Dichiarato dall’Unesco nel 1995 Patrimonio dell’umanità, per la sua unicità nel possedere un impianto urbanistico storico fieramente difeso dalle omologazioni architetturali tanto di moda nel resto del mondo , la nostra città per secoli ha lasciato intatte le sue bellezze ,i suoi monumenti e sopratutto la sua architettura unica al mondo .
Le sue chiese , i suoi palazzi , i suoi stretti e misterioso vicoli , i suoi vasci , sono stati considerati dall’ Unesco delle vere e proprie opere d’arte
Napoli è una città talmente intrisa di storia, cultura e arte che qualche anno fa è stata definita dalla BBC come la città italiana con troppa storia da gestire,
Storia arte, cultura e tradizioni si respirano in ogni vicolo del nostro centro storico ma ciò che rende Napoli davvero indimenticabile è la sua cucina, capace di raccontare la città attraverso sapori unici e genuini. Per un turista che arriva qui, la vera esperienza parte proprio dal cibo, Immergersi nella cucina napoletana significa di fatto entrare in contatto con la vera anima partenopea, fatta di passione, storia e prodotti d’eccellenza.
Se quindi volete vivere Napoli in modo autentico, non potete perdervi un tour di street food nei quartieri simbolo come Spaccanapoli, i quartieri spagnoli, la sanità , Forcella , il mercato di Porta Nolana , quello della Pignasecca o il Lungomare Caracciolo. Qui, tra bancarelle e piccole botteghe, potrete assaggiare prelibatezze che vi raccontano della vera Napoli e delle sue vere tradizioni .Il cibo di strada a Napoli appresenta un viaggio nel tempo, una scoperta continua di sapori e storie che si intrecciano tra vicoli antichi e scorci mozzafiato sul golfo ,con la vita quotidiana di una città vibrante e accogliente.
Napoli ricordatevi, non è solo una città da visitare, ma un’esperienza da vivere con tutti i sensi. Dalle sue origini millenarie, attraversate da dominazioni e culture diverse, fino ai vicoli stretti e alle piazze piene di vita, Napoli racconta una storia fatta di arte, musica e soprattutto di cibo.
Napoli è la città dello street food per eccellenza.
La formula prediletta per mangiare aNapoli è il cibo da strada (oggi più comunemente chiamato street food), cioè quello servito direttamente da vetrine, negozietti, anfratti adibiti con pochissima cucina, calderone per fritture, un frigo con le bevande ed una minuscola cassa per battere scontrini davvero da pochi euro. Il costo dello street food a Napoli è irrisorio, similmente a quello delle altre città: si parte da 1 euro per una pizza a portafoglio o un dolce tipico, fino ad arrivare a massimo 6-7 euro per i cuoppi di fritture più pieni ed elaborati.
Esso si è diffuso nella nostra città a metà del ‘700 grazie alle prime friggitorie ambulanti. Da allora, pizze a portafoglio, cuoppi di terra e di mare, frittate di maccheroni e panini napoletani, sono diventati per ogni turista che viene a visitarci il piatto preferito con cui saziarsi .
Napoli con i suoi migliaia di ristoranti , pizzerie , bar , friggitorie e pasticcerie è una città che oggi è destinata a sconvolgere l’ecosistema turistico mondiale dei tour operator.
La città appare mitizzata agli occhi dei turisti. nei suoi aspetti folkloristici e le voci del passato sono state messe in ombra dalla valanga di immagini con il volto di Maradona ai Quartieri Spagnoli ma anche dalle strade del centro storico stracolme di turisti e dalle recensioni entusiaste dei viaggiatori che in maniera estremamente entusiasta si fermano su una narrazione storica di una città divertente e divertente nella sua malamovida notturna . Anche i social network, che non hanno mai lesinato su meme e cattiverie sui classici stereotipi del capoluogo campano, hanno improvvisamente trovato un nuovo filone di visualizzazioni sfruttando il fenomeno scudetto e la conseguente ondata di turismo folcloristo sorta nel murales di Maradona e nei vicoli imbanditi a festa .Napoli è insomma non solo arte , monumento, museo e pinacoteche, ma anche street food. Passeggiare per il centro, da Porta Nolana a Spaccanapoli, Forcella , la Sanità, i Quartieri Spagnoli, il vomero o lungo Spaccanapoli significa immergersi in un mondo di profumi, colori e sapori. Qui si può assaggiare un’ampia varietà di prelibatezze da strada, che raccontano la cultura partenopea.
E allora incominciamo il nostro viaggio culinario nello street food napoletano partendo proprio dalla regina indiscussa della tradizione culinaria partenopea. Quando si parla di Napoli, non si può infatti non pensare alla pizza e sopratutto alla pizza margherita, simbolo di semplicità e bontà, e la pizza non è solo un piatto: è cultura, arte, e soprattutto passione.
La pizza napoletana si distingue per la sua pasta soffice, leggermente elastica, il cornicione alto e alveolato, e l’uso di ingredienti freschi come pomodoro San Marzano, mozzarella di bufala e basilico. La tradizione vuole che si mangi anche in formato “a portafoglio”: una pizza piegata in quattro, comoda da tenere in mano mentre si passeggia tra i vicoli.
La vera pizza napoletana da pizzeria, cotta nel forno a legna e servita appena sfornata, merita certamente un posto d’onore nel tuo tour. Se hai tempo per sederti, ecco le 20 pizzerie leggendarie imperdibili dove assaporare l’autenticità napoletana:
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Antica Pizzeria da Michele – via Cesare Sersale (famosa per la margherita e la marinara)
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Sorbillo – via dei Tribunali (tra le più iconiche, sempre affollata)
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Starita – via Materdei (storica e popolare anche per le montanare)
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Di Matteo – via dei Tribunali (nota anche per le frittatine di pasta)
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Concettina ai Tre Santi – Rione Sanità (una vera esperienza gastronomica)
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50 Kalò – Piazza Sannazaro (moderna, elegante, perfetta per chi ama l’impasto idratato)
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La Notizia – via Caravaggio (innovazione e tradizione con Ciro Salvo)
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Trianon da Ciro – via Pietro Colletta (pizza gigante e atmosfera popolare)
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Pizzeria del Popolo – Piazza Mercato (ottimo rapporto qualità/prezzo)
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Pizzeria Lombardi 1892 – via Foria (una delle più antiche di Napoli)
11.Pizzeria Oliva -Via Tino Di Caimano 2/E, a pizza( una buona pizza nel cuore del Vomero)
12, Pizzeria Salvo-Via Riviera di Chiaia, 271
13.Pizzeria Vincenzo Capuano-Piazza Vittoria, 8
14.Pizzeria Diego Vitagliano-Via Nuova Agnano, 1.( una delle migliori pizzemigliori pizze di Napoli)
15. Pizzeria Da Attilio-Via Pignasecca 17.
16. Pizzeria Errico Portio , Via Scarlatti 84 (Vomero)
17.Pizzeria Bro-Piazza Mercato 222 ( una buona pizza tradizionale in una piazza storica
18. Pizzeria Palazzo petrucci-Piazza San Domenico Maggiore, 5. ( si trova in pieno centro antico)
19.Pizzeria Gaetano Paolella
20.Pizzeria da Michele -Via Cesare Sersale, 1( antica pizzeria che esiste da oltre 150 anni
Nessuna visita a Napoli può dirsi completa senza assaggiare la pizza, vera icona della città e patrimonio mondiale dell’umanità. La pizza napoletana non è solo un piatto, è una tradizione secolare, una ricetta semplice e perfetta che racconta storie di famiglia e dedizione.
In città, la pizza si gusta in tantissime forme, ma vi costinge a stare seduti nel gustarla, ed ecco allora che i napoletani si sono inventati anche il modo per portarla a spasso.
Si sono inventati la la pizza “a portafoglio”: una pizza piccola, morbida e profumata, piegata in quattro per essere mangiata camminando tra i vicoli di Napoli, senza rinunciare a nulla del gusto.
Di diametro ridotto, con meno condimento, anche il prezzo ovviamente è popolano e popolare. Solitamente questa pizza ha poco o nullo fiordilatte, poco pomodoro e poco olio: una versione abbastanza “light” di una margherita canonica. Il prezzo: raramente la troviamo ancora ad un euro, il prezzo più comune fino a qualche anno fa; oggi la pizza a portafoglio si attesta sull’euro e cinquanta, due euro.
Questa versione della pizza rappresenta certamente lo street food napoletano per eccellenza.
In città la si puo’ trovare un pò ovunque e vi assicuro che camminare per le vie di Napoli con una pizza a portafoglio tra le mani è un’esperienza davvero imperdibile.
Per i più golosi si può optare per la versione fritta ( anche con ricotta o con scarole ) . Badate bene però stiamo parlando di due tipi di pizze con preparazioni diametralmente opposte che fanno parte della stessa grande famiglia delle icone di Napoli nel mondo. In entrambe le scelte poche semplici regole, farsi guidare dagli occhi e dal profumo per la scelta e soprattutto ustionarsi assaggiandole.
La pizza fritta è molto diversa dalla tradizionale margherita. Si tratta di semplice pasta cresciuta, ripiena di pomodoro e mozzarella, cotta sempre in olio bollente.
Prendetela da 1947 Pizza Fritta, proprio di fronte alla famosa pizzeria” Da Michele”, oppure da “Esterina Sorbillo” che ha vari punti vendita in città, da via dei Tribunali 26( angolo Piazzetta Nilo ) che a Piazza Trieste e Trento, 53 .
Da provare quella anche da Gennaro Salvo in ViaToledo e quella da Fernanda che si trova in Via Speranzella 180, che come un tempo faceva la mitica Sofia Loren ne L’oro di Napoli, signora Fernanda prepara le pizze fritte nel suo vascio come si faceva una volta, con vendita su strada. Due sole le pizze proposte (grande e piccola) ed una selezione di fritturine.
CURIOSITA’: La pizza venduta da Sofia era una pizza a credito, che veniva detta “‘a ogge a otto”; ossia la mangio oggi e la pago la settimana prossima. Alcuni bassi. napoletani dei quartieri spagnoli o di Montesanto o del borgo, proprio come nel film, aprivano la loro bottega solo di sabato e di domenica; la “bottega” consisteva in un pentolone di olio bollente e un piano per stendere le pizze. Queste pizzerie-basso, alcune delle quali sono ancora attive
oggi, aprono solo un giorno alla settimana; è naturale che se viene venduta a credito, la pizza si pagherà alla prossima apertura, tra sette giorni (più oggi fanno otto). Ecco la spiegazione dell’origine della pizza oggi a otto.
Un’altra buona pizza fritta di ottima qualità la poete trovare anche nella sanità al civico 27, da Isabell. De Cham , dove è una brigata di donne a dirigere la nota pizzeria,
Se comunque vi piace il cibo fritto sappiate che in città le friggitorie sono tante ed a Napoli esse sono il paradiso dei golosi. Le fritture sono l’anima della cucina di strada di questa città e ovunque se vi guardate intorno mentre passeggiate potete trovare frittatine di pasta, crocché di patate, zeppoline (pasta cresciuta fritta), arancini bianchi e verdurine in pastella in porzioni abbondanti a prezzi bassi .
Se certamente la pizza a portafoglio è la regina del fast food , sicuramente il cuoppo ne è il principe.
Esso rappresente l’icona dell’ingegno napoletano. Un foglio di carta paglia arrotolato su se stesso, che allo stesso tempo accoglie e asciuga l’oro di Napoli, la frittura.
Un cuoppo fritto di solito è composto da qualche zeppolina salata, cioè pastecresciute con sale; panzarotti (altrimenti detti crocché) fatti di patate e spesso arricchiti con formaggio e prosciutto, pizzelle ‘e sciurilli (pastecresciute con fiori di zucca), sciurilli fritti (sempre fiori di zucca pastellati e fritti), scagliuozz (triangolini di polenta fritti), palle di riso e frittata di maccheroni (timballi di pasta )
Non può mancare naturalmente la versione di pesce, qui il “cuoppo” coccola le prelibatezze che il mare offre ai napoletani da sempre, che loro saggiamente friggono e servono con il limone. Alici, gamberi, calamari ed anelli di totani ,colorano i “cuoppi” e nei più tradizionali la frittura di paranza fa raggiungere vette quasi mistiche.
Per chi i vuole veramente immergersi nell’anima del fritto napoletano deve solo recarsi nel caloroso chiosco denominato ” Passione di Sofì”che si trova in Via Toledo 206 -Via Toledo 324 e Via Benedetto Croce 42 .
Caratteristica divertente di questo locale è la cucina posta al primo piano: i fritti freschi arrivano dall’alto al piano vendita con il classico “paniere” direttamente alle commesse che velocemente li ripongono nel banco. Tra le sue specialità c’è il mitico “cuoppo napoletano” classico a forma di cono, con arancini, crocchè, zeppole, montanare e calzoni) e di pesce (fritture di mare e di paranza con alici, calamari, gamberetti, triglie, bianchetti e, spesso, anche baccalà..Ovviamente non manca la pizza fritta e sopratutto una buona frittatina. Questo posto è l’angolo di mondo dove prende vita la tradizione napoletana in tutta la sua fervente unicità. Una tappa imperdibile per gli amanti della cucina fritta!
