Torre del Greco è una cittadina   situata nelle immediate vicinanze di Napoli e del parco nazionale del Vesuvio, tra il Vesuvio e il golfo di Napoli. e come tutti oramai sanno fa parte del cosiddetto Miglio d’Oro, ovvero quell’area costiera in cui nel ‘700 i nobili napoletani decisero di costruire delle stupefacenti dimore per l’otium, ad imperitura testimonianza dello sfarzo e della potenza economica delle loro famiglie.

Tracciare la storia di Torre del Greco ,è certamente lavoro arduo laddove si considera la particolare posizione geografica e la quasi assoluta mancanza di fonti documentarie storiche. Difatti l’attività del monte Somma prima e del Vesuvio poi, attraverso le grandi masse di lava eruttate, hanno nei secoli fortemente modificato l’aspetto geomorfologico di tutta la zona litoranea del golfo di Napoli, per cui risulta estremamente prezioso il ritrovamento di una tomba a fossa che ha consentito di localizzare un primitivo insediamento umano nel IX-VIII secolo a.C.

Le origini di Torre del Greco risalgono quindi a molti secoli  fa , e probabilmente sono legate  alla fondazione di Cuma e a quei greci cumani che fondarono, lungo la costa campana, delle città dove s’insediarono e misero le radici della loro religione, loro cultura e le arti orientali

In  epoca romana  essa era aggregato alla fiorente ed elegante cittadina di Ercolano. Essa per la precisione  rappresentava  un sobborgo residenziale  dove vi sorgevano ville Imperiali e  rustiche . Con certezza sappiamo che  a partire dall’anno 89 a.C., in cui divenne Municipio romano, fu molto ricercata da illustri cittadini della Roma repubblicana ed imperiale che, attratti dalla cultura greca, dalla posizione incantevole e dalla salubrità dell’aria della zona, la scelsero come località di villeggiatura. Sorsero così in tutta la zona  vesuviana numerose e fastose ville e terme, intorno a cui si svilupparono poi diversi centri abitati.

NB : Ancora oggi si possono notare i ruderi romani di alcune di queste ville tra cui  “Villa Sora”.

Villa Sora , datata al I secolo d.C., in un periodo in cui la costa del  golfo di Napoli  era uno splendore di lusso e architetture greco – romane,  era un piccolo paradiso affacciato sul mare.

In origine la villa si estendeva fin sopra il ciglio stradale dell’attuale via Nazionale, quella che un tempo portava il nome di Via Regia delle Calabrie, mentre dalla parte del mare dovevano trovarsi ninfei di cui resta un’unica parete appartenente a quello che nel tempo è stato considerato un impianto termale ma che verosimilmente è riconducibile ad un altro complesso abitativo.

Essa si sviluppava  su tre piani e quello attualmente evidente è il piano intermedio . Secondo quanto scritto da Seneca essa era una splendida villa affacciata sul mare fatta distruggere da Caligola perché vi era stata relegata sua sorella Agrippina per volere di Tiberio.

Da qui la denominazione di villa Giulia , cosa comunque confermata dall’ archeologia con il ritrovamento di tegole con bolle recanti il nome di Hyacynthus Juliae Augustae, ovvero un liberto di Giulia Augusta, che ci permettono di datare con certezza la villa nel I sec d.C

Il colore azzurro presente sulle pareti affrescate in terzo e quarto stile Pompeiano, era tipico dell’età augustea ,  e rappresenta con certezza un ulteriore conferma del prestigio della villa. L’azzurro infatti non era altro che un effuso del lapislazzulo, materiale allora costosissimo e  accessibile veramente a pochi.

La villa in realtà faceva parte della periferia di Ercolano, Torre del Greco infatti all’epoca non esisteva ancora come città autonoma . Inoltre era lontana dalla centro, in quanto essendo una villa d’otium si preferiva una location fuori dal caos cittadino .

N.B. Vitruvio che accenna  a  basiliche private all’interno delle dimore  dei personaggi più importanti della struttura sociale, fanno pensare che il grande ambiente che oggi resta  della Villa sia proprio un ambiente destinato a basilica.

Il  grande salone di Villa Sora  è infatti una grande sal abdicata di circa 20 metri , con tre ingressi che probabilmente davano ad un giardino con quadriportico, ossia un porticato che si estendeva su quattro lati, che per dimensioni e ricchezza di decorazione marmorea sembra interpretarsi come una grande sala di rappresentanza in cui si tenevano i privata consilia.

Torre del Greco trovandosi anch’essa ai piedi del  Vesuvio , fu sepolta, come “Erculaneum”, “Pompeii”, “Stabiae” e “Oplontis”, dalle ceneri della famosa eruzione del 79 a.c.  restando in seguito completamente disabitata.

Dpo la tremanda eruzione del 79 a.c. sulle stesse rovine dell’antico sobborgo residenziale della cittadina di Ercolano ,  vennero lentamente a riprendere vita nuovi sobborghi  e sopratutto due nuovi villaggi . quello di Sora e di Calistum .

Essi con il passare del tempo si popolarono sempre di più e dalla loro unione, alla fine del 1200, nacque appunto  Turris Octava, successivamente rinominata Torre del Greco.

In realtà il  casale di Torre Ottava, venne a svilupparsi  sopratutto nel Medioevo in seguito al fondersi dei due villaggi di Sola e Calastro rimasti per lungo tempo senza abitanti , Essi  erano infatti fuggiti dal luogo perchè spaventati dalle successive terribili eruzioni del Vesuvio  del 203 e del 472.  Innamorati della loro terra , nonostante il sempre presente terribile pericolo di nuove eruzione , essi  poi ritornarono  a ricostruire le loro case.

I due  travagliati villaggi di Sola e Calastro, ambedue prospicienti il mare, i cui abitanti svolgevano  attività prettamente marinare., ritornarono quindi a prendere vita. e dalla   unione dei due nuclei abitati  venne  a formarsi  il Casale di Torre Ottava, così chiamato in quanto distante 8 miglia da Napoli.

CURIOSITA ‘ :   Il villaggio di  Sora , era quello che dovette avere uno sviluppo non indifferente dal punto di vista demografico nel VI secolo se è vero, com’è vero, che il generale bizantino Belisario si rifece anche ad esso nel 535 per ripopolare Napoli che aveva precedentemente decimata con un feroce massacro . Molti abitanti dei due villaggi Calastro e sopratutto Sora furono infatti in quell’occasione trasferiti a Napoli per volere del generale bizantino,  al fine di accrescere il numero della popolazione esiguo dopo il saccheggio avvenuto. 

Seguirono per Torre Ottava  insieme alla cittadina di Ercolano , dapprima la dominazione bizantina e successivamente la dominazione del  ducato napoletano autonomo che durò fino al 1139; ad esse subentratono  i Normanni che unificarono definitivamente tutta l’Italia meridionale , poi gli Svevi fino al 1266, e gli Angioini fino al 1442 , che a causa delle varie  invasioni barbariche decisero di fortificare con nuove epiu possenti mura la nuova crescente cittadina .

CURIOSITA’ :  Per la presenza nelle sue campagne del vitigno detto greco, da cui si ricavava l’omonimo vino, famoso già in epoca romana, l’attuale denominazione di Torre del Greco risale al 1324, mentre precedentemente era chiamata Torre Ottava.

