Napoli è da tempo immemore una città famosa in tutto il mondo per la bellezza dei suoi luoghi, dei suoi paesaggi, per la  sua storia, il suo folklore, l’arte, la  sua musica, la sua buona cucina, e non da ultima, anche per la  sua secolare tradizione sartoriale.

Il capoluogo campano è infatti stato, ed è tuttora, il luogo di nascita e formazione dei più importanti sarti d’Italia.  Non è infatti un caso  che perfino il New York Times, nel 2014, e il Financial Times, nel 2015, si siano interessati alla sartoria napoletana e alla sua antica tradizione.

Napoli , anche se molti non lo sanno, è quindi una citta dalla grande tradizione nel campo della sartoria e la sua antica storia  risale addirttura al tardo Medioevo, quando nella nostra città regnava la bella e affascinanate regina  Giovanna I d’Angiò , il cui regno fu estremamente travagliato da varie vicende. e la sua  vita attraversata da alterne vicende domestiche e sentimentali.

N,B, Giovanna I e’ stata il primo sovrano napoletano a governare il regno ed anche per questo fu una Regina molto amata dal popolo napoletano.

Fu in  epoca angioina che venne infatti costruita nel 1270,  in una zona che allora  si trovava al di fuori delle mura angioine una chiesa affiancata da un ospedale che venne dedicata ai santi Eligio, Dionisio e Martino. Essa venne costruita  in un luogo dove erano soliti accamparsi  i saraceni con delle  tende allo scopo di far  commercio con i napoletani.

CURIOSITA’: La bella chiesa  medioevale di San Eligio è ancora oggi  presente nello stesso luogo dove un tempo fu costruita , cioè l’attuale Piazza San Eligio, accanto a Piazza Mercato  e rappresenta per la nostra città  la piu antica delle chiese  dell’epoca angioina .

All’origine la zona era chiamata piazza del moricino, ed era solo uno spiazzo fuori le mura ,verso il mare dove in genere si  accampavano  eserciti e mercanti di ogni nazionalita’ e religione , ma in prevalenza orientali , chiamati generalmente ” mori ” .

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L’edificio di culto venne fondato in stile gotico ,per volere di tre francesi appartenenti alla corte di Carlo I d’Angiò, Giovanni Dottun, Guglielmo di Borgogna e Giovanni de Lions e inizialmente, la struttura, affiancata anche da un ospedale, venne dedicata ai santi Eligio, Dionisio e Martino ,ma poiche’ uno solo doveva essere il titolare , uscito prima dall’ urna il nome di San Eligio , la chiesa e l’ ospedale presero il nome da quest’ ultimo .

La struttura nasceva inizialmente con il santo scopo di dare un asilo agli infermi poverelli , nazionali e forestieri e i tre cavalieri francesi gettarono inizialmente le fondamenta di un ospedale , cui fu congiunta una chiesa.
E’ da notare che il popolo napoletano dice San Aloia questa chiesa di San Eligio , pronunziando erroneamente il nome di Eloi , come i francesi la chiamavano nella loro lingua.
La devozione del popolo per questo santo era grande e sopratutto l’invocava per la guarigione dei cavalli ammalati , i quali venivano recati davanti la chiesa per essere benedetti . Quando la guarigione si otteneva ,i ferri , che avevano portato il cavallo infermo erano inchiodati su la porta come oggetti votivi.
Di questa usanza antica , (che ebbe origini dal rito pagano di portare i cavalli a girare intorno al famoso cavallo di bronzo di Virgilio ) rimasero le vestigia fino agli ultimi tempi , e la benedizione dei cavalli si faceva nella corte della chiesa di San Antonio Abate . Pero’ San Aloia e’ rimasto in bocca ai conduttori di cavalli e di asini , che lo invocano in aiuto , o lo imprecano a seconda delle circostanze

Nel l 1351  venne  poi istituita nella chiesa di Sant’Eligio Maggiore, al Mercato, la cosiddetta “Confraternita dei Sartori”, una sorta di corporazione alla quale facevano capo sarti e professionisti del tessuto che in breve tempo , sopratutto nel succcessivo  periodo aragonese , riuscirono a conquistare molte corti europee grazie ai loro capi realizzati usavando  la seta, la lana e diversi tessuti pregiati che contribuivano all’eleganza dei tagli magistrali.

Il fenomeno divenne  talmente grande da riuscure a sviluppare durante il 400 , una vera e propria età dell’oro: durante il dominio aragonese, infatti, numerosi sarti e tessitori vennero reclutati a corte a vestire sovrani e notabili, dando vita a uno stile apprezzato e ambito in tutta Italia, contribuendo decisivamente all’antico proverbio:

“Sai quando fuste Napule curona? Quando regnava Casa d’Aragona”

N.B. Ancora oggi, nello stesso quartiere, le maestranze del tessile continuano a tenere banco, portando avanti con orgoglio una tradizione ultrasecolare.

La Confraternita dei Sartori nacque quindi nel 1351 nella chiesa di S.Eligio al Mercato, nel cuore di una Napoli sfarzosa, e considerata centro socio-economico di un grande Regno,  quello Delle Due Sicilie.

Durante il ‘400 quando la Scuola Sartoriale, ebbe il suo grande sviluppo , essa  riuscì a reclutare nel corsi degli anni ( fino al 1600 )ben 607 sartti artigiani,  che richiesti in tutta Europa erano  acclamati dai nobili che amavano lo stile napoletano.

Dal XV al XVIII Secolo la sartoria napoletana continuò ad attraversare un periodo di crescita ed evoluzione grazie alla presenza di diversi fattori favorevoli:

  • il ruolo di grande capitale svolto quasi ininterrottamente da Napoli pur attraverso crisi e cambi di regime/dinastia,
  • la preferenza delle corti napoletane per uno stile suntuoso ed elegante che orientò l’artigianato verso una “manifattura del lusso” influenzandone l’evoluzione successiva
  • la presenza a Napoli di sarti provenienti dall’estero (soprattutto inglesi e francesi) che contribuirono alla crescita tecnica e professionale dei colleghi napoletani

L’ età borbonica, salvo alcuni casi (vedi quello delle sete di San Leucio, quello dei guantai della Sanità, assai attivi all’epoca di Ferdinando o quello di alcune sartorie ancora oggi esistenti) fu un momento comunque di declino per la moda partenopea. 

Tra il Settecento  e  l’Ottocento, infatti, l’abbigliamento napoletano era considerato antiquato, soprattutto nei centri dove a quel tempo, si dettavano le norme di stile, come Parigi e Londa. Questa decadenza fu, forse, dovuta al rifiuto da parte della monarchia borbonica dei canoni della moda francese, la quale, all’equilibrio e alla linearità peculiari dello stile d’oltralpe, prediligeva caratteristiche più sfarzose, tipiche della cultura locale.

 Era comunque presente in  età borbonica a San Leucio nel casertano, un piccolo borgo che il re  Ferdinando IV,  volle realizzare per costruire una fabbrica industriale che produceva stoffe pregiate ancora oggi molto ricercate.

Il tutto nacque quando Ferdinando, che come tutti sapete , era un grande amante della caccia,  scoprì durante una delle sue tante battuta di caccia su di una piccola  collina nel Casertano,  un vecchio rudere di una antica chiesetta dedicata a San Leucio, un santo nato ad Alessandria d’Egitto, che visse per molto tempo in Italia e morì proprio nel territorio casertano.

Il luogo silenzioso e con una vista  stupenda sulla belle ed estesa campagna di Caserta,  piacque moltissimo al re, al punto da sceglierlo come suo luogo di ritiro lontano dalla vita mondana e dal baccano della Reggia di Caserta che lo soffocavano. Decise pertanto di costruirvi un suo personale casinò di caccia, affidando i lavori di restaurazione all’architetto Collecini.