CURIOSITA’ :Il re “Lazzarone” per i pescatori di Santa Lucia, era un re che amava il contatto con la gente semplice. Passeggiava per il borgo con un fare quasi volgare e di certo era di gusti popolari. Questo lo sapeva bene Sofia, giovane popolana, con il vizio dell’amore e la virtù della cucina. Sofia cucinava per lui, nel “vascio” di casa sua, ogni qual volta il re passava di lì. Per la sua arte culinaria, tradizionale, ma dal gusto regale, Sofia si guadagnò il benestare del re, e per le voci dei vicoli di Napoli addirittura il ruolo di amante.
Ma che ne poteva mai sapere la gente che lei non vendeva l’amore al re, ma la passione per il cibo, quello popolare, quello che ti inebria tutti i sensi, dal gusto all’olfatto, e di cui non ne puoi fare a meno.
Il mitico cono napoletano da passeggio si riempie di tante delizie fritte da scegliere secondo i propri gusti anche nel mitico locale il ” Cuoppo – Friggitori Napoletani che si trova in via San Biagio dei Librai, 23 .
In questo luogo troverete mozzarelline, alici, rotelle di calamari, patate, verdure in pastella, crocchè, arancini e frittatine di pasta che vengono fritte sul momento risultando croccanti e leggere, perfette per una sosta golosa e da gustare facendo una passeggiata.
Un’ altro mitico cuoppo fritto da gustare potete cercarlo all’angolo take-away della storica pizzeria e friggitoria Di Matteo che si trova in Via Tribunali 94. Accanto al suo ingresso principale c’è, infatti, una vetrina stracolma di paste cresciute, crocchè, arancini, frittatine di pasta e verdure in pastella.
Come però dimenticare parlando di frittura la Friggitoria Vomero che si trova in Via Cimarosa 44. ( nei pressi di Piazza Fuga ).

Un altro emblema del fritto in città è quello di FIORENZANO che si trova nel famoso mercato della Pignasecca, un luogo popolare e popoloso della città, dove si trova il più noto mercato alimentare della città. Qui è impossibile non essere rapiti dalla loro enorme vetrina che sfoggia orgogliosa un’ampia varietà di preparazioni; dalla classica pizzetta, alla montanara fritta, alla frittatina di pasta, al delizioso panino con le melanzane a funghetto, i crocchè, gli arancini di riso, paste cresciute, fiori di zucca ripieni, il classico cuoppo misto .
Caotico e colorato, questo mercato, possiede delle chicche incredibili di “cucina di mercato” Qui il cibo regna sovrano ed è teatro di fenomeni che poi hanno conquistato mezza Italia, come il caso di Con Mollica o senza,I due hanno aperto una nuova salumeria a Napoli, che ha preso il nome “Con mollica o senza “, una salumeria che oggi sforna all’incirca mille panini al giorno.Un luogo ideale per fare merenda con un panino.
In un angolo della strada, in via Pignasecca n1, si trova un’altra salumeria il cui profumo avvolge l’intera via, catturando l’attenzione di chiunque vi passi accanto. Si tratta del negozio di ALIMENTARI RUSSO dove potrete consumare le classiche “marenne” ai formaggi, ai salumi, al pane fresco.
Ma parlare di “marenna”, il pranzo degli operai che, con un panino riempito di ogni bontà immaginabile pranzava nella pausa del suo faticoso lavoro) non possiamo accenare al famoso “cuztiello”. Risulterebba infatti addirittura assurdo non accennarvi a quel panino, preferibilmente casereccio, svuotato della mollica e riempito con polpette al sugo di pomodoro.
N.B.Un cuzzetiello è la parte finale di un filone di pane, quindi la parte conica, sovente svuotata della mollica e riempita con i condimenti e le grandi preparazioni della cucina partenopea.
Il luogo divenuto famoso in città per la vendita dei cuzzitielli take away, con i condimenti più disparati. è quello che si trova in Via Mezzocannone 75, chiamato TANDEM . Qui si parte dal cuzzitielli al ragù , si continua ,co quello salsiccie fiarielli e si si finisce con la peperonata.
In molte salumerie (o anche nelle tavole calde) , questa prelibatezza la si fa col cuzzetiello di pane cafone che si può imbottire al sugo (per esempio una bella cotena al ragù) oppure in bianco con una bella coppia di salsicce e friarielli.
L’ultima frontiera del panino si chima però “PUOK” e si trova in Spaccanapoli (Piazzetta Nilo 9, Napoli)o al Vomero (Via Cilea 104, Napoli). Si tratta di un burger store take away che serve iconici panini preparati con ingredienti freschi e ricette uniche.
Ma inserire in una frase panino e napoletano, senza parlare del “pagnottiello” è quasi un sacrilegio. Un panino non farcito, perché cotto già farcito s con salumi e formaggi e tanto strutto.
Qualcosa di gustosissimo. !Tutte le rosticcerie li fanno, e anche tanti bar li tengono. Avete solo l’imbarazzo della scelta!
La leggenda vorrebbe che nei forni napoletani, dove si preparava il pane cafone, a volte avanzava un po’ di impasto. Con i piccoli ritagli di pasta spesso si realizzavano i taralli rustici, intrecciando due striscette di impasto e guarnendoli con pepe e mandorle.
In altri casi il panetto di impasto veniva guarnito con gli avanzi della cena, quello che avevano in casa: formaggi, salumi.
E così nasce il panino napoletano, più leggero del pagnottiello fatto di pasta di tortano ed imbottito pesantemente di cicoli e “nzogna”.
Forse per questo fu chiamato panino, piccolo panetto, più leggero rispetto al pesante ristetto al casatiello .
Un punto di un riferimento per il pagnottiello in città resta sempre quello della MASARDONA che si trova a Piazza Vittoria 5. Queso è uno di quei posti dove ancora lo si trova come tradizione comanda. Ben unto e farcito, di dimensioni decisamente generose ed abbondanti anche per due persone.
Queste masardone venivano usate come portaordini, come staffette o corrieri, alle dipendenze del capo bandito. Proprio come la staffetta nonna Anna, la messaggera, la Masardona che consegnò con perizia la lettera, speriamo d’amore, quasi un secolo fa.
Nato come rustico umile, oggi è considerato una pietra miliare dello street food napoletano.
E non va confuso neppure col pagnuttiello o col panuozzo!
Il panino napoletano è avvolto su se stesso, ha un impasto diverso ed è molto più morbido del coriaceo pagnottiello.
Chiacchierando di pagnotiello non dobbiamo comunque dimenticare il famoso PANUOZZO , per gustare quello originale , come tutti sanno in città, bisogna spostarsi a Gragnano, una cittadina non molto distante dalla penisola sorrentina dove il panuozzo è nato, ma sono ormai tanti i posti che lo propongono anche in città. Si tratta di un lungo panino realizzato con la pasta della pizza e preparato al forno in due fasi: dopo una prima cottura viene tagliato, farcito con i più svariati ingredienti e poi nuovamente infornato, per ottenere un prodotto morbido e fragrante. Ideale per un pasto veloce ed economico, ad esempio una pausa dal lavoro
Chiacchierando di pagnotiello non dobbiamo comunque dimenticare il famoso PANUOZZO , per gustare quello originale , come tutti sanno in città, bisogna spostarsi a Gragnano, una cittadina non molto distante dalla penisola sorrentina dove il panuozzo è nato, ma sono ormai tanti i posti che lo propongono anche in città. Si tratta di un lungo panino fatto con l’impasto della pizza farcito con i più svariati ingredienti.
Un’altro posto dove poter assaggiare un gustoso panuozzo è offerto dalla pizzeria Mareluna l’arte del Panuozzo, che però si trova in periferia di Napoli, a Villarica (Via G. Amendola, 10) o Giugliano (via Luigi Settembrini, n. 18), mentre un posto dove è possibile gustare il panuozzo senza allontanarsi troppo dalla città è nel punto di Eccellenze Campane, un centro dove è possibile mangiare tutto ciò che di magnifico c’è sulle tavole campane e il panuozzo è uno di questi.
Indirizzo : Via Benedetto Brin, 49 o Via Partenope 1/B
Negli utimi tempi si è aperto a Napoli, in zona Fuorigrotta, “Mr Panuozzo”, in via Filippo Illuminato, 42 – 44, un nuovo punto di riferimento per i buongustai napoletani del panuozzo classico e panini fragranti e soffici, mai pesanti (perché l’impasto viene ben lievitato ed idratato, come vuole la tradizione gragnanese), farciti con prodotti di altissima qualità, nominati e assemblati in modo tale da celebrare la cultura, le tradizioni, il folklore napoletano (c’è, ad esempio, il panino intitolato ad Eduardo De Filippo, quello dedicato a Pino Daniele, a Vincenzo Salemme, a Biagio Izzo, a Pulcinella, a Massimo Troisi). Il tutto “condito” da un servizio di sala accogliente, divertente, “poco convenzionale” e gratuito! Il personale “urla” le ordinazioni in cucina, parla napoletano, si esibisce in divertenti sketch e parodie, e in alcune sere ci scappa anche uno “spettacolino”…
La cosa che comunque rende speciale il panuozzo è quello che può essere farcito come meglio vogliamo, al suo interno si mescolano infatti tanti sapori, il tutto contornato dalla croccantezza del suo impasto e dal profumo caldo delle pietanze appena cotte. Insomma il panuozzo è un vero e proprio paradiso per i sensi. Detto ciò non vi resta altro che scegliere di farcire il panuozzo con quello che più vi piace.
L’ultima frontiera in tema di pasta street food è rappresentato oggi in città dalla classica frittata di pasta . Si, proprio quella che da piccoli mangiavate dalla nonna . Essa ogi esiste in versione Take Away e la potete assaggiare nella sua versione classica in Via Tribulani 73 da ” GIRI DI PASTA ”
L’originale, quella classica,è fatta con pasta, pancetta, provola di Agerola, uova bio, pecorino romano, parmigiano Reggiano e pepe nero.
In questo posto la frittata viene propostaroposto in tantissimi gusti suddivisi nelle proposte Classiche, Gourmet e Special, ma sempre tutte fatte solo con ingredienti tipici della Campania di ottima qualità e con la pasta di Gragnano,i pomodoridel Piennolo, i funghi porcini di Roccamonfina, la ricotta di Montoro e tante altre bontà locali.
Anche la mitica frittatina di pasta oggi si è trasformata in fast food , Essa è il infatto nuovo formato dello street food napoletano che fa convivere in esso la bontà della pasta con la praticità del cibo di strada.
In versione mini, la frittatina di pasta si trova spesso dentro i cuoppi, ma per assaporarla al meglio il consiglio è di comprarne una intera, grande più o meno come una ciambella.
Le fittatine sono perfette da mangiare per chi vuole passeggiare per la città. È piccola rispetto ad una frittata di maccheroni e si realizza in maniera diversa, anche se in comune c’è l’uso della pasta. Si predilige quella lunga, come bucatini o spaghetti, ed ha un ripieno di beciamella, provola, carne macinata e piselli ,anche se alcuni locali hanno creato delle versioni con friarielli, genovese e pasta e patate. Immersa in una pastella e poi fritta, risulta croccante fuori e morbida e cremosa dentro.
Ovviamente questa delizia la troverete in quasi tutte le rosticcerie, friggitorie e pizzerie della città , ma se volete un mio consiglio ( io ne vado matto ) quella classica ( la più buona ) le potete gustare dalla Rosticceria LA PADELLA in via Piazza Arenella 21 e dalla rosticceria Imperatore ai Colli Aminei al civico 66.
Assaggiare questa classica frittatina di pasta fatta croccante fuori e morbida dentro grazie al suo impasto fatto di beciamella arrichita da piselli e carne ,è un piacere che almeno una volta nella vita una persona si deve concedere.
Neli stessi posti troverete anche la possibilità di assaggiare delle buone pizze fritte fatte con l’impasto ripiena di ricotta oppure di scarola, olive nere e capperi.
Una buona frittatina di pasta classica la potete comunque gustare da “Giri di Pasta” che si trova in via Tribunali 73 e al Vomero in Via Bernini 12, oppura anche dalla pizzeria Di Matteo in Via dei Tribunali 94.
Sempre nel centro storico in Via del grande Archivio 23/24 , una buona frittatina la potete assaggiare dal PIZZERIA LA FIGLIA DEL PRESIDENTE, una famosa pizzeria del centro, chiamata così in ricordo della visita del Presidente Clinton . La sua frittatina è un tripudio di sapori, una pepita di gusto croccante all’esterno e morbida e gustosa all’interno. Quel tocco di ragù, oltre alla carne, alla besciamella, alle verdure, ai piselli e al formaggio, la rende speciale e questa speciale frittura risulterà sempre leggera e poco unta.
Come avete capito la frittatina è veramente qualcosa da assaggiare a Napoli e non vi preoccupata in quale luogo vi trovate , Ci sono locali dove queste sono veramente buone come per esempio quello in via Carlo III , dove la frittatina di pasta, in genere piùgrande delle dimensioni medie degli altri locali, è resa speciale anche da quel tocco di sugo di pomodoro che le conferisce un sapore più intenso. Essa è preparata inoltre, con maccheroni ed un ripieno di carne, provola di Agerola e piselli e fritta alla perfezione, di modo da risultare al contempo leggera, croccante e molto gustosa.