L’attuale nome  di Torre del Greco deriva quidi probabilmente proprio dal fatto che in questa località si producevano dei buoni vini detti greci.

Secondo lo storico torrese Francesco Balzano (1688) la mutazione del nome venne acquisita ai tempi della regina Giovanna II (1342 )quandi i suoi vigneti vennero arricchiti da piante  importate in luogo da  un romito che, le avava portate con se dalla Grecia . Egli piantò in zona   alcune di questa viti greche che piacquero  molto alla regina per la loro dolcezza.

Il didattito resta comunque ad oggi ancora aperto in quanti molti mettono in discussione l’ipotesi delle origini del nome proveniente  da un greco romito per la sola produzione di un’ottimo vino bianco , considerandola solo una semplise favoletta . 

Tuttavia , sia frate Luigi Contarini, rappresentante diplomatico della Repubblica di Venezia nel Regno di Napoli, ( 1569)  che lo stesso Celano  1692) , ma anche lo stesso Chiarito (1772), nei loro scritti a noi lasciati hanno sempre confermato che  tale nome alla città è da attribuire all’abbondanza del  vino greco  che il suo territorio produce.

 L’antica Torre del Greco ,  dopo tale periodo facendo  poi parte  della comarca torrese,  fu più volte concessa in teritorio  feudale  che vide tra i suoi  feudatari più illustri  i Di Sangro, Sergianni Caracciolo, Marcello Caracciolo e i Carafa.

CURIOSITA’; Per  comarca si era all’epoca solito intendere una suddivisione territoriale che comprendeva  diversi comuni di una medesima provincia. In origine il termine aveva il significato di “spazio di confine” , mentre più tardi passò a indicare una ridotta estensione di territorio considerata unitaria in senso storico o geografico. Il concetto applicato alla Comarca Torrese era formato  dalle Università di Torre, Resina (oggi Ercolano) e Portici con Cremano.

Pur essendo di pertinenza giuridica della città di Napoli, essa  fu alienata nel 1418 dalla Regina Giovanna II d’Angiò-Durazzo a Sergianni Caracciolo, suo favorito, in pegno di un prestito di 2.000 ducati.

Al Caracciolo subentrò nel pegno per il solo Castello, Antonio Carafa, per altro prestito di 1.600 ducati fatto alla stessa Regina, la cui dinastia conservò il possesso della Comarca quasi ininterrottamente fino al 1566 per riprenderlo, dopo soli otto anni di padronanza di G. F. de Sangro prima e di Marcello Caracciolo poi, col ramo cadetto dei Carafa-Stigliano.

Con la morte di Nicola Guzman-Carafa, figlio della Viceregina di Napoli Anna Carafa, anch’essa già padrona di Torre, avvenuta nel 1689, cessò il dominio dei Carafa.

Nel 1631 , l’amico-nemico Vesuvio si fece risentire ed In seguito ad una devastante eruzione, , venne distrutto tutto il versante sul mare del Vesuvio, in conseguenza di ciò a Torre del Greco arrivarono torrenti fangosi e ingenti flussi lavici, di cui uno in particolare diede vita alle scogliere della Scala.

Altre alienazioni dei Casali si ebbero finché nel 1698, essendosi verificato un ennesimo atto di rendita del territorio tra la Contessa di Berlips e il Marchese don Mario Loffredo di Monteforte.

Finalmentetutto questo ebbe fine quando nel   1698,  i  torresi rcapeggiati da uomini di cultura decisero di riscattare l’indipendenza del borgo e della comarca, previo pagamento di circa 100.000 ducati.

i Torresi, capeggiati dai suoi  uomini  più rappresentativi, chiesero infatti alla Regia Corte di avvalersi dello “Jus Praelationis” contemplato da una legge emanata da Carlo V nel 1535 ed ottennero così la possibilità  di  riscatto  Torre del Greco e Comarca previo pagamento di ducati 106.000, anticipati da Enti pubblici e da facoltosi cittadini delle tre Università.

Col Riscatto si ebbe la configurazione giuridica del “Barone” inteso come intestatario dei beni delle Università e rappresentante delle stesse presso la Regia Corte, come prevedevano le leggi in vigore.

Il primo Barone torrese fu Giovanni Langella, uomo onesto e poverissimo, che al momento dell’investitura rinunciò espressamente ad ogni pretesa economica per tale nomina. La sua famiglia conservò la Baronia sino al 1806 quando, con l’avvento di Giuseppe Bonaparte, fu abolito il feudalesimo.

Torre del Greco da quel momento sviluppò in modo particolarmente favorevole il commercio marittimo con una flottiglia peschereccia che disponeva di 124 imbarcazioni che si occupavano della raccolta del corallo, delle spugne e delle conchiglie; infatti proprio in questo periodo ebbe inizio la famosa tradizione del corallo.

Negli anni compresi tra il XVII se il XVIII secolo furono costruite numerose ville signorili nella zona del Vesuvio: si trattava di favolose ville dove l’architettura delle stesse nella loro arte si sposavano con incredibile fascino della bellezza dei luogh: . Alle spalle il Vesuvio e di fronte il golfo .

Le magnifiche ville vennero costruite e disposti spesso in successione in modo da costituire una compatta cortina di fabbriche, tutte allineate tra loro secondo un rigido schema, su suggerimento del duca Carafa, e patrocinato direttamente dalla Casa reale, secondo un asse ideale che collegava il Vesuvio al mare.

Venne alla luce in questo modo un complesso architettonico unico al mondo per quantità e bellezza; Ville di delizia, residenze suburbane lontane dalle città, costruite per il solo piacere della nobiltà nei periodi di villeggiatura che fecero meritare il nome di Miglio d’Oro al tratto di strada che costeggiava le nobili costruzioni.

CURIOSITA?: Con il termine “Miglio d’oro“ oggi si intende quel tratto di strada che parte da San Giovanni a Teduccio ed arriva fino ai confini di Torre Annunziata.

Per “Miglio d’oro” in passato si intendeva un tratto di strada rettilineo tra Ercolano e Torre del Greco, ricco di ville di molte famiglie gentilizie, la cui lunghezza misurava esattamente un miglio secondo il sistema di unità di misura in uso nella prima metà del Settecento.
Esso per due terzi si estendeva nel territorio di Ercolano e per un terzo in quello di Torre del Greco.
Successivamente, il concetto di Miglio d’oro si estese poi ai comuni di Portici e di San Giorgio a Cremano. Questo allargamento ha di conseguenza creato un equivoco in quanto non si può parlare di “miglio” per un territorio allungato su ben quattro miglia.

Il percorso voleva collegare idealmente il palazzo Reale di Napoli con il palazzo Reale di Portici, residenza estiva fortemente voluta del re Carlo di Borbone e sua moglie Maria Amalia.
Una volta costruita la sua reggia, molte famiglie gentilizie per essere vicine ai sovrani, costruirono anch’esse lussuose ville che finirono per costituire il cosiddetto “miglio d’oro“.

Il tratto di strada fu anche detto “Strada regia delle Calabrie“, e si trova tutt’oggi lungo il tracciato costiero dei comuni vesuviani fino ad arrivare alle pendici del Vesuvio.