Il re, oltre a costruire un casinò di caccia, fece comunque edificare anche nuovi edifici destinati alle famiglie dei residenti locali che allora non erano più di venti.
Sul Belvedere intorno al  casinò di caccia, il sovrano vi fece poi insediare alcune famiglie affinchè  provvedessero alla regolare gestione del complesso. Essi si rivelarono dei  fedeli coloni con il tempo crebbero di numero e diventarono una piccola comunità.

CURIOSITA’; Nel regno si diceva che la zona fosse popolata di belle donne felici di soddisfare ogni desiderio di Ferdinando; non a caso i bambini del luogo erano chiamati ” e figli d’ o’ Rre “.

Ferdinando IV, che  era un gran sognatore a quel punto probabilmente anche influenzato dalle mode utopistiche dell’epoca decise di fondare in quel luogo tanto amato una colonia modello fatta di persone felici.
Egli realizzò un esperimento sociale ed economico unico in Europa: tramite la creazione di una seteria e di una fabbrica di tessuti cercò di fondare una comunità operaia autogestita, capace di autonomia economica che, oltre a produrre stoffe pregiate, doveva formare un nuovo suddito consapevole, ricco della propria professionalità e sopratutto felice, come solo nelle utopie settecentesche poteva accadere.

Nel paesino che si sarebbe dovuto chiamare Ferdinandopoli, il re costruì un moderno centro industriale per la tessitura della seta; diede allo stesso una organizzazione sociale particolare basata su leggi speciali fatte in uno specifico codice (scritto di suo pugno)  chiamato Ferdinandeo, pieno di straordinarie intenzioni e intuizioni con cui regolava la vita dei cittadini  e la cui compilazione fu affidata a Gaetano Filangieri.

I pilastri della Costituzione di San Leucio-Ferdinandopoli erano L’EDUCAZIONE – LA BUONA FEDE – e IL MERITO.
L’educazione veniva considerata l’origine della pubblica tranquillità; la buona fede era la prima delle virtù sociali e il merito la sola distinzione tra gli individui.
Era vietato il lusso. Gli abitanti dovevano ispirarsi all’assoluta eguaglianza senza distinzioni di condizioni e di grado, e vestirsi tutti allo stesso modo senza distinzione sociale.
Il lavoro e la casa erano garantiti a tutti. Gli  operai e le loro famiglie ricevevano ottimi salari, cure mediche, assistenza ed educazione.
Il re fece costruire una scuola e la frequenza della stessa era obbligatoria a partire dai sei anni di età: i ragazzi erano poi messi ad apprendere un mestiere secondo le loro attitudini e i loro desideri.
Rese obbligatoria  la vaccinazione contro il vaiolo.
Pretese che, come condizione primaria, venisse curata l’igiene e la pulizia.
Fu evitata la mendicità mediante l’istituzione di un fondo per i bisognosi.
I giovani potevano sposarsi per libera scelta, senza dover chiedere il permesso ai genitori.
Proibì la dote per i giovani sposi ai quali egli stesso donava una casa e due telai.
Le mogli non erano tenute a portare la dote: a tutto provvedeva il re, che s’impegnava a fornire la casa arredata e quello che poteva servire agli sposi.
Furono aboliti i testamenti e i figli ereditavano dai genitori per diritto naturale: i figli ereditavano dai genitori, i genitori dai figli, quindi i collaterali di primo grado e basta.
Alle vedove andava l’usufrutto. Se non c’erano eredi, andava tutto al Monte degli orfani.
Nella successione maschi e femmine avevano pari diritti.
I funerali si celebravano senza distinzione di classe, anzi erano sbrigativi perché non dovevano affliggere. Ferdinando che era un gran superstizioso, abolì anche il lutto che trovava sinistro: al massimo una fascia nera al braccio.
Il parroco ed il popolo (tramite i  capifamiglie ) eleggevano gli anziani.
La città era amministrata da cinque anziani che con funzioni di magistrati e giudici civili restavano in carica un anno.
Le norme del codice prevedeva che ogni dipendente delle manifatture della seta, era tenuto a versare una parte dei guadagni alla Cassa della Carità, istituita per gli invalidi, i vecchi ed i malati.

Insomma: uguaglianza, solidarietà, assistenza, previdenza sociale, diritti umani.
Un misto di socialismo reale e surreale: io vi dò queste leggi, rispettatele e sarete felici.
Tutto ruotava intorno alla fabbrica. Nel cortile del Belvedere fu costruito un impianto per la lavorazione della seta, affinché i contadini del luogo, ora disoccupati trovassero occasione di lavoro. Una seteria meccanica sostenuta dal re con mezzi potentissimi che sfruttava la materia prima generata dai bachi allevati nelle case del Casertano e oltre. Dai primi filatoi e dai telai fino alla costruzione di una grande filanda.

La fabbrica in breve tempo si andò sviluppando con altri reparti necessari per il completamento del ciclo di lavorazione ed in breve tempo tutto il piccolo centro di lavorazione si trasformò in un opificio industriale intorno al quale sorsero infrastrutture e altre abitazioni per tecnici e operai specializzati che accorsero da ogni parte d’Italia.
Si producevano stoffe per abbigliamento e per parati.

I tessuti di San Leucio rifornivano i sovrani della casa borbonica e le famiglie della nobiltà napoletana sia per gli abiti sia per le tappezzerie. Clientela che forse firmava gli ordini anche per un nobile spirito di assistenzialismo.
Per migliorare la fabbrica non si badava a spese e furono acquistati i più moderni impianti e macchinari, sicchè essa raggiunse un livello così alto che poteva essere paragonato a ciò che vi era di meglio in altri paesi stranieri.
Il complesso industriale oltre ad essere dotato di quanto di meglio la tecnologia dell’epoca offrisse, precorreva in organizzazione e normativa quei princìpi che, molto tempo dopo, saranno applicati dalle più evolute società industriali: il merito come unico elemento discriminante tra i lavoratori, una perfetta parità di trattamento tra uomo e donna, l’apprendistato retribuito, la formazione professionale e l’assistenza sanitaria gratuita; persino i funerali erano a spese dello Stato.

Il potere giudiziario fu conferito a un soprintendente generale e la responsabilità della produzione a un amministratore.
Il primo ad assumere tale carica fu Domenico Cosmi, ufficiale della Real Casa e già soprintendente all’insegnamento professionale. Questi era un uomo di grandi capacità tecniche e gestionali che portò, in breve tempo, la fabbrica a livello di una manifattura altamente industriale.
Eppure la fabbrica, che s’ingrandì e produsse una gamma ricchissima di tessuti, non riuscì mai a prosperare economicamente. Se non ci fosse stato il re che metteva mano al portafoglio e rinvigoriva le casse, addio.
Un’industria di Stato: esattamente come ai nostri tempi ( Fiat, Alitalia etc).

L’esperimento della “Reale Colonia ” e la sua filosofia sociale, durò circa sessant’anni; il fallimento del suo ideale fu provocato dalla crescita della popolazione. Quando la gente cominciò a litigare, la rigidità della legge cominciò a sfaldarsi e la gabbia dorata ad arrugginirsi.
L’antico borgo industriale con le abitazioni per i lavoratori, invece, grazie a provvidenziali recenti opere di restauro continua a sopravvivere al tempo nella sua bellezza.