Ah ! Dimenticavo il nome :Rosticceria Vestuto-Piazza Gian Battista Vico, 46,
Se invece vi trovate nell’antica zona di Piazza del Carmine,non abbiate nessun dubbio. La frittatina in questo luogo la trovate nella storica PIZZERIA DEL POPOLO. Qui tra crocchè, arancini, zeppole, montanare e timballi, si distingue in maniera particolare la frittatina di pasta. Oltre alla versione classica, si può scegliere anche la variante con salsiccie e friarielli un’accoppiata vincente che fonde due tradizioni della cucina napoletana.
Se invece vi trovatevicini al lungomare ecco a voi la frittatina preparata con ragù alla nota Pizzeria 50 Kalò di Ciro Salvoin Piazza Sannazaro 201. Gli altri ingredienti sono i piselli, la provola di Agerola. Mentre la pasta utilizzata è quella di Gragnano Igp. Ingredienti di alta qualità per una frittatina che risulterà croccante e morbida, molto leggera e facilmente digeribile.
Se invce vi trovate alla Sanità, un punto di riferimento per la vostra frittatina non può essere altro che la PIZZERIA CONCETTINA AI TRE SANTI, Qui la frittatina viene preparata alla grìenovese , quindi con il ripeno realizzato seguendo la tradizionale ricetta napoletana a base di cipolle e carne. Una tappa obbligatoria, soprattutto come pausa dopo una visita ai luoghi di interesse della zona.
Giusto per continuare a parlare di pasta, ricordatevi che oggi a Napoli per mangiare un primo piatto non devete necessariamente sedervi ad un ristorante .
Esiste infatti in questa città la possibilità di gustare un primo piatto a base di pasta in versione take Away. Basta rivolgersi per tutto questo al ristorante fast food “120 grammi “che si trova in Via Mezzocannone 24 .
In verità se volete camminare con la pasta a spasso mentre girate per Napoli, qualcosa esiste anche in Via Broggia 5 nel centro storico tra via Pessina e via Costantinopoli. Il locale che si chiama “PASTFOOD”, come sottolinea il nome, è un fast food dedicato alla pasta nel cuore del centro storico di Napoli. Qui potrete piatti di pasta fresca soprattutto la nerano, ognuno con un formato diverso e tutti preparati a regola d’arte
Curiosità: Il tratto di strada del nostro centro storico che va da via Pessina e via Costantinopoli è stato dalla fine del Cinquecento alla fine dell’Ottocento occupata dalle Fosse del Grano oltre che dalla murazione voluta da don Pedro di Toledo, murazione che venne gradualmente demolita nel corso dei secoli.
Tra la fine del ‘500 e inizio ‘600 le Fosse del Grano erano state costruite a ridosso delle mura toledane e fin quasi all’altezza di Port’Alba per costituire il deposito granario della città. Si chiamano “fosse” perché probabilmente in prima fase si sfruttarono delle cavità naturali mentre in un secondo momento si trasformarono in veri e propri magazzini in elevazione.
Esse furono realizzate a ridosso delle mura e non all’interno per la cronica carenza di spazio urbano e d’altra parte per la possibilità di difenderle comunque con i cannoni dalle mura.
La parte di Fosse al Mercatello costituiva in realtà un ampliamento del primo nucleo che era sorto nello spazio attualmente occupato dalla Galleria Principe di Napoli.
A proposito di tempi antichi , dovete sapere che quando i contadini, e cafune, scendevano a Napoli dalle montagne dopo qulche ora venivano presi da morsi della fame, essi al posto della tradizionale pizza al forno, erano soliti preferire la prizza fritta farcita con salumi e latticini.
Affamati come erano prediligevano, , coniciarono a cercare qualcosa di più leggero che non gli creasse sonnolenza per i loro affari. Cominciarono così progessivamente a togliere dalla pizza la ricotta ed i salumi, lasciando una semplice farcitura di pomodoro, basilico e formaggio.
Nacque così la famosa Pizza Montanara che oggi trovate facilmente in tutti i bar e rosticceria che vi circodano.
Adesso capite perche si chiama MONTANARA ?
Una buona ?
Solo per età e nostalgica perdita di giovinezza vi dico due nomi :la rsticceria LA PADELLA in piazza Muzii e il bar Moccia a Via dei Mille ( oggi purtroppo chiuso ).
CURIOSITA’: Con il termine “cafone ” in tempo passato, si era soliti indicare gli abitanti delle campagne che, in occasione degli affollati mercati cittadini, arrivavano tenendosi legatil un l’altro “c’a fune” per non perdersi nella confusione cittadina ( “con la fune” = “ca’ fun” = cafone) .Essi per non smarrirsi, camminavano al seguito di un capofila napoletano, legandosi, per collegarsi a lui, come una cordata di scalatori in montagna.
Secondo altri invece si riferisce al solo fatto li stranieri che gli stranieri che venivano a Napoli, dal 1600 in poi, tenessero ben legata con uno spago (fune) la scarsella contenente le monete per i loro acquisti ( evidentemente gli ‘scippatori’ erano già attivi 4 secoli fa) .
Nell’entroterra della provincia di Terra di Lavoro ovverosia nel basso Lazio, intorno al 1400, alle fiere che si tenevano di paesi del frusinate o della Pianura campana i contadini spesso arrivavano con delle funi arrotolate intorno alla spalla o alla vita , con cui poi si portavano a casa gli animali (vacche, pecore, ecc.) che compravano . Motivo per cui questi venivano identificati dagli abitanti locali come quelli co’ ’a fune..
Secondo un’altra tradizione, quando le nobili famiglie napoletane avevano la necessità di traslocare, chiamavano “chill co’ ’a fune” ovvero la ditta di trasloco che con funi e carrucole passava il mobilio dai piani al terreno, poi sempre “ca’ fune” (con la corda) assicuravano il tutto ai carri. Data la bassa scolarità del personale “chill ca’ fune” si trasforma in “chill cafune” e in italiano corrente “quei cafoni”.
A Napoli esoste anche una pizza rustica preparata con due strati diversi di impasto. Sotto c’è la pasta della pizza; al centro una farcitura filante di provola, prosciutto cotto e pomodori; di sopra uno strato friabile e croccante di pasta sfoglia.
Il suo nome è la FRANCESINA, e questo lascia almeno suppre che le sue origini fossero francesi E invece NO , questa pizza è napoletanissima,
La parigina napoletana è una pizza rustica . mentre quella france è un dolce …
Secondo alcuni quella napoletana si chiama parigina,solo perchè nelle rosticcerie partenopee per preparle venne fatto uso della pasta sfoglia che allora, durante il decennio francese,era chiamata ” pasta francese perche importata da un cuoco francese.
Per altri invece il nome sembra che derivi solo da una diversa interpretzione dialettale .La pizza sembrerebbe, infatti che fu preparata “P”a riggina”‘, ovvero “per la regina”, da cui parigina … una imprecisata sovrana. regina Carolina ? )
Qusta pizza parigina – quella buona – è una goduria per consistenze e ripieno. Si trova in tranci, cotta in teglia, sovente nelle panetterie e pizzetterie d’asporto.
In città di quelle buone le trovate al Panificio Ambrosino al Vomero inVia Kerbaker 45,e alla Focacceria che si trova invece i via Emanuele Gianturco.
Visto che parliamo di panifici, conoscete quella ricetta di recupero nata dalla fantasia dei panettieri napoletani che per recuperare gli scarti della pasta lievitata. Sugna -grasso di maiale- e pepe, inventarono il tarallo napoletano ?
Parliamo qui di un autentico pezzo di storia da burnout calorico. Il tarallo sugna e pepe (la sugna è il grasso del maiale tipico nelle cucine partenopee, dal salato al dolce) si consuma a qualunque ora passeggiando per il lungomare, come aperitivo, spezzafame e per qualcuno anche come pasto completo, visto che non stiamo propriamente parlando di un gambo di sedano.
Si tratta di un piccolo anello di pasta al forno con sugna e pepe, spesso ricoperto di mandorle che dobbiamo assolutamente assaggiare dallo storico tarallificio Leopodo in Via Foria 212, nato più di un secolo fa .
A forma di treccine intrecciate e tondeggianti, corpulenti, i taralli nacquero sul finire del Settecento: la storia raccontata vuole che i panificatori non sognassero neppure lontanamente di buttar via i ritagli di pasta ottenuti dalle loro lavorazioni quotidiane e quindi come si era soliti fare al’epoca nell’ambito di un risparmio economico familiare, cominciarono ad aggiungere ai ritagli di pasta ingredienti molto calorici, ideali per affrontare lunghe giornate fatte di lavori faticosi: la sugna, un bel po’ di pepe e le mandorle.
Abbrustoliti ed unti,con il tempo i taralli venivano poi venduti dai tarallari ambulanti.
Fino agli anni 80 infatti a vendere i taralli per strada esisteva in città la figura del tarallaro. Spesso li si vedeva girare avanti e indietro per la città con la cosiddetta sporta , cioè un cesto di vimini intrecciato, ricolmo di caldissimi taralli nzogna e pepe ,poggiato sul capo o tenuto a tracolla sulle spalle .
La loro figura ha dato nel tempo luogo ad una simpatica espressione napoletana che dice: Pare ‘a sporta d’o tarallaro , che tradotto letteralmente, significa “Sembri il cesto del tarallaro”. Un’espressione verbale che sta ad indicare colui che, per una qualsiasi ragione, sia solito spostarsi continuamente o costretto a girare la città in lungo e largo per smaltire l’intera merce di giornata..
Oggi la figura del tarallaro è quasi del tutto sparita ed i taralli possono tranquillamente essere acquistati nelle numerose panetterie presenti in città. L’ultimo esponente della lunga tradizione di questi venditori è stato fino alla fine degli anni ’80, il mitico Fortunato celebrato da Pino Daniele in una sua famosa canzone . Egli era un povero tarallaro , che attraversava in lungo ed in largo la città con la sua cesta colma di taralli con un semplice passeggino su cui era messo in evidenza un cartello con la scritta “LA DITTA FORTUNATO RESTA CHIUSO IL LUNEDì”. Fortunato davvero era una vera e propria ditta racchiusa in una sola persona: lui cucinava i taralli, lui li metteva in commercio e lui li pubblicizzava urlando “Fortunato tene a rrobba bella! ‘Nzogna ‘nzogn”.
Una frase ormai diventata storia che ha persino ispirato a suo tempo il grande Pino Daniele a scrivere una canzone dal titolo “Fortunato.
Trovare oggi chi vende i taralli per le strade di Napoli è molto facile. Panifici, pasticciere , bar e addirittura le più moderne “tarallerie” sono luoghi dove è facile rimanere estasiati dalla moltitudine di gusti pronti a spezzarvi il palato e a ricaricare le forze per continuare la passeggiata per i vicoli
I più buono poete trovarli da LEOPOLDO INFANTE che si in Via Toledo 8 Infante , ma anche al Vomero.dove sono presenti ben tre sedi piazza degli artisti-Largo antignao e piazza Vanvitelli)
N.B.Un giovane format è anche presente nel cuore della movida universitaria napoletana, Esso si chiama Taralleria Napoletana e si trova inVia San Biagio dei Librai 3,. Qui potrete gustare taralli di buona fattura e non troppo unti,
A Napoli ci sono comunque anche dei piccoli taralli di pasta soffice, una choux leggermente modificata, ricoperti di granella e zucchero a velo. Un dolce semplice, nato, prova dopo prova, da un’intuizione, leggero come la brezza, da cui il nome “Via col vento”che si trova in Via Giannone 16.
E se abbiamo parlato di taralli , possiamo mai non parlavi delle FRESELLE ?
Ci troviamo di fronte alla storia della gastronomi napoletana .
La fresella napoletana è una particolare fetta di pane cotta due volte nel forno schiacciato assai duro e dunque biscottata che ha bisogno di essere ammollato nell’acqua per poterlo addentare.
Si tratta di un cibo molto usato nel passato dal popolo che non avendo grandi possibiltà economiche ne faceva un uso ampissimo e ovviamente piacevano tanto anche a re Ferdinando, che fin dalla giovane età amava stare in mezzo alla gente e parlare ovviamente la Lingua Napoletana preferendo alla compagnia dei vari nobili e aristocratici di corte il contatto diretto con la gente semplice, come i pescatori del quartiere di Santa Lucia.
Ferdinando anche a corte parlava solo napoletano, frequentava gli scugnizzi di strada e passava intere giornate con loro a cacciare, pescare e a rivendere pesce e selvaggina al mercato. Queste abitudini gli valsero l’affettuoso nome di ” Re Lazzarone” .
Il nostro re Ferdinando IV di Borbone( re “nasone “) era molto goloso di freselle amava mangiarla di sera ammollata nel brodo di caldo (a zuppa e cozze), di trippa (a zuppa e carnacotta) ma anche pressere condita con ortaggi nella caponata napoletana e nell’acqua-
sale .
