Oggi vi raccontiamo la storia di un grande progetto mai completato dietro al quale si nascondono appalti truccati, scandali finanziari. soldi sporchi,speculazioni edlizie e criminalità organizzata .
C’era una volta una Napoli che non vedremo mai più, dissolta sotto i picconi del Risanamento. Una fetta di città cancellata con un colpo di spugna, che non potremo mai conoscere, di cui sopravvive solo qualche elemento ricollocato altrove, immortalata con straziante nostalgia dal pittore Vincenzo Migliaro o dalle stinte fotografie di Raffaele D’Ambra e Gennaro D’Amato.
Siete mai stati al Museo di San Martino ?
Aveta mai visto nella sezione storica, la famosa raccolta dei Ricordi storici del
Regno di Napoli ?Tra le tante interessanti testimonianze della storia di Napoli , nella sezione pittorica dell’Ottocento napoletano tra i tanti bellissimo dipinti presenti in questo luogo, avete mai visto l’interessante serie dei luoghi di Napoli destinati a scomparire durante i lavori di risanamento commissionata a Vincenzo Migliaro ?
Fermatevi a guardarli …
Lo sentite anche voi quel sentimento d’insoddisfazione e d’insoluto che nasce e cresce nel petto ?
Si! E’ proprio questo che si prova ogni qualvolta può capitare di trovarsi di fronte a un quadro di Migliaro,… un inevitabile malinconico tuffo indietro nel passato.
In queste tele riconosciamo la Napoli caotica di sempre, vestita di panni borghesi e di lazzari irrequieti. Mentre osservando questi dipinti, incominciamo inevitabilmente a immaginare in che zona essi furono.presenti e ci chiediamo dove e come oggi siano questi determinati luoghi.
Li riconoscete ?
Ci sembrano quasi dei luoghi inventati, sognati dal pittore, come la scenografia di una vecchia commedia di Scarpetta o di Eduardo. Eppure un tempo c’erano davvero.
CURIOSITA’: Sul finire dell’Ottocento, al fine di lasciare un ricordo di quei luoghi e quei costumi della città che si sarebbero persi in seguito all’opera di bonifica e risanamento, il Ministero della Pubblica Istruzione commissionò al giovane pittore napoletano Vincenzo Migliaro la realizzazione di una serie di dipinti che avessero come soggetto questi quartieri e i loro abitanti, da collocare poi al Museo di San Martino. Dopo il primo dipinto, “Vico Grotta e Vico Forno” del 1887, il pittore realizzò “Santa Lucia”, “Strada Pendino”, “Strettola degli Orefici”, “Piazza Francese” e “Strada di Porto”, a cui si aggiunsero qualche anno dopo anche “Vico Cannucce” e “Castelnuovo”.
E allora con malinconia ci rendiamo conto che non possiamo trovarla più la tipica strada del Pendino con la piazza della Sellaria ed inevitabilmente ci chiediamo di cosa ha poi finito per fare quel roboante mercato in cui fin dal Medioevo si vendevano le selle ? Cosa ne è stato ?
Esiste ancora un mercato delle selle ? E dove se non in Piazza della Sellaria ?
La sorte delle botteghe intorno, dei chianchieri e delle ovaiole da presepe, dei pescivendoli e dei pollieri che sotto tendoni chiari urlavano accanto a donne con larghe gonne e scialli, purtroppo quelli si sono dovuti arrendere alla globalizzazione dei supermercati e peggio ancora del dittatore Amazon.
Per fortuna di quei dipinti solo almento la fontana seicentesca è sopravvissuta davanti al Grande Archivio, Almeno quella …
Di sicuro però certo non rimpiangiamo le fabbriche che fino agli anni Venti opprimevano la vista del Maschio Angioino, ma forse ci manca il caratteristico, spagnolo, vico delle Cannucce, con le sue arcate di origine catalana, e la piazza Francese di un tempo, coi suoi banchi per la vendita di ferro, rame, ottoni, poco prima di un supportico che ci fa sembrare di essere in un anfratto della Londra di Dickens.
E poi le Gradelle di San Giuseppe, che ci inducono a pensare a una Montmartre in miniatura. Erano uno dei luoghi più frequentati della città e sorgevano poco distanti da Rua Catalana. Insieme con esse sulla sommita delle scalette e nei palazzi attorno si vendevano lane, ceste di vimini o tappeti .
E mi piange il cuore se invece penso che a sparire fu anche la cinquecentesca chiesa di San Giuseppe Maggiore, che dava nome a un intero quartiere. Ancora oggi a distanza di tanti anni , non capisco come abbiano potuto solo minimamente pensare di poterla distruggere ed il perchè ci hanno la possibilità di poterla ammirare.
Mi fa invece solo provare sconforto il solo pensare allo scempio dell’abbattimento dei due grandi monasteri: quello della Croce di Lucca e sopratutto quello della Sapienza, che dovettero cedere il loro spazio alla costruzione del vecchio policlinico (( roba da non credere..).
Due grandi monasteri, entrambi ricchi di opere d’ arte, pregevoli affreschi e dipinti ( fate silenzio, vi prego, non lo raccontate in giro per l’Europa altrimenti ci pigliano per pazzi…), vennero allora abbattuti per dar luogo in pieno centro storico ad una struttura brutta e completamente fuori contesto in un luogo ricco si opere d’arte . Quei padiglioni del Primo Policlinico, sono una delle cose più brutte fatte alla nostra città da un punto di vista architettonico.
L’abbattimento di queste strutture provocò la sdegnata opposizione di Benedetto Croce il quale si scagliò con fermezza contro la distruzione del grande patrimonio costituito dalle strutture monastiche e in particolare nel 1903 si appellò al sindaco Luigi Miraglia dalle pagine della rivista ” Napoli Nobilissima ”
Ma nonostante tutto i conventi furono abbattuti insieme a 2 palazzi nobiliari (palazzo d’ Aponte e palazzo De Curtis ) per costruire al loro posto parte del policlinico.
La veduta delle cliniche universitarie inevitabilmente accende un tono polemico difficile da controllare e una domanda mi viene in mente: ma veramente non c’era nessun altro posto a Napoli dove costruire delle cliniche universitarie ? …. e proprio nel centro storico ? … e proprio radendo al suolo un patrimonio storico ?
Il monastero delle chiesa dela croce di Lucca, era di notevole estensione con preziosi affreschi, dipinti su tela e fregi ed era stato fondato da Maria Carafa – sorella di Giovanni Pietro Carafa cioè papa Paolo IV noto per la brutale e feroce attività inquisitoria dell’epoca.
Oggi di quel magnifico posto resta soltanto la chiesa ( mutilata dell’abside ) salvata grazie solo al prodigarsi di Benedetto Croce, che fece anche il miracolo di salvare la vicina chiesa della Sapienza che nei progetti iniziali doveva essere abbattuta, Se oggi possiamo ancora ammirrare la bella facciata del Fanzago, lo dobbiamo solo al grande Benedetto Croce.
Il suo interno con un bellissimo pavimento in marmo bianco ( opera di Dionisio Lazzari) e affreschi nella volta e nell’abside di Cesare Fracanzano, è stata completamente vandalizzata delle sue opere e versa in un cattivo stato di manutenzione a causa di infiltrazioni d’acqua, furti e atti vandalici.
L’ antico monastero ed il suo magnifico chiostro era frequentato da suore che provenivano da famiglie ricche e nobili, le cui generose donazioni venivano utilizzate per acquistare terreni e abitazioni vicine con lo scopo di espandere la struttura, poi completamente distrutta da un sindaco che proprio perchè non si fece mai intimidire da nessuno .qualcuno gli ha poi dedicato per los cempio fatto, anche il nome della Piazzetta . Egli impettito continuò la sua folle iniziativa a dispetto di tutto e tutti.
Costruire un Policlinico e delle cliniche universitarie in un luogo dove a stento riesci talvolta a circolare e’ una vera follia.
N.B. Oggi la piazza è dedicata a colui che allora sindaco non si è opposto allo scempio monastico .Un classico esempio di come i politici possano veramente far del male ad una citta se non ne conoscono la storia e le radici. A memoria la targa che titola la piazza sia per tutti almeno un ricordo del grande scempio storico- artistico .
Lo sconforto si trasforma comunque in rabbia se solamnete penso che poi negli anni 70 del 1900 fu costruito un secondo policlinico in quella che oggi è la zona ospedaliera ( forse servivano più cattedre da assegnare ) e scopri che questo vecchio policlico, secondo alcuni progetti di riqualificazione urbanistica del centro storico, è destinata nel tempo ad essere abbattuto per essere sostituito ( speriamo ) da un grande parco archeologico, dal momento che al di sotto di essa sono conservati resti dell’ antica Neapolis in particolare dell’acropoli ( aggiungi il danno alla beffa ).
Questa università infatti oggi non è più quella di Napoli , ma quella della città di Caserta (dove si deve trasferire) anche se inspiegabilmente si continuano a spendere soldi pubblici per ristrutturare alcuni edifici e reparti.
I lavori per costruire il Policlinico di Caserta in località Tredici, che doveva sostituire nelle buone intenzioni il vecchio policlinico di Napoli , dopo aver costruito quello nuovo, venne stabilito nel lontano 1995 con un finanziamento, interamente statale e regionaleche valeva 410 miliardi delle vecchie lire e nonostante le istituzioni annunciavano il termine dei lavori al dicembre del 2008 , dopo un’odissea lunga 29 anni, purtroppo non ha ancora visto la luce, ma addirittura rischia di trasformarsi in un ecomostro che deturpa l’ambiente .
N.B. A Wuhan, la città cinese di da cui è partito il focolaio del coronavirus, ci è voluto solo un mese per costruire un ospedale.
Al momento il Policlinico di Caserta, che secondo il piano ospedaliero regionale deve contenere ben 500 posti letto con oltre 45mila metri quadri di superfici coperte, di cui oltre 15mila per la ricerca (esclusi spazi a verde) e quasi 17mila metri quadri per l’assistenza, è inatti compleo solo al 30%; : Ad oggi ad essere stata ultimata è la sola struttura in cemento armato.
L’opera ,attesa da quasi trent’anni, è tra le più costose del Mezzogiorno,e nonostante i tanti anni di ritardo ,dei complessi successivi ulteriori 174 milioni di euro, ulteriormente stanziati, non da segnali di vita ( restano da spendere ancora 110 milion) . La Regione, che cofinanzia l’infrastruttura, garantirà l’acquisito degli arredi interni e delle attrezzature tecnologiche per 50 milioni di euro , ma il tutto sembra una grossa favola .
Intanto il vecchio policlico da SUN si è poi chiamato dapprima ” Università degli Studi Luigi Vanvitelli” in onore al grande archietetto che ha costruito la Reggia di Caserta, e poi successivamente ” Università degli Studi della Campania «Luigi Vanvitelli»
Eè quella piccola aggiunta ” CAMPANIA ” costata tanti soldi nel fare un nuovo logo che ci preoccupa ….
Mi sa che quei vecchi brutti edifici della Ex Sun che dovevano infatti essere abbattuti al fine di mettere in evidenza gli antichi scavi archeologici greco romani presenti sotto di essa …non saranno mai più abbattuti.
