Johann Wolfgang von Goethe,  partito nel XVIII secolo, dalla sua terra, come molti aristocratici dell’epoca, per compiere il suo Grand Tour, durante il suo viaggio rimase totalmente affascinato dalla bellezza straordinaria di Napoli.

Il Grand Tour  era un lungo avventuroso viaggio per l’Europa a cavallo o in carrozza che durava intere settimane , mesi o anni  che  veniva normalmente  intrapreso in genere da ricchi giovani dell’aristocrazia europea a partire dal XVI secolo .

Esso , secondo le usanze dell’epoca era un viaggio destinato a perfezionare il  sapere e la cultura dei giovani rampolli delle nobili famiglie dell’alta aristocrazia europea che come sappiamo tutti, tenevano molto a cuore l’istruzione dei loro giovani patrizi destinati a reggere un domani le sorti del loro casato o della loro nazione .

Il viaggio  aveva come destinazione  generale  l’Europa intera ma sopratutto l’Italia che certamente come cultura e arte  poteva arricchire di molto il loro bagaglio culturale e formativo.

Il particolare tipo di viaggio si diffuse sopratutto e fortemente tra le elite culturali europee che ritenevano utile far completare gli studi ai loro ragazzi sotto la guida di un precettore, affinche oeesrvassero  i costumi civili , culturali ma sopratutto politici, del restante  continente.

Con questo viaggio tra meraviglie dell’antichità classica,  bellezze artistiche e naturali, ed  usi e  costumi di popoli lontani, queste nobili case aristocratiche europee  intendevano quindi meglio formare ed istruire i loro giovani figli  che provavano a diventare adulti.

Il Tour  era in genere organizzato  con partenza e arrivo in una medesima città e certamente Napoli si rivelò fatale per il giovane Johann Wolfgang von Goethe. Egli  durante il suo viaggio in Italia nel XVIII secolo, rimase infatti affascinato dalla bellezza straordinaria di Napoli. La città si aprì di fronte a lui come uno scrigno pieno di meraviglie tutte da scoprire. Le sue strade vivaci, i suoi colori e la sua atmosfera piena di vita colpirono lo scrittore profondamente.

Il poeta era partito dalla sua terra, come molti aristocratici dell’epoca, per compiere il suo Grand Tour tra le principali città italiane, passando per Venezia, Roma, Palermo e le città siciliane, ma quando giunse a  Napoli, egli restò letteralmente colpito dalla città  e dai napoletani, a tal punto da descrivere poi  la città come un vero e proprio paradiso, talmente bello da “perdere i sensi“.

Nemmeno Roma, a dire dello scrittore, può competere con la bellezza di Napoli. Goethe ammirò la vitalità e la vivacità dei napoletani, la bellezza dei monumenti storici, l’architettura maestosadi Pompei ed Ercolano e le magnifiche vedute panoramiche sul Golfo di Napoli.

La città, così palpitante di vita e vibrante, sembrava incapsulare tutto ciò che rendeva l’Italia un luogo unico e affascinante.

“Se a Roma si studia volentieri, qui si desidera soltanto vivere. Ci si scorda di noi e del mondo” scrive nelle sue lettere.

Ma la frase che più di tutte oggi conosciamo e attribuiamo al poeta è la celebre “Vedi Napoli e poi muori”.Ma cosa significa davvero? É stato proprio il poeta a pronunciarla per primo? Le cose non starebbero proprio così

Nonostante sia una citazione molto famosa, non tutti però conoscono la sua origine.

Con assoluta certezza molti affermano che a pronunciare per primo queste parole sia stato proprio Goethe che così scrisse nel suo diario di viaggio durante la visita della città. In realtà però nei suoi appunti del 2 marzo 1787 Goethe riportò queste parole:

“Della posizione della città e delle sue meraviglie tanto spesso descritte e decantate, non farò motto. ‘Vedi Napoli e poi muori!’ dicono qui.”