La consorte non gliele faceva mancare mai fresche.
A Napoli le freselle le vendeva il tarallaro, o anche le tarallare, delle donne meravigliosamente riprodotte anche nei famosi presepi di San Gregorio., ma anche gli ostricari di Mergellina, che come tutti sappiamo era golosissimo di cozze, vongole, ostriche e di tutti i frutti di mare offerti dal generosissimo mare campano.
Durante l’ottocento e fino all’inizio del novecento sul lungomare partenopeo le bancarelle che vendevano pesce e frutti di mare, avevano un’insegna con la scritta “ostricaro fisico”. Ma non c’erano solo ostriche; sulle loro bancarelle era possibile trovare ogni tipo di frutti di mare come datteri, tartufi, lupini, vongole, cozze, ecc…
I napoletani consumavano crudi moltissimi frutti di mare e le bancarelle degli ostricari esponevano ricche ostriche già aperte e pronte per esser consumate con una abbondante spruzzata di limone.
CURIOSITA’ : Una certissima leggenda vuole che l’appellativo di “ostricaro fisico” fu assegnato dal re Ferdinando I Borbone Due Sicilie al suo ostricaro di fiducia. Sembra che la cosa sia andata più o meno così.
Tutto comincia nel Borgo di Santa Lucia i cui residenti venivano chiamati luciani; erano gente dediti alla pesca e al commercio dei prodotti del mare: che avevano un
rapporto privilegiato con re Ferdinando, che amava spesso mischiarsi col popolo minuto nelle zone del porto. Essi erano storicamente fedelissimi alla casata Borbone ed erano anche i fornitori delle cucine di casa Borbone.
Si racconta che un giorno o luciano d’orre portò a corte una cassetta di ostriche. Il re volle ringraziarlo: “Guagliò quanto ti devo dare?””No maestà non voglio soldi; se volete ringraziarmi datemi un titolo onorifico”
Eh, mica facile! Un titolo onorifico per una cassetta di ostriche. Ma re Ferdinando era un noto burlone e allora decise di accontentarlo a modo suo. All’epoca devi sapere che i medici laureati erano detti “Dottor fisico” allora re Ferdinando per prendersi gioco del povero pescatore lo nominò “Ostricaro fisico”.
Ma ‘o luciano prese la cosa molto sul serio. E si fregiò sul serio del titolo concessogli da re, al punto di estenderlo a tutta la categoria di ostricari.
Gli ostricari napoletani erano infatti una sorta di casta. Il loro era un mestiere molto difficile; bisognava immergersi e staccare i frutti di mare uno ad uno dagli scogli. Poi c’era da selezionare i pezzi migliori.
E la competenza si tramandava di padre in figlio.
Quel giorno questa casta chiusa, un vero ordine di cavalierato, aveva trovato il suo simbolo: il titolo concesso da Ferdinando di “ostricaro fisico”; e tutti gli ostricari napoletani si fregiarono di quel titolo e sulle bancarelle troneggiò il divertente cartello.
Esistono tanti tipi di freselle, freselline, gallette, pane biscottato; tra le più note ‘a fresella ‘e Castiellammare (a galletta) e a fresella a maruzzara (quella nata per immergersi in una zuppa di maruzze).
Naturalmente in città ne troverete tantissime e potrete assagiarle inzuppate nel brodo di purpo , nella a zuppa e cozze, di trippa (a zuppa e carnacotta) ma anche pressere condita con ortaggi nella caponata napoletana e nell’acqua sale .
La capunata napoletana , quella con pane e pummarola tanto per intenderci è a Napoli considerato un piatto estivo, sopratutto quando non si ha voglia di cucinare (“stasera c’arrangiammo cu ddoie freselle!”)
Esso è infatti la cosa più semplice e veloce da realizzare in pochi minuti . Basta mettere insieme le varie rummasuglie (residui) trovati in frigo, aggiungervi dell’abbondante pomodoro spezzettato ( qualcuno ci mette i capperi , olive nere, mozzarele , tonno o acciughe sott’olio) metterle su delle freselle appena spugnate ,condire ll tutto con l’olio d’oliva , sale e origano, ed il gioco è fatto .
A questo punto dovete solo spezzettare la fresella ,
N.B.La parola fresella deriva dal latino frendere che significa spezzettare, macinare. E infatti la croccante fresella va consumata appunto spezzettata.
Come avete potuto natare la freselle è i cibo povero per eccellenza perchè costa poco me è anche , secco fin dalla sua origine (e quindi ha il vantaggio di non andare a male).
Alcune delle freselle più note erano quelle di Castellammare: le famose gallette e Castiellammare che alcuni racconti popolari legano ai marinai .
Si racconta tra le voci del popolo che i marinai ammollassero le freselle direttamente nell’acqua di mare (perché venivano preparate senza sale) ma erano talmente dure che non si riusciva a mangiarla se non dopo averla lasciata molto tempo in ammollo.
N.B E’ questo il motivo che quando vogliamo indicare una persona testarda, dalla testa dura (ma anche delle persone avare) si dice “è ‘na galletta ‘e Castellammare” proprio perché toste, sode, che non si ammorbidiscono mai. Ecco anche perché, dopo aver invitato varie volte una persona tirchia a cacciare i quattrini, i napoletani dicono: e mò se spogna sta galletta!
CURIOSITA ‘: Un altro detto carino legato nella nostra città alle freselle e al biscotto duro che lei rappresenta, e’ quello spesso usato per descrivere una serie di situazioni divertenti; per esempio per descrivere un’occasione vantaggiosa della quale non si può trarre profitto si dice’O Signore manna ‘e vascuotte a chi nun tene e diente.
Oppure quello legato alla monaca di pianura che ha sempra qualcosa da ridire :me pare a Monaca’e Pianura è una frase con la quale in città si è soliti rivolgergi a chi non è mai contento di qualsiasi cosa riceva. Si racconta infatti che a questa monaca, una fetta di pane troppo morbida la disgustasse, ma la fresella dura le faceva male ai denti. In napoletano, si usava quindi dire, con sottile doppio senso: me pare ‘a monaca ‘e Pianura, troppo muscio nun le piace, troppo tuosto le fa male.
Di tanto in tanto se passeggiate per i vicoli della nostra città state attenti alla … castagna !
Vi può infatti capitare di veder camminare per le strade ed i vicoli di questa città delle persone che consumano delle buone castagne raccolte in una busta di carta marrone che richiama il coppo.
Solitamente si vendono per strada, da partedi venditri che con con modeste risorse (un fornello di grosse dimensioni, un pentolone, una padella bucherellata ed un panno di lana per trattenere il calore delle caldarroste), riesce nel primo periodo invernale ad allietare gli infreddoliti passanti con un cartoccio di castagne arrostite (cotte sul fuoco) o allesse (sbucciate e cotte in un brodo aromatizzato con alloro, finocchietto e sale).
Sono gli ultimi castagnari a resistere ai cambiamenti del tempo , un antico mestiere destinato a scomparire nel tempo. Nella tradizione popolare questi venditorii venditori di un tempo urlavano per attirare acquirenti. “Calde e arrostite, venite a prendere le castagne buone!”
N.B. Il castagnaro era un mestiere antichissimo molto diffuso sopratutto a Castellammare di Stabia, grazie alla sua estrema vicinanza con il “Faito”, monte ricchissimo di secolari castagneti.
CURIOSITA’: A Napoli, quando si dice “guardateve ’a castagna”, non si sta parlando di ammirare dei bei frutti autunnali. In realtà, è un modo di dire molto particolare, un invito a fare attenzione… alle parti intime. Sì, perché da queste parti le “castagne” si sfiorano spesso per scaramanzia, come gesto apotropaico.
Le castagne divenuta oggi anch’esse un simbolo dello stret food napoletano le potete trovare su alcuni carretti delle castagneposti agli angoli di olte antiche strade di napoli, Esempio su tutti è il famoso Carmine che nesua meravigliosa arte di arrangiarsi , tiene la sua bancarella, situata in fondo a Vicolo Giganti vicino alla storica pizzeria Di Matteo, Egli durante l’inverno,con le le sue caldarroste riscalda le mani e lo stomaco dei passanti. Ma non si ferma lì: d’estate prepara granite e in autunno serve brodo di polpo… trasformandosi continuamente in un personaggio simbolo dello street food partenopeo.
I NOMI DELLE CASTAGNE
A seconda di come vengono cucinate, le castagne prendono nomi diversi:
• Allesse: bollite e private della buccia esterna;
• Palluotte: bollite con la scorza ancora intatta;
• Verole: arrostite, ovvero le famose caldarroste;
• D’o prevete: essiccate lentamente, le cosiddette “castagne del prete”.
Nel suo celebre “Il Ventre di Napoli”, Matilde Serao descriveva come per pochi soldi si potesse comprare un piccolo tesoro di castagne allesse, sbucciate e servite in un brodino rosso. Un tempo i napoletani ci inzuppavano il pane, trasformando il tutto in una pietanza vera e propria,
Adesso vi devo parlare ‘do per ‘e o muss (piede e muso del maiale), qualcosa che può non piacere a tutti , Essa infatti è figlio del riciclo,ed è interamente composto dal quinto di maiale di maiale e mucca e alcune frattaglie come il piede di maiale, il muso di vitello e la trippa, saggiamente lessate e condite con sale e limone.
Servito nel solito cuoppo o nella tipica carta bianca . tutto questo viene infatti conditi con abbondante limone, lupini, olive, sovente del peperoncino e sale che proviene direttamente da un corno di osso vero.
Questo tipico modo ovvero di alimenarsi nasce da les entrailles, (le interiora di animale) che venivano buttate giù dai balconi reali per i poveri.
CURIOSITA’ : A fine Settecento, i cuochi del Regno di Napoli venivano mandati da Carolina d’Austria alla corte di Parigi per imparare le ricette che più piacevano ai reali. Dalla storpiatura del termine “monsieur“, nome con il quale essi venivano chiamati al rientro dalla trasferta, deriva il loro appellattivo: i “monsù“. Questi cuochi cucinavano tanta carne, ma di animali di cui non venivano utilizzate le interiora perché erano considerate impure e dunque alimento troppo povero per essere mangiato dalla famiglia reale.
Quando quindi i monsù svisceravano gli animali, questi lanciavano le interiora dalla finestra di corte per permettere al popolo affamato che aspettava al di sotto di essa di prenderle per sfamarsi. Quando il cuoco lanciava le interiora all’esterno gridava: “les entrailles!”, da qui, dunque, il termine napoletano “zandraglia” o “zendraglia”. E nel momento in cui queste interiora venivano lanciate, le povere donne si accapigliavano come belve affamate su quei resti, per cercare di acchiapparle in maniera rude e poco signorile , strillando e se necessario ricorrere alle mani in una lotta senza scrupoli.
Ora per un solo momento immaginate una Napoli borbonica, nettamente divisa tra povera gente e ricchi. Immaginate questa folla di poveri che corre, urlando les entrailles! lesentrailles! Rapidamente, nella lingua del volgo divennero le zendraglie.
Oggi a napoli con il termine Zantraglia si è soliti indicare una donna volgare, chiassosa, aggressiva, poco raccomandabile, ma che porta dentro la nota amara della nostra tormentata vicenda storica, segnata da incolpevoli subalternità e da ancestrali ristrettezze. Essa infatti si ricollega a quelle famose entrailles (interiora di animali macellati) di cui parlavamo sopra che, alla fine dei sontuosi banchetti regali in Castelnuovo, previo annunzio dall’analogo richiamo lanciato dalla Torre dell’Onore (qualifica nella specie molto poco appropriata), venivano magnanimamente sversati al popolino ammassato in vociante (ed avvilente) attesa nei tossati del Maschio.
Singolare lo slittamento semantico del termine che, muovendo dalla portata di viscere, ha in seguito designato una moltitudine di individui affamati ed infine una sola sgradevole persona.
La fantasia napoletana ovviamente non poteva trovare altro modo miglior per mettere in evisenza un posto dove mangiare della trippa,Il poesto si chiame infatti “TRIPPERIE LE ZENDRAGLIE” e si trova nella zona del famoso mercato della Pignasecca. Qui è possibile deliziarsi con le ricette della tradizione napoletana, dai primi piatti universalmente noti alle specialità meno scontate a base di trippa, la quale viene proposta in tutte le salse: al sugo, bollita, fritta, con i fagioli, all’insalata. Se non avete molto tempo a disposizione almeno fermatevi per una porzione di tradizionale “per’ e muss’” da portar via.
Nel colorato e vivace mercato della Pignasecca la trippa la potrete assaggiare nella tipica Tripperia Fiorenzano (Via Pignasecca, 14) ma voledo potete anche comprarla nell’Antica Tripperia O’Russo (Via S. Eframo Vecchio, 68) .
Se invece delle trippa volete mangiare del pesce, sappiate che sempre qui alla Pignasecca si trova le “PESCHERIA AZZURRA ” una gemma blu incastonata nel mercato che di giorno vende il pescato frescho mentre di sera sit rasforma in un locale molto informale dove poter approfittare per un pranzo veloce all’aperto. Il menu offre una selezione di piatti tradizionali, gustosi e abbondanti. Alici marinate, spaghetti alle vongole,e ovviamente il loro famoso fritto misto.