I brutti orrendi edifici del vecchio Policlico mi sa che non andranno mai via e il Policlico di Caserta, resterà sempre e solo un bel sogno … un’utopia ma sopratutto un gran spreco di soldi pubblici.
Il vecchio Policlinico resterà a Napoli ( (potere dei grandi baroni )e insieme al nuovo Policlico denominato Federico II, Essi appresenteranno le più brutte opere edilizie fatte nell’ultimo secolo nella nostra città ( il brutalismo del nuovo Policlinico è forse uguaglibile solo a quello delle vele di Scampia ).
Caserta aspetta …. non vedrà mai forse il suo Policlico , e il nostro centro storico forse non vedra mai veramente realizzato quel grande Parco Archeologico già approvato per la riqualificazione urbanistica dell’intera area.
Tutti sanno che al di sotto del Primo Policlinico ci sono i resti dell’antica Neapoli ed in particolare dell’acropoli, ma nessuno vuole realmente mettere in atto questo progetto.
N.B. Diverse volte si è parlato della realizzazione del grande Parco Archeologico per riqualificare l’assetto urbanistico di Napoli ed in particolare di quest’area senza però un reale intervento. Ci auguriamo quindi che facendo conoscere alcune storie, sempre più persone si sensibilizzino per prendere a cuore la questione.
Il progetto giace oggi purtroppo in qualche scaffale o sopra qualche scrivania coperta da centimetri di polvere e speriamo che non diventi muffa .
Altro importante monastero soppresso durante i lavori del Risanamento fu quello della trecentesca chiesa di Sant’Agostino alla Zecca, voluta da Carlo I d’Angiò.
La chiesa aveva infatti inizialmente due chiostri ed oggi dopo i lavori di ristrutturazione del Risanamento ne rimane a noi uno solo a pianta quadrata e circondato da 16 colonne , ma esso poichè oggi si trova ad almeno dieci metri più in basso rispetto all’ingresso della chiesa che resta al suo posto originario, e cioé immediatamente sullo slargo di fronte all’edificio della Zecca, esso si ritrova staccato dalla chiesa.
CURIOSITA’: Vista la disparità delle altezze tra l’antica chiesa e quello che rimane dell’unico monastero rimasto , a quest’ultmo oggi si accede da un secondo piano del Palazzo Ascarelli che si trova sul Corso Umberto I ( rettifilo ).
Il chiostro dopo i lavori per la costruzione del corso Umberto e ‘ diventato infatti parte integrante del palazzo Ascarelli da cui si accede. Esso , durante i primi anni Venti del Novecento col contributo della famiglia ebraica degli Ascarelli, è stato chiuso con una copertura in ferro visibilissima dall’alto e dall’esterno.
N.B. Assieme alla chiesa di San Pietro Martire divenne un deposito per le macchine di lavorazione del Tabacco di Stato e completamente militiarizzato nel 1808. Restituito poi alla chiesa venne infine , una volta conclusa l’attivita’ monastica , smembrato alla fine dell’800 , prima per le leggi sull ‘esproprio dei beni ecclesiastici e poi per la costruzione di Corso Umberto.
Il chiostro su colonne di marmo, tradizionalmente attribuito a Bartolomeo Picchiatti e a suo figlio Francesco Antonio, cinto da balaustra, è formato da una discreta policromia di diversi materiali. Sugli archi offre una inconsueta decorazione, mentre sul lato orientale del chiostro si apre una porta ogivale di età angioina che dà accesso alla Sala capitolare. Quest’ultima è un vero e proprio ambiente duecentesco carico di memorie storiche .
Nel suggestivo scenario dell’antico Chiostro di Sant’Agostino alla Zecca partì infatti la ribellione all’inquisizione spagnola e fu celebrato il processo postumo a Masaniello.
La sala del chostro è a pianta rettangolare coperta da sei volte a crociera i cui costoloni si reggono al centro su due alte colonne marmoree. Ai lati sono sostenuti da dieci capitelli pensili che presentano forme vegetali ma anche umane (figura di telamone) o animali (l’aquila). Due dei capitelli, ornati agli angoli da figure di aquile ad ali spiegate, sono stilisticamente di origine sveva.
La chiesa di Sant’Agostino alla Zecca o Sant’Agostino Maggiore , originaria del 1300 è tra le più grandi chiese di Napoli , oggi purtroppo chiusa perché versa in uno stato di grave degrado per mancanza di fondi . In seguito venne riedificata in stile rinascimentale a causa dei crolli susseguitisi dopo il terremoto del 1456 e, poi, venne rifatta ( tra il 1641 e il 1770 ) da Bartolomeo Picchiati, Francesco Antonio Picchiati, Giuseppe De Vita e Giuseppe Astarita. Il primo insieme al figlio Francesco Antonio,progettò il campanile e decorò il chiostro e la navata centrale; il de Vita, invece, progettò la crociera mentre l’Astarita realizzò la cupola .
Tra le opere dell’interno, una Madonna del Laurana, un bel pulpito decorato da Annibale Caccavello e notevoli pitture di Giacinto Diano.
Con la creazione del Corso Umberto I, anche i due ampi chiostri in puro stile rinascimentale della vicina chiesa di San Pitro ad Aram furono distrutti . Entrambi erano bellissimi . Uno arredato con colonne di marmo e archi a tutto sesto e un’altro costruito poi nel cinquecento, totalmente in piperno. Le colonne di uno dei due chiostri furono inglobate nel sacello ipogeo di Sant’Aspreno che si trova nel nuovo palazzo della Borsa.
CURIOSITA’: La Chiesa di San Pietro ad Aram sarebbe sorta nel luogo dove la tradizione vuole che il San Pietro celebrò la prima messa e battezzò Santa Candida e Sant’Aspreno, i primi napoletani convertiti al Cristianesimo. L’indicazione “Aram” deriva da “Ara Petri”, la pietra-altare utilizzata da Pietro per la celebrazione della messa.
Le origini di questa chiesa sono molto ma molto antiche ; pare infatti che la chiesa di san Pietro ad Aram sorga nel luogo dove san Pietro celebrò la prima messa a Napoli e in tal momento battezzò due santi (santa Candida, e Sant’Aspreno ) altrettanto famosi le cui gesta si confondono tra miti e leggende .
All’ interno della chiesa e’ ancora oggi custodita l’Ara Petri, ovvero l’altare su cui pregò San Pietro durante la sua venuta a Napoli .L’altare di San Pietro, che si trova nel vestibolo, è sovrastato da un affresco rinascimentale.
L’Apostolo Pietro proveniente da Antioca e diretto a Roma, fece una sosta a napoli ,e qui incontro una vecchia signora,di nome Candida,la quale era gravemente malata.
Quest’ultima portata a cospetto del Sant’uomo ,implorò la la grazia per la sua guarigione nonostante ella fosse una pagana e non credente . Pietro commosso da tale richiesta opero’ la guarigione , e l’anziana donna guarita dal male ,condusse Pietro da un altro infermo un certo Aspreno,e anche per lui si compi il miracolo.
I due Pagani si convertirono al Cristianesimo con tale fervore che L’apostolo Pietro alla sua partenza da napoli consacrò Aspreno primo vescovo di Napoli.
Aspreno fu profondamente legato a questo luogo , l’altare dove Pietro (Ara Petri) aveva celebrato ,pregato e compiuto i suoi prodigi ,egli lo custodi prima all’interno di una piccola edicola e poi in seguto nella Basilica di San Pietro ad Aram li sopra eretta.
Ad Aspreno viene collegata la cappella che si trova in piazza Bovio (inglobata nel Palazzo della Borsa), dove è possibile ancora oggi vedere la pietra bucata nella quale infilava la testa chi voleva guarire dall’emicrania
Anche candida non lascio mai piu questo santo posto . La credenza popolare vuole che la santa donna ( che era stata guarita da Pietro ) abbia vissuto il resto della sua vita , nella cripta sottostante l’originaria chiesa napoletana ,alla quale si accede mediante una piccola scala dal transetto sinistro, dove sono visibili l’ambulacro e il famoso antico pozzo che aveva poteri taumaturgici . Nella cripta si sono rinvenuti numerosi scheletri di martiri Cristiani, fra di essi quello di Candida posto in una nicchia di fianco all’altare dove numerosi fedeli si recano da tempo immemore in cerca di grazia.
L’interno della chiesa più antica e misteriosa di Napoli, conserva splendidi dipinti su tela e tavola realizzati da grandi artisti come Jusepe de Ribera, Massimo Stanzione, Mattia Preti, Luca Giordano, Andrea Vaccaro, Giacinto Diano e Belisario Corenzio, e anche un antichissimo affresco di Santa Candida, tornato alla luce dopo molti secoli. Molto interessanti da vedere anche i bassorilievi di Nauclerio .
Dopo quei lavori i del Risanamento, la chiesa , miracolosamente scampata alle ruspe demolitive di quel periodo, appare oggi situata in una traversa a ridosso del Corso Umberto , alle spalle di Piazza Garibaldi , stretta tra il caos del Rettifilo e il degrado del mercatino che ne impedisce persino l’accesso dalla porta principale (.
Purtroppo come vi abbiamo accennato, durante il periodo di Risanamento edilizio della città di fine Ottocento, il chiostro di San Pietro ad Aram fu abbattuto e le sue colonne trasferite nella chiesa di Sant’Aspreno. Dei due chiostri di questo monastero è possibile vedere le colonne nel vestibolo di Sant’Aspreno.
CURIOSITA’ : Nei sotterranei della basilica secondo molti era presente un pozzo le cui acque avevano il potere di attenuare il dolore delle partorienti e favorire il lavoro delle ostetriche .
Purtroppo a a sparire durante le opere del cosidetto Risanamento, fu anche la bellissima torre campanaria della chiesa di Santa Maria a Piazza, nel cuore di Forcella. Esso con il suo arco di laterizi, era una struttura che ricordava molto quella della Pietrasanta; Oggi del campanile del X secolo purtroppo non c’è più traccia.
La stessa chiesa dovette subire l’opera delle ruspe che causarono il sezionamento di tre campate. La facciata, di forma quadrata, presentava delle finestre ai lati del portale e un supportico.
L’antica chiesa con interno bizantino è oggi ridotta a una sola campata. e ovviamente dopo l’oper di risanamento ha perso per sempre i suoi magnifici dipinti del XVII secolo raffiguranti la Sacra Famiglia e la Natività.
Anche il chiostro del Divino Amore fu tagliato per consentire l’apertura della via del Grande Archivio; stessa sorte toccata a palazzo Casacalenda e a palazzo Sicola, poco più avanti, a Spaccanapoli.
Esso insieme alla sua chiesa ora chiusa e abbandobìnata al sui degrado, si trova tra Via San Biagio dei Librai e Via Grande Archivi, accanto alla Chiesa del Divino Amore.
