Salvator Rosa nasce a Napoli, nel 1615 nell’attuale quartiere Arenella, all’epoca un villaggio rustico che si estendeva intorno alla sua parrocchia in una zona fuori dalle mura della citta’.
E’ stato uno dei più importanti artisti barocchi del panorama italiano. La sua fama è legata soprattutto alla rappresentazione di paesaggi e alle scene di battaglia.

Fu per quasi tutta la sua vita artistica un pittore sganciato dalla committenza e quindi libero dalla dipendenza di un mecenate, e si espresse sopratutto attraverso mostre ed intermediari. Una cosa non comune allora, che anticipava i tempi e che dimostra quanto sia stato estremamente moderna per l’epoca.

Fin da giovane rivela la propria passione per il disegno e per l’arte in genere. È suo zio materno ad impartirgli i primi rudimenti di pittura, e dopo la morte dei genitori, indirizzato sempre da suo zio  entra nella bottega di Francesco Fracanzano (che sposò sua sorella Rosa) e poi nella bottega del pittore Aniello Falcone, la cui influenza si avvertirà nei suoi iniziali lavori. In questa fase di apprendistato, il pittore Rosa ha tra i propri maestri anche Jusepe de Ribera, molto considerato a Napoli.

Nella bottega di Aniello Falcone (il pittore delle battaglie), strinse amicizia con un altro apprendista, Domenico Gargiulo detto Micco Spadaro, tanto che alcuni lavori degli anni ’30 sono frutto di collaborazione tra i due.

Salvatore Rosa, insieme a Micco Spadaro e ad Aniello Falcone fece parte della “compagnia della morte” così chiamata perchè coloro che ne facevano parte erano terribili spadaccini, animosi e vendicativi.
La compagnia era stata creata da Aniello Falcone per vendicare la morte di un amico, con lo scopo di uccidere tutti gli spagnoli che gli venissero a tiro.

Di questa compagnia fece parte anche Masaniello.

Questo gruppo di giovani artisti ribelli di notte, erano i meravigliosi artisti  di giorno, che oggi tutti noi conosciamo . Essi , di notte ,  armati di tutto punto, si trasformavano in terribili spadaccini che girando per la citta’ uccidevano quanti piu’ spagnoli possibili incontravano.

I tre grandi artisti dotati di talento ma anche di temperamento aggressivo finirono per diventare per i soldati spagnoli un vero e proprio incubo.

Salvatore Rosa e’ stato un artista a trecentosessanta gradi; pittore e incisore, ma anche filosofo nonché poeta, musicista e commediante; scrisse le Satire in cui criticò la realtà dei suoi tempi e fondò l’Accademia dei Percossi.

L ’interesse per la filosofia, che accompagnerà il pittore per tutta la vita, nacque da dibattiti intellettuali della Napoli degli anni ’30, che si tenevano nell’Accademia degli Oziosi, fondata dal cardinale Francesco Maria Brancaccio, che oltre a influenzarlo in tal senso poi diventerà un personaggio molto importante per gli sviluppi della sua carriera.

Salvator Rosa non disdegnava di calcare i palcoscenici e neanche di farsi conoscere per strada al punto che è ritenuto da molti uno dei primi posteggiatori partenopei.
Amava la musica o, se vogliamo essere ancora più precisi, la canzone napoletana che egli spesso amava suonare e cantare per strada, come un musicista vagabondo, in luoghi chiusi o all’aperto. Cantava opere nuove o rifacimenti di grandi classici.

Nel Seicento a Napoli la musica era una delle componenti fondamenti del popolo. Si ascoltava per le strade grazie agli organetti meccanici, si udiva nei posti più impensati con i posteggiatori e si apprezzava nei celebri café chantant. Secondo alcuni il pittore poeta sarebbe anche l’autore di Michelemmà, celebre tarantella del Seicento nonché una delle prime canzoni d’autore, che narra di una giovane ischitana preda dei turchi.

Egli avrebbe scritto la famosa canzone napoletana per una ragazza di cui era innamorato. Michelemmà (Michela è mia) loda con i suoi versi una bellissima giovane nata in mezzo al mare durante una scorribanda di pirati, che per i suoi begli occhi si suicidavano almeno a due per volta. Nel testo la si definisce “scarola” che potrebbe significare “schiava”, ma alcuni propendono per “ragazza riccia”.

Giovanissimo, Salvatore, attira le attenzioni degli altri artisti napoletani, grazie al suo luminoso talento. Il pittore Lanfranco allora, vedendolo lavorare, gli consiglia di recarsi a Roma per qualche anno onde ampliare i propri orizzonti artistici frequentando gli ambienti più caldi della pittura.

