca il castello del Carmine.
Salvo piccoli focolai, questa fu la fine di ogni resistenza organizzata..
I francesi di Championnet erano ormai i padroni di Napoli.
Ma il prezzo pagato fu altissimo: duemila di loro non festeggiarono la vittoria; i loro corpi giacevano ancora insepolti per le strade. I lazzari superstiti, vinti, ma non domi, si eclissarono con le armi nell’intricato dedalo di vicoli. Saranno presenti, di lì a pochi mesi, all’appello di Ruffo per la liberazione della città. In questo stesso giorno si compie lo scempio di Palazzo Reale, allorchè il capo-lazzaro Paggio abbandona con i suoi il palazzo, la plebaglia lo invade saccheggiandolo.
Dovunque, nelle strade, nei vicoli, nelle piazze, nei vecchi palazzi anneriti dagli incendi, dovunque si inciampa nei corpi dei lazzari caduti. Alcuni luoghi, dove il combattimento è stato più aspro, sono dei veri e propri carnai. Diecimila di loro, secondo altri studiosi ottomila (ma non si conoscerà mai l’esatto numero), sono morti, armi in mani, per testimoniare ai posteri che la Nazione Napoletana non è un’invenzione.
Come vi abbiamo già accennato l’audacia e l ‘eroismo mostrato dai lazzari durante questi tre giorni non mancò di meravigliare lo steso Championnet, il quale, nella sua relazione, da leale soldato, non mancò di riconoscere e lodare il valore dei suoi avversari:
” I Lazzaroni – egli infatti, scrisse – questi uomini meravigliosi (etonnants), i reggimenti stranieri e napoletani, rimasugli dell’esercito fuggito dinnanzi noi, sono degli eroi chiusi dentro Napoli. Si battono in tutte le vie, il terreno viene disputato a palmo a palmo; i lazzari sono comandati da capi intrepidi. Il forte S. Elmo li fulmina; la terribile baionetta li squarcia; essi ripiegano in ordine, poi ritornano alla carica, avanzano con audacia e spesso guadagnano terreno”.
La resistenza dei Lazzaroni sarebbe stata comunque più lunga se MICHELE il PAZZO, che si batteva come un leone a Porta Susciella, non fosse stato fatto prigioniero.
Condotto davanti allo Championnet fu da questo lodato per il suo valore e colmato di promesse. Sapendolo capopopolo, il generale Championnet cercò di ingraziarselo, dicendogli che i Francesi rispettavano la religione ed avevano in gran venerazione S. Gennaro,
Addirittura subito accettò Il suo consiglio di mandare una guardia d’onore alle reliquie del Santo Patrono .
Il generale seppe così bene convincerlo delle buone intenzioni dell’esercito repubblicano che il popolano, convinto o plagiato, gridò “Viva la Repubblica!” e si offrì di pacificare i ribelli della sua città.
A quel punto egli stesso lo accompagnò scortato da una squadra di granatieri libero in città: Michele a quel punto si mise a percorrere le vie della città gridando “Viva i Francesi ! Rispetto a S. Gennaro !” ed esortando i lazzari a deporre le armi.
Questi, stanchi dalla lotta, abbandonati dagli elementi peggiori della plebe che non trovò di meglio che darsi al saccheggio del Palazzo Reale e di altri edifici, viste le bandiere francesi sulle fortezze ed esortati dalle parole del loro capo, misero fine alla resistenza e così i Francesi furono i padroni di Napoli.
Oltre che coraggioso Championnet era un uomo di grande onestà ed entrò subito nelle grazie e nelle simpatie del popolo napoletano, del quale riescì ad interpretare gli umori ed i sentimenti. Il generale francese, infatti, in una conversazione col viceammiraglio Tréville non esitò a chiarire che “non avrebbe mai potuto impadronirsi di Napoli se, arrivato qui, non avesse avuto il soccorso dei diecimila patrioti che lo aiutarono a domare i lazzaroni, che i monarchici pagavano per sostenere il partito della chiesa e del re…”.
CURIOSITA’: Lo Championnet era un prode soldato, ma era anche dotato di un fine intuito e furbizia politica: sapendo quanto il popolo napoletano fosse religioso, scrisse al Cardinale arcivescovo di fare aprire tutte le chiese, di fare esporre il Santissimo e di far predicare la pace, la tranquillità e il buon ordine; poi al popolo indirizzò un manifesto in cui fra l’altro era detto: ” .. Cittadini, …. rientrate nell’ordine, deponete le armi nel Castel Nuovo, e la religione, le proprietà, le persone saranno conservate. Da quella casa da dove partirà un solo colpo di fucile sarà bruciata e gli abitanti fucilati. Ma se la calma sarà ristabilita, io dimenticherò il passato e la felicità ritornerà su queste ridenti contrade”.