CURIOSITA’: La zona della Pignasecca , deve il nome a una pineta che sorgeva proprio nel luogo in cui si trova il mercato. Il termine”Pignasecca” si rifà, in particolare, ad un’antica credenza popolare: si racconta, infatti, che un vescovo napoletano fece affiggere sul tronco di un pino una bolla di scomunica e, appena il foglio fu appoggiato all’albero, questo si seccò di colpo. Da allora la “Pignasecca” ha questo nome che ancora oggi la caratterizza.
Nella Pignasecca ma anche alle spalle di Porta Capuana, in piazza Enrico de Nicola, ( ristorante “A figlia d’o Luciano” ) o nei pressi di Via Foria (il “Chiosco di Raffaele” e la pescheria “Addo’ Figlio E Carlucciello” ) abbiamo in città anche la possibilità di consumare una pitanza che ha origini antichissime, probabilmente greche.
A Napoli, però, le notizie sul suo consumo risalgono alla metà del XIV secolo quando Giovanni Boccaccio in una lettera del 1339 indirizzata all’amico Francesco Bardi, raccontava che in occasione della nascita di un bambino (forse il figlio illegittimo dello stesso Bardi) i parenti avevano comprato un polpo e lo avevano inviato alla “puerpera”, la quale si era poi occupata di cuocerlo e di preparare il brodo.
Ovviamente vi stiamo parlando del popolare“bror e purpo”, una tazza calda, quasi bollente,di brodo di polpo, che profumo di mare e con un tentacolo di polipo che spunta dalla tazza stessa che i napoletani chiamano“ranfetella”.
Ci troviamo con questa pietanza di fronte al cibo di strada per eccellenza della Napoli antica. Esso è infatti un cibo molto popolare tra la gente del popolo napoletano e veniva considerato in passato un ottimo rimedio caldo per affrontare il freddo invernale
Nella nostra città all’epoca infatti, in passato contro la fame e il freddo c’era e c’è ‘o’ bror e purp’. Lo si beveva in tazza, in piedi con l’aggiunta di qualche goccia di limone. Esso veniva servito in chioschi con un bancone pieno di limoni. Il pesce era cotto in una pentola fumante, a cui erano state aggiunte manciate di pepe nero e sale. La tradizione voleva che “O purp s’adda cocere cu’ l’acqua soia” (“Il polpo deve essere cotto nella sua acqua”).
Ora sono certo che vi state chiedendo del perchè toccava proprio al polpo di dare origine ad un brodo caldo.
Semplice ! L’enorme quantità di polpo disponibile nel nostro mare e la facilità con cui poteva essere pescato, lo ha reso , come nel caso di altri pesci, un prodotto molto economico a Napoli per il popolo. Grazie infatti alla sua abbondanza per secoli è stato il prodotto che ci donava il nostro mare la cena dei poveri, a sfamare e nutrire le bocche dei più umili.
Tutto sta che il purpaiolo porzionava il brodo insieme a dei pezzi di tentacoli tagliati al momento con le forbici. Talvolta veniva servito aggiungendo alcuni pezzi di freselle, un tradizionale biscotto napoletano.
Assai economico, veniva spesso consigliato anche come rimedio naturale per superare diversi malesseri e spesso usato sia per affrontare il freddo che per curare il raffreddore, tanto che fu coniato il noto proverbio: “Ma la tosse e catarro, brore ‘e purpe c”o carro”. Il piatto era povero, ma prevedeva delle differenze: i meno miseri avevano uno o più ranfe (tentacolo di polpo, chiamato anche ranfetell).
“O bror e purpo ” veniva preparato e venduto nei vicoli della città, spesso in pentoloni improvvisati o direttamente in tazze di terracotta. A cucinare in strada il polipo e a venderlo al popolo affamato per pochi soldi, nelle fredde gionate invernali , erano sopratutto le donne,che venivano considerate quelle addette al mestiere.
N,B, La “pignasecca”, o vaso di terracotta, era il recipiente utilizzato per cuocere il brodo di polpo e per conservarlo caldo. Questo tipo di vaso veniva utilizzato per mantenere la temperatura elevata e per garantire che il brodo rimanesse caldo per lungo tempo
Fino a qualche anno fa, quando i bambini ancora credevano alla befana, era consuetudine assaporarlo per tradizione solo alla festa dell’Epifania, dove i genitori per affrontare la fredda serata di dicembre e riprendere le energie utili per la ricerca dei giocattoli, mantengono ancora l’antica usanza di bere in strada ‘O broro ‘e purpo,. Esso caldo e col sapore del mare, accompagna la camminata per le strade che circonda Piazza Mercato e la vicina Porta Capuano, lasciando in bocca il gusto semplice della Napoli che fu e di quella che è, tuttora ancorata nella semplicità dei propri odori autenticamente popolari.
In antichità, esso ,assieme a quello fatto con la cotica, sostituiva il brodo di carne, pietanza destinata a pochI, Si trattava di piatti più umili ma allo stesso tempo sostanziosi e saporiti . Esso veniva consumato per strada, ed in maniera particolare nella zona centrale di Napoli, a Porta Capuana. Lì c’erano tantissime bancarelle che vendevano la vivanda in tazze o bicchieri bollenti. E avevano un grosso successo. Ciò perché col brodo ci si poteva scaldare e riempire lo stomaco con davvero pochi soldi.
CURIOSITA’: Questa antica pietanza partenopea viene riportata anche da Matilde Serao nel suo libro “Il Ventre di Napoli” (1890): “Con due soldi – racconta la scrittrice – si compera un pezzo di polipo bollito nell’acqua di mare, condito con peperone fortissimo: questo commercio lo fanno le donne, nella strada, con un focolaretto e una piccola pignatta”.
Molto tempo fa nella nostra città, erano tanti i posti dove era possibile prendere un’tazz e bror e purp. Lo si poteva prendere in Piazza Carità, in Piazza Bagnoli, a Porta Capuano, in Sanità, a Forcella, a Montesanto, in Via Foria, nel mercato della Pignasecca e in tanti altri posti, ma ovviamente era la zona di Santa Lucia, il quartiere dei pescatori per eccellenza, quello maggiormente conosciuto almeno negli anni 40 come il luogo della città dove si poteva assaggiare il migliorr brodo del brodo di polpo . Esso costava solo 10 lire, tutti potevano quindi permetterselo. Centinaia di bancarelle erano posizionate strategicamente per catturare l’attenzione dei passanti: all’uscita dei cinema, ai cancelli di una scuola, nei mercati, dovunque fosse possibile essere attratti dalle colonne di vapore emesse dai calderoni bollenti, dove era cotto il polpo. Il grido dei venditori in quel tratto della nostra città era “O broooor ‘e puuurp… scàrf ‘a panza e dègn ‘o stomaco!” (“Polpo caaaldooo! Riscalda la pancia e fa bene allo stomaco!”).
Tutto questo ovviamente avveniva nei mesi freddi, mentre in estate nei mesi caldi , il brodo di polpo veniva sostituito dalla più fresca limonata, Qui , le belle luciane , spigliate ,sorridenti ,e procaci , che spesso gestivano i tanti chioschetti sul lungomare di Santa Lucia con fare malizioso gridavano a squarciagola per richiamare clienti nelle afose giornate napoletane < chi vò vevere ,che è freddo > e cantando al suono di canzoni dal dubbio significato giocavano spesso sul doppio senso on cui il prorompente seno veniva accostato alle mummare . Esse sopratutto durante l’estate , grazie alla neve ghiacciata che teneva fresche le loro bevande permetteva di rispondere in modo malizioso alla domanda <“Acquajuò! L’acqua è fresca?”: “Manche ‘a neva”.
L’acqua suffregna , una volta tolta dalle mummarelle veniva versata in piccole brocchette di terracotta ( chiamate giarretelle ) dove veniva aggiunto del succo di limone ed un cucchiaio di bicorbonato . Il risultato era una straordinaria dissedante bibita con un potente effetto digestivo , caratterizzata da una scenografica eruzione di schiuma ( prodotta dallo stesso bicarbonato ). La bevanda era da tutti considerata anche un’autentica panacea per molti dolori fisici .
Unico problema aveva un forte sapore di uovo non del tutto gradevole per alcuni .
Per questo motivo , le furbe ed intutive i luciane , ben sapendo che comunque quella che vendevano era pur sempre acqua. … nella loro vivace intelligenza ebbero l’idea di aggiungere a quell’acqua già buona del succo di limone e un po’ di bicarbonato di sodio, creando , se vogliamo , per certi versi quella che oggi si chiama la LIMONATA A COSCE APERTE .
Essa prende il nome dalla posizione che bisogna assumere per poterla buttar giù senza sporcarsi: “Quando infatti il bicarbonato veniva servito nell’acqua e limone, tutto il liquido cominciava a eruttare e le persone a quel punto per non sporcarsi dovevano necessariamente portarsi in avanti con il busto e quindi aprire poi per forza di cose “le cosce”.
N.B. Se i vasi in terracotta erano di dimensioni più piccoli , venivano ovviamente soprannominati “mummarelle ” ( termine spesso ancora oggi utilizzato per indicare in una donna delle mammelle piccole ma graziate )
Oggi questo anticomestiere degli acquaiuoli è fortemente tornato di oda grazie al denomeno turismo presente in città e per chi ama questa divertirsi a Napoli la limonata a cosce aperte, rappesenta uno di quelle cose in cui tutti più o meno amano cimentarsi per dissetarsi con una bibita fresca o per una sosta fugace a qualsiasi ora del giorno.
Napoli quindi oggi è di nuovo piena di acquafrescai sparsi per la città. dove poter bere una “limonata a cosce aperte”.
Li trovate ovunque in città , nei famosi quartieri spagnoli , negli antichi decumani ma anche a piazza Trieste e Trento ma anche a Via Chiaia ,al coeso Garibaldi e alla riviera di Chiaia .
Importante resta il fatto che la beviate il più velocemente possibile, dal bicchiere altrimentis la limonata strabocca dal bicchiere rischiando di bagnarvi… ed ecco che vpoi che spontaneamente arretrate e divaricate le gambe per non sporcarvi…
Non tutti sanno che la fama del sorbetto nacque a Napoli ad inizio settecento .
A proposito di limono , lo sapete che Napoli è famosa da secoli come la città dei “gelati sorbetti” ?
Tutti impazzivano a Napoli per questa bevanda ghiacciata formata da acqua, mescolata con succo di limone e zucchero .
I napoletani la consumavano in tutte le occasioni … anche in chiesa e Napoli in Europa era nota per essere una citta affollatissima in cui si consumavano ogni giorno cibi e bevande ghiacciate in gran quantità.Tutti erano infatti intenti a gustare sorbetti, spumoni, coviglie e pezzi duri (ghiaccioli ante-litteram) che, insieme alle limonate ghiacciate, rendevano Napoli famosa come la città dei “gelati sorbetti”,
Il sorbetto divenne quindi una vera maestria dei napoletani, e nel settecento a Napoli era una bevanda molto diffusa . Gli stessi francesi notoriamente molto critici nei confronti di qualsiasi cucina che non fosse la loro , arrivarono ad ammettere che i napoletani erano bravissimi nel fare i sorbetti.
Napoli era talmente famosa in Europa per i suoi sorbetti al limone che addiruttura i borbone incominciarono a concedere titoli nobiliari anche a maestri artigiani di queste specialità.
N.B. Si racconta che Ferdinando IV fosse particolarmente goloso di sorbetti e gelati.
A proposito di cibo… avete notato quanto mare si trova nel fast food della nostra città ?
Addirittura abbiamo un locale dove potrete mangiare dei panini di mare ma alternativi . Ed ecco a voi nel pieno cuore della via scarlatti 46, il locale Panamar che si è inserito con prepotenza fra le preferenze dei napoletani. tartare panini gourmet.
Panino solo con carne pregiata ? E allora ecco a voi la MACELLERIA TORTORA che si trova in Viale Michelangelo 42: carne d’eccellenza in formato panino, tutto take away.
Insomma come avete capito , in questa città cè cibo per tutti ed a prezzi accessibili ad ogni tasca .
Nella nostra città, dai vicoli del centro storico alle botteghe del lungomare, ogni piatto racconta una storia, ogni morso è un’emozione. Se siete turisti in cerca di un’esperienza autentica, lasciatevi guidare dal profumo della pizza, dalla croccantezza delle fritture e dalla dolcezza delle specialità napoletane.
Volete un consiglio? Camminate, annusate e fermatevi dove vedete folla e profumo. A Napoli, il miglior fast food è quello fatto col cuore.
Napoli comunque è anche la città dei dolci, con una tradizione che conquista per la sua varietà e bontà. Oltre alla celebre sfogliatella, presente in molte pasticcerie storiche come Scaturchio, Attanasio e Piantauro, non si può non citare la popella, un dolce semplice ma dal gusto autentico, a base di ricotta e farina, tipico della tradizione partenopea.
Un altro must dolce è la graffa, una soffice ciambella fritta a base di patate, zucchero e farina,ricoperte da abbondante zucchero che si scioglie in bocca quando mangiate appena fritte e calde. Fatte con impasto di patate hanno solitamente una forma ad anello ma possono anche avere una forma a bombolone e guarnite di gelato, panna o altra golosità.