Fu costruito nel XVII secolo per volontà della nobildonna Beatrice Villani che, dopo aver preso i voti nel 1590, incaircò l’architetto Francesco Antonio Picchiatti di realizzare un convento trasformando ol preesistente Palazzo Villani. La struttura, nonostante custodisse marmi di un certo valore, fu restaurata e modificata da Ferdinando Sanfelice nel secolo successivo. Nel corso della storia fu abitato da suore domenicane, quasi tutte provenienti da famiglie nobili e ricche, che, però, furono allontanate durante la soppressione degli ordini religiosi del 1866. Durante il Risanamento (fine XIX secolo), i lavori di risistemazione del tessuto urbano causarono la distruzione del lato occidentale del chiostro, mentre la parte rimanenre del convento ospitò prima uffici della Pubblica Amministrazione, un asilo e un consultorio familiare.
Con il grande progetto del Risanamento un addio lo abbiamo dovuto anche dare anche al tipico fondaco dei Calderai, dove rumoreggiavano artigiani ramai, e soprattutto al “re di Mezzocannone”, fontanella sormontata da una goffa statua in una nicchia di piperno, forse Ferrante II, sinonimo di rozzezza. Da questa fontana derivava il nome stesso della via, a causa della sua mezza canna da cui fuoriusciva acqua fresca. Non c’è più nemmeno la piccola faccia di Medusa sottostante, sovrastata da un marmo con una dedica ad Alfonso II d’Aragona.
E va bene, l’ho capito; mi arrendo.
Mi fermo qui… promesso.
Avevo voglia di rimpiangere pietre svanite, di viaggiare con la fantasia… immaginare con malinconia una Napoli antica e bellissima . In fondo, Napoli è anche questo: suggestione e visione di qualcosa d’invisibile, di un rimpianto o di un’illusione.
Ma purtroppo Napoli i suoi problemi li aveva .
Ed erano problemi ATAVICI.
Essi erano presenti già in epoca medievale quando nacquero i famosi ” VASCI”
I famosi “Vasci, nacquero infatti quasi tutti nel medioevo .Essi con chiari alcuni limiti caratteristici dei vani al piano terra non erano però a quell’epoca certamente destinati inizialmente ad uso residenziale. Essi nacquero come locali destinati a depositi o magazzini per il commercio delle merci provenienti dal mare che in successione si aprivano nei numerosi vicoli della Napoli del centro storico e dell’area intorno al porto.
Con il tempo però dalla loro principale funzione di bottega, in questi angusti e bui locali i più indigenti, in mancanza d’altro e soprattutto in inverno, per non dormire all’addiaccio, si adattarono a viverci. In altri casi invece, dati gli spazi ridotti, la funzione era praticamente quella di mero dormitorio, dato che l’attività lavorativa, spesso fatta di piccoli espedienti, era vissuta lungo i vicoli, sì da conferire a questi ultimi un carattere di intimità e suscitando nel visitatore la sensazione di trovarsi non in una strada, bensì in una pullulante e caotica grossa abitazione.
I stretti vicoli che dividevano alti edifici( erano alti per il basso peso del tufo impiegato nelle costruzioni) erano per lo più bui , mentre le anguste stanze dei vasci dallo spazio ridottissimo erano luoghi dove non batteva mai la luce calda dei raggi del sole. Essi erano senza luce ingrediente, (a parte l’entrata), dotati spesso di scarsa areazione ed invasione di odori, rumori, e animali randagi,, legati alla vicinanza con la strada, rappresentavano per la città in quel periodo già un grosso inconveniente igienico-sanitario
Nei quartieri più poveri per lungo tempo i napoletani, nelle successive dominazioni , vivevano in un coacervo di vicoli stretti e piccole stanze con condizioni igieniche e civili veramente disastrose e nessun regnante nelle successive dominazioni mostro interesse nel bonificare e risanare questi luoghi.
Nel periodo legato ai vicerè di Spagna, verso la metà del XVIII secolo,la popolazione in città, invece di diminuire a causa del perdurante divieto urbanistico, andava invece aumentando superando il mezzo milione e portando Napoli al primo posto tra le città d’Europa per densità demografica.
Alla vigilia della rivoluzione, nel 1798, la città di Napoli (compresi gli immediati dintorni) contava circa 550.000 abitanti; dal 1766 al 1797, infatti, secondo i dati degli stati d’anime delle parrocchie, la popolazione napoletana era aumentata di circa 101.000 unità, passando dalle 337.095 unità del 1760 alle oltre 438.269 unità del 1796.
Moltissime famiglie erano indigenti, contrapposte al lusso e all’sostentazione dei privilegi di quelle nobili e alla bella vita del clero, che si avvaleva dei proventi accumulati con i testamenti delle anime e con quelli derivanti dall’amministrazione delle cappelle, degli ospizi o delle congregazioni e dalla gestione degli istituti ecclesiastici.
In tutto il Regno di Napoli, nella seconda metà del 1700, si contavano oltre 100.000 religiosi, con una proporzione di uno ogni 48 abitanti! Questa evidente asimmetria tra i ceti determina un fitto intreccio di abitudini clientelari e servili a tutto vantaggio dei nobili e del clero, causando nel popolo una vocazione all’assistenzialismo e una accettazione della precaria esistenza di vita, addebitata alla mala sorte e, quasi mai, sfiorata dal desiderio e dalla sfida di un possibile riscatto.
L’aumento della popolazione comportava una richiesta di abitazioni e, quindi, una valorizzazione della proprietà privata. Di conseguenza il costo delle abitazioni sudicie, piccole, esposte al continuo pericolo di crolli ed epidemie, lievitava in continuazione. Ma l’aspetto più grave, derivante dall’aumento demografico e dalla conseguente richiesta di abitazioni, era legato al fatto che, oltre a veri tuguri oscuri e maleodoranti, si fittavano anche posti letto. Nel 1783 i cittadini più poveri alloggiano “in alcune grotte, stalle, abitazioni dirute o altro poco da queste dissimili, che si tengono espressamente da taluni che dal sol capitale di una lucerna, e poca paglia, danno loro ricovero col pagamento di un grano, o poco più, in ogni notte e ivi si vedono gittati come immondi animali e mescolati senza distinzione di età, né di sesso”.
Le case dove abitare erano poche spesso molto costose per chi giungeva in città dalla campagne alla ricerca di lavoro,, essi avena poco reddito e quindi gli abitanti di queste minuscole e disagevoli dimore denominate vasci ( bassi ) si moltiplicarono a macchia d’olio fino a dar vita ad un vero e proprio fenomeno di sovrappopolamento, prolungatosi fino al 1880,
La città, date le sue condizioni ambientali particolari, la precarietà del sistema fognario, l’insufticienza degli acquedotti e della distribuzione dell’acqua, la miseria diffusa di gran parte degli abitanti, si trovava particolarmente espesta al contagio di quel colera,che dal 1830 imperversava in tutte Europa . E ovviamente il colera si sviluppò anche a Napoli facendo una strage terribile.
Ci mise un po’ di tempo prima di arrivare a Napoli ma poi arrivò anche a Napoli, nonostante i cordoni sanitari attuati in città . Il terribile morbo riuscì infatti a sconfinare nelle Due Sicilie a bordo delle navi commerciali in viaggio che arrivavano dalla Puglia . Il tutto accadde nel 1836, provocando la morte di ben 13 798, persone .
E non poteva certo andare diversamente ….
Nel periodo borbonico i bassi dei quartieri erano dei veri e propei letamai luridi e malsani Tranne Toledo, Chiaia e Foria, illuminate a gas, tutta la città era illuminata ad olio; le lampade scarse e le strade buie, paurose e pericolose.
Via Toledo fu per varii anni un saliscendi. Tre grandi chiaviche si aprivano, una innanzi alla Corsea, l’altra dov’è ora il Gambrinus, a due passi dalla Reggia, un’altra, più grande ancora, al largo della Pignasecca.
Via Foria, per gli acquazzoni non infrequenti di primavera e di autunno, diveniva un torrente impetuoso, che travolgeva persone e bestie, ed era chiamato ” lava dei Vergini, perchè l’acqua venendo giù dalla collina di Capodimontee dai Colli Aminei , trovava lungo il suo percorso ” la zona dei Vergini”, il cui nome deriva da una fratria religiosa greca, quella degli EUNOSTIDI dediti alla temperanza ma sopratutto alla castità, che si era insediata nel rione Sanità,
Fino a quando i luoghi vicini a questi torrenti erano disabitati i danni non si avvertirono ma con il formarsi del borgo della sanità il torrente divenne un flagello perchè una vera e propria fiumana invadeva le strade trascinando con se tutto quanto incontrava nel suo percorso e scaricandolo a mare.
Una volta terminata la piena, lasciava comunque le strade allagate e impraticabili e per passare da un marciapiede all’altro bisognava imbastire tavole di legno su cui attraversare e funi di sostegno a cui aggrapparsi per evitare di cadere.
La abitazioni e i negozi al piano terra erano tutte protette da scalini rialzati per evitare che l’acqua potesse entrare (ancora oggi si possono vedere questi ingressi rialzati a protezione della lava).
Al Re bastò aver consigliato di collocare sulla strada un ponte mobile di ferro e uno di legno per passare da una parte all’altra, quando infuriava la piena; e cosi restarono le cose sino al 1859.
N.B. Le cose non cambiarono nemmeno agli albori del nuovo Regno , dove furono solo gettati due ponti nuovi in ferro. Per ottenere finalmente l’incanalamento delle acque, il rione Sanità dovette attendere il 1869.
La città era insomma nelle sue parti più popolari un vero letamaio ; e quando fu visitata
dal colera, non soltanto la popolazione, ma il Re stesso riteneva che il morbo non fosse alimentato dal luridume, ma da contagi misteriosi.
N.B. Ferdinando II, aveva comuni, con la parte infima del suo popolo, i pregiudizii e le paure. In tempo di epidemie, egli con la Corte si rifugiava a Caserta, o si chiudeva a Gaeta, avendo un
vivace sentimento di disprezzo per Napoli, che chiamava casùlone ed abbandonava a se stessa.Ad ogni modo di interventi edilizi tesi a risanare i quartieri più degradati e creare nuove zone residenziali si iniziò a parlare già durante il Regno delle due Sicilie proprio con Ferdinando II. Il Consiglio Edilizio della città di Napoli nel 1839 ipotizzò infatti la creazione nella zona orientale, oggi individuabile tra la parte inferiore del corso Garibaldi e S. Giovanni a Teduccio, di un nuovo quartiere residenziale destinato alle famiglie operaie, in vista della prevista espansione del porto verso oriente. Inoltre si verificò la possibilità edificare nuovi quartieri borghesi a occidente, nelle zone di Chiaia, Posillipo e sulla collina del Vomero, con la creazione di linee di collegamento attraverso gallerie e funicolari. In progetto c’era anche il risanamento d ella zona degli ex granai, oggi via Costantinopoli, antistante il Museo Nazionale.
Il tutto però rimase solo sulla carta ed i vari progetti non vennere mai realmente attuati. La ragione che bloccò i progetti di Francesco I e Ferdinando II, fu solo fedeltà che da sempre i borbone avevano negli anni mostrato alla religione cattolica,
Gli interventi edilizi dei progetti borbonici per essere realizzati necessitavano per forza di cose dll’abbattimento di alcune chiese e antichi monasteri e vista l’opposizione mostrata sin dal primo momento da parte del mondo cattolico, essi non furono mai attuati proprio per non far alcun torto ai vari prelati.