In verità, dopo le fasi drammatiche della battaglia che avevano caratterizzato l’ingresso in Napoli dell’esercito francese, si stabilisce una immediata intesa tra il generale di Valenza ed il popolo napoletano.
Quando, infatti, Michele ‘o pazzo, nella piazza in cui Championnet chiede ai napoletani di collaborare, gli dice: “Un’altra domanda generale, e saremo amici. Come tratterete la nostra religione e san Gennaro? La nostra santa fede e il nostro protettore saranno rispettati?”, egli prontamente risponde: “Sì lo saranno. La vostra religione è puranco la nostra”. E, poi, rivolto al Marino: “Michele, la repubblica francese onora i prodi d’ogni paese. Voi siete da oggi cittadino della repubblica,colonnello dei suoi eserciti e mio aiutante”.
Il muro della diffidenza è abbattuto; il generale è riuscito, in pochissimo tempo, a far dimenticare il sangue versato e l’avversione mostrata nei confronti dei Francesi sino ad un momento prima.
Anzi, addirittura i napoletani immaginano che il generale possa essere un loro concittadino. Avviene quando il prete della parrocchia di Sant’Anna dice di aver trovato sui registri di nascita il nome di un Giovanni Cahampionné.
E’ la consacrazione!
Un tripudio che preoccupa non poco i veri rivoluzionari. Championnet, infatti, alla ricerca del consenso a tutti i costi, dispensa sorrisi e denari a tutti quanti lo applaudono. Coi lazzari, suoi acerrimi rivali sino a qualche giorno prima,c’è uno scambio continuo di doni e premi.Un loro capo, Luigi Avella, detto Pagliuchella, è addirittura nominato,benché illetterato, giudice di pace.
ll giorno stesso della presa di Napoli i patrioti repubblicani napoletani, presentarono allo Championnet – un promemoria in cui, rievocata l’opera nefanda del passato governo e ricordato quanto essi avevano fatto per acquistare la libertà, rinnovavano il giuramento, fatto in San l’ Elmo “…odio eterno ed implacabile al regio potere ed a qualunque arbitraria autorità..”.
Lo Championnet rispose con un bando (23 gennaio), in cui, dopo di avere assicurato il rispetto del culto e dei beni, lodata la costanza dei patrioti, stigmatizzata l’aggressione del Re e poi promesso alla libertà napoletana l’aiuto dell’ “Esercito Francese”, che da quel giorno assumeva il nome significativo di “Armata di Napoli”, ammoniva:
“Le autorità repubblicane che saranno create, ristabiliscano l’ordine e la tranquillità sulle basi di un’amministrazione paterna, dissipino gli spaventi dell’ignoranza e colmino il furore del fanatismo con uno zelo uguale a quello che è stato impiegato dalla perfidia per inasprirli ed irritarli, e la disciplina che si ristabilisce con tanta facilità nelle truppe di un popolo libero, non tarderà di mettere un termine ai disordini provocati dall’odio, e che il diritto di rappresaglia ha appena permesso di reprimere”. Il 24 gennaio il generale promulgava, in nome della Francia, una legge con la quale, in attesa che venisse organizzato un governo costituzionale completo, veniva creato un governo provvisorio di venticinque cittadini, i quali, riuniti insieme costituivano l’assemblea legislativa, divisi in sei comitati (centrale, dell’interno, militare, di finanza, di polizia e giustizia, di legislazione) esercitavano il potere esecutivo.
La presidenza del governo fu affidata all’ex-SCOLOPIO CARLO LAUBERT, matematico e filosofo, cui fu dato per segretario il francese IULLIEN; gli altri ventiquattro cittadini della rappresentanza nazionale furono l’Abamonti, d’Albanese, il Baffi, il Bassal, il Bisceglie, il Bruno, il . Cestari, il Ciaja, il De Gennaro, il De Filippis, il De Rensis, il Doria, il Falcigui, il Fasulo, il Forges, il Logoteta, il Manthoné, Mario Pagano, il Paribelli, il principe di Moliterno, il Vaglio, il Riari e il Rotondo.
N.B. L’illustre medico e patriota DOMENICO CIRILLO, nominato, Non volle accettare l’ufficio. Il giorno 25 gennaio fu istituita la municipalità della quale lo Championnet chiamò a far parte venti dei più ardenti repubblicani, a cui per acquistarsi il favore della plebe aggiunse un popolano analfabeta, certo ANTONIO AJELLO detto PAGLIUCHELLA.
Per lo stesso motivo nominò suo segretario MICHELE il PAZZO sebbene questi non sapesse né leggere né scrivere.