In realtà, quindi, il poeta avrebbe solo riportato un detto già molto frequente tra i napoletani, un detto che avrebbe scritto nella sua lingua madre così: Siehe Neapel und stirb. Ma perché i napoletani erano soliti dire questa frase?

Quale è la vera origine della frase “Vedi Napoli e poi muori”

Secondo antichi libri del Settecento che raccontano la storia di Napoli, l’attuale via Nilo un tempo rappresentava la strada degli Alessandrini. Questa strada era nota dal popolo anche come vico de li mpisi, ovvero strada degli impiccati.

l suo nome era dovuto al fatto che in passato da qui passavano i condannati al patibolo, attraversando tutta la città fino al luogo dell’esecuzione. Erano quindi obbligati a percorrere un itinerario prestabilito tra la folla, le strade e i palazzi della città prima di essere giustiziati. In breve, vedevano Napoli e poi morivano.

Ecco da dove deriverebbe la celebre frase che Goethe sentì spesso pronunciare ai napoletani durante il suo viaggio e che pensò essere perfetta per descrivere questa città, talmente bella da vedere almeno una volta nella vita. Da visitare prima di morire.

Probabilmente nemmeno  lo stesso Goethe conosceva l’origine di quella frase, ma la fece propria pensando che dopo aver visto Napoli, non ci sarebbe stato più nulla di meraviglioso da scoprire nel mondo, quindi si sarebbe potuto morire felici.

Il significato simbolico di questa espressione è quindi molto profondo. Non si tratta di un invito letterale a morire dopo aver visitato Napoli, ma un modo di dire che vuole piuttosto esprimere a parole l’idea che l’esperienza di scoprire e immergersi nella bellezza di Napoli possa essere così intensa e straordinaria che nulla potrebbe mai eguagliarla.

Per i napoletani, oggi il detto “Vedi Napoli e poi muori” è sinonimo di orgoglio e amore per la propria città. Riconoscendo che Napoli sia davvero un luogo unico al mondo, rivolgono l’invito a tutti coloro che non conoscono ancora la città così che possano visitarla e vivere pienamente l’esperienza di scoprire tutte le sue meravigliose sfaccettature

Goethe in una sua lettera scritta a Napoli il 28 maggio del 1787 per difendere la nostra città da ciò che aveva scritto Jakob Volkmannella sua guida turistica per i visitatori dell’Italia , pubblicata nel 1771 , così descriveva la nostra città.

L’ottimo e utilissimo Volkmann  mi costringe di tanto in tanto a divergere dalle sue opinioni. Dice per esempio che a Napoli vi sarebbero da trenta a quarantamila fannulloni: e quanti non lo ripetono! Dopo aver acquisito qualche conoscenza delle condizioni di vita del Sud, non tardai a sospettare che il ritenere fannullone chiunque non s’ammazzi di fatica da mane a sera fosse un criterio tipicamente nordico. Rivolsi perciò la mia attenzione preferibilmente al popolo, sia quando è in moto che quando sta fermo, e vidi, bensì, molta gente mal vestita, ma nessuno inattivo.

Chiesi allora ad alcuni amici se veramente esisteva questa massa d’oziosi, desiderando conoscerli io pure, ma nemmeno loro furono in grado d’indicarmeli; sicché, coincidendo la mia indagine con la visita della città, mi misi io stesso sulle loro tracce.

Cominciai, in quell’immensa baraonda, a prendere familiarità con i diversi tipi, a giudicarli e a classificarli secondo il loro aspetto, le loro vesti, i comportamenti e le occupazioni. Questa ricerca mi riuscì più facile che altrove, perché qui l’uomo è più lasciato libero a se stesso e si denota esteriormente in conformità alla propria condizione sociale.

Iniziai le mie osservazioni di buon mattino e, se vidi qua e là gente ferma oppure in riposo, fu perché il loro lavoro così esigeva in quel momento.