Le cose di certo non cambiarono di molto neanche dopo la famosa Unità d’Italia , quando i napoletani, dimenticando il ruolo coloniale a cui i piemontesi l’avevano relegata, viveva oramai la sua italianità nello stridente contrasto tra le strabocchevoli ricchezze di pochi e l’indigenza più totale della plebe.
Con i Savoia che regnarono fino al 1945 , le strutture economiche e sociali in città , rimasero immutate e molti ordinamenti come il funzionamento della Giustizia, della scuola, delle poste, la stampa, la corte dei conti, la zecca e tante altre istituzioni passarono sotto la diretta dipendenza di Torino, che avendo il governo centrale a Torino, e quindi lontano da Napoli e dai suoi problemi impose le sue leggi portando allo smantellamento di molti uffici con il conseguente licenziamento o la messa in riposo degli impiegati che dopo anni di lavoro si videro messi in strada.
Il governo era lontano e non poteva rendersi conto dei veri problemi del popolo e a tutti sembrava di essere tornati ai tempi dei viceré.
Molte delle industrie vennero trasferite al nord e le poche che rimasero furono costrette a chiudere per la concorrenza delle stesse fabbriche settentrionali che potevano contare su una più facile ( maggiore sviluppo della rete viaria ) e vicina importazione di materie prime.
Inoltre molte terre che appartenevano al clero furono confiscate procurando allo stato centrale un’enorme quantità di capitale ma contemporaneamente un grosso danno ai contadini che non potendo più contare sui frutti relativi al raccolto ed ai pagamenti immediati che esso comportava , furono ben presto costretti ad abbandonare la loro terra di lavoro migrando all’estero.
Quegli anni furono infatti caratterizzati da un grande flusso migratorio dei meridionali all’estero che vide tra le sue pricipali cause anchel’obbligo della ferma di leva militare per 7 anni che sottraeva le braccia dei figli al lavoro della terra ai contadini. Coloro che invece non migrarono, diedero luogo ad una vera e propria ribellione armata che fini per rappresentare il cosidetto fenomeno del brigantaggio poi brutalmente soppresso dal generale Cialdini ,uno degli uomini più cattivi e violenti che la nostra storia ricordi .
Dopo quella famosa ” unione d’Italia” la distanza dal Nord, in termini di generale ricchezza, di sviluppo socio-economico, si andò di fatto ad ingrandire fortemente, ma i napoletani si abituarono a considerarsi italiani, la vita della città riprese il suo ritmo allegro, spensierato, dimentico dei drammi che si consumavano quotidianamente. I grandi della nobiltà borbonica, sfruttando le sontuose rendite ereditate dai secoli scorsi e incrementate da mille rivoli derivanti dall’economia in crescita, e la borghesia emergente, si esibivano in spagnolesche e roboanti imprese, di rivazione spagnoleggiante, come il lancio dalla finestra di un prezioso pianoforte “per sentire che suono fa” dei figli del conte di Balsorano il quale si limita a dolersi per non aver assistito alla scena, oppure la ospitalità gratuita, di scultori e pittori agli ultimi piani del rione Sirignano, e ancora lo sfoggio di cavalli e carrozze all’ora della passeggiata a Toledo e a Chiaia, o la galoppata che compiono ogni mattina dame e cavalieri nel trottuar della villa comunale agli ordini del commerciante irlandese Mr. Hubber, sollevando una nube di polvere.
Tali esibizioni di smodata ricchezza, in stridente contrasto con la miseria nera della plebe posta a diretto contatto dalla mescolanza dei quartieri ricchi con i poveri, non destavano come ci saremmo aspettati invidiose critiche ma benevoli e divertiti commenti
Il popolo si doveva invece adattare in quei famosi bassi bui e umidi che affacciavano direttamene sulla strada costringendo chi li abitava a disastrose condizioni ingieniche.La plebe molta povera si ammassava in fondaci e bassi quasi tutti sprovvisti di acqua e luce . Le strette strade ed i vicoli , nel loro continuo rivolo di acqua sporca , oltre che contenere l’acqua piovana , spesso conteneva anche i resti dei miseri pasti , la lisciva del bucato ed anche a volte i propri residui organici . Gli effluvi dei bassi erano della peggiore specie ,ed i rifuiti si accumulavano negli angoli per giorni e giorni .
In realà bisogna riconoscere che prima dello scoppio dell’epidemia del colera del 1884, qualcosina circa un risanameto e nuovo ampliamento della città , venne comunque attuato ma si trattà innanzitutto per la maggior parte di interventi prettamente e insufficientemente urbanistici che non certo tennero conto nei loro risultati di quelle misere condizioni in cui versava una buona parte della gente .
Per risolvere il problema di molti che senza una dimora propria si accalcavano in misere condizioni in sobborghi veramente scarsi dal punto di vista igienico- sanitario vennero conuque, costruite molte case popolari per i ceti più bisognosi ma certamente molta gente del popolo finì per non non cambiare la propria destinazione e situazione economica con l’avvento dei Savoia . Le proprie condizioni di miseria non ebbero alcun alleviamento . In tale promiscuità sociale ed abitativa nacque così quella particolare forma di sopravvivenza produttiva denominata ” economia del vicolo “dove uno o due stipendi mensili bastano ancora oggi , a garantire la sopravvivenza di tanti nuclei abitativi , grazie anche ad una fitta di tanti piccoli scambi commerciali e favori sociali che nascono dietro pericolosi rapporti clientelari fatti di piccolo contrabbando, usura, e omertà nei confronti del camorrista di turno ( mali che ancora oggi subiamo come pesante eredità ) .
Con i Savoia insomma non c’e sicuramente stato un miglioramento delle condizioni di vita dei contadini e degli operai di tutto il meridione perchè non ci furono programmi per una crescita uguale dei due territori che ben presto comportò una disuguale distribuzione del benessere e della ricchezza, ma sicuramente il suo avvento comportò un miglioramento culturale del popolo (l’analfabetismo nel Sud colpiva l’87% della popolazione ) che avvenne grazie alla costruzione di molti asili infantili , e un solo in parte un certo miglioramento delle scarse condizioni igieniche in cui una grande quantità di poverissimi vivevano e abitavano nella nostra grande capitale.
Con l’arrivo dei Piemontesi si concluse comunque per sempre solo la storia di Napoli come capitale autonoma di un regno dando inizio alla sua vicenda di città meridionale solo inserita come tante altre nel nuovo Regno d’Italia. Napoli , con i suoi cinquecentomila abitanti, nonostante fosse la più popolata d’Italia e la quinta d’Europa ( dopo Londra , Parigi , Vienna e Pietroburgo ), divenne solo una piccola parte di quell’unità d’Italia tanto propugnata da Mazzini, Gioberti ed il furbo Cavour, anche se addensava nelle sue visceri ben 61 mila abitanti per chilometro quadrato e vedeva nei suoi” bassi del centro urbano ” dormire anche cinque o sei persone stipate in un’unica camera .
Nulla quindi cambiò con la famosa unità d’Italia e molti continuarono a vivere , privi di impianti igienici e di acqua potabile , nei bui bassi dei loro stretti vicoli , attingendo la loro acqua da pozzi esterni spesso in gran parte infetti e coperti da da montagne di rifiuti.
In città si avvertiva l’abisso tra i ceti ricchissimi e quelli poverissimi. Ma questo contrasto non è fonte di revanscismo sociale, la contemplazione degli abiti e delle toilettes, dei gioielli, delle feste non da luogo a furore ma a diletto tra gli abitanti dei bassi.
L’allegria e la spensieratezza delle classi ricche, l’amore per lo spettacolo, il riverberarsi sia pur marginale dell’impetuoso sviluppo della borghesia nazionale, diedero luogo a Napoli ad un periodo a cui è stato dato poi il nome di “bell’epoque napoletana”.Sopravviveva praticamente in città ancora quel retaggio dei pregiudizi spagnoleschi, in cui a prevalere come importanza sociale era sopratutto l’importanza del decoro esteriore, il tabù del “pare brutto”,, la vanità che,con un vocabolo solo napoletano viene detta “ofanità”. La borghesia abbagliata dai titoli araldici,cresceva imitando la nobiltà e sopratutto scimmiottando la scioperatezza degli aristocratici. È egoista, superficiale, pratica fra l’altro l’usura, frequenta gli stessi locali, gli stessi sarti, cappellai, camiciai dei nobili.
L’incomunicabilità tra le due Napoli rimase dunque immutabile, anzi si andò accentuando. Erano due pianeti che pur girando nella stessa orbita finivano per non incontrarsi mai, se non per occasioni dovute alla carità , o al servizio, Il popolo oppresso era considerato una realta ineluttabile, contropartita di tanta signorile eleganza. La poverta della gente più umile e indigente andava aumentando ed i vasci si andavano moltiplicando a vista d’occhio senza che nessun Governo successivo se ne curasse,
In alcuni antichi quartieri come la Sanità , Forcella o i quartieri spagnoli, quelle strette strade spesso agghindate da delle lenzuola che pendevano dai balconi si mostravano ad un normale viaggiatore come ferite poste tra alti ed antichi edifici,.Essi erano stretti vicoli dove la gente viveva prevalentemente fuori dalla propria abitazione nell’arte del soprravvivere .
La fame e la miseria andava ogni giorno semptre di più ad aumentare e la gente che viveva nei vasci andava anch’essa aumentando ,… le uniche cose che andavano a dimunuire erano invece le condizioni igienico sanitarie considerato elemento importante nella patogenesi del colera.Poco importava infatti se al centro di quel vicolo vi era un rivolo sporco, contenente con l’acqua piovana, i resti dei miseri pasti, la lisciva del bucato, ed anche a volte residui organici; gli effluvi dei bassi erano della peggiore specie; i rifiuti si accumulavano negli angoli per giorni e giorni; l’alimentazione escludeva carne, pesce e vino.
Le condizioni igieniche erano quindi assolutamente disastrose, la plebe si ammassava in fondaci e bassi, La densità della popolazione secondo un censimento dell’81 accertava ben 100.000 abitanti in 30.000 vani,
Di fronte a questo miserabile stato di cose, la gionalista e scrittrice Matilde Serao, attraverso le pagine de Il ventre di Napoli mise spalle al muro il Depretis e di fatto accelerò gli interventi ormai improcrastinabili.
Ecco quanto lei scrive riferendosi all’antica via dei Mercanti,:
Vi avranno fatto vedere una, due, tre strade dei quartieri bassi e ne avrete avuto orrore. Ma non avete visto tutto; i napoletani i stessi che vi conducevano non conoscono tutti i quartieri bassi. La via dei Mercanti, l’avete percorsa tutta? Sarà larga quattro metri, tanto che le carrozze non vi possono passare, ed è sinuosa, si torce come un budello: le case altissime la immergono, durante le più belle giornate, in una luce scialba e morta: nel mezzo della via il ruscello è nero, fetido, non si muove, impantanato, è fatto di liscivia e di saponata lurida, di acqua di maccheroni e di acqua di minestra, una miscela fetente che imputridisce. In questa strada dei Mercanti, che è una delle principali del quartiere Porto, vi è di tutto: botteghe oscure, dove si agitano delle ombre, a vendere di tutto, agenzie di pegni, banchi lotto; e ogni tanto un portoncino nero, ogni tanto un angiporto fangoso, ogni tanto un friggitore, da cui esce il fetore dell’olio cattivo, ogni tanto un salumaio, dalla cui bottega esce un puzzo di formaggio che fermenta e di lardo fradicio?.