Quello  che oggi rimane è un maestoso complesso il cui impianto urbanistico è ancora intatto. In alto il palazzo del Belvedere, con il primo setificio, la chiesa, la scuola per i figli degli “artisti” della colonia, il teatro e gli appartamenti del re e della corte: in basso le residenze degli operai, case a schiera tutte uguali per una comunità di uguali. La manifattura invece è l’unica ad esser sopravvissuta al tempo senza particolari aiuti e ancora oggi seppure con caratteristiche molto diverse continua ad essere un prodotto estremamente ricercato ed apprezzato in ogni dove si parli di seta.


 

 

 

 

 

 Cera una volta in epoca borbonica a due passi da Porta Capuana, anche un famoso  lanificio che occupava buona parte del complesso monastico di Santa Caterina a Formello .

La grande fabbrica nata nel 1824 per volere del cavaliere Raffaele Sava, si occupava di realizzare e fornire divise ai corpi dell’esercito del Regno delle Due Sicilie. Le maestranze impegnate nella sartoria e realizzazione delle divise militari  venivano  scelte prima tra i reclusi del Albergo dei Poveri e poi tra i forzati della Marina Militare.

Con la  soppressione dell’ordine dei domenicani voluta da Gioacchino Murat nel 1809, l’adiacente  monastero ed i chiostri furono  adibiti a Lanificio militare con vaste alterazioni del disegno originario (tompagnature di arcate, copertura del chiostro piccolo affrescato) e costruzione di strutture (ciminiere, padiglione nel chiostro grande) che hanno si modificato la struttura di un bellissimo chiostro ma comunque formato in pieno centro cittadino un singolare monumento di archeologia industriale.

Il  complesso dopo essere stato requisito ai monaci da Giocchino Murat, con ritorno di   Ferdinado  di Borbone sul trono, venne  successivamente trasformato  in opificio per la produzione di lana e di divise militari. Da quel momento il Chiostro e l’area, successivamente denominata Lanificio, cambiano destinazione d’uso  da luogo di culto a fabbrica,  che arriva ad impiegare  a pieno regime  oltre quattrocento persone, segnalandosi tra gli esempi virtuosi  del “programma d’industrializzazione” dell’epoca.

N.B. La sua florida attività si arresta ovviamnete con l’Unità Italiana sotto lo stemma Sabaudo. Un evento che decreta la fine dell’azienda, come tante attività industriali nate nell’ex regno Borbonico.

Nel 1861, con l’Unità d’Italia e l’avvento di casa Savoia  vengono sospese le ordinazioni di divise e in poco tempo , quello che era stato dapprima, uno dei più importanti monumenti dell’arte rinascimentale e poi  un insediamento industriale virtuoso fallisce, diventando  un’area “dismessa” destinata  un progressivo ed inesorabile degrado .

 

Dopo la chiusura, viene  infatti  occupato da più attività artigianali che non ne hanno rispetto; una colonna del antico chiostro viene addirittura abbattuta per far spazio alle auto. Non solo … Il chiostro piccolo  negli anni è stato addirittura  frazionato in diverse proprietà che ne hanno utilizzato  gli spazi per attività più disparate (garage, falegnameria, deposito …) che ne hanno  cambiato completamente la struttura.

Oggi anche  se inattiva da più di 150 anni, fuori c’è ancora la grande scritta Lanificio, una delle poche tracce esplicite che testimonia la presenza nell’antico convento di un rimarchevole esempio di archeologia industriale al Sud.

Solo negli ultimi tempi l’ ex Lanificio Sava si è trasformato in uno spazio aperto alla città grazie alla collaborazione di diverse identità come il Lanificio 25, la Galleria Dino Morra, e la Fondazione  Made in Cloister.  Quest’ultima, èartendo dalle graci condizioni di degrado in cui versava la struttura ha dato luogo ad un  lungo progetto di restauro e riconversione degli spazi  che oltre ad elinirare gli abusi  ha ripristinato anche la spazialità ottocentesca della struttura   per trasformarlo in un centro espositivo e performativo aperto alla città .

N.B. l’essiccatoio  ligneo borbonico ,presente  al centro dello spazio, è  divenuto in quest’ottica,  il  cuore pulsante delle attività della Fondazione e simbolo del progetto. 

Anche privati cittadini hanno cominciato a trasformare l’antica struttura organizzando spettacoli, mostre, meeting, concerti, proiezioni e altre attività di interesse culturale e artistico. Nel complesso c’è anche un art shop, una residenza per gli artisti ospiti e uno spazio espositivo, La fondazione Made in Cloister ha recuperato e restaurato il chiostro cinquecentesco della Chiesa di Santa Caterina a Formiello. Vi si accede passando per la sagrestia della chiesa, facendo diventare questo luogo uno spazio espositivo per l’arte contemporanea. Al centro del chiostro si erge anche un’imponente struttura in legno, un raro esempio di archeologia industriale borbonica riportato alla luce grazie al lavoro di restauro effettuato.

CURIOSITA’; Nella parte centrale del chiostro piccolo  è presente  una meravigliosa capriata lignea  destinata  un tempo all’essiccazione delle lane ,  di impianto e dimensioni eccezionali, che conferisce  tutt’oggi allo spazio un carattere di unicità tra rinascimento ed archeologia industriale.

La dinastia borbonica , sopratutto quando a regnare vi era Ferdinando II, fu anche quella che sostenne in modo significativo la produzione artigianale di guanti in città.

Un produzione divenuta un vero e proprio vanto dei sarti napoletani che per lungo tempo e ancora oggi,, vengono considerati i veri maestri nella realizzazione dei guanti .

N.B. Napoli, è stata per lungo tempo appellata in tutto il mondo come “capitale dei guanti”e    i sarti napoletani considerati delle vere eccellenze nel settore. Ancora oggi l’abilità dei sarti partenopei  nella realizzazione di guanti trova la sua più alta vocazione anche se al contempo la nostra citta  viene preso a riferimento sopratutto per gli abiti , considerati dagli amanti della sartoria e della moda maschile  i veri capi dell’eleganza e dello stile.

La storia dei guanti a Napoli ha radici profonde e popolari ; le prime botteghe aprirono in una strada che tutt’ora si chiama ancora ” Via dei Guantai ” alle spalle di Via Medina.  Ma la vera intensa produzione ha una collocazione ben precisa. Essa  infatti  si sviluppò   in quei vicoli che ospitavano le botteghe del  rione  Sanità,  dove intere famiglie si specializzarono nella produzione di guanti fatti a mano. Ognuno dei componenti aveva un ruolo ben preciso e perfezionava la propria arte in uno specifico passaggio tra gli oltre venti che servivano a confezionare un paio di guanti.

CURIOSITA’: Confezionare un paio  di guanti  in pelle fatti a mano non è mai stato un processo semplice: la tradizione napoletana vuole infatti che vi siano più di venti passaggi per arrivare dal pellame al prodotto finito.

I guanti napoletani fatti a mano e sopratutto  quelli prodotti nel Rione sanità , erano  considerati i migliori  in Europa  già dal Regno delle due Sicilie. Essi erano apprezzati in tutto il mondo per la loro qualità, bellezza ed eleganza e rappresentavano spesso quella economia di vicolo che ha costituito a lungo un dignitoso sostentamento per i ceti più a rischio della popolazione.

L’arte dei guantai napoletani coinvolgeva infatti famiglie intere dove ognuno imparava a fare il suo lavoro in maniera attenta e minuziosa. Ogni gruppo di lavoro era costituito da chi ideava il modello, chi tagliava, chi cuciva e chi completava e rifiniva il prodotto.  Il ruolo più importante era ovviamente  ricoperto da chi tagliava la pelle dopo averla accuratamente selezionata: solo il taglio ottimo garantiva di utilizzare e valorizzare al meglio le caratteristiche del pellame.
Ogni famiglia si allargava sino a contare decine e decine di operatori. L’ aria che si viveva era quella di un  gruppo, che in armonia e piena solidarietà dava vita ad una piccola organizzazione industriale fondata sopratutto sul desiderio di” costruire ” un presente  onesto  e lasciare ai propri figli un futuro certo.