E’ composto da un patrimonio immobiliare di 120 ville su 200 finite sotto la protezione dell’Ente per le Ville vesuviane, in gran parte di fondazione regio meridionale e borbonica e quasi tutte di fabbricazione settecentesca.
L’antica Strada Regia delle Calabrie, vede ancora oggi affacciarsi alcune delle meravigliose ville settecentesche nobiliari, costruite nei comuni di Portici, Resina, Barra S. Giorgio a Cremano e Torre del Greco.

Tutto nasce quando nel 1738 Carlo di Borbone, recatosi in visita al principe d’Elboeuf, insieme a sua moglie Maria Amalia, fu piacevolmente colpito dalla bellezza della zona di Portici, a tal punto che avanzò idea di edificarvi una sua vera e propria reggia.
Il paesaggio era straordinario, il panorama spaziava su tutto il Golfo di Napoli con vista su Capri, Ischia e Procida , una rigogliosa selva degradava verso il mare, l’aria era salubre e le campagne molto fertili.
Solo il vulcano poteva incutere timore, ma non a Carlo di Borbone, che acquistò terre e palazzi nella zona, con l’idea iniziale di creare una vasta tenuta, che diradasse dal Vesuvio al mare dove costruirvi una propria residenza.
Ovviamente essendo un megalomane con idee di grandezza (basta vedere la Reggia di Caserta e l’Albergo dei poveri a Napoli) egli non si accontentava di una semplice residenza reale, ma doveva avere per lui la più bella residenza estiva che un re avesse mai avuto.

Fu così cominciata nel 1738 la Reggia di Portici commissionata ad Antonio Canevari, con il suo Parco bellissimo, enorme e degradante verso il mare, arricchita con statue di Ercolano e Pompei.

Il re per valorizzare la sua residenza estiva e accrescere tutta la zona sancì il privilegio dell’esenzione fiscale; vantaggio che allettò la nobiltà e il clero partenopeo a stabilirsi nella campagna vesuviana o lungo la zona costiera ai piedi del Vesuvio.

Il prestigio della presenza della dimora reale, il fascino delle vestigia dell’antichità, e la bellezza del luogo che tanto piaceva ai sovrani, fecero sì che l’intera corte napoletana e molti altri nobili, decisero, per essere vicine ai sovrani, di trasferirsi nel luogo facendosi costruire lussuose ville cortigiane e giardini rococò e neoclassici da architetti del calibro di Luigi Vanvitelli, Ferdinando Fuga, Ferdinando Sanfelice, Domenico Antonio Vaccaro, Mario Gioffredo.

Costruzioni sontuose, decorazioni architettoniche di pregio, ma sopratutto un unico elemento imprescindibile: il giardino.
Le ville avevano per la maggior parte la facciata esposta sulla reggia strada del Miglio in maniera tale da poter essere facilmente ammirate ed erano affiancate da parchi e ampie zone di sosta per lo scorrimento veloce delle carrozze, molto intenso durante le villeggiature e le feste all’epoca del regno dei Borbone.

Al giardino, spesso separato dalla villa, vi si poteva accedere per terrazze o scale con un immancabile viale lungo e largo spesso anche più di uno e talvolta incrociati tra loro, dove con un sistema di tralci e di viti si poteva ottenere il pergolato per amene passeggiate.

Il giardino era il vero pezzo forte della villa, dove ci si scatenava nel mostrare la propria magnificenza. Si faceva a gara nell’avere il giardino più bello. Impazzò la moda di disegnare viali che conducevano a delle esedre a loro volta movimentate da vasche e giochi d’acqua in un gorgoglìo continuo.

I giardini distesi sul pendio digradavano verso la spiaggia tra aiuole, piccoli boschetti, padiglioni, gazebo e gli esclusivi caffeaus, una sorta di piccoli capanni costruiti per viverci in quiete una o due ore al giorno, con mobilio di canapè, finestrino e cupolino, pensati e realizzati in prospettiva quasi sicuramente di panorami adagiati sotto il sole della Baia e la brezza del Golfo.

Elemento immancabile nei giardini era anche l’effige di San Gennaro in qualità di simbolo anti-vesuvio, visto i suoi benefici poteri mostrati nella famosa eruzione (si era conquistato il titolo sul campo di battaglia nell’eruzione del 1767, quando la lava si arrestò all’ingresso della città mentre tutto il popolo con padre Rocco in testa invocava pregando il suo aiuto).

L’unico elemento contrario infatti alla costruzione delle ville in quel luogo era proprio una temibile eruzione del Vulcano al quale provvedeva l’effigie demonizzatrice  di San Gennaro incapsulato sotto coperture di legno o in calco di gesso in nicchie più stabili.

Tra le più belle dimore estive per le famiglie aristocratiche della corte di Carlo di Borbone, presenti nel territorio di Torre del Greco che nacquero   dall’estro creativo e dalla maestria di architetti del calibro di Luigi Vanvitelli, Ferdinando FugaFerdinando Sanfelice, vanno certamente almeno citate  Villa Bruno, Villa Guerra, Villa del Cardinale ,Villa Mennella, e Palazzo Vallelonga.

 

Palazzo Vallelonga è ora sede della Banca di Credito Popolare di Torre del Greco. In origine fu costruito verso il 1690 dal marchese di Vallelonga della famiglia de Candia-Castiglione Morelli di Vallelonga, proprietaria di un feudo nell’agro di Torre del Greco. All’inizio del 1700 il marchese di Vallelonga trasformò le preesistenze rustiche in un grande edificio incorporando quelli più antichi. Sulla strada principale fu creato il blocco principale, formato dal pian terreno e dal piano nobile in cui sono sistemati gli ambienti di rappresentanza, tutti affrescati, e gli altri locali dell’abitazione padronale con i terrazzi che guardano la campagna, il Vesuvio, il mare. Il palazzo poi fu ristrutturato nel 1843 all’architetto Camillo Napoleone-Sasso che lo ristrutturo facendolo diventare uno dei palazzi più importanti lungo il Miglio d’oro. Poi nel 1982 la Banca di Credito Popolare lo acquistò avviando un grande progetto di restauro e conservazione che ha rispettato le planimetrie preesistenti.

La villa fu edificata nel 1700 sulla attuale via Nazionale ed è di tipo neoclassico. La facciata principale prevede tre balconi sul piano nobile, con il balcone principale rientrato rispetto agli altri due; l’attico è invece sostenuto da un colonnato di tipo ionico che parte dal piano nobile. Gli interni sono caratterizzati da soffitti a volta, affrescati. Entrando dal portone principale si ha accesso ad un cortile a pianta semicircolare su cui affaccia il terrazzo del primo piano e di lì al giardino all’italiana. Attualmente è un’abitazione privata, mentre il cortile e i locali del piano terra ospitano un rinomato ristorante.

Villa Guerra solo recentemente restaurata è oggi  sede di un importante location per ricevimenti e ristorazionee . Le bianche strutture della villa sono una testimonianza dell’architettura napoletana del Settecento. L’ingresso, ornato da un’apertura di forma ellittica, consente l’accesso alla villa, ed è preceduto da un viale costeggiato da alberi di alto fusto, immersi in un rigoglioso giardino.Il perfetto restauro ha restituito tutta la sua bellezza ed eleganza ai settecenteschi ambienti ricostruendo lo splendore dei raffinati ambienti del passato, immersi in un luogo dove la natura mostra la sua incomparabile bellezza.