In tale situazione igienico- sanitarie , era inevitabile l’apparire di virulenti epidemie come quella che nel 1836 aveva devastato la città. Tutti quei agglomerati prossimi al porto costituivano un terreno fertile per malattie a carattere epidemico .
Anche lo stesso Bartolommeo Capasso, studioso dell’antico e appassionato al glorioso passato della città, sotenendo Matilde Serrao, capì che le cose dovevano cambiare, sposando in pieno l’ideologia del Risanamento.
Ed ecco apparire la terribile tragedia quasi annunciata .
Nella nostra citta nell’agosto del 1884 scoppiò una devastante grossa epidemia di colera che perdurando fino al 1886, causò circa 6000 decessi, pari a due terzi delle morti totali in Italia .Il morbo dilagò nei quartieri popolari senza pietà mietendo vitttime e rendendo evidente l’insostenibile degrado di molte zone della città.
Da pochi mesi era sindaco della città Nicola Amore, uno dei pochi amministratori che davvero seppero adoperarsi per la città, ma purtroppo i provvedimenti lui da presi si rilevarono solo come delle misure tampone che non riuscirono di fatto ad impedire una falcidia di 15 mila vittime sui 30 mila casi di colera accertati.
Nulla era stato fatto dallo stato italiano, quando precedentemente il morbo del colera aveva già colpito la città e nulla era stato fatto per evitarlo . Dopo l’indifferenza che prima regnava nei confronti di questo problema, di fronte alla drammaticità delle condizioni sanitarie presenti, il re Umberto I e il Presidente del consiglio Depretis, furono quindi quasi costretti a partire per Napoli e giunti in città iniziarono a visitare ospedali ed entrare nei quartieri infetti per “rendersi conto di persona di come stavano realmente le cose.
Il neo sindaco Nicola Amore li condusse nelle zone infette, nei «quartieri bassi» della città: Porto, Pendino, Mercato e Vicaria, che costituivano l’antico «Quartiere angioino». e l’epicentro del colera. Non vi erano né acqua né fogne, le condizioni igienico-sanitarie erano pessime. Qui vi abitava la plebe napoletana, calcolata in circa 200.000 persone , quasi due terzi della popolazione (per lo più analfabeti che non avevano diritti civili, tantomeno il diritto di voto).
Non ci volle insomma molto per capire fin da subito che le condizioni igieniche in cui versavano alcune zone della nostra città erano assolutamente disastrose, la plebe si ammassava in fondaci e bassi gremiti di persone in cui si cucinava in uno stambugio, e si mangiava nella medesima stanza dove anche si dormiva
In tale occasione, un nuovo censimento denunciò 22.785 locali di quel tipo, occupati da 105.257 abitanti, e i cosidetti “vasci, cioè dei piccoli locali di alcuni edifici con ingresso dalla strada posti al piano terra di vicoli bui e stretti, dove in non rari casi in poco più di una dozzina di metri viveva una famiglia di almeno otto persone, torvarono celebrità su tutti i rotocalchi italiani.
L’intera Italia a quel punto ( e solo allora ) trasalì, richiamando l’attenzione dell’Europa.
In questo scenario, il re, ed il presidente del Consiglio dopo aver assistito a scene per loro inimmaginabili,e ad uno spettacolo di degrado abitativo impressionante, decisero di mettere fine a questodegrado e fu in questa occasione che il Depretis esclamò quella famosa frase “Bisogna sventrare Napoli”, una frase che rimbalzerà sui giornali, diventerà nota in tutto il paese, e sarà assunta a sinonimo degli interventi urbanistici degli anni successivi.
La reazione di molti napoletani , sopratutto intelletuali, fu negativa.
Ancora una volta la prima a rispondere fu Matilde Serrao che in una scrittura altrettanto efferata e temeraria affermò: “Sventrare Napoli? Credete che basterà? Vi lusingate che basteranno tre, quattro strade, attraverso i quartieri popolari, per salvarli? […] Per distruggere la corruzione materiale e quella morale, per rifare la coscienza e la salute a quella povera gente, per insegnare loro come si vive […] – per dire loro che essi sono fratelli nostri, che noi li amiamo efficacemente, che vogliamo salvarli, non basta sventrare Napoli: bisogna quasi tutta rifarla.”
In questo scenario, non bastava sventare Napoli. Secondo la Serao, che pure alle tradizioni della città aveva dedicato pagine intense, per salvare la povera gente occorreva rifare daccapo la città. Un pensiero che trovava molti intellettuali concordi, in un’epoca in cui gli architetti scrivevano che monumenti come il castel dell’Ovo non avevano più ragione d’essere. Bisognava dire addio al vecchiume, alle strutture greco-romane, ai fondaci e ai vicoli; addio all’amato passato per un futuro diverso. Largo a una città con canoni moderni, alle modifiche atte al progresso.
Dopo questa prima risposta che non si fece certo attendere, Matilde Serao scrisse una serie di articoli, raccolti in una serie di articoli denominati Il ventre di Napoli, in cui ella da una parte difendeva le qualità dei napoletani, cartterizzati da gentilezza di animo, allegria e musicalità,e dall’altra denunciava la sorpresa del governo, che come tale, dovrebbe essere al corrente di tutto.
… è drammatico assai, per un novelliere, girare dopo mezzanotte: e trovare degli uomini che dormono sotto il porticato di San Francesco di Paola, col capo appoggiato alle basi delle colonne: degli uomini che dormono sui banchi dei giardinetti in piazza Municipio; dei bimbi e delle bimbe che dormono sugli scalini delle chiese di San Ferdinando, Santa Brigida, la Madonna delle Grazie, specialmente quest’ultima che ha una scala larga e certi pogginoli ampi: nel centro di via Roma …
La citta partenopea, in seguito all’assenza di un piano regolatore dai tempi di don Pedro de Toledo, era oramai giunta ad una situazione critica .
Zone come quella del Mercato, del Porto, della Vicaria, del rione Santa Brigida con il loro fondaci, edifici fatiscenti e condizioni sociali ai minimi storici erano solo i tristi protagonisti del degrado partenopeo che accompagnava la città da tempo immemore.
Fu insomma solo l’epidemia colerica del 1884 a far decidere, finalmente, le autorità centrali a risolvere la questione del risanamento di Napoli che si dibatteva fin dai primi tempi dell’unificazione.
Fu solo allora che un vero piano di Risanamento di certi luoghi venne pensato e poi realizzato grazie al sindaco Nicola Amore, il Ministro degli Esteri Stanislao Mancini e il Primo Ministro Agostino DePretis . Affidato ad Adolfo Giambarda ,il progetto prendeva spunto dallo sventramento di Parigi del 1853 ad opera dell’architetto Buolevard Haussmann su incarico di Napoleone III.
Il governo approvò nel 1885 la Legge speciale per Napoli con una sovvenzione di 100 milioni dilazionati in 12 rate annuali.
CURIOSITA’: L’idea di “sventrare Napoli”, come disse il ministro Agostino Depretis, non fu propriamente italiana. Molti progetti furono ripresi dagli archivi dei Borbone che già nel 1828, riteneva essenziale la costruzione di arterie ampie e luminose in città per risanare i quartieri popolari di Napoli. Furono a questo proposito commissionati alcuni studi preliminari mai realmente attuati per soli motivi religiosi .Come vi abbiamo precedemente già detto , la reale ragione che bloccò i progetti di Francesco I e Ferdinando II fu solamente la loro fedeltà alla religione cattolica, che poi fu più o meno anche la stessa motivazione che spinse poi Ferdinando II a non accettare le proposte di unificazione d’Italia .I Borbone non volevano fare alcun torto al papato e al mondo cattolico e quei progetti borbonici non furono quindi mai attuati infatti solo per l’opposizione delle centinaia di conventi, monasteri e chiese disseminate in tutto il territorio napoletano. Era impossibile costruire una strada diritta senza demolire almeno due chiese o radere al suolo qualche chiostro e, per i cattolicissimi Borbone, un’attività del genere era impossibile da realizzare.
La legge in merito allo sventramento fu approvata il 15 gennaio 1885, ma dovettero passare ancora quattro anni e mezzo per passare dalle parole ai fatti. La posa della prima pietra avvenne il 15 giugno 1889 e la cerimonia, che si svolse nella Piazza di Porto, fu presenziata dai sovrani Umberto I e Margherita di Savoia.
Intervennero delegazioni delle arti e dei mestieri; l’arcivescovo di Napoli, il presidente del consiglio dei ministri, rappresentanti del governo e del parlamento e le autorità cittadine.
La Piazza e la Strada di Porto, come tutta la zona circostante, erano imbandierate e brulicavano di folla. Per ricordare l’avvenimento c’è un marmo sulla facciata del maestoso edificio che fa da sfondo alla Piazza della Borsa, all’estremo limite sinistro, dove il palazzo ta angolo con Via Depretis.ADDI 15 GIUGNO 1889
NICOLA AMORE SINDACO DI NAPOLI Sa. Mª. UMBERTO I RE D’ITALIA CON L’INTERVENTO DELLA REGINA MARGHERITA DI S.A.R. IL PRINCIPE DI NAPOLIDEL CARD. SANFELICE E DEL POPOLO FESTANTE
POSE LA PRIMA PIETRA
PEL RINNOVAMENTO DELLA CITTA’ QUÌ NEL VECCHIO MERCATO DI PORTO TRASFORMATO POI NELLA GRANDE PIAZZA DELLA BORSA 1900.Bisogna sventrare Napoli”, rimase comunque la frase alla moda di quei tempi ; sembrava che il Governo centrale non desiderasse altro che far sparire da Napoli le abitazioni malsane.
La legge dava poteri quasi illmitati al Comune di Napoli, che nelle intenzioni iniziali avrebbe dovuto ricopiare ciò che era stato fatto a Parigi e Londra pochi anni prima con la bonifica dell’intera città.
Depretis, che non era uno qualsiasi, temeva perà che tutto questo potesse trasformarsi in una vera speculazione edilizia , Egli sapeva che Napoli non era una città come Parigi o Londra, Temeva la Camorra da sempre presente in città e le sue infiltrazioni politiche nel sistema.
Per evitare quindi il rischio che politici corrotti e dubbi imprenditori , si facessero ingolosire dalla vista di quel fiume di denaro, fece bandire delle prime gare di appalto con criteri d’ammissione estrememente rigidi . Il risultato fu ovviamente un vero fallimento perchè nessun imprenditore aveva intenzione di assumersi dei rischi perdendo tempo con le espropriazioni di migliaia di edifici antichi civili e religiosi, oltre a non credere molto nelle potenzialità economiche di nuovi quartieri popolari.