Il risultato che ne veniva fuori era qualcosa di incredibile . Da quel rione, all’epoca degradato e abbandonato  venivano fuori quelli che erano considerati in Europa i migliori fabbricanti  di guanti mentre  da vecchie botteghe e angusti scantinati provenivano  accessori di moda raffinati e preziosi  che venivano acquistati da tutto il Mondo.

Il rione Sanità, che ha dato i natali al grande Antonio De Curtis, in arte Totò  era insomma  il fulcro laborioso di tutta la città. Vicoli e botteghe piene di artigiani portavano con orgoglio il nome della propria famiglia e dei propri guanti al di fuori dei confini italiani.

N.B. Anche Afragola , Casalnuovo e Casavatore   ospitavano comunque  concerie, ed altre imprese familiari che concorrevano al confezionamento finale dei guanti ( per esempio coloro che si occupavano degli imballaggi e chi si occupava delle etichette).

Per darvi un’idea del fenomeno guanti in citta, basta solo dirvi che circa il 94 per cento di tutti i guanti made in Italy provenivano dal distretto napoletano. Di fatto, il 40 per cento della produzione era destinata al mercato nazionale e il 60 era diretto a quello internazionale.

Com’è avvenuto in molti altri contesti sociali, anche l’artigianato dei guanti fatti a mano, subì una forte batosta nel dopoguerra. Parecchie botteghe chiusero i battenti e solo pochi ebbero   la possibilità di proseguire la loro arte offrendo il proprio talento a produttori esteri che ne colsero i vantaggi.

Un danno enorme  al settore è stato poi dato successivamente  dallo  strapotere dell’economia dell’Est e della lontana Asia. Con il passare del tempo, questo ha infatti purtroppo, portato la più antica tradizione mondiale della lavorazione del guanto, a lasciare il posto alle lavorazioni meno raffinate, meno compiacenti con le mode ma estremamente più economiche.

Ma al giorno d’oggi,  che vi piaccia o no, i guantai più bravi del Mondo si trovano ancora a Napoli o da li provengono. Per fortuna,infatti, nella nostra citta,  ci sono ancora alcune realtà che basano il proprio operato quotidiano sulla stessa importanza di conoscenze tramandate e sulla qualità delle relazioni umane. Essi continuano  con il loro talento  a lavorare  pellami pregiati con la maestria e le conoscenze tramandate da generazioni , curando ciascun dettaglio e seguendo tutte le regole dei vecchi  artigiani per creare dei guanti belli e di qualità fatti a mano.

Ancora oggi insomma, l’arte dei guantai, per la  nostra città, ha un grande valore culturale  ma anche affettivo perché  attraverso quel rumore delle macchine da cucire, riecheggia  nella  mente di chi oggi pratica l’arte antica di creare nuovi guanti,  ricordi di intere generazioni e racconti  di intere famiglie in passato dedite alla cucitura ed al confezionamento manuale di guanti amati in tutto il Mondo.

La tradizione  a Napoli,come vedete  trova sempre il modo di trionfare …

Con la dinastia borbonica, come avete potuto capire, ad essere sopratutto incentivato in citta, fu sopratutto una produzione artigianale locale di capi d’abbigliamento come  camicie, cravatte,  guanti e tessuti preziosi come la seta.

Fu invece  tra il XIX e il XX secolo,  che la moda a Napoli ritrovando  il prestigio di un tempo, andò ad affermarsi per quella che è oggi: espressione di misura ed eleganza.

È in questi anni infatti che inizia a svilupparsi la sartoria napoletana famosa e apprezzata in tutto il mondo che portarono ad ispirare  l’appellativo per la città di Napoli come  “Capitale della Moda e dell’Eleganza”.

N.B. Fu nel 1800  che la produzione sartoriale partenopea riuscì  a catturare l’interesse estetico dei Re e dei capi di Stato, grazie all’estro e all’incomparabile manualità dei sarti napoletani. In questo periodo nascono, ad esempio, sartorie come De Nicola, Sardonelli e altre, che cominciano a esportare i prodotti delle moda napoletana all’estero, comprese le cravatte, fiore all’occhiello dei brand nostrani. 

Nell’Ottocento e sopratutto nel novecento, si svilupparono  molti cambiamenti in tutti gli ambiti sociali e  con il passare del tempo andò sempre pià ad affermarsi  a livello globale come classe dominante  la borghesia . Questo giovò  molto alla sartoria napoletana che approfittando di alcuni  elementi favorevoli quali la rimozione di vincoli e restrizioni legati alla fine del regime delle Corporazioni, permise  ai sarti napoletani di esprimere liberamente la loro creatività e capacità imprenditoriale.

Mentre si imponevano all’attenzione del pubblico e degli osservatori i primi grandi Maestri con nomi napoletani (come Casamassima o Caggiula) ma anche stranieri (come Lennon e Plassenel), la sartoria napoletana assumeva una propria identità grazie a dei tratti distintivi che la differenziavano dalle altre grandi scuole (in primis quella inglese): la manica a mappina, la tasca a barchetta, il baffo, la giacca sfoderata

La sartoria napoletana entrò quindi  nella sua piena fase di maturità.

Fu in particolare il  periodo della “Belle Epoque” che portò  in citta un particolare fermento nella vita economica e sociale, (base ideale per la domanda di capi di lusso). 

Dopo la Seconda Guerra Mondiale la sartoria napoletana beneficiò  di un’altra evoluzione favorevole, condivisa in realtà con altri territori italiani: l’affermazione del modello dell’azienda sartoriale che consentì di coniugare una qualità senza compromessi con volumi elevati destinati per quote crescenti ai mercato esteri nell’ambito di una evoluzione che vedeva aziende come la Isaia, Kiton e Attolini assumere lo status di veri e propri marchi del lusso con una gamma completa ma proponendosi al tempo stesso come credibili eredi dell’antica tradizione sartoriale nata circa sei secoli prima.

CURIOSITA’ ; Negli ultimi i trent’anni dell’Ottocento, la storia della sartoria napoletana la si deve a  grandi sarti, come i maestri Raffaele Sardonelli e Filippo de Nicola, che seppero creare   le premesse per la nascita dello stile napoletano. Successivamente anche alla famiglia Caggiula, che nel 1887 pubblico’ perfino un trattato sulle tecniche sartoriali che riscosse cosi’ tanto successo che il Ministero della Pubblica Istruzione ne acquisto’ 300 copie che furono distribuite nelle scuole professionali e nelle biblioteche del Regno.

Per anni, l’unica rivale della giacca della sartoria Napoletana è stata quella inglese. Ma è nel capoluogo napoletano che è stato ideato e disegnato il capo che poi negli ultimi decenni ha fatto scuola

.CURIOSITA’:  A differenza dell’intransigente rigore dei capi inglesi, l’abito napoletano divenne  sinonimo di comfort e leggerezza, inizialmente soprattutto per adattarsi al clima certamente più mite della città di Napoli, ma, anche, per lasciare liberi i movimenti del corpo, per permettere quel “gesticolare” tipico degli italiani in genere e ancor più dei napoletani.

La sartoria napoletana  divenne tanto afferamata nel 1930 , da eguagliare addirittura quella inglese e riuscire a  dettare i propri canoni di stile. Essa, dopo aver conquistato il proprio spazio seguendo di fatto  inizialmente i modelli anglosassoni, a partire dal ‘900,  iniziò  a maturare una propria identità, che poi è ciò che ha portato lo stile napoletano ad essere apprezzato e riconosciuto in tutto il mondo.