Per una graffa fritta veramente buona e leggera ci dovremmo recare allo chalet di Ciro a Mergellina, dove la soffice ciambella fritta viene servita calda, ed è perfetta per una pausa golosa mentre si passeggia sul lungomare. Ma una buona graffa la possiamo trovare anche nei Quartieri Spagnoli, diriggendocii verso la Pasticceria Seccia, situata in Vico Tre Re a Toledo. La Pasticceria Seccia è nota per le colazioni tipiche napoletane, tra cui la graffa, e si trova in una zona centrale tra Via Toledo e i Quartieri Spagnoli.
Ed eccoci ora di fronte al dolce simbolo di Napoli
La classica sfogliatella,riccia o frolla, croccante e fragrante, ricca di un ripieno ricco di ricotta e aromi. Essa è la colazione perfetta (o lo spuntino di metà mattina) per chi soggiorna in città.
Si narra, secondo antiche memoria, che le origini di questo tipico dolce napoletano risalgono al XVII secolo , quando nel convento di Santarosa , sulla costiera amalfitana fra localita’ Furore e Conca dei marini , una suora addetta alla cucina invento’ il tipico dolce di sfoglie a forma di cappuccio che ebbe il nome di Santarosa proprio in omaggio alla Santa a cui era dedicato il convento .
Fu nel 1818 , che l’oste Pasquale Pintauro, gia’ proprietario di trattorie in via Toledo, entrato in possesso della ricetta originale della Santarosa decise di apportarvi delle variazioni personali , modificandone la forma ed eliminando dal ripieno la crema pasticciera e l’amarena.
Nacque cosi la sfogliatella riccia, con la sua croccante forma a conchiglia. Tuttavia, non tutti gradivano la crosta così dura: per loro fu creata la sfogliatella frolla, dalla consistenza morbida e tondeggiante, con lo stesso ripieno ma racchiuso in un guscio di pastafrolla.
Questa seconda variante della sfogliatella frolla, dalla consistenza morbida e tondeggiante, e con lo stesso ripieno ma racchiuso in un guscio di pastafrolla venne attribuita alle suore di Santa Maria Regina Coeli, nel quartiere dell’Anticaglia, ma sarà ancora Pintauro a riconoscerne il valore e a farla conoscere a tutta Napoli.
Insomma, che sia chiaro a tutti…. non potete dire di essere stati a Napoli senza esservi posti l’eterno dilemma:sfogliatella riccia o frolla?
E così vi ritroverete in un attimo di fronte al dubbio eterno dei napoletani.
La sfogliatella divide infatti Napoli in due fazioni: i sostenitori della riccia, considerata più creativa e seducente, e quelli della frolla, più semplice da gustare e meno “impegnativa”. C’è chi davanti al bancone della pasticceria non sa decidersi, oscillando tra l’una e l’altra fino all’ultimo secondo.
Personalmente, per dipanare il dubbio , risolvo il tutto con una scelta pragmatica: una riccia e una frolla. Perché scegliere, dopotutto? Meglio assaggiarle tutte e due tte e due
Per molto tempo Pintauro non ebbe rivali, ma con il tempo la ricetta si diffuse e altri artigiani iniziarono a produrla. Oggi infatti la sfogliatella si può assaggiare in tutte la pasticcerie di Napoli, con soddisfazione.
Purtroppo la nota la bottega di Pintauro oggi consensa una chiusura stagionale estiva per garantire la qualità dei suoi prodotti e quindi da fine luglio fino ad inizio settemtre chiuse le sarcinesche, ma in città comunque esistono dei luogi dove si possono trovare delle ottime sfogliatelle : c’è una zona in particolare che si distingue: quella intorno a Porta Capuana, dove sorgono pasticcerie come Sorella, Carraturo, Bellavia, Scaturchio, Ferrieri, Tizzano, Capriccio, Lauri e Attanasio alla stazione ferroviaria, che oggi è meta fissa per i viaggiatori in partenza, desiderosi di portare con sé un ricordo dolce di Napoli.
Il motto del negozio? “Napule tre cose tene ’e belle: ’o mare, ’o Vesuvio e ’e sfugliatelle”.
A Napoli tuttavia, la cucina partenopea è nota per le sue contaminazioni: basti pensare al gattò rustico o al danubio salato, originariamente dolci.
E così, oggi, si incontrano anche sfogliatelle rustiche, farcite con salsiccia e friarielli, scarole, peperoni, zucchine o persino sugo del soffritto. Veri e propri piatti completi, che si concludono – come si deve – con una bella sfogliatella dolce riccia. Quella vera.
CURIOSITA’: Tempo dopo Pintauro , che nel frattempo aveva trasfomato la sua osteria in una nota pasticceria , ebbe poi l’idea di friggere davanti alla sua bottega , un altro tipico dolce napoletano ” le zeppole” .
Era la mattina di San Giuseppe ; da allora il 19 marzo , tutte la pasticcerie napoletane presero l’abitudine di offrire ai propri clienti questa specialita’ che nella versione antica erano piccole ciambelline di acqua e farina ricoperte di cannella in polvere e zucchero .
Se ora dalla zona di Via Toledo ci spostiamo nella vicina Galleria Umberto , troveremo in un angolo della sua uscita sulla rinomata zona dello shopping e dello struscio, un famoso bancone incastonato in un angolo con in bella vista delle prelibate sfogliatelle sempre calde . Il posto si chiama MARY e si trova in Galleria Umberto I 66,.
In vetrina anche golose capresine, pastiere monoporzione e profumati babà
CURIOSITA’ : La maestosa Galleria Umberto I , iniziata nel 1887 ed inaugurata nel 1892 ( 4 edifici e galleria in ferro e vetro ) nel 700 e nell’800, fu ritrovo di artisti e personaggi dello spettacolo grazie alla presenza nei sotterranei del celebre Salone Margherita , autentico tempio del varieta’ a Napoli , sala da concerti ed elegante Cafe’ Chantant d’Italia , che venne dedicato alla sovrana e conobbe anni di splendore .
Affollavano il salone i maggiori personaggi di fine 800 e primi 900 tra cui : Di Giacomo , Scarfoglio , Ferdinando Russo , i principi ereditari di casa Savoia ( Vittorio Emanuele ) .
Vi si proiettarono i primi films dei fratelli Lumiere ( 1896) e vi aprirono il primo cinematografo.Nel Salone Margherita , Gabriele D’Annunzio conobbe la giovane francese Pierrette Butterfly , presentatagli da Edoardo Scarfoglio , mentre Maria Ciampi mando’ in delirio la folla eseguendo la celebre < MOSSA > , il sensuale movimento imparato dalla napoletana Maria Borsa che lo aveva proposto con successo nei teatri popolari .
Nell’angiporto della galleria , ora Piazzetta Matilde Serao , al civico numero 7 , si trova la prima sede originaria del ‘ Mattino ‘ quotidiano napoletano fondato nel 1892 da Eduardo Scarfoglio e Matilde Serao .
Quello che più attira l’attenzione è certamente la sua cupola. Ma la cosa curiosa resta la pavimentazione dove sono rappresenti i 12 segni zodiacali.
Secondo la tradizione, posizionandosi nel cerchio di fronte al proprio segno zodiacale e fare 3 salti, renderà possibile esprimere un desiderio che si avvererà entro l’anno.
La tradizione dolciaria napoletana, però, è davvero ricca e non si ferma alle sfogliatelle: potete fare per esempio un salto da Carraturo in Via Casanova 27 a Porta Capuana per assaggiare uneccelente sfogliatella o il babà, il famosissimo dolce imbevuto di rum. Lo troviamo anche in piazzetta Nilo, 6
Ma visto che vi trovate accanto a Piazza San Domenico, non dimenticate di fare una scappata nei storici locali dell’antica Pasticceria Scaturchio dove potrete assaggiare dei tipici dolci iconici della tradizione dolciaria Partenopea, come la pastiera il babà a forma di Vesuvio o la tipica a sfogliatella Ma il fiore all’occhiello, inventato dal fondatore, è il Ministeriale, medaglione di cioccolato fondente, ripieno di una crema leggermente liquorosa. Famoso anche il babà a forma di Vesuvio. Piazza San Domenico Maggiore
Ovviamente anche la nota pasticceria BELLAVIA rappresenta per noi un cult dell’arte dolciaria partenopea sopratutto per la sua famosa pastiera.
Tradizione e innovazione le ritroviamo comunque in città anche nella pasticceria di Salvatore Varriale in Via Filangieri 75, o all’ingresso del Rione Sanità in Piazza Cavour133, dove l’estro di Mario Di Costanzo ha inventato il babbamisù, un dolce nato dalla fusione tra il babà e il tiramisù.
Nel vicino Rione Sanità esiste una pasticceria il cui proprietario ha inventato un dolce divenuto in pochissimo tempo un’icona dolciario in città. Si tratta di un piccolo dolce molto goloso, che ha letteralmente spopolato negli ultimi anni a Napoli. Il suo nome deriva dalla parola dialettale “poppella”, che significa appunto “piccola pupa” o “bambolina”, e la sua bontà è davvero irresistibile.
La sede di questa oramai famosa pasticceria a Napoli si trova in Via Arena della Sanità, si chiama POPPELLA , ed i mitico dolce è quello dei fiocchi di neve, dei sofffci mini pan-briosce, ripieni con una crema a base di latte e ricotta. Nulla di più si sa, la ricetta è segreta.
Il piccolo capolavoro, bianco e con un alone di mistero tipico del quartiere in cui è nato, è tanto piccola da entrare nella mano .Nato come dolce “di quartiere”, è diventato un’icona golosa in tutta la città .
Il “fiocco di neve” possiamo trovrlo comunquq anche da una pasticcieria che si trova nella vicinaVia Santa Brigida, al civico 69/70. Si tratta di una succursale del noto POPPELLA.
Avvenne la metamorfosi : il dolce cambio’ colore e odore. Il re lo assaggio’ e ne rimase strabiliato. Il dolce gli piacque moltissimo e tutti i giorni, divenutone oramai ghiotto pretendeva di averlo consegnato a tavola.
Ma al dolce inventato casualmente dal sovrano mancava un nome.Fu sempre Re Stanislao ad inventare il nome, dedicando questa sua creazione ad Alì Babà, protagonista del celebre racconto tratto da “ Le Mille e Una Notte”. Libro che il sovrano amava leggere e rileggere nel suo lungo soggiorno a Luneville ( Ducato di Lorena ).
Successivamente il dolce fu portato in Francia dalla figlia di Stanislao, Maria e, quando i cuochi francesi lo prepararono per la prima volta, il suo nome iniziò a modificarsi e passò dal polacco babka a “babà” con l’accentuazione tipica del francese sull’ultima sillaba.
Il babà fu introdotto a Parigi all’inizio dell’ottocento dal famoso cuoco-pasticciere Sthorer, che non aveva mancato su invito di Maria , una sua visita nelle cucine di Luneville, per assistere alla preparazione del famoso dolce .
A tempo di record divenne la specialità della pasticceria parigina Sthorer di Rue Montorgueil .
In tanti lo conobbero e lo apprezzarono e le ordinazioni fioccavano fittissime dalla bottega di “maitre” Sthorer dove i morbidissimi babà, si vendevano da due a sette e perfino otto franchi l’uno.Grazie alla sorella francese di Maria Carolina d’Austria , esso giunge poi a Napoli portato dai famosi Monzù ,dove nonostante il suo iniziale successo raggiunse solo nell’800 la sua massimo fama e la forma definitiva assai caratteristica (quella di un fungo) .
Da allora , il Baba’ , anche se di origini polacche , e’ divenuto un simbolo della pasticceria napoletana e della tradizione dolciaria napoletana e la domenica è quasi impossibile non trovarlo sulla tavola di un buon napoletano .



Ma prima di smettere di narrare la pasticcieria napoletana mi piace ricordarvi uno dei luoghe da me preferiti, presente nella zona del Vomero da ben 80 anni Il bar ROMA che si trova inVia Vincenzo Gemito, 86, è il luogo ideale per una colazione speciale : cornetti caldi, torte su misura, dolci ,caffè top e tanta passione.
Un dolce che ultimamente sta cercando di rilanciare la sua antica tradizione napoletana prende il nome del convento di Santa Maria del Dvino amore che si trova a vico Paparelle 32. Questo antico dolce , ovviamne si chiama del “DIVINO AMORE”perchè la preparazione era un’esclusiva delle monache. Sono tipicamente di forma ovale e coperti di una glassa di zucchero diluito(conosciuta come “naspro”) dai delicati colori pastello che vanno dal rosa al verde, al giallino.
Mandorle, zucchero e canditi misti, adagiati su una base di ostia, rendono questi atti morbidi e profumati. Sono tipicamente di forma ovale e coperti da una sa di zucchero diluita (conosciuta come “naspro”) dai delicati colori pastello che no dal rosa al verde, al giallino.
Per chiudere il nostro viaggio nello street food napoletano , per vivere al meglio Napoli non vi resta a questo punto resta che sorseggiarci un buon caffè napoletano. I napoletani come sapete sono celebri per il loro caffè .