Il Presidente del Consiglio Crispi a quel punto risolse il problema costituendo un’impresa n con capitale pubblico, la famosa “Società pel risanamento di Napoli”.
N.B. Oggi la società esiste ancora ed è una s.p.a. con sede a Milano e si occupa di compravendita immobiliare .
Il Governo De Petris fortemente intenzionato a riqualificare una vasta area della città,, quella più degradata, avviò quindi di fatto una vasta operazione di espopriazioni immobiliare che svuotò interi quartieri .
La trasformazione urbanistica ed edilizia, necessitava comunque della istituzione di un nuovo regolamento igienico e a questo segui quindi una intensa attività, tesa a organizzare e finanziare una grossa impresa di bonifica, consistente nella realizzazione dell’acquedotto del Serino e di un nuovo sistema fognario,.
Dopo 5 anni di espropriazioni , iniziarono finalmente i lavori di demolizione .
Il sindaco Nicola Amore affidò ad un valente tecnico del comune, l’ingegner Giambarba, lo studio del progetto, ed a tempo di record, si pervenne nell’ottobre dell’88 alla gara di appalto, vinta dalla Società per il Risanamento della città di Napoli, costituita da un gruppo di banche e gruppi finanziari di Roma, Firenze e Torino.
CURIOSITA’: La Banca Tiberina e la Società dell’Esquilino, forti dell’appoggio politico di Casa Savoia e di buona parte della politica nazionale (che pochi anni dopo sarebbe stata coinvolta nel più grande scandalo finanziario d’Europa, lo scandalo della banca romana), si aggiudicarono tutti gli appalti pubblici del Comune di Napoli.
N.B. La mancanza di soggetti napoletani, attaccata aspramente da esponenti locali, non bastera’ a lasciare la città fuori dalle pastoie degli scandali, che immancabilmente si svilupparono.
Napoli divenne allora un immenso cantiere aperto, e se precedenttemente gli imprenditori non avevano visto di buon occhio lo sventramento dei quartieri storici, le banche sabaud einvece capirono bene che c’era una gallina dalle uova d’oro sulle colline e nella zona ovest di Napoli,
L’occasione che si presentava eraperò troppo ghiotta anche per la Camorra che con i partiti locali avevano una inveroconasa saldata alleanza , L’’Onorata Società aveva molti suoi affiliati nel Comune di Napoli, tramite essi egestiva appalti, manovalanza e cantieri.
In quel periodo, le gare di appalto per le opere pubbliche venivano vinte sempre dai stessi soggetti .
Alcuni terreni comprati con ribassi insoliti ed ingiustificabili dalle stesse persone venivano poi espopriati dal comune pagandoli con rialzi colossali dei prezzi .Cifre che presto che scandalizzarono l’opinione pubblica e fecero discutere molto la politica nel parlamento di Roma.
Il pressappochismo che caratterizzarono questa organizzazione incomincio quindi a destare molti sospetti sui reali intimi obiettivi che dettavano questi acqusti dei terreni .
Proprio in quell’anno l’ingegnere-capo del comune, Adolfo Giambarba, scrisse allarmato che “La febbre dell’acquisto dei terreni ha invaso gli speculatori, sonosi comprati fondi duplicandone il valore e ciò ha menato ad un aumento sensibile nei prezzi di rivendita delle aree edificabili”.
Insomma, nel 1888 era ormai chiaro che l’operazione Risanamento di Napoli si era trasformata da intervento di pubblica utilità in una speculazione che coinvolgeva ogni più bieco aspetto della politica, imprenditoria e criminalità.
Tutto questo portò anche ad un commissariamento del Comune nel 1891( Napoli fu commissionata ben 10 volte in 20 anni ) per i rallentamenti nei lavori, gli scandali finanziari e gli illeciti amministrativi: arrivò un magistrato ligure, Giuseppe Saredo. Fu lo stesso che, nel 1900, sarebbe diventato il protagonista dell’inchiesta sulla “Camorra Amministrativa” di Napoli.
CURIOSITA’ : Proprio in quell’anno Matteo Schilizzi, banchiere trasferitosi a Napoli per motivi di salute ed attratto dalla speculazione edilizia di quegli anni, fu il principale finanziatore di Edoardo Scarfoglio, il fondatore del Mattino, in cui si lanciava in fortissime accuse contro la corruzione di tutti i potenti di Napoli.
A Napoli, nella fine dell’800, ci fu un vero e proprio triangolo di potere guidato dal deputato Alberto Casale, il sindaco Celestino Summonte ed il direttore del Mattino Edoardo Scarfoglio, che gestivano ogni aspetto dell’informazione pubblica, della politica e dell’economia napoletana.
Basterà pensare alla sfuggente figura dell’onorevole Alberto Casale che era considerato l’”uomo ombra” di Napoli: gestiva ogni aspetto della vita amministrativa e politica della città senza alcuna carica diretta. Fu addirittura coniato un termine, “casalismo”, per indicare quella corrente politica legata strettamente al potere criminale della Napoli di fine ‘800.
L’unico politico che condannò il sistema politico napoletano fu Francesco Saverio Nitti. Scrisse sul Mattino di “non conteggiare i voti del napoletano” perché, “nonostante vivessero in città tante oneste persone, ogni elezione era già decisa“.
Gaetano Salvemini rincarò la dose con una sentenza lapidaria: “Napoli ha fama di essere oramai così profondamente immorale da non essere più capace di redimersi da sé”.
Una caricatura del sindaco di Napoli e dei suoi “cani”, gli amministratori corrotti della città
Per realizzare e portare a termine il risanamento della città ci fu quindi una lotta continua, degli amministratori locali e degli uomini politici, meridionali e meridionalisti, contro l’ostilità, l’incomprensione e l’ostruzione burocratica del potere centrale. Si distinsero in questa lotta, per volontà e tenacia, Gennaro Maria Sambiase, duca di San Donato che, tra l’altro, promosse la prima campagna di bonifica con la demolizione dei fondaci del Porto, e Nicola Amore che fu l’anima della realizzazione. Entrambi ricoprirono, a turno, la carica di sindaco, ma sempre, prima, durante e dopo il mandato, non cessarono di adoperarsi per superare dificoltà, contrasti ed opposizioni, affinchè il risanamento di Napoli fosse portato a compimento.
N.B, Al duca di San Donato è intitolata una strada che dal Corso Umberto I sbocca in Via Nuova Marina, mentre a Nicola Amore fu intitolata, in un primo tempo, l’odierna
Via Depretis e poi la Piazza attuale che viene comunemente chiamata « i Quattro Palazzi » al centro della quale gli fu eretta una statua. Questa statua che raffigura il grande sindaco, ritto con la mano protesa, stava lì in mezzo alla sua opera, come per indicarla ai passanti; ora si erge in Piazza Vittoria nel giardinetto antistante la chiesa. ( vi fu traslocata nel 1938, in occasione della venuta di Hitler a Napoli, per fare del Corso Umberto I un rettilineo senza ostacoli per la sfilata del corteo delle automobili).Il Governo De Petris qundo avvio i lavori, voleva di faftto compiere una vasta operazione diRiquakificazione delle zone più degradate di Napoli, che portò purtrppo a radere al suolo interi quartieri . L’intervento si concentrò sull’abbattimento degli edifici, compresi quelli storici, invece di puntare sul loro risanamento, sulla costruzione di reti fognarie e sulla realizzazione di un sistema pubblico per la raccolta dei rifiuti e, per questo, fu pesantemente criticato.
N.B. Molti accusarono questo piano di bonifica di favorire solo un’enorme speculazione, aprendo la strada all’edificazione di nuovi quartieri residenziali nei vecchi rioni popolari espropriati ai poveri, senza, tuttavia, destinarli alle classi meno abbienti, che continuarono a vivere in zone fatiscenti e in condizioni igieniche molto precarie.
Iniziati i lavori, la Società per il Risanamento di Napoli, appaltatrice dei lavori di demolizione e ricostruzione, si mpegnava a costruire su nuove aree abitazioni a prezzo ridotto, secondo l’apposita legge emanata, per le famiglie che abitavano le case demolite.
Il piccone demolitore sventrò quindi i vicoli, i budelli ed i fondaci di quella zona compresa tra l’attuale Piazza Municipio e Via Guglielmo Sanfelice e dalla Piazza della Borsa alla Ferrovia: furono aperte con questi lavori via Depretis (Via di Porto diventò Via Agostino Depretis) Piazza della Borsa ( Piazza di Porto, divenne Piazza della Borsa).
Il primo intervento, il più urgente, fu lo sventramento dei cosiddetti quartieri bassi: Porto, Pendino, Mercato e Vicaria, poiché erano situati sotto il livello naturale delle acque. Fu costruito, previo elevazione del livello stradale di 3,5 metri, il Rettifilo, denominato corso Re d’Italia e in seguito corso Umberto I.
Esso collegava la stazione Centrale, mediante una biforcazione all’altezza di piazza Bovio, con via Medina da un lato e piazza Municipio dall’altro. Il Rettifilo comprendeva due piazze, la prima, piazza Nicola Amore, all’incrocio con via Duomo e la seconda, piazza Bovio, subito dopo l’incrocio con via Mezzocannone. Inoltre si costruirono otto strade ortogonali al Rettifilo che collegavano lo stesso con via Marina e, al lato opposto, con i decumani. Inoltre fu costruita una strada, simmetrica al Rettifilo, che congiungeva piazza Garibaldi a via Carbonara (via Alessandro Poerio) e un’altra tra le due precedenti che congiungeva piazza Garibaldi con Forcella (via Mancini). Su tutte queste strade furono costruite due cortine di nuovi edifici destinati a uffici e abitazioni della media borghesia, alle spalle delle cortine convissero a macchia di leopardo nuovi e vecchi edifici.
N.B.In questo Corso, dall’angolo di Via Mezzocannone alla zona di Portanova, fu costruito il maestoso edificio dell’Università che, iniziato il 1897, fu terminato nel 1908.
I lavori, che furono effettuati dalla società Risanamento, terminarono nel 1894.
Gli stessi poi proseguirono dapprima sistemando la piazza antistante la stazione ferroviaria che fu chiamata Piazza Unità Italiana e poi, dopo l’installazione del monumento a Garibaldi, avvenuta nel 1904, appunto Piazza Giuseppe Garibaldi.
Si provvide poi al prolungamento del Corso Garibaldi fino a piazza Carlo III dove si crearono le premesse per uno sviluppo urbanistico che interessò la parte orientale della città. Sorsero infatti in questa circostanza , due nuovi Rioni alle spalle delle due estremità del Corso Garibaldi, che nel frattempo era stato prolungato e si estendeva da Via Marina a Piazza Carlo III. e costruite altre due vie simmetriche al corso Garibaldi che si diramavano dall’Albergo dei Poveri in piazza Carlo III , le odierne via S. Alfonso dei Liguori e via Mazzocchi/via Lahalle.
N.B. Il rione meridionale fu costruito nell’area compresa tra: Il Borgo Loreto, Via S. Cosmo fuori Porta Nolana, Via Stella Polare (oggi Corso Arnaldo Lucci) ed il fossato della ferrovia Circumvesuviana.