 

La Villa fu costruita nel 1744 dall’architetto Gennaro de Laurentis lungo la celeberrima Strada Regia delle Calabrie, oggi Via Nazionale per uso personale e domina la zona con la sua straordinaria facciata rivolta al mare e l’edicola con la statua di San Gennaro sulla sua sommità. Due anni dopo fu venduta all’arcivescovo di Napoli Giuseppe Spinelli che la destinò a dimora estiva per la sua famiglia e da allora fu chiamata la “Villa del Cardinale”. La villa conserva ancora il suggestivo fascino, fedele ai progetti seguiti nel ‘700. Attraversando l’antico portone di legno, su cui poggia la balconata maggiore, si entra nel grande cortile caratterizzato da un’esedra con nicchie, mezzi busti e sedili in pietra. Ai lati si aprono due rampe di scale, che conducono ai piani superiori, dove, salendo per la maestosa scalinata in marmo, si arriva al salone centrale, la parte più pregiata dell’edificio. Gli ambienti interni sono lavorati con lo sfarzo settecentesco dell’epoca tra stucchi, intarsi dorati e maioliche decorate. Nel secolo scorso per quasi cinquant’anni ha ospitato la Scuola Apostolica per la formazione di vocazioni sacerdotali e negli anni Ottanta, dopo il terremoto, fu abbandonata per problemi di sicurezza. Dopo il restauro, ha ospitato un centro di recupero per tossicodipendenti. Oggi è di proprietà della Curia Arcivescovile di Napoli.

Tra le ville  non allineate sullo storico miglio troviamo invece anche la famosa  Villa delle Ginestre , posta alle falde del Vesuvio, che come tutti sappiamo  ospitò Giacomo Leopardi durante gli ultimi mesi della sua vita. Qui il poeta, ispirato dal paesaggio, scrisse due dei suoi più significativi componimenti della sua maturità artistica: La Ginestra e Il Tramonto della Luna.

 

La  villa che si trova esattamente alle pendici del Vesuvio, si trova collocata  in un panorama da favola, con vista dal terrazzo, di Capri e del Golfo di Napoli. Se amate Leopardi una visita in questa casa di campagna è d’obbligo. Il Poeta soggiornò qui solamente 9 mesi, ma solo sostando per qualche ora in questo ambiente potrete forse capire come egli abbia poi potuto scrivere quel suo immenso capolavoro che è  La ginestra.

All’interno della Villa è possibile infatti trovare vari filmati proiettati che riguardano la storia della villa ed il suo ospite illustre, ed anche una particolarità del Leopardi che molti non conoscono.La camera che ospitò il Leopardi, ad oggi si presenta ancora con i suoi mobili originaliInoltre Villa delle Ginestre è ideale anche per uscite tematiche scolastiche, con un’area al suo interno dedicata proprio agli studenti, oltre alla presenza di un orto didattico.

 N.B.  La “Villa delle Ginestre” al termine di una lunga storia di varie proprietà, fu acquistata dall’Università degli studi di Napoli “Federico II” nel 1962 per sottrarla alla già invadente speculazione privata, che ha trasformato e sfigurato i luoghi originari dove la costruzione sorgeva  collocata  alle falde del Vesuvio, nel territorio compreso tra i Comuni di Torre Annunziata e Torre del Greco. La contrada, oggi denominata Leopardi, era popolarmente indicata come “ncoppa ‘a lava” o “lava vecchia” o “lava ‘e Cianfetiello” per distinguerla da successivi depositi di colate laviche, come quella del 1861.

STORIA DELLA VILLA DELLE GINESTRA

E’ facile immaginare che il nome della villa deriva dal titolo del famoso canto leopardiano, che, a sua volta, piace ritenere essere stato suggerito dal rigoglioso mare giallo formatosi, intorno alla casa, dopo una eruzione vesuviana del 1806 che minacciò la costruzione e costrinse all’abbandono di essa i proprietari Ferrigni. Questi ne entrarono in possesso per via ereditaria in quanto una Margherita Simioli, nipote del canonico Giuseppe, che costruì la villa alla fine del Seicento, sposò tal Diego Ferrigni Pisone. Un figliuolo di costui sposò, nel 1826, Enrichetta Ranieri, sorella di Antonio, l’autore dei Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, ossia la cronaca travagliata dell’amicizia del Ranieri col Poeta e della permanenza napoletana del Leopardi, durante la quale caddero i soggiorni nella villa vesuviana. La villa non aveva, allora, la configurazione attuale, perché solo nel 1907 fu edificato il portico neoclassico che circonda la casa. Ai tempi del poeta era un “cubo bianco d’intonaco nella distesa verde, folta ed ininterrotta sino alla spiaggia lontana”. Dopo i Ferrigni, per passaggi ereditari o vendite, la villa, ormai famosa, fu dei Lang, dei Carafa e dei De Gavardo, prima di entrare nel patrimonio universitario.

Altra importante  villa è quella un tempo appartenuta conte Don Paolo Caetani Cortez D’Aragona dell’Aquila    .Essa trovandosi   esattamente a metà strada tra il mare e la montagna gode di una splendida veduta su Capri e la penisola sorrentina. 

Stiamo ovviamente parlando della storica Villa Olivella che fu negli anni cinquanta  la cornice dell’amore tra Ingrid Bergman e Roberto Rossellini, ospitò il principe Antonio De’ Curtis e addirittura i reali d’Inghilterra. Nelle sue stanze, giardini e boschi vennero girate diverse scene del film Viaggio in Italia, pellicola che vale la pena di rivedere anche se in bianco e nero e privo di effetti speciali, tranne forse, quelli regalati dai paesaggi del luogo.

Ritornando alla storia di Torre del Greco bisogna a tutti ricordare che grazie all’arrivo di Giuseppe Bonaparte nel 1809, la città divenne municipio, periodo in cui fu proclamato sindaco Giovanni Scognamiglio. Con Murat al potere, la città fu, assieme a Portici, la terza città di tutto il Regno di Napoli calcolando all’epoca circa 18.000 abitanti, nonostante le continue eruzioni vulcaniche che si presentavano ogni due anni.

Dobbiamo purtroppo concludere il nostro articolo ricordando che il 15 giugno 1794 una violenta eruzione del Vesuvio che distrusse gran parte della città . In quell’occasione ,  il centro storico della cittadina fu completamente seppellito da uno strato lavico di circa 10 metri. Resistò immutato  il robusto campanile della parrocchiale di S. Croce, la quale fu poi ricostruita su quella sommersa dalla lava ignea ad opera di don Vincenzo Romano, beatificato nel 1963.

In seguito a questa ed altre eruzioni poi seguite ulteriori , la città si guadagnò l’appellativo di “città del Vesuvio” inoltre fu riportato sullo stemma della città, dov’era già presente una torre, il motto della fenice “Post fata resurgo”.

In seguito alle rovinose eruzioni del Vesuvio che la cittadina ha subìto nel 1794 e nel 1861 molte delle chiese torresi, testimoni di un passato che fu, non sono putropp rimaste fino ai nostri giorni. Molte di esse, infatti, molte di queste sono state distrutte durante le eruzioni del Vesuvio. Alcune si conservano ancora perchè fanno parte delle fondamenta delle ricostruite chiese che oggi abbelliscono la città di Torre del Greco. La cittadina  conserva infatti comunque un ricco patrimonio architettonico. come per esempio la bella Chiesa neoclassica di Santa Croce, Palazzo Vallelonga, la Villa del Cardinale, Villa Porta e l’epitaffio in onore di Filippo IV d’Asburgo.