A Napoli “a tazzulella ‘e cafè” è un rito quotidiano e la giornata non può cominciare senza aver preso il primo caffè a colazione, seguito poi da quello nella pausa a metà mattina, dopo pranzo, nel pomeriggio, e talvolta dopo cena, quasi a scandire i vari momenti della giornata.
E’ un qualcosa di filosofico..un momento piacevole da dedicarsi per distrarsi dai tanti problemi. Una pausa per chiacchierare del tuo passato o futuro fine settimana, della tua nuova macchina o della partita di domenica.
E’ la scusa migliore per rivedere un vecchio amico. Insomma un vero momento di socializzazione.
Il caffè e’ un modo talmente forte di rapportarsi con il prossimo dei napoletani che lo ha portato addirittura a socializzare anche con chi non conosce o conoscerà mai.
Vi sembra strano, vero? E invece no. Il gran cuore dei napoletani lo ha portato a inventarsi il “caffè sospeso“.
Si usava e vi assicuro, si usa ancora, a Napoli, talvolta, prendere un caffè al bar ma pagarne due (per chi viene dopo e non può pagarselo).
In questo modo chi non può permettersi il caffè al bar, ha un caffè offerto da qualcuno. I caffè sospesi vengono segnati su una lavagnetta. Di tanto in tanto qualcuno si affaccia alla porta e chiede se c’e “un caffè sospeso”…. e spesso riceve in cambio anche un sorriso.
Il caffè sospeso è sempre stato un gesto solidale e filantropico fatto da qualcuno che entrava all’interno di un bar con uno stato d’animo molto felice e gioioso.
Proprio grazie a questo suo stato d’animo, egli decideva di prendersi un caffè e pagare sia la sua consumazione, sia quella che sarebbe avvenuta dopo di lui: aggiungendo i soldi necessari per pagare un’altra tazza di caffè. Praticamente, in poche parole, veniva offerto il caffè ad uno sconosciuto che sarebbe entrato nel locale dopo di lui.
Il famoso scrittore napoletano, Luciano De Crescenzo, che ha scritto un libro intitolato proprio “Il caffè sospeso”, racchiuse in una bellissima frase questa vecchia abitudine partenopea: “Quando un napoletano è felice per qualche ragione, invece di pagare un solo caffè, quello che berrebbe lui, ne paga due, uno per sé e uno per il cliente che viene dopo. È come offrire un caffè al resto del resto del mondo…”
Questa è Napoli, signori miei, questo e’ il cuore dei napoletani, se c’e da festeggiare qualcosa, se la giornata è iniziata particolarmente bene, o anche solo per solidarietà, il caffè sospeso rappresenta la voglia di condividere la tua felicita’ con chiunque.
Il semplice gesto del caffè sospeso e’ molto di più di quello che appare. Lasciare un caffè pagato a beneficio di un qualsiasi avventore sconosciuto e’ la grande generosità del popolo napoletano. E’ la fiducia nel prossimo. E’ un gesto di speranza. Perché’ ti fidi del barista e speri che un giorno quel qualcun offra ad un prossimo un gesto d’amore e di solidarietà. Speri che quello a cui hai offerto il caffè, un giorno, quando le cose andranno meglio, si ricordi di offrirlo a qualcun altro. Perché’ non aspetti una tragedia o un terremoto per dimostrare a qualcuno che gli sei vicino comunque!
E ‘ un caffè offerto… a chi non conosci, all’intera umanità.
Un ultimo consiglio : ricordatevi che un buon napoletano non rifiuta mai un caffè, a qualsiasi ora della giornata, ma una delle regole pricipale è quella di non usare mai un bicchierino di plastica. Il caffè si beve rigorosamente in una tazzina di ceramica
N.B . Se vedete un gruppo di napoletani al bar prendere dei caffè si resta affascinati nel vederli compiere in maniera automatica dei gesti senza neanche accorgersene.
Innanzitutto il napoletano odia bere il caffè di fretta, quindi va gustato lentamente. Questo deve poi essere sempre accompagnato da un bicchiere d’acqua (se il barista dimentica di dartelo, il napoletano puntualmente lo richiede). L’acqua serve a “sciaquarti “( pulirti ) la bocca prima di assaporare il caffè’, in maniera da apprezzarne di più il sapore e l’aroma.
E’ abitudine lasciare una mancia (pochi centesimi) al barista che ti farà un caffè. E’ un “grazie anticipato”, quindi ci si aspetta un ottimo caffè. Un modo per raccomandarsi al barista affinché il caffè preparato sia buono.
Scopriamo ora insieme dove degustare al megliogquesta rinomatat bevanda nella nostra città : Bar Mexico – Gran Cafè Ciorfito -Bar Augustus – Cafè do Brasil -Bari Nilo -Gran Caffè La Caffetteria – Caffè Ceraldi – Caffè Salvio — Gran Caffè Cimmino – Centrale del Caffè – Caffè Letterario Intra Moenia – Caffè Lazzarella – il Caffè del Professore ed infine il mitico-Caffè Gambrinus.
Questi ultimi due sono presenti entrambi in quella che un decreto del 1919 oggi si chiama Piazza Trieste e Trento , ma che i napoletani continuano a chiamare con il vecchio nome di Piazza San Ferdinando.
Il Gambrinus , uno dei faffè più famosi nel mondosi trova con precisione all’ angolo con via Chiaia . Arredato in stile liberty , esso conserva nel suo interno stucchi, statue e quadri delle fine 800 realizzati da importanti artisti napoletani ;tra queste vi sono anche opere di Gabriele D’Annunzio e Marinetti.
Nato nel 1860 sono passati nelle sue sale dorate i personaggi illustri d’ogni tempo e paese diventati poi clienti affezionati , come : Gabriele D’Annunzio – Ferdinando Russo – Benedetto Croce – Matilde Serao – E . Scarfoglio – Eduardo Scarpetta – Toto’ e i De Filippo – Ernest Hemingway – Oscar Wilde – Sean Paul Sartre – i reali di casa Savoia – e tanti altri .
Negli ultimi anni e’ stato continuamente visitato dai Presidenti della Repubblica nei loro soggiorni a Napoli , cosi’ come i presidenti del consiglio ( Prodi – Berlusconi etc )
Mentre il caffè del professore famoso peri suo caffè nocciolato si trova al piano terra del maestoso Plazza Zapata.
La piazza come mostra nel suo centro quella che i napoletani hanno sopranniminata la fontana del carciofo , voluta dall’ex sindaco Lauro .
Ad uno dei suoi angoli il Teatro San Carlo , opera dell’architetto Antonio Medrano costruito su volere del re Carlo di Borbone fortemente intenzionato a dare alla città un nuovo teatro che rappresentasse il potere regio.
Molti non lo sanno ma Il Teatro San Carlo di Napoli è uno dei teatri d’opera più antichi in Europa e del mondo con una data di nascita che anticipa di 41 anni la Scala di Milano e di 55 anni la Fenice di Venezia. Esso è uno dei Teatri piu’ famosi e prestigiosi al mondo .E’ il teatro lirico di Napoli , ma rappresenta da sempre il tempio lirico italiano.
Esso sorge accanto al Palazzo Reale , vicino alla famosa Piazza del Plebiscito che si trova ai piedi della collina di Pizzofalcone, Questa è la piazza simbolo di Napoli , considerata una delle più belle del mondo, occupa uno spazio complessivamente di quasi 25 mila metri quadrati , meritando così il titolo di “la piazza “grande ” di Napoli.
Al centro del suo emiciclo potete ammirare due bellissime statue equestri : una dedicata a Carlo di Borbone e l’ altra a Ferdinando IV . Entrambi i sovrani sono raffigurati con un incedere solenne e vestiti alla romana, segno evidente del dominante gusto neoclassico dell’epoca.
La realizzazione delle due statue dei cavalli, collocate a circa 50 metri una dall’altra sono opera di Antonio Canova, che cominciò il lavoro a partire del 1816, ma nel 1822 morì; la seconda, quindi, fu completata dall’allievo Antonio Calì ( il cavallo è opera del Canova mentre il re che lo cavalca è opera di Calì ).
Sul lato opposto , il maestoso impianto della Reggia la cui costruzione fu iniziata nel 1600 dal vicere’ di Castro ed il cui progetto e’ firmato dall’architetto Domenico Fontana .
Il Palazzo Reale è stato ininterrottamente la sede del potere monarchico a Napoli e nell’Italia meridionale: suoi inquilini furono dapprima i viceré spagnoli e austriaci, poi i Borbone e infine i Savoia.
La sua facciata, che misura circa 170 metri fu completata nel 1613. All’epoca il porticato inferiore era aperto, lo chiuse Vanvitelli nel 1756 che modifico’ radicalmente la facciata chiudendo alternativamente gli archi voluti dal Fontana e creando delle nicchie che dovevano ospitare delle statue .
Solo un secolo dopo e per volonta’ di Umberto I , nelle nicchie furono collocate le otto statue marmoree raffiguranti i più rappresentativi sovrani delle dinastie che hanno regnato a Napoli. Essi sono in ordine cronologico, partendo da sinistra avendo di fronte la facciata: Ruggero il Normanno, opera del Franceschi; Federico II, scolpito dal Caggiano; Carlo I d’Angiò, scolpito dal napoletano Solari; Alfonso V d’Aragona, realizzato dal D’Orsi; Carlo V d’Asburgo-Spagna, su un modello del Gemito; Carlo III di Borbone, immortalato dal Belliazzi; Gioacchino Murat, eseguito da Amendola ed infine Vittorio Emanuele II di Savoia, primo re d’Italia, realizzato da Jerace.
Sulle statue più note della città,esiste da secoli una barzelletta che ogni napoletano conosce giocata sulla gestualità delle ultime tre statue: la prima sembra chiedere: chi ha fatto pipì qui a terra; la seconda: sono stato io; la terza: allora ti taglio il membro.
Un’ultima cosa : Avete mai provato a fare il giochino di camminare bendati verso i due cavalli ?
La parte libera della piazza è più o meno quadrata, e la distanza dal Palazzo Reale al diametro dell’emiciclo, sul quale sono collocati i cavalli, è più o meno di 170 metri ; tutti hanno provato, almeno una volta, ad attraversare bendati oppure ad occhi chiusi piazza del Plebiscito.
L’obiettivo, riuscire semplicemente a fare un percorso dritto, a passare attraverso le due statue, si è però per chiunque dimostrato “misteriosamente” difficile.
Scoprirete che, partendo bendati davanti al portone del Palazzo Reale, per quanto vi sforziate, è molto difficile che riusciate a passare tra i due cavalli installati dall’altro lato della piazza. Si tratta di fare una traiettoria diritta di circa 170 metri bendati . Quasi certamente devierete e finirete tanto fuori traiettoria da rimanere sorpresi.
Nelle foto dall’alto della piazza si vede chiaramente una certa pendenza del suolo , molto irregolare che costituisce un enorme fattore di disorientamento per chi, con la fascia sugli occhi, cerchi di passare tra i cavalli partendo dal Palazzo Reale ; se a questo aggiungiamo un pizzico di emozione e rumori in uno spazio enorme si capisce quanto sia difficile procedere diritti .
La tradizione vuole che la regina Margherita concedesse, una volta al mese, a uno dei suoi prigionieri di avere salva la vita a patto di superare proprio quella prova, partendo dalla porta di Palazzo Reale che è esattamente al centro delle due statue del Canova. Non ci riuscì mai nessun prigioniero, per una “maledizione” della sovrana. La stessa – leggenda vuole – che impedisce ancora oggi si possa riuscire “nell’impresa
NB : La piazza del Plebiscito, ex Largo di palazzo, prende l’attuale nome dal plebiscito popolare del 1860 dichiarato da molti come falso, con cui Napoli diceva sì all’annessione al Regno dei Savoia. Molti elettori napoletani pare che in quella circostanza pare siano stati costretti e minacciati con le armi dagli scagnozzi di Liberio Romano e” ZiTore “. Fu quindi più una forzatura che un atto democratico .
Spero di non annoiarvi ma io proprio non c’e la faccio a fermarmi quando incomicio a parlare della storiae delle bellezze della nostra città.
Ok ! Mi fermo, ma prima lasciatemi dire un ultima cosa su quella strada che nel vostro Tour dello street foof avepe prorso tante volte .
Ovviamente parliamo vi Via Toledo in cui inizio perta proprio da questa piazza .
Dovete saper che Via Toledo è una strada che deve il suo nome al vicere’ di Napoli don Pedro de Toledo , il quale provvide durante il suo viceregno alla sistemazione urbanistica della citta’ proprio con l’apertura di questa nuova importante arteria.
Ricca di negozi e botteghe fin dai primi tempi della sua creazione e per questo sempre affollatissima , è sempre stata una strada dove si era solito passeggiare Un tempo questa strada era infatti il principale corso cittadino e con il tempo anche l’occasione per una lunga passeggiata in cui sfoggiare i migliori abiti e fare lustro di se in un percoso che venne detto ‘O struscio.