Seguendo le direttice del piano regolatore si cercà di risanare anche un rione che si trovava nella parte orientale della città. L’altro, il rione settentrionale, sorse tra: Il Corso Garibaldi, l’Arenaccia, ( desinato alle famiglie operaie), Via Casanova e Piazza Carlo III.
Anche l’edilizia privata contribuì al risanamento di Napoli e costruì, seguendo le direttive del piano regolatore del Comune, un rione nella parte orientale della città che era, in maggior parte, costituita da « paludi ». Dopo aver bonificato le zone paludose a momte della strada ferrata,, il nuovo rione venne poi delimitato a nord dalla Via e Ponte di Casanova, a sud dal lato settentrionale della Piazza Garibaldi, ad est dal muro finanziere del Corso Orientale (poi Corso Malta ed oggi Via Giovanni Porzio) e ad ovest dal tratto del Corso Garbaldi, dalla piazza omonima all’angolo di Via Casanova. Il nuovo rione si chiamò, e tuttora si chiama, Vasto, perchè, probabilmente, i luoghi erano in origine possedimenti della Casa d’Avalos, dei marchesi del Vasto: le abitazioni di questo rione furono destinate principalmente alla piccola borghesia impiegatizia della città.
N.B. dalle opere di risanamento svolte in questo luogo ne derivò uno slargo, denominato piazza Nazionale, dal quale ebbero origine 10 strade a forma di raggiera.
Tra il 1860 ed il 1880 vennere portati a termine anche altri due progetti ; il primo interessava lo sviluppo urbanistico della zona a monte della riviera di Chiaia; abbandonato un progetto iniziale ben più ampio, questi lavori alle fine si lmitorono però alla sola costruzione di una nuova strada che collegava la riviera di Chiaia al corso Maria Teresa, oggi denominato corso Vittorio Emanuele, e seguiva il percorso delle odierne via Martucci, piazza Amedeo, via Crispi, via Pontano. All’interno di detto quadrante denominato rione Amedeo furono costruiti edifici destinati alla ricca borghesia della città. Dopo il 1884, con il secondo progetto, fu prolungata la odierna via Vittoria Colonna, che congiungeva piazza Amedeo con la chiesa di S. Teresa a Chiaia, fino a via Chiaia, creando due tratti denominati via dei Mille e via Filangieri, ai lati di queste vie furono costruiti edifici destinati all’alta borghesia cittadina.
N.B. Il primo iniziale progetto ben più ampio che interessava tutto il quartiere Chiaia, dall’attuale piazza dei Martiri fino al termine dell’attuale via Crispi; esso era stato presentato dalla ditta Pianell, che aveva vinto la gara dei lavori ma che rinunciò per questioni legali che non fu possibile superare.
Nel 1861, fu indetta la prima gara relativa alla costruzione di una nuova strada, oggi denominata via Bellini, tra il Museo Nazionale e piazza del Gesù, per favorire la costruzione di un quartiere destinato alla borghesia nel quadrante Museo, via Pessina, piazza del Gesù, via Costantinopoli. La strada in costruzione, affidata all’impresa Errico Hetch, per impedimenti frapposti dai proprietari di alcuni palazzi, si fermò però a pochi passi da largo Mercatello (dal 1871 denominato piazza Dante), senza raggiungere il Gesù Nuovo; verso il museo trovò il suo limite nella costruzione della galleria Principe di Napoli degli architetti Breglia e De Novellis, attraversando la quale si sbucava di fronte al Museo Nazionale.
Negli stessi anni fu anche iniziato l’ allargamento dell’antico cardine, oggi via Duomo.
N.B. Nel fare l’attuale Via Duomo si dovette procedere a tratti, il primo tratto allargò a 16 metri la vecchia strada tra via Foria e il Duomo, si proseguì poi fino alla Vicaria vecchia, oggi via Forcella, per proseguire solo nel 1880 fino alla via Marina, con l’abbattimento di un’ala della chiesa di s. Giorgio Maggiore e con la ricostruzione della facciata della stessa.
Una bella sistemata dalla società immobiliare di Roma, venne anche data a piazza del Castello (in seguito piazza Municipio), dove si abbatterono le mura e i bastioni di costruzione vicereale presenti intorno al Maschio Angioino e tutti gli edifici che erano sorti nel tempo addossati a detti bastioni,
Si venne così a creare una grande piazza estesa fino al porto che da una lato era delimitato da una cortina di edifici adibiti ad alberghi (Grand Hotel De Londres) e abitazioni, oltre all’antico teatro del Fondo, oggi teatro Mercadante, mentre dal lato opposto svettava il Maschio Angioino circondato dal fossato protettivo.
N.B. Nei recenti lavori della stazione Municipio della metropolitana sono riemersi i resti dei bastioni e delle mura vicereali.
CURIOSITA’ :Con quei sventramenti traumatici fu anche eliminato il quartiere Montecalvario, con la costruzione della Galleria Umberto.
In quel vicino Rione Santa Brigida (che prendeva il nome dalla chiesa degli Svedesi), prima del risanamento, abitavano ammassati in uno stretto groviglio di strade parallel raccordate da piccoli vicoli, più di 6500 persone in appena 14.200 metri quadri. Si trattava di vicoli che da Via Toledo sboccavano di fronte al Maschio angioini, che avevano una pessima fama, Essi erano infatti pieni di taverne e case di malaffare, dove avvenivano delitti di ogni tipo.
Alla fine del XIX secolo il degrado in questa zona raggiunse con i suoi edifici a sei piani in cui la situazione igienica era pessima, il suo apice massimo, tant’è che la zona, tra il 1835 ed il 1884, fu teatro di ben nove epidemie di colera. . Nel progetto del Risanamento venne quindi inglobato anche la rivalutazione di questo malfamato Rione .
Accadde così che i vecchi e malsani edifici in via Santa Brigida e nei suoi immediati dintorni furono tutti abbattuti e furono costruiti al loro posto palazzi destinati ad abitazioni, il più importante dei quali fu il palazzo dei “borghesi” che affaccia di fronte al castello, inoltre fu creata la galleria Umberto I con i suoi quattro edifici circostanti. I lavori terminarono nel 1897 con la sistemazione del monumento dedicato a Vittorio Emanuele II nella piazza Municipio.
Nel il Rione Santa Brigida erano comunque presenti due dimore ecclesiastiche: la chiesa di San Ferdinando di Palazzo e la chiesa dei Lucchesi . Questi edifici, delimitavano proprio il perimetro della settecentesca Via Santa Brigida e che in passato si chiamava Strada di San Francesco.
Fortunatamente , nonostante i progetti di abbattimento da molti proposti, le chiese furono risparmiate dalla furia demolitrice di quei tempi e rimasero dov’erano e con lo stesso stile.
Tutto il resto intorno venne abbattuto ed i luoghi sventrati vennero coperti con un’opera in ferro e vetro sulla falsariga dell’opera di Mengoni a Milano , ma più alta di 10 metri,
Nasceva così in appena tre anni, la Galleria Umberto I , progettata dall’ingegnere Paolo Boubeè, Luigi Emanuele Rocco, Ernesto di Mauro e Antonio Curri, su tre piani in stile liberty.
CURIOSITA’: I suoi meravigliosi pavimenti policromi hanno una particolarità , che si svela in corrispondenza della cupola: mostrano i mosaici con i segni dello zodiaco, realizzati dalla ditta veneziana Padoan, ma non tutti sanno che questa è una “new entry” avvenuta nel 1952, per sostituire la pavimentazione originale, danneggiata dalla guerra.
La galleria famosa tra I nostri nonni per essere la “sede” degli sciuscià ,( i lustrascarpe)ancora oggi ospita il famoso Salone Margherita, che è stato il primo cafè-chantant d’Italia della Belle epoque, e sede dello svago notturno d’intellettuali come Gabriele D’Annunzio, Matilde Serao , Salvatore Di Giacomo, Ferdinando Russo, Crispi, Scarfoglio ed i principi ereditari di casa Savoia (Vittorio Emanuele).
Curiosita’: Dopo la fine della seconda guerra mondiale, per bonificare il vecchio rione Carità , l’amministrazione comunela di allora, decise far sorgere al posto della chiesa dei Fiorentini il brutto palazzo della ” Standa . La chiesa dopo la fine della guerra, nonostante i bombardamenti, stava sempre in piedi ed appariva ancora perfettamente solida, a dispetto dei suoi quattrocento anni. eppure, malgrado ciò, la cieca amministrazione comunale decise di espropriare e lottizzare l’intero «Rione San Giuseppe Carità» per darlo in pasto alla speculazione edilizia ( era il periodo di Achille Lauro ).
La stolta amministrazione di colui che con la sua anonima e brutta edilizia ha come pochi altri deturpato la nostra bella città , portò così alla scomparsa di uno storico edificio cui furono devoti i mercanti toscani concentrati in quella zona a Napoli , e con esso anche i resti mortali seppelliti in quella chiesa , del famoso ministro Bernardo Tanucci . Le spoglie del potente segretario di stato durante il regno borbonico , sono poi state fortunosamente ritrovate in un ipogeo presente sotto la chiesa di Sant’Anna dei Lombardi ( vedi articolo ).
La bella chiesa, fondata nella prima metà del quindicesimo secolo da Isabella d’Aragona, dove esistevano pregevoli opere d’arte come otto statue del Naccherino e pregevoli dipinti di Marco Pino e Giovanni Balducci nonchè sull’altare maggiore, nonchè una bella Natività di Cristo di Marco da Siena , una volta abbattuta , perché la sua presenza ostacolava gli interessi degli speculatori venne “ricostruita ” all’Arenella in un contesto moderno . Nella nuova chiesa l’intero patrimonio artistico e storico della vecchia chiesa .non trovò però adeguato spazio riuscendo ad accogliere solo nove dipinti provenienti dalla vecchia chiesa e nemmeno una statua. Dopo la demolizione otto statue di marmo di Michelangelo Naccherino e bottega raffiguranti Apostoli e Profeti furono collocate nella Basilica dell’Incoronata a Capodimonte, mentre solo nove tele dei pittori toscani Marco Pino, Giovanni Balducci e Pompeo Caccini furono portate nell’attuale chiesa di San Giovanni dei Fiorentini.
Lungo Via Caracciolo venne invece sistemata la spiaggia antistante la villa comunale, mentrebel 1870,iniziarono altri lavori incominciarono anche nella zona del Chiatamone e di S. Lucia. I lavori, una volta iniziati furono divisi in due tronchi: il primo interessava il borgo di S. Lucia fino a piazza Vittoria, il secondo andava da piazza Vittoria fino a Mergellina.
Il primo tronco coinvolse la zona del Chiatamone dove, attraverso una colmata a mare, venne creato un paravento di palazzi affacciati sul costa, dove oggi sono presenti lussuosi hotel, che trasformarono via Chiatamone da lungomare in strada interna, sostituita sulla costa dalla attuale via Partenope.
Il secondo tratto, da piazza Vittoria a Mergellina, fu fatto con una colmata a mare che ampliò verso la costa la Villa Comunale con la creazione del galoppatoio e della attuale via Caracciolo; questa fu considerata la più bella creazione urbana dell’800; i lavori terminarono solo nel 1893.