 

 

 

 

 

Come avete avuto modo di capire da quanto finora raccontato, la nostra citta  ha da sempre  rappresentato nel mondo della moda sartoriale un importante punto di riferimento .

Napoli è stata lei per secoli la vera capitale della moda ( altro che Milano ) . La nostra citta ha una storia così antica da avere del leggendario con la moda e con lo stile . Da noi, i vari capi di abbigliamento ed i vari accessori che li contornavano come i guanti ed i cappelli, hanno per secoli incarnato  i canoni più raffinati del Made in Italy affondando  le sue radici in una storia che risale almeno all’epoca degli Angioini, nel XIV secolo.

Qui da noi, lo stile, nella misura e nell’eccesso, è una componente integrante dell’animo cittadino. Nella nostra citta,  anche chi è costretto dalle ristrettezze economiche a fare acquisti solo al mercatino rionale non lesina sul decoro e sulla presentabilità dei capi. Più che in qualsiasi altro luogo al mondo, a Napoli, uscire in strada trasandati o sfoggiando una sciatta eccentricità, è quasi sempre un azzardo: lascia sempre un fondo di disagio anche nella personalità più audace. Il “Che t’haje miso ‘nguòllo?”, la battuta caustica, il commento mordace sono sempre in agguato nello sguardo argutamente critico di qualche passante. Insomma, la nostra è una città che tiene all’apparenza, ma, soprattutto, è una città che ha sempre tenuto, in un modo o nell’altro, all’eleganza .

Un esempio per tutti, fu  la cosiddetta giacca alla napoletana   disegnata a garantire leggerezza e comodità all’indossatore. Elemento distintivo di questo capo, tra gli altri, fu  la cosiddetta manica “a mappina” che “sarebbe legata all’abitudine dei napoletani… di accompagnare la conversazione gesticolando e quindi la necessità di indossare una giacca che facilitasse i movimenti”.

 

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La tradizione è ovviamente arrivata fino in tempi più recenti, ma prima di continuare bisogna prima di tutto dedicare un attimo di silenzio ad uno  tra i più illustri sarti della scuola del primo Novecento : Vincenzo Attolini, scomparso nel 1971, e’ infatti  considerato addirittura il padre della scuola napoletana. Con i suoi “abiti imperfetti per corpi imperfetti” vesti personaggi del calibro di Vittorio De Sica, Totò e Marcello Mastroianni; ma fece abiti persino per il Re Vittorio Emanuele e per il Duca di Windsor. Secondo molti sarebbe infatti stato lui a iniziare a realizzare giacche leggerissime, con consistenze simili alle camicie, e senza alcun tipo di spallina.( una tradizione portata poi avanti dal figlio Cesare).

Per non parlare poi di quei prodotti unici nel loro genere, come gli ombrelli di Mario Talarico, ricercatissimi, tanto che  nel 1860 diventa fornitore ufficiale della Casa Reale.

N.B. I materiali pregiati come l’avorio, i legni, l’argento e le stampe sono da sempre un segno riconoscibile dell’alta qualità e della ricca tradizione di questo brand che ormai asseconda i gusti dei clienti più esigenti di qualsiasi età.

Ma tanti altri sarti nel tempo hanno fatto storia della sartoria mondiale: Kiton, Mariano Rubinacci, E. Marinella, Eddy Monetti, Mario Valentino, Isaia Napoli, Cesare Attolini, Mario Muscariello, Luigi Borrelli, .

Kiton, è un marchio che ha rappresentato per anni l’élite della sartoria napoletana. Il fondatore del marchio, Ciro Paone, da sempre appassionato ed innamorato della qualità, ha saputo trasformare il suo umile lavoro di artigiano in una vera e propria arte. Da li’, la decisione nel 1968, di dare il là al progetto Kiton, una piccola bottega artigianale che parte con poco più di 40 sarti, per conquistare nello spazio di pochi decenni, mercati come quello russo e tedesco, approdando addirittura oltreoceano, a New York, nel 1986 e successivamente anche in Cina e Corea. Nel 1999 l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi nominò Ciro Paone, Cavaliere del Lavoro. Per consolidare sempre di più il marchio, si è deciso nel 2001 di fondare la Scuola di Alta Sartoria Kiton, con sede nella fabbrica di Arzano e che conta attualmente ben 750 lavoratori e ben 40 negozi monomarca sparsi in 15 Paesi del mondo. Insomma, un programma di espansione in costante e continua crescita.

Isaia , una grande sartoria , il cui marchio  nasce nel 1920, grazie ad una felice intuizione di Enrico Isaia che aprì un negozio di stoffe a cui affiancò successivamente un laboratorio dove sarti esperti  con grande amore e maestria, realizzavano completi da uomo. Nel 1957, i sui figli, decisero  di spostare la produzione a Casalnuovo, alle porte di Napoli ma è negli anni 80’ che cominciò il vero processo di industrializzazione del marchio che incominciò a crescere a ritmi elevati, arrivando a conquistare il mercato europeo, americano ed asiatico.Questa grande azienda infatti con eleganti lavorazioni tramandate di padre in figlio come un’antica ricetta segreta dal sapore retrò, ha  realizzato  negli anni il grande  sogno di farsi apprezzare oltre oceano. Il marchio  oggi è  oramai affermato nel mondo ma continuano tutti a  lavorare  nel rispetto di quelle tradizoni genitoriali  puramente manuali rispettando comunque  gli standard qualitativi e di efficienza della produzione industriale. Questa antica  sartoria napoletana è insomma parte integrante del nostro patrimonio culturale ed è unica perché coniuga la perfezione artigianale del prodotto fatto a mano, da mani e menti napoletane, con uno stile aziendale, riconoscibile dal taglio. Questi abiti maschili.che tramandano nel tempo una antica tradizione sartoriale sono confezionati con particolare raffinatezza e ricercatezza e personalmente li trovo fatti di una eleganza classica e gusto del tutto particolari. Ancora oggi, il punto di forza del marchio è costituito dal forte attaccamento alle sue radici e alla sua citta, Anche l’uomo Isaia deve rispecchiare Napoli: deve essere passionale, irriverente ed elegante. 

 Rubinacci, è un’altro marchio che da sempre rappresenta eleganza e tradizione.L’attività sorge nella prima metà del XIX secolo, quando il bisnonno di Mariano, aprì una piccola bottega nei pressi del Maschio Angioino e cominciò a commerciare seta con l’Oriente. In seguito, il figlio Gennaro aprì in centro una boutique che chiamò London House, la quale divenne nel giro di poco tempo, una delle mete preferite di personaggi come Eduardo De Filippo e De Sica. Ancora oggi, Rubinacci veste gli uomini più eleganti d’Italia, ed il suo nome compare di sovente nelle grandi testate di moda come simbolo associato all’eleganza ed alla tradizione napoletana.

Eugenio Marinella, è uno dei marchi napoletani di moda  più antichi e conosciuti nel mondo. La sua attività  comincia nel lontano 1914 quando Eugenio Marinella apre una propria bottega a Piazza Vittoria, sull’elegante e famosa Riviera di Chiaia. Grazie alla posizione strategica che consentiva ai curiosi nobili della zona ma anche ai turisti di poter apprezzare e ammirare i capi prodotti con abile maestria dall’artigiano partenopeo, il marchio divenne ben presto uno dei più conosciuti di Napoli e d’Italia al punto che negli anni 80’, l’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, ne divenne un vero e proprio testimonial. L’escalation, da li’, fu assai rapida; il cavallo di battaglia dell’impresa, ovvero le cravate, cominciano ad essere comprate ed apprezzate dagli uomini politici più importanti del mondo. Oggi, l’azienda, guidata dal nipote di Maurizio, Eugenio, riesce a mantenersi in linea con le nuove tendenze, mantenendo il suo classico stile british ma senza perdere al contempo lo stile “homemade” napoletano.