Nel Centro oltre alle diverse chiese da visitare, troviamo anche il Palazzo Baronale, oggi sede Comunale,. Esso situato su una rupe a picco verso il mare, è divenuto famoso ed importante per aver ospitato il Re Alfonso il Magnanimo.

Palazzo Baronale, oltre al suo fascino interiore, presenta esternamente anche un torrione di epoca normanno-sveva, recuperato grazie a recenti scavi. Inoltre sul versante laterale dove è presente il Torrione, è possibile ammirare a pochi metri di distanza anche la Fontana delle Cento Fontane, che raggruppa tutte le sorgenti naturali di Torre del Greco.

Raccontare la storia del Palazzo Baronale di Torre del Greco significa  anche descrivere la città e i suoi protagonisti. Le  sue origini possono essere infatti ritrovate nei resti archeologici visibili all’ingresso della struttura, attuale Palazzo di Città. Lo scavo, effettuato in anni recenti, ha restituito tracce di un torrione di epoca normanno-sveva e dei successivi sviluppi della residenza nobiliare in epoca angioina ed aragonese.

Del nobiliare palazzo si sa che in  epoca angioina la regina Giovanna cedette al suo amante Sergianni Caracciolo il castello per sanare dei debiti contratti e nuovamente riottenuta la proprietà la cedette ad Antonio Carafa detto il Malizia per un altro prestito di 1600 ducati d’oro. Nella lotta tra angioini ed aragonesi il Malizia fu punito con la confisca del castello dalla regina Giovanna per essersi schierato dalla parte degli Aragonesi e così il palazzo fu donato alla Curia Arcivescovile di Napoli.

Il momento di maggior splendore del Palazzo avvenne comunque   con l’arrivo di Alfonso il Magnanimo che trascorse molto tempo a Torre del Greco per stare accanto alla sua amata Lucrezia d’Alagno, figlia del feudatario della vicina Torre dell’Annunciata (Torre Annunziata). La loro fu una storia d’amore intensa e secondo gli storici anche casta dal momento che il re aveva già una moglie, Maria di Castiglia, rimasta in Spagna e da cui non ebbe figli. Il re si fece costruire una stanza nell’orto della dimora dell’amata per poterle stare accanto (resta nella toponomastica locale l’Orto della Contessa) e solevano passeggiare lungo le fontane che si trovavano ai piedi del castello verso il mare nella speranza di poter coronare con le nozze il loro grande amore, speranza rimasta vana fino alla morte del re. Dopo quel momento anche le sorti di Lucrezia si rovesciarono, accusata di essere a favore degli angioini che reclamavano il trono, dovette fuggire in Dalmazia e poi a Roma dove pare sia morta in povertà. La storia d’amore della bella Lucrezia e del re si può anche leggere nel nostro sito nell’articolo a lei dedicato.

Nel complesso Torre del Greco, riteniamo che debba essereuna tappa d’obbligo per una visita, se si passa a visitare Napoli . Siamo certi che nella sua bellezza essa sia un luogo sottostimato dai tanti turisti che affollano il nostro capologuo . 

No dimentichiamo che esse si  presenta in posizione strategica nel golfo, di fronte a Capri e tra napoli e Sorrento, con alle spalle il bellissimo Vesuvio.

In questa deliziosa cittadina potrete fare vera una bella passeggiata rilassante, panoramica e romantica sul porto , dove magari poi prendere un aperitivo o mangiare una buona pizza o degli ottimi spaghetti ai frutti di mare.

La presenza del Vesuvio, alle sue spalle , nonostante le devastanti eruzioni del passato ha un’influenza altissima sul carattere di quanti (e sono tanti) vivono in questo luogo. Qui il  Vesuvio viene vissuto dalla gente del posto come una presenza amica, nei suoi confronti si nutre una sorta di amore commisto a reverenziale, quasi scaramantico, rispetto.

Nel 1794, i danni provocati dall’eruzione furono talmente gravi che re Ferdinando IV impietosito, offrì ai cittadini torresi nuovi spazi a San Giovanni a Teduccio, dove potersi trasferire armi e bagagli, ma essi imperterriti vollero riedificare il paese sulle rovine di quello appena distrutto.

I torresi amano i loro luoghi come pochi al mondo . Essi non  non mollano.

Pensate solo che la loro cittadina nel tempo è stata ricostruita ben cinque volte nello stesso posto . Chiunque altro popolo di fronte a ben cinque eruzioni catastrofiche, negli ultimi millecinquecento anni avrebbe lasciato quel luogo. Essi invece imperterriti ogni volta hanno riedificarono sulle proprie rovinela loro dimora. 

Fosse dipeso solo dalla protezione civile, la ridente cittadina non sarebbe mai sorta oppure sarebbe stata trasferita da secoli: troppo il pericolo dal vulcano.  I Torrsi però non mollano. Essi amano troppo quei luioghi.  Essi rappresentano il  monumento mondiale alla caparbietà.

Nel 2001 ci fu un momento in cui addirittura  il Governo impose ai 19 comuni vesuviani un gemellaggio con 19 regioni per gestire eventuali trasferimenti di popolazioni,.

Ma gente di questi luoghi  insorse, iniziò a protestare e incominciò a parlare di deportazione di persone dai propri luoghi di nascita . Insomma la popolazione ricacciò il piano in gola al governo .

Ora certamente vi starete domandando del perchè si rimane in un luogo simile?.

 Non avrete mai nesuna risposta se prima non fi fate almeno una passseggita in questi luoghi . Un enorme maestoso vulcano alle spalle e di fronta a voi uno dei piu bei panorami del modo che affaccia sul più bello di tutti i golfi .

Da un lato una  lava che minaccia mortae ma ti porta continuamente vita . Ti permette di coltivare al meglio i tuoi campi , e  avere quindi  i migliori prodotti agricoli , i migliori i vitigni , i migliori frutti .  Pechè qui in questi luoghi anche una  montagna di fuoco puo diventare  un capitale inestimabile, se quel pericolo oltre a darti vigne e pomodori stupendi ti insegna a giocare d’astuzia con la natura, ti educa a ricominciare da zero e ti toglie la paura del mare tempestoso che porta via.

La stessa cosa accade anche con lo stesso mare che bagna la sua costa . Anch’egli infatti puo portare distruzione con i suoi naufragi ma anche ricchezza e investimento con le sue pescate venduta al mercato . Qui tutti lo sanno: la ricchezza sta in mare.

Pensate solo  che fino aqualche tempo  gli uomini per sposarsi davano in garanzia il libretto di navigazione….

 Ci troviamo , insomma di fronte a quanto ogni giorno accade a tutti coloro che vivono alle pendici del Vesuvio … Ci troviamo di fronte ad una diversa filiosofia di vita da vivere, Ci troviamo di fronte all’accettazione di una natura double-face che diventa la base stessa della filosofia d’impresa. 

Qui ogni giorno, la lava scricchiola sotto le suole e il mare spumeggia nel buio. 