I facchini, che in diversi punti hanno i loro posti riservati e aspettano soltanto che qualcuno ricorra a loro; i vetturali, che con i loro servi e garzoni, accanto ai calessi a un cavallo, governano le loro bestie sulle grandi piazze, pronti ad accorrere al primo cenno; i barcaioli, che fumano la pipa seduti sul molo; i pescatori, che se ne stanno sdraiati al sole perché magari il vento è contrario e non gli consente d’uscire in mare. Ne vidi anche molti che andavano attorno, ma quasi tutti portavano il segno d’una specifica attività. Quanto ai mendicanti, non se ne vedevano affatto, se non vecchioni, storpi o gente inabile a qualsiasi lavoro. Più mi guardavo intorno, più attentamente osservavo, e meno riuscivo a trovare autentici fannulloni, nel popolino minuto come nel medio ceto, sia al mattino sia per la maggior parte del giorno, giovani o vecchi, uomini o donne che fossero.

Citerò qualche particolare, così da rendere più credibile ed evidente la mia affermazione. In vari modi si danno da fare anche i ragazzini. Per lo più portano da Santa Lucia in città il pesce da vendere; molti altri s’aggirano nei pressi dell’arsenale o, in genere, dove lavorano i falegnami e v’è quindi abbondanza di trucioli, oppure dove il mare rigetta ramoscelli secchi e legna minuta, tutti affaccendati a raccogliere in piccole ceste anche i minimi frammenti di legno. Sono bambinetti in tenera età, quasi ancora incapaci di reggersi in piedi, che s’industriano in tal modo, guidati dai più grandicelli. Con le loro ceste vanno poi nel cuore della città e si siedono offrendo in vendita quelle piccole provviste di legna. Le comprano gli artigiani o i borghesi di modesta condizione, che le riducono in brace sui treppiedi per scaldarsi o per alimentare i loro semplici fornelli.

Altri ragazzetti girano vendendo l’acqua delle fonti sulfuree, di cui si fa gran consumo specialmente in primavera. Altri ancora raggranellano qualche soldo comprando frutta, miele filato, ciambelle e dolciumi, che offrono e rivendono, piccoli mercanti improvvisati, ai loro coetanei, se non altro per averne gratis una parte. Niente di più grazioso del vedere uno di questi piccini, munito d’un’assicella e d’un coltello per tutta bottega ed attrezzo, andarsene per via reggendo un’anguria o una mezza zucca arrostita; intorno a lui si raccoglie uno sciame di monelli, il bimbo posa a terra l’assicella e incomincia a tagliare il frutto in tanti pezzetti. Gli aspiranti stanno a guardare con grande serietà se la porzione corrisponde alla loro monetina di rame, e il minuscolo trafficante, di fronte a quei famelici, bada altrettanto gelosamente di non rimetterci neppure un briciolo. Sono certissimo che fermandomi più a lungo potrei raccogliere parecchi altri esempi di tale industriosità infantile.

Moltissimi sono coloro – parte di mezz’età, parte ancora ragazzi e per lo più vestiti assai poveramente – che trovano lavoro trasportando le immondizie fuori città a dorso d’asino. Tutta la campagna che circonda Napoli è un solo giardino d’ortaggi, ed è un godimento vedere le quantità incredibili di legumi che affluiscono nei giorni di mercato, e come gli uomini si dian da fare a riportare subito nei campi l’eccedenza respinta dai cuochi, accelerando in tal modo il circolo produttivo. Lo spettacoloso consumo di verdura fa sì che gran parte dei rifiuti cittadini consista di torsoli e foglie di cavolfiori, broccoli, carciofi, verze, insalata e aglio; e sono rifiuti straordinariamente ricercati. I due grossi canestri flessibili che gli asini portano appesi al dorso vengono non solo inzeppati fino all’orlo, ma su ciascuno d’essi viene eretto con perizia un cumulo imponente. Nessun orto può fare a meno dell’asino. Per tutto il giorno un servo, un garzone, a volte il padrone stesso vanno e vengono senza tregua dalla città, che ad ogni ora costituisce una miniera preziosa. E con quanta cura raccattano lo sterco dei cavalli e dei muli! A malincuore abbandonano le strade quando si fa buio, e i ricchi che a mezzanotte escono dall’opera certo non pensano che già prima dello spuntar dell’alba qualcuno si metterà a inseguire diligentemente le tracce dei loro cavalli. A quanto m’hanno assicurato, se due o tre di questi uomini, di comune accordo, comprano un asino e affittano da un medio possidente un palmo di terra in cui piantar cavoli, in breve tempo, lavorando sodo in questo clima propizio dove la vegetazione cresce inarrestabile, riescono a sviluppare considerevolmente la loro attività.