Eddy Monetti, è un marchio più antico in quanto sorse   nel lontano 1870,  a via Toledo quando Eduardo , decise di aprire il suo primo negozio dedicato esclusivamente ai cappelli. A questo accessorio, in seguito, il figlio Salvatore affiancherà anche la produzione di cravatte ed altri capi. Negli anni 60’, l’azienda decide di compiere il grande passo, ampliando la produzione con l’apertura di nuovi punti vendita a Roma e a Milano, per poi concentrarsi sul mercato estero. Oggi, dopo quasi 150 anni di attività, l’azienda Eddy Monetti, conserva ancora la sua familiarità ed allo stesso tempo cerca di trasmettere oltre confine, il suo gusto raffinato e nello stesso tempo condito da un pizzico di stravaganza.

Mario Valentino, un marchio da tutti conosciuto è stata la prima fabbrica tessile napoletana. Il marchio fu fondato nel 1952, anche se già agli albori del 900’, il padre di Mario, Vincenzo Valentino, aveva cominciato a confezionare le prime calzature firmate con il suo marchio, le quali furono molto apprezzate da personaggi illustri come il re Vittorio Emanuele.  A Mario spetta invece il merito di aver creato la prima fabbrica a Napoli, nel 1956, e grazie a questa felice intuizione, di aver cominciato a vestire molti personaggi del mondo dello spettacolo. Basti pensare, per esempio, a Naomi Campbell, Jackie Kennedy, Marcello Mastroianni e le gemelle Kessler. Inoltre, Mario Valentino, viene indicato da molti come il creatore del tacco a spillo e del mocassino da donna.

Cesare Attolini, è un’altra grande sartoria napoletana molto conosciuta nel mondo.. La storia di questa antica sartoria napoletana comincia nel 1930, quando Vincenzo Attolini prova a dare nuova vita ai classici completi da uomo, rendendoli più leggeri ma allo stesso tempo anche meno ingessati. Il suo obiettivo primario era quello di creare “abiti imperfetti per corpi perfetti”, e riuscì a vincere la sua sfida personale se si pensa che grandi personaggi dello spettacolo come Totò, Vittorio De sica, Marcello Mastroianni, Clark Gable, il re Vittorio Emanuele III ed il Duca di Windsor, solo per citarne alcuni, sono stati dei clienti affezionati di questo marchio. Spetta in seguito al figlio di Vincenzo, Cesare, il merito di aver proseguito il cammino iniziato dal padre, aprendo un nuovo laboratorio a Casalnuovo. A guidare oggi l’azienda di famiglia ci sono i figli di Cesare, Massimiliano e Giuseppe, i quali stanno facendo acquisire al marchio sempre più un’impronta di fama mondiale.

Maison Luigi Borrelli , che rappresenta una sartoria napoletana a conduzione familiare che opera sul mercato dal 1957. La sua storia  cominciò quando la madre di Luigi, Anna, decide di aprire un piccolo laboratorio per il confezionamento di capi sartoriali. Di lì a poco, solo grandi successi con la produzione di tanti abiti molto amati dagli intenditori, che contribuiranno a farla diventare il miglior “Fornitore della Real Casa Savoia”. Dal 770, il brand continua ad espandersi, realizzando anche capi casual che si vanno ad affiancare a quelli classici. A guidare oggi l’azienda, c’e’ il figlio di Luigi, Fabio.

Aristide Tofani,  la cui sartoria venne fondata nel 1954 da  un giovane sarto che si era formato nella scuola di Vincenzo Attolini. Proprio lì, Aristide maturò infatti quel grande senso di perfezione ed eleganza che ha poi trasmesso ai figli Davide ed Enea. Proprio quest’ultima, è la caratteristica principale della sartoria napoletana, ovvero quella di tramandarsi di padre in figlio, cosa che gli permette di differenziarsi dalle altre e di resistere al mutamento dei mercati. Il testimone adesso è passato ad un altro giovane Tofani, il quale sta portando a far conoscere e apprezzare il marchio, attraverso il nuovo mondo dei social network.

N.B. Anche le camicie che sono un must nell’armadio di ogni uomo,  hanno nella nostra città, una storia sartoriale molto antica. Esse  realizzate a mano, sono caratterizzati da una cura maniacale dei dettagli e delle cuciture e rappresentano nel mondo della moda maschile dei  prodotti di ottima qualita ,adatte ad ogni occasione, dalle più formali alle più casual.

Fu Carolina Finamore ad installare la prima boutique nel centro storico partenopeo e a realizzare camicie su misura per una clientela molto ristretta. Prodotti di alta fattura che sono arrivati alla terza generazione con la famiglia Finamore grazie alla loro maestria ed artigianalità.

Mario Muscariello,  a tal proposito è stato forse una delle prime grandi aziende  grande azienda di sartoria napoletana  ad occuparsi delle camice . iIl motto dell’azienda    “nati con la camicia”, è sopravissuto per anni. Già alla fine del 1800, infatti la nonna di Giuseppe Muscariello, lavorava come camiciaia a Napoli. Un’arte che si è tramandata da generazione in generazione insomma, e che ha spinto Giuseppe, una volta compiuti i 18 anni a proseguirla, aprendo la sua prima sartoria. Successivamente, le tecniche ed i segreti appresi durante tanti anni di lavoro, sono stati tramandati alle sue figlie Giuseppina ed Enza e poi al nipote Giuseppe che nel 1964 decide di fondare il marchio. Nel 1997, sarà la volta, invece, di Mario, primogenito di Giuseppe, che comincia a lavorare in azienda come stilista ed inventa prodotti come la Caprishort e la GiaccaCamicia che hanno ammaliato e conquistato il Giappone. Nel 2013, si decide dunque di creare il primo total look firmato Musccariello e grazie all’abile guida di Mario, capace di trasformare la camicie in una vera e propria giacca sartoriale,  ’impresa sta oggi veleggiando spedita nel mare magnum della moda, senza dimenticare gli insegnamenti e i valori trasmessi dalla famiglia.

Avete notato un particolare ?

Tutte queste grandi imprese sartoriali nascono da iniziali piccole iniziative di uomini visionari ma bravi e capaci di  portando avanti la tradizione dell’alta sartoria Napoletana, fra botteghe e atelier affascinanti ricavati in pochi metri di scantinati. Ma sono anche  piccole e grandi sartorie che tramandano nel tempo una antica tradizione sartoriale. 

Quella che insomma oggi è la sartoria napoletana , è solo il punto di arrivo di un lungo processo di rivoluzione e innovazione stilistica che ha dato vita a quell’altra faccia del Mezzogiorno, quella che nel rispetto delle tradizioni puramente manuali  riesce a reggere un mercato oggi dominato da Amazon e tanti altri venditori di prodotti scadenti e sopratutto tutti uguali. Oggi,solo se hai dei capi di abbigliamento di alta qualità artigianale fatti con tessuti pregiati  e confezionati appositamente sulle misure e i gusti del proprio cliente,  puoi resistere in un mondo globalizzato. dove tutto viene fatto in serie. 