Il vulcano rappresenta per i torresi  l’origine e l’essenza di questo territorio. La sua importanza nella vita, oltre che nell’immaginario, della gente del posto è così forte che per preservarne il valore e l’ambiente è stato istituito, dal 1995, il Parco Nazionale del Vesuvio.

Il Vesuvio è un capitale inestimabile: oltre a dare vigne e pomodori stupendi, insegna ai residenti a giocare d’astuzia con la natura e con la vita, li educa a ricominciare da zero e toglie loro la paura di un mare tempestoso che può portare via la vita. Ben lo sanno i pescatori, specialmente quelli di coralli.

La lava del vulcano ha soesso assediato la cittadina , ma nel contempo non solo ha  sempre generato per la stessa  un rigoglio botanico incredibile, ma ha anche rappresentato uno  straordinario materiale di costruzione. Il Vesuvio le copre le spalle e la difende dal vento di terra, e l’aria che vi arriva è uno zefiro divino.

Il Vesuvio le copre le spalle e la difende dal vento di terra, e l’aria che vi arriva è uno zefiro divino.

A lui , all’amico Vesuvio , per secoli l’agricoltura vesuviana si è potuta vantare di essere   una delle più ricche d’Italia . E’ grazie alla fertilità del terreno lavico che i prodotti di questa terra sono quelli che hanno un sapore unico . Essi sono il fortunato connubio tra la ricchezza di minerali del  suolo ,  il clima temperato e la vicinanza del mare.

E’ qui che infatti nasce l’albicocca vesuviana, nota in dialetto come la crisommola alla quale , è stata attribuita la denominazione IGP in quanto è uno dei frutti più diffusi e caratteristici di quest’area. Il connubio tra terra lavica, sole caldo, brezza marina e sali minerali regala alla crisommola vesuviana un sapore che non conosce rivali. Oltre ad essere consumata al naturale, viene utilizzata anche per ottime conserve e per la distillazione di una grappa molto particolare.

Ed è sempre qui che nascono i famosissimi  pomodorini del piennolo Dop, raccolti a grappoli, intrecciati su un filo di canapa e fatti seccare al sole,. Essi come sapete sono una delle tradizioni agricole più antiche. Non è inusuale che le mamme preparino per merenda, ai loro figli, una fetta di pane fragrante su cui vengono schiacciati un paio di pomodorini del piennolo, il tutto condito con olio e sale.

Ma non dimenticate che Torre del Greco è anche famosa per la sua pasticceria. Torre del Greco vanta infatii un’antica tradizione dell’arte dolciaria. E’ opinione diffusa che qui si trovino alcune delle pasticcerie più buone di tutta l’area vesuviana!

Come possiamo concludere il nostro articolo non parlamdo del CORALLO ?

L’arte del corallo a Torre del Greco è infatti il vanto della città vesuviana, oltre ad essere espressione della maestria e delle maestranze torresi non solo in Italia, ma anche in Europa ed in tutto il mondo.

Nella cittadina è per questo presente  anche l’Istituto Statale d’Arte di Torre del Greco dove si insegna la lavorazione del corallo .

La scuola  considerata una delle  dei più antichi d’Italia  fu  istituita con Regio Decreto del 23 giugno 1878. Nel 1968 divenne Istituto Statale d’Arte e nel 2009 è stato aggregato all’Istituto d’Istruzione Superiore “Francesco Degni” di Torre del Greco.

La scuola è ospitata sin dalle sue origini nel barocco convento annesso alla chiesa del Carmine. Ricostruito nella seconda metà del Seicento dopo che l’eruzione del 1631 aveva distrutto l’originario edificio cinquecentesco, è una delle poche strutture sopravvissute alle devastanti eruzioni che nel 1737 e nel 1794 seppellirono buona parte della città.

La chiesa è di stile barocco napoletano. Una sola navata, con tre cappelle su ciascun lato. La volta a botte ha tre affreschi dei pittori Vinciano e De Rose, dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, fra cui il “Trionfo della Madonna del Carmelo”. Sull’altare maggiore c’è l’antico quadro della Madonna col Bambino, copia di quello del Carmine di Napoli.

Sul lato sinistro della navata, il varco di una porta sormontato da un busto di San Gennaro mostra un masso di colata lavica dell’eruzione del 1737 che proprio lì si pietrificò. Una targa ricorda l’accaduto.Il complesso, recentemente restaurato, si articola intorno all’antico chiostro e ospita al primo piano, oltre ad ambienti riccamente decorati in stucco, il Museo del Corallo, inaugurato il 3 aprile 1933 col contributo del Banco di Napoli, dello Stato e delle Pubbliche Amministrazioni.

Torre del Greco ha una grande tradizione nell’arte del corallo. Essa possiamo dire con certezza che è   la capitale mondiale della lavorazione del corallo, ma anche dei cammei e delle perle.

 

La cittadina ed  il corallo, sono infatti legati da un rapporto indissolubile radicato nei secoli, . I suoi abitanti , prima ancora della  lavorazione del corallo,  erano  infatti noti  per la pesca del corallo . Il  pregiato materiale veniva poi rivenduto a maestri corallari in varie parti del Mediterraneo. Così fu per decenni, per secoli, fino a quando non approdò in città quello che tutti chiamavano Il Marsigliese. Un uomo intraprendente e dalle notevoli abilità di intagliatore, di origini genovesi, che giunse a Torre del Greco per acquistare del corallo. Proprio durante una trattativa con un pescatore del luogo, secondo la tradizione, venne incantato dallo splendido sguardo della sorella del pescatore e da quell’amore nacque l’amore di Torre del Greco per la lavorazione del corallo, una passione che si tramanda ormai di padre in figlio, così come gli Aucella stessi definiscono la loro passione una vera malattia contagiosa.

Il marsigliese, ovvero Paolo Bartolomeo Martin lasciò dietro di sé una crisi notevole della lavorazione del corallo in Francia, causata dall’instabilità economica e sociale dovuta alla Rivoluzione Francese e decise di stabilirsi a Torre del Greco, avviando la lavorazione del corallo in città. Risale infatti, al 27 marzo 1805 la sua prima richiesta, accordatagli, al Governo Borbonico, per avviare l’attività nel regno.  La fabbrica, implementata nella Villa Castelluccio, che al giorno d’oggi non esiste più, diede lavoro a diverse persone, e non mancavano gli apprendisti torresi.

Quando il re Ferdinando IV scappò a Palermo, e a Napoli si insediò Napoleone Bonaparte, gli venne confermata la concessione fattagli dal re dei Borbone. Gli venne persino concessa una privativa che lo autorizzava  per cinque anni a produrre e vendere in tutto il Regno di Napoli i propri manufatti, vietandone a chiunque l’imitazione. Non mancarono anni in cui Torre del Greco attirava artigiani ed artisti dalle grandi abilità nell’incisione anche delle conchiglie, per la realizzazione dei cammei.