Il discorso sconfinerebbe troppo se volessi parlare dell’infinita varietà dei piccoli commerci che ci si diverte ad osservare a Napoli, come in ogni altra grande città; ma non posso tacere dei venditori ambulanti, dato che provengono soprattutto dagl’infimi strati popolari. Alcuni vanno attorno con barilotti d’acqua ghiacciata, bicchieri e limoni, per poter preparare subito e ovunque una limonata, bevanda cui non rinunziano neppure i più umili; altri reggono su vassoi bottiglie con vari liquori e bicchieri a calice stretto, tenuti fermi da anelli di legno; altri ancora portano canestri di biscotti, leccornie, limoni e altre frutta, e ciascuno sembra voler condividere e ingigantire quella festa del consumo che a Napoli si celebra tutti i giorni.

Oltre all’attività svolta da questi ambulanti, v’è pure una massa di piccoli rivenduglioli girovaghi, che senza tante cerimonie offrono in vendita le loro cosucce disponendole su un asse di legno, dentro un coperchio di scatola, o addirittura sciorinando la loro mercanzia sul nudo terreno delle piazze. Non si tratta allora di merci vere e proprie, quali si troverebbero nelle normali botteghe, ma di autentico ciarpame: non c’è pezzettino inutilizzato di ferro, cuoio, tela, feltro ecc. che non sia messo in vendita da questi robivecchi e non sia comprato dall’uno o dall’altro. Parecchi uomini delle classi più misere lavorano poi come facchini o manovali presso i commercianti e gli artigiani.

È vero, non si fa praticamente un passo senza imbattersi in gente assai malvestita o addirittura cenciosa; ma non per questo si deve parlare di scioperati, di perdigiorno! Sarei quasi tentato d’affermare per paradosso che a Napoli, fatte le debite proporzioni, le classi più basse sono le più industriose. Non si può pensare, beninteso, di mettere a paragone quest’operosità con quella dei paesi del Nord, la quale non ha da preoccuparsi soltanto del giorno e dell’ora immediati, ma nei giorni belli e sereni deve pensare a quelli brutti e grigi e nell’estate deve provvedere all’inverno. Posto ché è la natura stessa che al Nord obbliga l’uomo a far scorte e a prendere disposizioni, che induce la massaia a salare e ad affumicare cibi per non lasciare sfornita la cucina nel corso dell’anno, mentre il marito non deve trascurare le riserve di legna, di grano, di foraggio per le bestie e così via, è inevitabile che le giornate e le ore più belle siano sottratte al godimento e vadano spese nel lavoro. Per mesi e mesi si evita di stare all’aperto e ci si ripara in casa dalla bufera, dalla pioggia, dalla neve e dal freddo; le stagioni si succedono inarrestabili, e l’uomo che non vuol finire malamente deve per forza diventare casalingo. Non si tratta infatti di sapere se vuole fare delle rinunce: non gli è consentito di volerlo, non può materialmente volerlo, dato che non può rinunciare; è la natura che lo costringe ad adoperarsi, a premunirsi. Senza dubbio tali influenze naturali, che rimangono immutate per millenni, hanno improntato il carattere, per tanti lati meritevole, delle nazioni nordiche; le quali però applicano troppo rigidamente il loro punto di vista nel giudicare le genti del Sud, verso cui il cielo s’è dimostrato tanto benigno. Si attagliano perfettamente all’argomento le considerazioni fatte dal signor von Pauw nel passo delle Recherches sur les Grecs dedicato ai filosofi cinici. Secondo lui, l’idea che ci si fa delle penose condizioni di quegli uomini non è del tutto esatta; il loro principio di far a meno di tutto è fortemente facilitato da un clima prodigo d’ogni sorta di doni. In quei paesi un povero, uno che a noi sembra miserabile, può non solo soddisfare le più urgenti e immediate esigenze, ma godersi il mondo nel modo migliore; e un cosiddetto accattone napoletano potrebbe altrettanto facilmente sdegnare il posto di viceré in Norvegia e declinare l’onore, se l’imperatrice di Russia gliel’offrisse, del governatorato della Siberia.