Nell’era dominata dal pret a porter, e da grandi processi di fabbricazione, spesso orientali di basso costo ma anche di basso prestigio, specie per quanto riguarda la moda, la sartoria napoletana continuare a mantenere il primato e la leadershep nel mercato, perchè è un’arte artigianale che si basa sulla precisione e la perfezione del lavoro manuale e  si distingue per l’attenzione al dettaglio , per la qualità dei tessuti utilizzati e per  l’attenzione prestata ai materiali utilizzati .
Questi  capi realizzati sono caratterizzati da un’alta vestibilità, che segue le linee del corpo in modo armonioso e  con un’estetica elegante e raffinata che ha conquistato stilisti e celebrità di tutto il mondo.
Pensate solo che  perfino il New York Times, nel 2014, e il Financial Times, nel 2015, si siano interessati alla sartoria napoletana e alla sua antica tradizione, esaltandone la qualità.

Chi oggi vuole acquistare un abito di alta qualità e sopratutto di una eleganza senza tempo , sa bene che deve rivolgersi ad un prodotto  made in Naples. Un abito su misura “fatto su ordinazione” o meglio  “sartoriale” creato dai nostri sarti sarà in assoluto un pezzo unico, come ogni articolo fatto a mano,  dal taglio del tessuto alle cuciture …  alla qualità dei tessuti, alla ricercatezza nei dettagli e alla  praticità senza rinunciare allo stile… e poichè in ogni abito  il sarto metterà un po’ di sé,..  due capi non potranno mai essere davvero identici.

Solo insomma la sartoria napoletana oggi vi assicura un capo leggero nella struttura, che accompagna le linee del corpo esaltandole allo stesso tempo. Un capo che può essere indossato tutti i giorni in grado di offrire allo stesso tempo comfort ed eleganza senza tempo

Il New York  Times riconosce un’altro primato al Made in Italy campano: la rinomata qualità della sartoria napoletana è stata definita come punto d’eccellenza della tradizione artigianale del fatto a mano, un’arte antica secolare radicata nella cultura di Napoli che sopravvive nel tempo e porta alto il nome della sua storia.

La sartoria napoletana è insomma unica perché coniuga la tradizione e la perfezione artigianale del prodotto .

L’abito confezionato a mano a Napoli fa , fa insomma impazzire tutti,.

Non c’è cosa più bella all’estero di farsi un abito a Napoli da mani e menti napoletane, con uno stile aziendale, riconoscibile dal taglio.. Qualcosa fatta a mano che  vesta a pennello.e che provenga da un luogo dove gusto e l’eleganza del vestire sono qualità  innate e vi assicuro che un abito confezionato dalle sartorie napoletane viene subito riconosciuto da una certa élite si persone.  Il vestito sartoriale napoletano fatto su misura rappresenta  sempre un grande privilegio .

Il gusto e l’eleganza di questi abiti vengono riconosciuti in tutto il mondo. Forse questo avviene perché qui, per tradizione, l’apparenza ha un’importanza fondamentale, sartorialmente si cura il più piccolo dei particolari. Essi rappresentano la consolidata tradizione sartoriale partenopea che viene rinnovata ancor oggi da abili operatori .

N.B. Ricordatevi che fra il 1930 ed il 1935 Napoli era ancora da considerare la centrale europea dell’eleganza. L’artigianato trionfava. A Napoli c’erano i migliori sarti, sarte celebri, calzolai superiori a quelli inglesi”. Quindi la nostra tradizione nel settore della moda maschile è qualcosa di consolidato da decenni.

N.B. La sartoria napoletana è molto ricercata anche a Milano , città dinamica e in continuo divenire, sempre attenta alle mode e focalizzata sul futuro. Lo stile unico napoletano, pur mantenendosi saldamente ancorata allo stile classico è riuscita ad innovarsi, assicurandosi un posto provilegiato anche in città frenetiche e moderne come Milano.

Oggi  il made in Italy , sopratutto l’alta sartoria maschile,  ha quindi il suo fulcro nella città partenopea. Napoli è infatti  considerata da tempo la culla di una sartoria  artigianale e tradizionale che tramandata di generazione in generazione, si è resa oggi una delle arti più rispettate al mondo.

La città , nonostante le nuove tendenze di moda, è stata  in grado di mantenere intatte le sue radici artigiane, pur aprendosi  per certi versi alle nuove tendenze del mercato globale.

Una delle caratteristiche distintive della sartoria napoletana è sopratutto anche l’uso di tessuti leggeri e traspiranti, come lana, seta e lino. Questi materiali sono ideali per il caldo clima mediterraneo e consentono un maggiore comfort e movimento. e vengono prodotti a Napoli e nelle vicine regioni campane.

N.B. tra i tessuti più famosi vi sono il setificio di San Leucio, il velluto di Napoli e la seta di Sorrento.

La sartoria  napoletana insomma è nota anche per i tessuti di altissima qualità, che vengono utilizzati dai nostri grandi colossi dell’ago per creare abiti di alta moda. Ogni capo della  vera sartoria napoletana viene infatti realizzato su misura per il cliente, in un mix perfetto tra tessuto e dimensioni, colori ed accessori .Uno stile che si riconosce al primo sguardo, soprattutto per i capi maschili; dalla lunghezza della giacca, ad esempio, che è più corta rispetto agli standard tradizionali, le cui linee morbide favoriscono il movimento e la gestualità dei napoletani. Persino i tessuti più pregiati, lavorati da mani sapienti, sono resi confortevoli da indossare. Una concezione minimalista che elimina tutto ciò che è superfluo, in modo che la giacca risulti flessuosa e leggera.

L’elemento dal quale anche un occhio inesperto ricondurrebbe un completo all’arte della moda italiana napoletana è sicuramente la giacca: i suoi dettagli univoci determinano il successo di questo stile ieri come oggi.

Questi Michelangeli dell’alta moda napoletana ,hanno la caratteristica di realizzare delle giacche con una  manica più stretta del normale che lascia  intravedere il polsino della  camicia  che deve quindi essere di alta fattura ed eleganza . Esse lasciandola possibilita  inoltre di mostrare il polsino e gli eventuali gemelli che donano sicuramente eleganza al modello. Le maniche  più corte della media, sono un dettaglio anche  legato alla consuetudine di accompagnare i discorsi da un’intenso gesticolare tipicamente italiano.

Tra i dettagli che definiscono una giacca alla napoletana c’è sicuramente anche la spalla: quella partenopea è “a camicia” cioè una spalla che segue la naturale linea del corpo umano, culminando in un giromanica cucito proprio come una camicia, cioè con il rimesso della manica inserito sotto il giro e ribattuto esternamente. Poichè  la parte superiore della manica, la cosiddetta “tromba”,  è più ampia rispetto allo scalfo della giacca, il risultato finale saranno delle leggere “pieghe” , dovute all’eccesso di tessuto utilizzato. Sono proprio quelle “pieghe” che definiscono la famosa “manica a mappina”, in grado di accompagnare con grazia, i gesti e i movimenti tipici del popolo napoletano.

N.B. Per questo motivo sono definite anche “a camici”, proprio per sottolineare la loro leggerezza ed il fatto che  non legano nei movimenti come fanno le classiche giacche.

La spalla morbida, non imbottita unitamente agli altri dettagli rendono lo stile napoletano leggero, versatile ed adatto ad ogni corporatura. La parte alta, inoltre, risulta leggermente arricciata, caratteristica tipica dello stile napoletano Il collo è  più alto rispetto alle altre giacche dal taglio classico.

CURIOSITA’: Fin dall’inizio della sua storia, la sartoria napoletana ha evitato quella pomposità propria piuttosto dello stile parigino. A Napoli l’eleganza non è mai sopra le righe,né troppo ingessata. Le maniche  più corte della media,  insomma non legano nei movimenti come fanno le classiche giacche. Le  spalle inoltre non hanno spalline interne come imbottitura, e quindi si presentano più leggere e facilmente indossabili. Muoversi e gesticolare diventa più semplice, anche grazie agli spacchi profondi ai lati, e anche contrastare il caldo; dopotutto, stiamo parlando di una giacca pensata per chi vive nel Paese del sole.