E così il Martin trovò in Torre del Greco terreno molto fertile per la propria produzione. Ma si dovrà aspettare la seconda parte dell’Ottocento, quando nel 1875 vennero trovati tre banchi di corallo nel Mare di Sicilia, per assistere al vero boom del corallo. Fu proprio quando venne rinvenuto il secondo banco di coralli, nel 1878, che a Torre del Greco venne istituita la Scuola d’incisione sul Corallo e Disegno Artistico Industriale. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Da segnalare comunque nella cittadina anche un’eccellente tradizione riguardante la coltivazione dei fiori, dei lidi balneari, e dei tanti commercianti. La festa patronale più sentita è quella dell’Immacolata, che cade l’8 dicembre. La Madonna Immacolata è infatti co-patrono di Torre del Greco, insieme a San Gennaro. La festa dell’8 dicembre però è molto sentita dalla popolazione ed il Carro Trionfale, suo emblema, è famoso in tutto il mondo.

 

      

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cocludo la nostra storia dell’incredibile cittadina ricca di fascino con una bella storia raccolta sul web che si svolge nella nobiliare Villa Olivella

Per chi ne ha voglia puo continuare a leggere…..

Le avventure del Dott. Gardenia.

Il conte, chiamato sua augusta assenza anche dal proprio maggiordomo “Il Conte Gaetano”, era indiscutibilmente un bell’uomo anche se aveva passati gli ottant’anni: impeccabile blazer blu doppiopetto, camicia immacolata aperta sull’ascot di seta su cui spiccava il blasone della casata, lucidissime scarpe di pregiato cuoio inglese. Però il tratto del conte che colpiva maggiormente il dottor Gardenia mentre lo guardava con deferenza, era la sua gentilezza. Chinandosi dall’alto della sua statura, il nobiluomo spiegava al giovane veterinario come fosse difficile e delicato il compito di capire e curare le malattie degli animali, mentre lo squattrinato professionista si guardava intorno cercando di capire se stesse sognando.

Dopo aver superato l’arcigno controllo dei custodi al cancello d’ingresso, il dottor Gardenia aveva vagato guidando il suo furgoncino attraverso una fitta boscaglia, percorrendo la stradina che portava alla villa e giungendo infine su una grande piazza lastricata di porfido. Cercando di farsi notare il meno possibile, aveva parcheggiato il furgone azzurrino quanto più lontano possibile da un’abbagliante Bentley, che un autista in cinerea divisa stava amorevolmente accarezzando con un panno. Probabilmente l’uomo voleva far in modo che fosse impossibile guardarla senza rimanere accecati.

Il dottor Gardenia raggiunse infine il belvedere sul lato nord della villa.

Qui, sotto una volta di querce secolari, alcuni giardinieri erano intenti ad aspergere con un delicato getto d’acqua e con scrupolosa cura, un terrazzo sopra il cui pavimento era cresciuto un perfetto tappeto di morbido muschio, tale che nessun artista orientale sarebbe mai riuscito a tessere, e su cui troneggiavano tavoli di marmo e panchine di ghisa scolpita, mentre uno stuolo di valletti strofinava con protervia lo scalone doppio di forma circolare che dalla piazzetta portava al terrazzo superiore della villa, e sui cui immacolati gradini riposavano sdraiati mollemente i nobili quadrupedi di casa.

Ice era un bellissimo esemplare di gatto americano Maine Coon, razza all’epoca quasi sconosciuta alle falde del Vesuvio.

«Lui» sentenziò l’augusto vegliardo «è affetto da una malattia molto rara, la leucemia felina, sembra che il mio gatto sia stato infettato durante un soggiorno in Giappone, dove tale malattia è invece abbastanza comune. Il professor Siringhino dice che sarebbe il caso di sopprimerlo per evitare il contagio ad altri gatti. Ecco, lei potrebbe gentilmente occuparsi personalmente di tale dolorosa incombenza?»

Il dottor Gardenia osservò lo splendido animale, i suoi occhi di ghiaccio, la folta pelliccia ridotta a brandelli dalla malattia, la testa puntata fieramente verso di loro che parlavano della sua morte, e mormorò a voce bassissima:

«Signor conte, il professore è un luminare della scienza, ma con il suo permesso io farei un tentativo per curare questo gatto, che mi sembra giovane e robusto. Esiste un medicinale, e sembra dia ottimi risultati se somministrato alle giuste dosi unitamente ad altri medicamenti. È però molto difficile da reperire in Italia: si riesce a volte a reperirlo in Gran Bretagna o alla farmacia del Vaticano ed a prezzi esorbitanti, ma sei lei riuscisse a procurarne qualche scatola, con il suo permesso potrei prendermi la responsabilità di tentare questa cura presso il mio ambulatorio.»

Gli occhi del nobiluomo si illuminarono di gioia.

«Ma dice sul serio? Veramente lo può curare lei? Come si chiama questo medicinale, me lo scriva qui sopra, faccio subito una telefonata.»

Dopo pochi minuti il conte Gaetano ridiscese con passo elastico lo scalone che aveva salito con relativa difficoltà solo pochi minuti prima, e ora con un’espressione di felicità stampata sul volto.

«Dottore, il medicinale che lei richiede sarà qui non più tardi di dopodomani, un corriere è stato incaricato di spedirlo da Londra. Mi ascolti, lei prenda con sé Ice e lo curi, poi se guarisce e me lo riporta, le sarò grato per sempre, in caso contrario dovrà provvedere all’eutanasia come consigliato dal professore. Per tutte le spese si rivolga pure a Raimondo. Grazie di tutto.»

Il maggiordomo, che osservava discretamente in disparte e non perdeva una sillaba distillata dalle labbra del suo augusto titolare, si avvicinò ossequiosamente, e Dio per sempre abbia in gloria la sua anima immortale, messa mano alla tasca dei pantaloni, ne estrasse un grosso rotolo di banconote, che appoggiò sul palmo dell’attonito dottor Gardenia.

«Sono cinquecento, le conti!»

«Grazie, mi fido.»

Anche se fossero stati la metà, lui non aveva mai ricevuto una parcella così alta. Il dottor Gardenia salutò e volò via nel tiepido sole di primavera, con Ice che sbavava allegramente sul cruscotto del furgone azzurro: gli era riservato il posto d’onore, un gatto che viaggiava in Bentley non avrebbe mai potuto accomodarsi nel puzzolente cassone!

Cinquecentomilalire nei primi anni ottanta erano ben più dello stipendio mensile di un impiegato. Arrivato in ambulatorio, il veterinario mostrò tutto orgoglioso il piccolo tesoro alle sue collaboratrici Alessandra e Marisa, promettendo uno sfarzoso regalo se si fossero prese cura di Ice con maggiore attenzione del solito, ma mai offerta fu più inutile: le belle colleghe si innamorarono a prima vista di quel micione grigio dagli occhi di ghiaccio e cominciarono immediatamente a sottoporlo senza soluzione di continuità a coccole, prelievi di sangue e dolorose iniezioni, cui la povera bestia si sottoponeva stoicamente ma non senza mugolii di dolore, che venivano consolati con carezze, prelibati bocconcini e passeggiate in giardino.

Quando tutto sembrava andare per il verso giusto, ecco che il diavolo ci mise lo zampino.

Il diavolo era un pittbull nemmeno tanto grosso anzi decisamente segaligno, che era stato portato da uno strano energumeno, tatuato e con rayban neri sempre a nascondere gli occhi.

«Dottore, mi raccomando… A questo cane ci tengo più che a mio figlio.»

Immaginarsi! La povera bestia era coperta di ferite infette, evidentemente frutto di svariati combattimenti tra cani, che all’epoca non erano ancora stati messi fuori legge. Durante l’ultimo combattimento aveva evidentemente lottato strenuamente ma aveva avuto la peggio.