Una sorta di gigantesco teatro sul quale sfilavano la nobilta’e alta borghesia per mettersi in mostra e farsi vanto del proprio stato sociale. Essa rappresentava sopratutto per le donne l’occasione per sfoggiare l’abito nuovo .
Durante i sepolcri le nobili dame sfoggiavano in quella circostanza sfarzosi costumi e ricche uniformi ed erano soliti vestirsi pomposamente di velluto nero col soprabito ricco di bottoni d’oro e d’argento
Le Dame adornate con somma gala, portate dentro ricche sedie indorate a mano (essendo vietate le carrozze), giravano quasi tutte le chiese della città con al seguito servi, paggi, e tutta la loro corte, vestiti con le più ricche livree, con estremo lusso, e con le teste artificiosamente accomodate.
I napoletani seguendo l’esempio , concepirono lo struscio come la festa della primavera , durante la quale non solo la nobiltà’ , ma anche la borghesia , sfoggiava i migliori abiti ; insomma una vera e propria gara di sfarzo ed eleganza .
Lo struscio divenne allora una sorta di gara di sfarzo, al punto tale che, nel 1781, Ferdinando IV di Borbone intervenne per rendere la festività religiosa più austera e mettere freno allo sfaggio di tanta ricchezza ed eleganza ed alle donne fu sovranamente ordinato che andassero semplicemente ornate di veli, e senza dare scandalo .
Durante il regno di Ferdinando , lo struscio assunse dimensioni piu’ modeste ma tuttavia con un certo tono .
Quando la dinastia Borbone cesso’ di regnare la consuetudine decadde , ma il rito resto’.
In quest’epoca si soleva fare una certa distinzione tra quello del giovedi’ e quello del venerdi’ santo .
Il giovedi’ santo vedeva affluire in Via Toledo anche gli abitanti dei quartieri popolari , portando quella nota di gaiezza tipica del popolino.
Il venerdi’ santo invece era riservato alla piu’ raffinata rappresentanza della citta’, la nobiltà’ autentica .
Altra curiosita’ di quei giorni era la comparsa della paglietta , copricapo estivo fatto di fili di paglia intrecciati . Gli uomini coglievano l’occasione per deporre in quel giorno la bombetta o il cilindro per indossare il cappello estivo che con gesto affettato , veniva tolto al passaggio di una bella donna .
Aitanti ed impettiti gentiluomini indossavano la paglietta, prontamente tolta per ossequiare una bella dama che avanzava strusciando le vesti e i piedi . Le instancabili e “nferrùte” (tremende) mammà partenopee, di ogni estrazione sociale, agghindavano le figliole in età da marito e le accompagnavano in un interminabile struscio nella speranza di accasarle.Quella via si trasformava cosi’ in un salotto dove gli innamorati erano certi di incontrarsi e le dame incrociando i vari cavalieri mostravano tutta la loro maestria nello ‘ strusciare ‘ sul lastricato di Via Toledo , i loro delicati piedini .
N.B. Strusciare letteralmente significa strofinare o trascinare qualcosa per terra, e anche se vi semra stano la parola zoccola , a Napoli data alle donne dai cattivi costumi , sembrerebbe derivare proprio da questo ” struscio “, Essa infatti deriva dagli alti zoccoletti che le nobildonne del settecento erano solito indossare lungo la via Toledo quando non volevano che i loro lunghi vestiti che indossavano si sporcassero della fanghiglia della strada . Accadde quindi che le prostitute dei quartieri spagnoli che si agghindavano sempre in maniera molto appariscente per attirare i clienti , ad imitazione delle nobildonne del 700 incominciarono anche esse ad indossare questi altissimi zoccoletti sempre più alti al tal punto che furono soprannominato le “ zoccolelle “. Ecco perché poi avvenne il facile passaggio semantico tra zoccole , zoccolelle zoccolette e donne di cattivi costumi da parte dei napoletani .La loro associazione fu immediata e da allora le donne che si dedicavano al mestiere più antico del mondo vengono dette dai napoletani “ e Zoccole “.
La strada da sempre affollatissima , come notate è ricca di negozi , numerosi posti dove mangiare , frequentatissimi bar e nobiliari bellissimi palazzi che fiancheggiano la strada . Tra i tanti palazzi vi voglio oggi solo ricordare quello di Zevallos Stigliano che di proprietà del gruppo Banca Intesa San Paolo possiede una splendida pinacoteca dove tra tanti capolavori si trova conservato il bellissimo “Martirio di Sant’Orsola”, eseguito dal Caravaggio a poche settimane dalla sua drammatica morte avvenuta a Porto Ercole.
Molti di questi palazzi di proprieta’ di signori particolarmente invisi al popolo per varie angherie praticate,furono assaltati , e saccheggiati dai “Lazzari” laceri e scatenati ,durante la rivolta, capeggiata da Masaniello, scoppiata nel 1647.
Come potete notare la nostra via Toledo è ricca di antichi palazzi nobiliari dove gli aristocratici residenti grazie alla loro ricchezza si concedevano spesso lauti pranzi a base di carne e cacciagione . Ma i loro raffinati cuochi spesso provenienti dalla Francia ( “monsù“ che tanto piacevano alla regina), cucinavano si, tanta carne, ma di animali di cui non venivano utilizzate le interiora perché erano considerate impure e dunque alimento troppo povero per essere mangiato dalle famiglie nobili reale.
Alla fine dei lauti banchetti reali, i cuochi affacciandosi dai balconi lanciavano gli scarti di carne, urlando “Les entrailles” (le frattaglie). Le povere affamate donne del popolo che avevano atteso quel momento da tempo si lanciavano come belve affamate su quei resti in una lotta senza crarsi scupolo di attaccar briga strillando e se necessario ricorrere alle mani.schiamazzi:
Questi schiamazzi e urla in dialetto, facevano un gran casino e spesso finivano addirittura ad arrivare allo ” strascino” un modo di litigare senza alcun ritegnoche le portava a comportarsi in tal modo da ” zandraglie “.
Da allora il termine Zandraglia”, o anche “zendraglia”, viene a Napoli, attribuito a donne chiassose, che litigano e si accapigliano.
N.B. Lo strascino era un atto violento fatto generalmente da una donna consistente nel trascinare un’altra donna al suolo mantenendola per i capelli. E’ un preciso atto di sfregio che veniva compiuto fino ai primi anni del ‘900 nei confronti esclusivamente della donna che si era macchiata di un qualcosa di grave nei confronti di altra donna e da quest’ultima punita.
Per una donna di bassa condizione civile, sguaiata e volgare, abituata “al pettegolezzo e alla chiassata viene in città usato anche il termni di vasciajola, ovvero donna abitante del basso (vascio), ovvero le piccole abitazioni di uno o due vani poste al piano terra, con l’accesso diretto sulla strada, nelle quali essa solitamente si distingue per la sua vociante volgarità ed il suo carattere attaccabrighe.
Divertente anche il termine “vrenzola” con il quale si intende in genere una donna maleducata, dagli atteggiamenti bonariamente grezzi, kitsch al limite del volgare, trash per definizione. Oggi viene riferito ad una ragazza che vestita in modo sgargiante con scollature eccessive o con leggins su un corpo poco asciutto mastica divertita a bocca aperta un chewingum, in compagnia di amici o sconosciuti.
Qualsiasi stile sia di moda, la vrenzola non si fa problemi: a prescindere dal fatto che il suo corpo possa o no permettersi stile o taglia, lei lo indosserà. Sceglie con particolare cura gli orecchini, che saranno necessariamente grandi ..
Inizialmente il termine veniva utilizzato in napoletano per indicare un brandello di stoffa ridotto male e veniva spesso utilizzato per indicare una persona ridotta in pessimo stato ai limiti della povertà e dall’essere uno straccione . Per questo motivo lungamente la parola è stata utilizzata principalmente come offesa, intendendo come vrenzola una persona meschina e avara.
Dell’espressione e delle attitudini della vrenzola si sono innamorati molti, al punto che il termine sta valicando i confini di Napoli e la parola sta diventando riconoscibile anche in altre zone d’Italia divenendo un termine noto quasi quanto il celebre ‘cazzimma’, un termine con il quale noi napoletani , in grandi linee identifichiamo una sorta di furbizia di tipo opportunistico, quella che in genere si utilizza per guadagnarci sempre qualcosa, da qualunque tipo di traffico, scontro e confronto.
Ma con tale termine spesso ci riferiamo a quella persona che per arrivare al suo obiettivo è capace di calpestare tutto e tutti o anche qualcuno capace di cattiveria gratuita.
Negli ultimi tempi si è assistito ad uno slittamento di significato che ha trasformato la cazzimma non in una cattiveria, ma in una grinta positiva. Il soggetto cazzimoso diventa in tal modo uno considerato capace di far carriera .
Il termine è oramai divenuto famosissimo e se le cose dovessero continuare ad andare così, probabilmente in qualche anno sarà diventata completo patrimonio della lingua italiana, un po’ come è successo a tanti altri termini napoletani, un tempo ritenuti dialettali e oggi patrimonio di tutti
Dopo questo viaggio nel gusto, le curiosità e nelle tradizioni di ogni pietanza avrete certamente capito che quello che viene semplicemente chiamato “street food “è solo un modo per immergervi in un mondo nella cultura e la storia di un popolo dove secoli fa, gli abitanti della città iniziarono a vendere cibo per strada come forma di sostentamento.
Nel corso del tempo, queste pietanze sono diventate vere e proprie specialità culinarie tramandate di generazione in generazione. Queste prelibatezze sono quindi piatti di strada che raccontano la storia e la tradizione di Napoli in ogni boccone.E’ un qualcosa per il auqle presto capirete quel legame profondo che la gente di questa città ha con le sue radici.
Girando per questa città tra arte , monumenti e musica presto capirete che lo strett food rappresenta l’anima e la tradizione di Napoli .
La cucina napoletana, assai più di altre tradizioni, ha in bocca la storia e lo spirito di una città che non ha uguali. In essa si respira la filosofia Epicurea che ancora echeggia e domina in città. A Napoli mettersi a tavola non serve solo a sfamarsi ma è un modo per socializzare , ricordare e sopratutto amare . A Napoli non basta mettere insieme il pranzo con la cena, ma occorre fare del cibo, come della vita, un boccone di piacere,
È un modo per condividere insieme ad altri un qualcosa che provoca piacere gustando l’eccellenza di un prodotto ( meglio se di origini nostrane ) . E’ un modo di vedere la vita che ereditiamo dai nostri antichi antenati greci e … non ci possiamo fare niente … ci piace ..
Stare a tavola a pranzo o a cena con amici ma sopratutto parenti e’ un modo per ricordarsi che i piaceri della vita vanno condivisi lontano dallo stress ed in una atmosfera soft e rilassante dove prevale l’amore per i contatti umani . Amiamo stare a tavola dove ci piace godere sopratutto dei prodotti giunti a noi dalla tradizione popolare, ingegno del poco e del niente
Ogni pietanza in questa città è un pezzo di storia da scoprire e assaporare. Che siate amanti della pizza, appassionati di street food o golosi di dolci, questa città vi offrirà emozioni uniche e sapori indimenticabili.
Qui il cibo non è solo un piatto : è identità, cultura, arte, tradizione e soprattutto passione.
Da brava città mediterranea complici il clima, la struttura urbana ed altri fattori – Napoli ed i napoletani passano ancora gran parte della loro giornata all’aperto. Per spostarsi da un luogo all’altro, per lavorare o semplicemente per piacere. Per secoli (ed ancora oggi è così) il porto ha dato molto lavoro ai partenopei; ad oggi, si aggiunge una fortissima presenza turistica che registra in molti periodi dell’anno il sold out.
La città è viva, vissuta e calpestata ogni giorno da milioni di persone: milioni di bocche che, da qualche parte, dovranno sfamarsi e come avete visto,la formula prediletta è il cibo da strada, cioè quello servito direttamente da vetrine, negozietti, anfratti adibiti con pochissima cucina, calderone per fritture, un frigo con le bevande ed una minuscola cassa per battere scontrini davvero da pochi euro. Il costo dello street food a Napoli è irrisorio, similmente a quello delle altre città: si parte da 1 euro per una pizza a portafoglio o un dolce tipico, fino ad arrivare a massimo 6-7 euro per i cuoppi di fritture più pieni ed elaborati.
Se per vostra fortuna venite a visitare questa città ed avete voglia di passeggiare per le tante strade ricche di palazzi storici nobiliari e antiche chiese, presto vi accorgerete che ogni angolo, ogno vicolo ed ogni strada di questa città , offre qualcosa di buono, economico e autentico da mangiare. In ogni luogo di questa città troverete sapori che parlano della storia, dell’anima e della cultura napoletana.
La tradizione dello street food a Napoli affonda le radici nei tempi antichi, quando i mercati e le piazze erano il cuore pulsante della città. Qui, venditori ambulanti offrivano pietanze semplici ma gustose, capaci di saziare e di regalare conforto agli abitanti e ai viaggiatori.
La praticità del cibo da strada ha permesso alla cultura napoletana di portare avanti un’eredità culinaria fatta di sapori genuini e convivialità, trasformando piatti come la pizza, la frittatina o la sfogliatella in vere icone universali.
VI ASPETTIAMO !
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