Altre prerogative  della giacca napoletana sono la forma tondeggiante delle tasche applicate, dette a “pignata”, e il taschino tagliato a “barchetta” che guizza verso l’alto, mentre I bottoni delle maniche si sovrappongono leggermente e per tale ragione sono detti “bottoni baciati”. 

Il “taschino a barchetta” è certamente simbolo dello stile napoletano: l’angolo esterno innalzato, ripreso anche nelle tasche laterali, lo fa assomigliare ad una piccola barca, da cui il nome. Le tasche vengono completate con un profilo tondeggiante e cucite con doppia puntura sia esterna che interna.

N.B. Le tasche ,sono  definite “a pignata”, per la loro forma che ricorda una pentola (pignatta, in dialetto napoletano)

Un’altra caratteristiche unica è la fodera: essa non ricopre mai l’intera giacca ma si ferma circa a metà e solitamente non viene chiusa ( la fodera è spesso assente invece, oppure compare solo a metà).La tela interna alla giacca è inoltre sempre molto leggera, per la vestibilità e la traspirazione.  Anche le maniche vengono sfoderato come se fossero una seconda pelle o un fine guanto  

Ultimi dettagli di cui vi abbiamo gia accenneato, sono i 3 classici bottoni di cui uno lasciato aperto, i revers solitamente a punta e gli spacchi presenti sia posteriormente che lateralmente. Questi ultimi in particolare molto profondi, anche 30 centimetri.

N.B. Tecnicamente si definisce a “tre bottoni stirata a due”; significa che ci sono tre bottoni cuciti sul risvolto, ma soltanto due di questi si possono davvero utilizzare. Il primo, quello più in alto, è nascosto all’interno del risvolto. Dei due bottoni utilizzabili, inoltre, solo quello più in alto (il centrale, prendendoli in considerazione tutti e tre) sarà allacciato.  Da non dimenticare che il rever deve essere piuttosto largo: fra gli 8 e i 10 centimetri.

Uno stile elegante, unico volto a dar libertà di moviemento senza sacrificare la ricercatezza.

Oltre alle tradizionali tecniche sartoriali, i sarti napoletani sono noti anche per il loro approccio innovativo al design. Spesso incorporano elementi moderni, come silhouette più sottili e colori più audaci, pur mantenendo l’aspetto classico della tradizionale sartoria napoletana.

Nel complesso, l’arte sartoriale napoletana è uno stile stato tramandato attraverso generazioni di abili artigiani a  testimonianza della ricca storia e cultura di Napoli e rimane una scelta popolare per chi cerca capi su misura di alta qualità .

In generale possiamo quindi con certezza affermare che la sartoria napoletana è uno dei tanti orgogli di cui può avvalersi la Campania, un racconto unico, fatto di eleganza maschile, di forbici, di ago , di filo e cuore .

La nostra citta oggi  sta conoscendo un momento di grande crescita turistica, che si spiega innanzitutto con la sua storia millenaria , la sua belleza paesaggistica , la sua cultura legata ai tanti monumenti e al suo immenso patrimonio artistico ed alle sue eccellenze  gastronomiche, ma non dimentichiamo che  a queste risorse va aggiunta però, per chi non vuole vivere una esperienza da semplice turista,anche  la sua tradizione nella produzione non solo di abiti su misura ma anche di tanti altri oggetti personalizzati di qualità assoluta:

  • le cravatte, con aziende ultra centenarie come Marinella e Cilento
  • gli ombrelli e i guanti, con produttori di antica tradizione come Talarico e Sermoneta
  • le calzature, che hanno espresso vere e proprie icone come Mario Valentino
  • le borse, prodotte da piccoli laboratori e aziende più strutturate come Tramontano
  • i gioielli, ancora oggi rappresentati dal Borgo Orefici erede dell’antica Corporazione

La Campania gode di una eccezionale concentrazione di localitàfamose per le loro bellezze naturali ma anche per la loro ricca tradizione artigianale che da decenni affascinano personalità di ogni tipo da tutto il mondo:

  • a Capri i raffinati tessuti di Maria Chiara Gallotti ed Emilio Pucci, i pantaloni capresi di Sonia De Lennart, i gioielli di Chantecler
  • ad Ischia le creazioni di Elena Wassermann che troveranno un ideale veicolo di comunicazione nelle immagini della grande fotografa tedesca Regina Relang
  • a Positano i sandali che ancora oggi vengono prodotti su misura per i clienti internazionali che passeggiano nelle sue stradine piene di fascino

Il lusso nel più ampio Sistema Moda della Campania, rappresenta un traino per la Regione Campania sopratutto oggi che si parla di Autonomia differenziata. 

Il lusso  della moda maschile o femminile e gli accessori ad essi legati sono una  realtà campana che ha conosciuto negli ultimi anni una forte crescita. Esso rappresenta una potente leva per la sostenibilità sociale nella nostra regione .

Un forte settore private che fornisce competenze e capacità produttiva a brand nazionali ed internazionali va tutelato, difeso e certamente non ostacolato. Esso rappresenta  una importante risorsa economica turistica e culturale ma anche un importante strumento di crescita e coesione sociale in quanto capace di creare lavoro stabile sul territorio,(una condizione essenziale per il benessere di tante famiglie ) ma anche qualcosa capace di dare quel  di identità che si ha solo se si conservano le radici storiche e culturali di un luogo.

Conservare per i nostri giovani il legame con gli antichi mestieri e le relative tradizioni  storiche e culturali, è un qualcosa che ci permette di conservare la nostra identità .La bottega di un  sarto,  può ritornare ad essere il primo luogo della formazione dei giovani per confezionare abiti che esprimono raffinatezza partendo dall’antica quanto attuale arte sartoriale.

E’ per questo motivo che la Fondazione Enrico Isaia e Maria Pepillo Onlus intende supportare giovani provenienti da situazioni di disagio socio-economico favorendo la loro inclusione sociale attraverso la trasmissione di competenze sartoriali, oltre che la conoscenza delle radici storiche e culturali di questo antico mestiere . Le nuove generazioni devono incominciare a volgere di nuovo lo sguardo verso quella sartoria napoletana e campana che corre da sempre sul filo della tradizione e del futuro, tra arte antica e moderna . Ricordiamoci infatti che oggi  ben 3000 aziende campane sono impegnate in questo  settore.

Un ritorno al passato, all’artigianato e  alla qualità di un tempo preservata dalla manualità di questi“artisti” dei tessuti che per ogni capo realizzato dedicano tante ore di lavorazione di mani, occhi, di precisione e con il prodotto finale che va ad assumere un valore inestimabile che la grande industria (con tutto il rispetto) non potrà mai trasmettere, puo rappresentare il futuro della nostra regione. 

Oggi più che mai, soprattutto nel mercato italiano, ma anche in quello estero,  si assiste ad un ritorno dell’eleganza classica sartoriale che è sempre più richiesta, e la nostra citta tra le sue mille eccellenze, ha anche quella immateriale dello stile che ci rende unici in tutto il mondo e che soprattutto, fa tendenza in tutto il mondo. Una tendenza che può solo cercare di essere imitata, ma che non potrà mai essere concretamente trasmessa nella sua interezza realizzativa, in quanto tutto nasce dalla creatività, dalla passione e dal cuore, che sono condizioni di nascita uniche e non scientemente replicabili. Proprio come l’inimitabile DNA di noi napoletani : o ce l’hai, o puoi solo invidiarlo!

ARTICOLO SCRITTO DA ANTONIO CIVETTA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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