Nello stesso giorno 25, il generale francese, nella Casa del Comune, consegnò le redini del governo ai rappresentanti nazionali e ai membri della municipalità radunati e per l’occasione pronunciò un discorso. Gli risposero, a nome del governo provvisorio, il presidente LAUBERT e MARIO PAGANO e, finita la cerimonia dell’insediamento, lo Championnet invitò al Palazzo Reale i principali ufficiali e magistrati per un grande pranzo conviviale.
Fuori dal palazzo reale i il popolo, cambiato d’umore, si dava alla pazza gioia, piantava gli alberi della libertà e intrecciava danze fra applausi e canti.
Quel giorno, “quarto delle repubblica napoletana”, si chiuse con una cerimonia, religiosa svoltasi in Duomo.
Qui -con il solito opportunismo- si recò lo Championnet per venerare le reliquie ed invocare il favore di S. Gennaro, al quale offrì una mitria d’oro tempestata di gemme.
Il Cardinale arcivescovo lo ricevette con onori reali e cantò il Te Deum, quindi ebbe luogo il miracolo del Santo Patrono – la liquefazione del sangue di San Gennaro- che, compiutosi in breve tempo, parve ai fedeli un segno tangibile della volontà del Santo e di Dio.
Lo stesso Dio e lo stesso Santo che più tardi infondeva la volontà in quello stesso giorno a FERDINANDO IV che firmava il decreto con il quale dava l’ordine al Cardinale FABRIZIO RUFFO di armarsi (con le “armate della fede”, i cosiddetti “Sanfedisti” al grido di “Viva Maria”) e di andare a difendere le province del regno non ancora invase dai Francesi e di liberare dall’anarchia e restituire alla legittima corona le altre dov’era stato istituito il regime repubblicano.
Ma questo eroico amico dell’Italia non vien meno al vezzo francese di razziare beni in terra straniera. Il 7 ventoso dell’anno VII (il 25 febbraio 1799), Championnet scrive al Direttorio: “Vi annuncio con piacere, che abbiamo trovato ricchezze che credevamo perdute.
Oltre ai Gessi di Ercolano che sono a Portici, vi sono due statue equestri di Nonius, padre e figlio, in marmo; la Venere Callipigia non andrà sola a Parigi: abbiamo trovato alla Manifattura di porcellane, la superba Agrippina che attende la morte; le statue in marmo a grandezza naturale di Caligola e Marco Aurelio, un bel Mercurio in bronzo e busti antichi del marmo del più gran pregio…Il convoglio partirà fra pochi giorni”.
Inoltre non va mai dimenticato che Championnet, entrando con l’armata vittoriosa in Napoli, impose una contribuzione di due milioni e mezzo di ducati da pagarsi tra due mesi. Una imposizione economica che allora era assolutamente esorbitante per una sola città già desolata dalle immense depredazioni che il passato governo vi aveva fatte.
Championnet avrebbe potuto esigere il doppio a poco a poco, in più lungo spazio di tempo. Ma egli presto si pentì o si mostrò pentirsi di questa tassa , ma non lo ritrattò; anzi stabilì quindici milioni per le province”.
Contemporaneamente all’avvio organizzativo della Repubblica napoletana, il generale nativo di Valenza si preoccupa di allestire due divisioni, da inviare in Puglia e Calabria, per fronteggiare i ribelli delle province e le truppe della santa Fede del cardinale Ruffo.
Eppure Championnet si è più volte opposto, in nome dell’autonomia della Repubblica napoletana, alla rimozione o al sequestro dei beni culturali!
Come quando dal Direttorio inviò a Napoli il commissario Faypoult, per imporre le condizioni francesi di un decreto che sosteneva come tutti i beni della corona di Napoli, i boschi, i palazzi e le regge, i monasteri, i feudi allodiali, i banchi, i musei e la fabbrica di porcellana erano di proprietà francese.
Alle proteste dei napoletani si associa subito Championnet, che pubblica un editto col quale annulla il decreto del Direttorio; quindi, fatto arrestare, il Faypoult lo rimanda in patria, facendolo scortare sino ai confini della Repubblica romana.
Sul Monitore francese di metà marzo 1799 si legge: “Visto che il generale Championnet ha impiegato l’autorità e la forza per impedire l’azione del potere da noi confidato al commissario civile Faypoult, e che perciò si è messo in aperta ribellione contro il governo; il cittadino Championnet generale di divisione, già comandante dell’esercito di Napoli, sarà messo in arresto e tradotto innanzi un consiglio di guerra per essere giudicato del suo delitto”.
A sostituirlo fu il suo collega Mc Donald.