«Però Devil è bravo sa, l’ho comprato in Croazia, costa come un monolocale.»

Lo sfortunato animale non riusciva a sostenersi sulle zampe, e dovette essere portato dentro in braccio dalle due collaboratrici che non riuscivano a trattenere lo sdegno verso quell’uomo, il quale invece interpretò le occhiate fulminanti a guisa di sguardi appassionati, e si rivolse sottovoce al dottor Gardenia.

«Fortunato lei, con due aiutanti così… Che paio di occhi quella bruna (e mimò con le mani degli organi diversi.) La bionda poi è il paradiso in terra!»

Nemmeno il gelido silenzio e lo sguardo sprezzante del dottor Gardenia riuscirono a scalfire l’entusiasmo dell’energumeno. Solo la secca richiesta di un congruo anticipo per le spese ottenne l’effetto di deprimerne la logorrea per qualche istante.

«Ma, ma, ma, e se poi muore?»

«Pazienza, vuol dire che avremmo fatto del nostro del nostro meglio per salvarlo, dopo che qualcuno ha fatto del suo meglio per ridurlo in fin di vita.»

Fine delle discussioni.

Sottoposto non meno di Ice alle amorevoli cure di tutto lo staff, anche il buon diavolo cominciò a migliorare dopo qualche giorno, e iniziò a mantenersi in piedi e a muovere i primi passi. Dopo una settimana Devil era in grado di mangiare da solo, e addirittura anche di fare una passeggiata.

E fu così che avvenne il patatrac.

Dopo un mese di cura anche il gatto Ice si era ripreso in modo evidente: il suo pelo era tornato folto e lucido, le croste sparite, gli occhi limpidi, e il passo svelto. Vista la sua indole tranquilla, gli era permesso di passeggiare liberamente all’interno dei locali della clinica, quando tutte le porte erano chiuse, e lui ne approfittava per sdraiarsi sul davanzale della finestra a prendere il sole.

Devil il pittbull, era un animale di una dolcezza disarmante: alla vista dei veterinari con una pinzetta o una siringa in mano, si sdraiava supino e leccava la mano che gli provocava dolore, questo però non poteva cancellare il tragico allenamento cui era stato sottoposto da quando era nato e di cui le ragazze non avevano tenuto conto, nonostante gli avvertimenti del proprietario.

Fu un attimo: senza un ringhio di avvertimento, Devil appena notato il gatto sul davanzale, si lanciò contro il pacifico Ice, lo azzannò alla gola e lo trascinò sul pavimento.

Le urla di Marisa e Alessandra si mischiarono a quelle di Ice, richiamando l’attenzione del dottor Gardenia, che abbandonando il tavolo da visita con un cucciolo da vaccinare, si catapultò nei locali della degenza, e intuendo la gravità dell’accaduto, abbrancò una scopa. Inutile: Devil, stringeva sempre di più le sue poderose mandibole sul corpo del gatto, che dopo essersi difeso con le unghie e con i denti, ad ogni secondo perdeva le forze rassegnandosi alla morte.

Questione di un attimo. Abbandonata l’idea di colpire il pittbull con la scopa, il veterinario mollò l’inutile attrezzo e corse a gambe levate nello studio, afferrò un flacone di anestetico, ne aspirò un pò a casaccio in una siringa ed alla cieca la immerse nel gluteo del killer a guisa di banderilla.

Qui entrò in gioco la fortuna.

L’ago entrò fortuitamente in una vena, perché Devil mollò istantaneamente la presa e si accasciò al suolo con le fauci spalancate, mentre Ice si salvò grazie alla sua folta pelliccia: quattro fori dei canini, un grosso ematoma alla gola, un principio di soffocamento e una paura tremenda. Per due giorni non toccò cibo, ma si limitò a guardarsi intorno terrorizzato, tremando come una foglia.

Devil si risvegliò dopo qualche ora, scodinzolando lievemente alla vista di tre persone che lo guardavano sbalordite, e chiese abbaiando la sua solita razione di cibo, dimentico del suo accesso di furia cieca.

Dopo un paio di giorni fu dimesso, con totale soddisfazione sia del proprietario, il quale ne uscì un po’ più povero ma molto più consapevole, sia dei veterinari, e infine del cane stesso, pronto purtroppo per continuare la sua sanguinosa carriera.

Ice invece restò ricoverato per molti giorni ancora: le sue ferite non sarebbero state facilmente spiegabili al nobiluomo, anche se erano ben nascoste dalla rigogliosa criniera.

Quando dopo diversi controlli si appurò che la sua malattia era entrata nella fase cronica, i valori ematici stabilizzati e i sintomi spariti, si stabilì che era ora possibile assegnare una terapia da fare a casa.

E così un bagno triplo, una phonatura professionale, e una generosa spruzzata di spray al borotalco, completarono l’opera. La riconsegna a domicilio venne effettuata con l’ausilio di Alessandra in veste di autista. Era rimasta estasiata e incredula della descrizione di villa Olivella, del conte, e anche del maggiordomo, e così volle assolutamente controllare con i propri occhi, bene conoscendo la fantasia galoppante del dottor Gardenia. Restò però di stucco quando fu accolta personalmente dalla contessa, un’affascinante signora di oltre ottant’anni dritta come un fuso, con una stretta di mano da sergente e l’acconciatura violetta. Il dottor Gardenia dovette dare di gomito alla sua assistente per far sì che richiudesse la mascella. Raimondo, il camerlengo che era andato spesso alla clinica a controllare i suoi investimenti, era evidentemente rimasto favorevolmente colpito dal personale.

«Ci era giunta la voce che il nostro veterinario avesse delle graziose collaboratrici.»

Commentò la nobildonna alla vista dell’attonita Alessandra.

«Così ci siamo permessi di far venire dalla gioielleria qui vicino un piccolo segno della nostra riconoscenza.»

La contessa porse alla ragazza due scatolette che contenevano delle stupende miniature in corallo che rappresentavano un gatto dagli occhi di perla, sospese a una catenina che sarebbe potuta servire per portare a passeggio Devil. Alessandra a quel punto si meritò la seconda gomitata nelle costole per indurla a far scattare ringraziare, ma lei riuscì solo a spezzarsi in due e boccheggiare in cerca d’aria.

La contessa e il consorte si congedarono con un sorriso gentile.

«Ah, Raimondo… Paga il dottore.»

Che Dio tenga sempre al suo cospetto le anime del conte e del suo ciambellano: questi, con un accenno di inchino rivolto alle spalle del suo padrone, porse una grossa e lussuosa busta al veterinario.Lui aveva portato con sé una fattura per l’importo già incassato, con la speranza che non gli venisse chiesto di detrarre il costo del medicinale fatto arrivare e pagato dal nobile.

Intuendo dal peso del plico una cifra ragguardevole, non la tirò fuori, ma guardò il maggiordomo Raimondo con occhi imploranti.

«Serve la fattura?»

La temperatura si abbassò di diversi gradi ed il sibilo fu inequivocabile:

«Dottò, non nominate mai più questa parola al cospetto del conte Gaetano… Quando la sente, parlando con rispetto, gli girano tutte e cinque le palle del blasone!»

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