La formazione napoletana resterà comunque fondamentale e rimarrà un segno di originalità per tutta la sua carriera.

Nel 1634 pertanto si trasferì a Roma dove frequenta la Scuola dei bamboccianti.

Contemporaneamente si dedica anche alla coreografia, allestendo le scene di spettacoli di carattere satirico, collaborando con Claude Lorrain e Pietro Testa, artisti barocchi, e facendo la conoscenza del Bernini, con cui è sovente in disaccordo.

Nel 1636 ritorno’ a Napoli dedicandosi all’esecuzione di paesaggi con scene che rappresentano vere e proprie anticipazioni del romanticismo pittorico, con soggetti movimentati, spesso drammatici. Svende questi dipinti per pochi soldi, senza che il suo enorme talento venga compreso negli ambienti di rilievo, restando all’ombra dei nomi che in quel periodo dominano la scena artistica cittadina, come il suo maestro Ribera, ma anche Battistello Caracciolo e Belisario Corenzio.

In seguito all’arrivo degli austriaci che sciolsero la “compagnia della morte” l’artista decise di ritornare a Roma anche perche’ contemporaneamente ebbe ,sempre da Roma la chiamata del cardinale Francesco Maria Brancaccio ( lo stesso dell’ accademia degli oziosi a Napoli ) da poco tempo nominato vescovo a Viterbo per affidargli la sua prima opera di carattere sacro per la chiesa Santa Maria della Morte.

In questa sua prima parentesi Romana il pittore fa la conoscenza del poeta Abati, con cui stringe un’amicizia sincera. È proprio il letterato, successivamente, ad incoraggiare Rosa dal punto di vista poetico e letterario.

Nel 1640 in seguito alla tensione sempre più forte che si era venuta a creare con il Bernini (considerato il più importante degli artisti di quegli anni ) e forse anche in seguito al rifiuto di essere accolto nell’Accademia di San Luca, Rosa accetta volentieri l’invito da parte del cardinale Giovan Carlo de’ Medici di trasferirsi a Firenze .

A Firenze rimane per circa otto anni, promuovendo l’Accademia dei Percossi che riunisce poeti, letterati e pittori .Qui compone le sue celebri “satire”, dedicate rispettivamente alla musica, alla pittura, alla poesia e alla guerra.

Possiamo considerare certamente questo il momento piu’ florido della sua vita artistica che per via della scelta dei suoi soggetti bellici e movimentati, viene soprannominato “Salvator delle battaglie“, autore di grandiose e sceniche guerriglie per mari e via terra (splendido un suo dipinto custodito al Louvre, dal titolo “Battaglia eroica).

Nello stesso periodo realizza un famoso suo autoritratto oggi custodito agli Uffizi .

Con il tempo non vuole più lavorare per le corti, gli da fastidio che gli venga detto cosa dipingere, vuole essere libero. Dopo la corte fiorentina rifiuterà qualsiasi altro invito di corte, seppur lusinghiero, come quello rivoltogli da Cristina di Svezia, dall’imperatore d’Austria e dal re di Francia.

Rifiutava le richieste, odiava le commissioni, non accettava caparre perché queste poi lo vincolavano, spesso non si curava di vendere, diceva che dipingeva per sé e oltre a decidere il tema, fissava anche il prezzo. Pretendeva cifre altissime come per il “Democrito in meditazione”, presentato al Pantheon e il suo pendant “Diogene che getta via la scodella”, egli richiese 250 scudi per ognuno: saranno acquistati solo dopo due anni dall’ambasciatore veneziano Niccolò Segredo e soltanto per 300 scudi entrambi.

Grazie all’aiuto del banchiere Carlo de Rossi, che gli comprava tutti i quadri senza mercato, non ci furono problemi economici ma successivamente Rosa cominciò anche a cimentarsi nell’incisione, che si poteva vendere più facilmente. Ma sopratutto si sosteneva vendendo battaglie e paesaggi, che detestava ma erano gli unici lavori che gli davano guadagno.
Non ebbe una scuola né allievi, ma suo figlio Augusto cominciò ad aiutarlo nei paesaggi che vendeva ai turisti, soprattutto inglesi.

Salvator Rosa muore a Roma, il 15 marzo del 1673 all’età di 57 anni.

Il suo corpo è sepolto in Santa Maria degli Angeli con un monumento eretto dal figlio Augusto.

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