Sul Monitore francese di metà marzo 1799 si legge: “Visto che il generale Championnet ha impiegato l’autorità e la forza per impedire l’azione del potere da noi confidato al commissario civile Faypoult, e che perciò si è messo in aperta ribellione contro il governo; il cittadino Championnet generale di divisione, già comandante dell’esercito di Napoli, sarà messo in arresto e tradotto innanzi un consiglio di guerra per essere giudicato del suo delitto”.
CURIOSITA’: Championet, destituito e processato per divergenze con i commissarî civili dal governo francese inviati a Napoli, fu poi rimesso in libertà dal Bernadotte. L’anno dopo fu incaricato di organizzare e comandare l’armata delle Alpi, ma con la sconfitta toccata dai Francesi a Novi (15 agosto 1799) fu obbligato a cedere terreno fino ad Antibes, dove fu ucciso da un’epidemia che infieriva fra le sue truppe.
A domostrazione della sua interregima onesta ,egli nonostente le sue vittorie , morì in povero ele sue esequie furono possibli solo grazie alla colletta che fecero alvuni militari.
Il suo cognome è scritto sull’Arco di Trionfo nella terza colonna, ed in suo onore nel 1848 è stata eretta una statua a Valence sua città natale.

Un personaggio che alla fine possiamo considerare un grande vincitore ma anche un uomo che alla fine ammirò l’audacia, il valore e l’eroismo di un popolo in difesa della Napoletanità. Scrive il generale Championnet nella sua relazione per Parigi: “…si combatte in ogni strada; il terreno è disputato palmo a palmo; i lazzari sono guidati da capi intrepidi. I lazzari, questi uomini meravigliosi (ètonnants) sono degli eroi…”. Il capo di stato maggiore, il generale Bonnamy, scriverà poi, al termine del suo rapporto, queste lapidarie parole “…l’azione del lazzari farà epoca nella Storia!”.
Soltanto il malcostume autolesionista di certa storiografia, che ha sempre allignato dalle nostre parti, ha avuto l’improntitudine di stracciare questa splendida pagina di Storia nostra.
Note
La figura del generale Championnet è legata al Carnevale storico di Frosinone e in particolare alla Festa della Radeca durante la quale un fantoccio raffigurante il generale viene portato in giro per le strade della città e infine dato alla fiamme.
I frusinati, per esorcizzare fame, povertà e volendo irridere i potenti ogni anno con una tradizione che ancora sopravvive ai giorni nostri., con una festa dal sapore speciale vogliono ricordare quel giorno che da Frosinone, mandarono un messo ad Anagni dove stazionava il. generale Championnet annunciandogli che la città si era nuovamente ribellata ,ma in realtà era un “escamotage”, per attirare il generale a Frosinone.
I frusinati aspettarono il francese nella zona bassa della città dove c’ era solo campagna , in un’area che oggi si può identificare più o meno con l’incrocio tra la via Casilina e il piazzale De Mattheis Essi erano già brilli e immaginando che da un momento all’altro potesse giungere il generale, quando sentivano gli zoccoli di un cavallo cominciavano a cantare : “esseglie….esseglie!! Eccuglie..”!
N.B. Quella cantilena oggi è una canzone.
Alla fine il generale con una guarnigione arrivò e ad aspettarlo c’erano un sacco di persone perlo più brille che aveva solo voglia di ballare, cantare e bere. Egli si rese presto conto d’essere stato beffato, ma stette al gioco e si lasciò travolgere dalla festa. Alla fine si portò via anche delle botti di buon vinello ciociaro.
Ancora oggi, il “re della Radeca”, il simbolo direi, è un fantoccio vestito da generale. che alla fine si brucia, per esorcizzando il potere, in un rito catartico.
CURIOSITA’: La Radeca è una tradizionale festa di Frosinone la cui origine va ricondotta agli antichi ai Saturnali romani, e ai riti della fertilità e della fecondità (la lunga foglia della “Radeca”, non è altro che una foglia d’agave simbolo di fertilità per eccellenza nell’antichit).
Con lei si scacciava l’inverno e si chiamava la primavera e per festeggiarla si sopspendevano in quel periodo tutte le attività lavorative .
Ogni anno questa esclusiva festa riscuote grande consenso per via dei costumi dei gendarmi francesi e dei nobili dell’epoca. Essa si protae fino a tarda sera e tra cantine piene in cui si beve ballando al ritmo del “Salterello” distribuzione di vino, e maccheroni fini fini., si solleva ritmicamente nella danza la radeca come buon auspicio.
Infine c’è il rogo del fantoccio che rappresnta il generale Championet che arderà opo la lettura del testamento e l’intevento del notaro, tra le fiamme come in una catarsi; purificazione, liberazione e per esorcizzare infine paure e tristezza e soprattutto la miseria! Egli sbeffeggia i potenti come accadeva nel 700’!