Certamente nei nostri paesi un filosofo cinico se la passerebbe male, mentre nel Sud è la natura stessa che lo invita a ciò. Laggiù lo straccione non può dirsi un uomo nudo; chi non ha casa propria o in affitto, ma d’estate passa le notti sotto una tettoia, sulla soglia d’un palazzo o d’una chiesa, o nei porticati pubblici, e se fa cattivo tempo si rifugia in qualche luogo pagando una piccola mercede, non perciò è un reietto e un misero; né un uomo si può dire povero perché non ha provveduto all’indomani. Se si pensa alla quantità di alimenti che offre questo mare pescoso, dei cui prodotti la gente è obbligata per legge a nutrirsi in alcuni giorni della settimana; a tutti i generi di frutta e d’ortaggi offerti a profusione in ogni tempo dell’anno; al fatto che la contrada circostante Napoli ha meritato il nome di Terra di Lavoro (dove lavoro significa lavoro agricolo) e l’intera sua provincia porta da secoli il titolo onorifico di Campania felix, campagna felice, ben si comprende come là sia facile vivere.

Fra l’altro, il paradosso che ho azzardato poco fa si presterebbe a varie riflessioni per chi volesse tentar di dare un quadro esauriente di Napoli; impresa che comunque richiederebbe notevoli capacità e alcuni anni d’indagine. Si giungerebbe forse allora a concludere che il cosiddetto lazzarone non è per nulla più infingardo delle altre classi, ma altresì a constatare che tutti, in un certo senso, non lavorano semplicemente per vivere ma piuttosto per godere, e anche quando lavorano vogliono vivere in allegria. Questo spiega molte cose: il fatto che il lavoro manuale nel Sud sia quasi sempre assai più arretrato in confronto al Nord; che le fabbriche scarseggino; che, se si eccettuano avvocati e medici, si trovi poca istruzione in rapporto al gran numero d’abitanti, malgrado gli sforzi compiuti in singoli campi da uomini benemeriti; che nessun pittore napoletano sia mai diventato un caposcuola né sia salito a grandezza; che gli ecclesiastici si adagino con sommo piacere nell’ozio e anche i nobili amino profondere i loro averi soprattutto nei piaceri, nello sfarzo e nella dissipazione.

So bene che il mio discorso è un po’ troppo generico, e che non è possibile tracciare nitidamente le caratteristiche di ciascuna classe, se non dopo precisa cognizione ed osservazione; ma a grandi linee sarebbero questi, credo, i risultati a cui si approderebbe.

Per riprendere l’argomento del popolino napoletano, si nota in esso il medesimo tratto che nei ragazzi vivaci: ossia, se gli si dà da fare un lavoro non si tirano indietro, ma trovano ogni volta il modo di scherzare su ciò che fanno. Questa specie umana è permeata d’uno spirito sempre sveglio e sa guardare alle cose con occhio libero e giusto. Il suo linguaggio dev’essere figurato, il suo umorismo arguto e mordace. L’antica Atella sorgeva nei dintorni di Napoli e, come l’amatissimo Pulcinella non ristà dal dare spettacolo, così la massa dei più umili continua ad esser partecipe di quella gaiezza.

 

 

 

 

 

 


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