Il borgo di S. Lucia, popolato da pescatori, fu interessato dai lavori solo a partire dal 1895. Le famiglie di pescatori furono trasferite nelle case del borgo marinaro sull’isolotto di Megaride, accanto al castel Dell’Ovo; attraverso la colmata a mare si creò il rione Orsini tra via s. Lucia e la nuova via Nazario Sauro, mentre le attuali via Acton e via Cesario Console presero il posto della antica salita del Gigante.
Da questa totale devastazione della citta si salvò per fortuna dalla demoliizione Castel dell’Ovo che doveva far spazio ad un uovo rione caratterizzato da moderni edifici. Quello che oggi è il pittoresco borgo di Santa Lucia era infatti anticamente una strada di costiera, e il suo antico aspetto venne in quella circostanza radicalmente stravolto da lavori di ampliamento della citta’ verso il mare . Le strade del nuovo quartiere caratterizzato da moderni edifici fino ad allora inesistenti dovevano in un primo progetto estendersi fino ad occupare anche gli spazi di quel vecchio castello dove invece poi si pensò di costruire un ghetto per i pescatori di Santa Lucia ( borgo marinari) sfrattati, per giunta in un’area incapace di contenere il numero elevatissimo di nuovi senzatetto.
N.B. Con i lavori ottocenteschi che tolsero a via Santa Lucia il suo antico assetto di lungomare , resto’ intatto alle sue spalle il solo borgo arroccato di pescatori che porta il nome di Pallonetto di Santa Lucia , ed e’ costituito da un fitto dedalo di vicoli e di supportici che salgono verso la zona di Monte di Dio.
Ovviamente gli appalti per i lavori avvenuti nel tratto di Santa Lucia dal piccone risanatore speculativo, vennero tutti vinti e aggiudicati alla Società Geisser e Società Generale Immobiliare che erano tutte imprese con sede a Torino .
Lungo la vicina riviera di Chiaia la villa comunale fu invece definitivamente separata dalla spiaggia e fiancheggiata dall’odiena asfaltata via Caracciolo . Con la colmata di cemento che cancellò completamente l’antica spiaggia, la nuova strada progettata da Enrico Alvino , stravolse cosi , il progetto vanvitelliano con l’affaccio diretto sul mare.
Poichè, come vi abbiamo già accennato l ìultimo piano regolatore della città risaliva alla metà del 500 durante il vice regno di don Pedro de Toledo, approfittando del Risanamento, finalmente furono presi dei provvedimenti anche per altre situazioni in giro per Napoli.
Nell’ambito del Risanamento, furono introdotti i collegamenti stradali con il quartiere Vomero tramite via Falcone e Via Tasso nonchè il collegamento tramite il prolungamento di via Foria con piazza Carlo III , della Stazione con il nucleo antico della città,.
Dopo i primi provvedimenti per collegare Via Toledo e il Museo si pensò di migliorare anche il collegamento di via Marina e Capodimonte ed infine migliorata anche la zona tra Piazza Municipio e Palazzo Reale.
Da tutto quello che vi abbiamo detto, vi può apparire che questi lavori siano stati utili ed in verita qualcosina ha risolto, ma in maniera insufficiente, provvisoria e comunque irrispettosa nei confronti di quelle che erano le reali esgenze della città.
Alla fine il Risanamento, con i suoi lavori, finì per segnare una netta e definitiva separazione fra città ricca e povera , creando un’anomalia mai vista in città: per millenni nobili e pezzenti avevano frequentato le stesse strade. A partire dalla fine del XIX secolo, la borghesia felicemente si trasferì fra Vomero, Corso Umberto e Chiaia, vivacchiando chiusa fra salotti, teatri e case da gioco. E della plebe nessuno volle più sentirne parlare.
Tra i problemi evidenziati nel corso della seconda metà dell’Ottocento, vi erano infatti sopratutto le condizioni di miseria in cui versava il popolo napoletano. Per questo motivo,le nuove abitazioni del corso dovevano avere la giusta grandezza e il giusto costo. Tutti i napoletani avrebbero dovuto avere la stessa dignità sociale in una zona dove il nuovo stile liberty si stava andando a delineare. Ovviamente, ancora una volta, non furono rispettati i piani: basti pensare che la società francese a cui furono affidati i lavori fallì, per cui il Banco di Napoli e la Banca d’Italia scesero in campo per fronteggiare la crisi economica della società.
Questo ” famoso ” RISANAMENTO” alla fine si limitò solo a d elevare una specie di paravento dinanzi alla Napoli dei vicoli. Furono abbattute anche vecchie case patrizie, ma il sudiciume dei bassi rimase. Si trattò insomma di una bella lavata di faccia. che solo nascose la città povera. I poveri dopo essere stati sfrattati , furono ammassati nei fondaci rimasti o, i più fortunati, fuggirono nei casali della provincia di Napoli, dando origine alla crescta incontrollata dell’hintrland napoletano.
Con la legge del Risanamento e le conseguenti mutazioni urbanistiche furono solo risolti i bisogni igienici più impellenti della città, essa non ebbe più a subire epidemie come quella sofferta nel 1884, ma non furono purtroppo risolti i principali problemi di edilizia popolare; la parte dei quartieri bassi che non furono sventrati continuarono a essere il rifugio abitativo malsano per la popolazione più povera.
N.B. Quella zona della città fu distrutta dai bombardamenti che interessarono il porto e via Marina durante la seconda guerra mondiale. Gli abitanti di quei quartieri rimasti senza casa furono trasferiti alla fine degli anni 50 a Fuorigrotta, in un nuovo quartiere di edilizia popolare chiamato Rione Traiano. Solo allora fu completato quasi del tutto il risanamento dei quartieri bassi.l 1866 a museo per volontà di Giuseppe Fiorelli, annessa al Museo Nazionale come sezione staccata ed aperta al pubblico nel 1867.
I nomi dati alle nuove strade dopo il risanamento, non tennero in nessun conto della storia dei luoghi e furono tutte chiamate con nomi di città. Da Torino a Palermo, da Milano a Bari, da Venezia a Salerno…
Una strada fu chiamata Via Nazionale unitamente alla grande piazza, nella quale sboccava e che fino alla fine degli anni venti fu la sede del mercato ortofrutticolo.
Dalle macerie dello sventramento sorse il Corso Re d’Italia, nome che dopo il regicidio fu tramutato in quello attuale di Corso Umberto I ma comunemente chiamato« il Rettifilo ».che arrivava fino alla ferrovia
Sul piano edilizio, i palazzoni di corso Umberto, col loro stile umbertino, non sono di certo un esempio di architettura pregevole; sul piano urbanistic. , La creazione di un grosso stradone, a scapito di antichi monumenti, e opere d’arrte ha infine tolto alla città solo importanti spazi aal cultura napoletana,.
N.B. Per comprendere questo tipo di interventi bisogna ricordare che é lo spirito dell’Ottocento, che ha visto la nascita della moderna urbanistica, che li prevedeva. Piú o meno é dello stesso periodo (qualche decina d’anni prima)infatti anche la trasformazione di Parigi. La capitale francese tra il 1852 ed il 1870 , dovette infatti subire un analogo completo processo di modernizzazione da parte Napoleone III e dal prefetto Haussmann. Il progetto toccò tutti gli aspetti dell’urbanistica e dell’urbanizzazione di Parigi, sia nel centro della città, che nei quartieri esterni: strade e viali, regolamentazione delle facciate, spazi verdi, arredo urbano, fognature e rete idrica, attrezzature e monumenti pubblici. La cittá “vecchia” fu letteralmente rasa al suolo e quello che fu edificato é, sostanzialmente, ció che vediamo ancora oggi.
Ma il processo di Risanamento di Napoli , si rivelò alla fine solo una brutta copia di quello francese.
Esso è assai lontano dal poter essere paragonata ai boulevards parigini di Haussmann.
Essa lascio inalterata la struttura dei vicoli, nascosta unicamente dietro un “paravento “, come fu denunciato da Matilde Serao.
L’immagine che sopra potete osservare ne è la prova .
Si tratta della facciata all’altezza del civico 272, che non si poté abbattere per la presenza di edifici retrostanti stante la loro rilevanza funzionale e monumentale, ma che per dare uana continuitá stilistica e formale al “Rettifilo” (stessa linea, stesso stile e stessa altezza degli edifici) dovette subire la costruzione di una finta facciata, in stile neorinascimentale in grado di nascondere la disomogenea preesistenza
Il trascorrere del tempo, e la mancanza di manutenzione, hanno comportato il venir meno delle persiane di legno che chiudevano la luce delle finestre. Tale fattispecie permette oggi di guardare all’interno della facciata rivelando la natura posticcia della costruzione
Questo é ovviamente un caso particolare dovuto alla estrema rilevanza storica e monumentale del retrostante complesso monumentale dell’Annunziata. Per il resto degli edifici di Corso Umberto non si ebbero analoghe “delicatezze”. Gli edifici preesistenti furono abbattuti, e/o affettati, e le facciate vennero tutte rifatte, ex novo, in un unico e uniforme stile neorinascimentale.
In occasione dell’operazione del cosidetto Risanamento Urbanistico, della Cittá di Napoli, per aprire il nuovo asse viario del Corso Umberto, , furono abbattuti un numero considerevole di edifici che precedentemente si trovavano in quel posto. furono letteralmente affettati, ridotti di dimensione e arricchiti con nuove e scenografiche facciate
Il «quartiere angioino» venne risanato con estesi, micidiali «sventramenti» (Barbagallo preferisce l’eufemistico «ristrutturazioni»): furono demolite ben 63 tra chiese e cappelle (in prevalenza medievali), ma solo pochi reperti furono inventariati e portati nel Museo Donnaregina.
Estremamente biasimevole poi la mancanza assoluta di verde, che ancora oggi affligge il centro di Napoli. Unica opera meritoria, in verità obbligatoria, fu la creazione di un sistema idrico e fognario.
Il risultato finale di questo RISANAMENTO, quindi, a dir la verita certo non fu dei migliori,
Purtroppo quasi nessuno si oppose a tale scempio . Anche gli intellettuali, come Bartolomeo Capasso e perfino Croce, sostennero il Risanamento quale intervento di bonifica igienico-sanitaria. Raffaele D’Ambra, l’autore di Napoli antica ( 1889), esortò senza remora a espellere la plebe dal centro storico «perché le evoluzioni sociali e sanitarie lo esigevano irreparabilmente».
Lo stesso Benedetto Croce (Napoli nobilissima, 1894), mentre si ergono i palazzi del Risanamento, che pure giudicherà «edifici pomposi», scrive: «In quei palazzi bisogna vedere le macchine esecutrici di una giustizia… Sono vere ghigliottine, che tagliano la testa a centomila sozzure messe in fila…». Egli si prodigò per salvare le opere d’arte delle chiese demolite, ma restò indifferente di fronte al dramma di migliaia di famiglie: la «Società per il Risanamento» provvide infatti subito agli espropri e a «gettare sul lastrico» 877.500 abitanti non abbienti. In maggioranza si ammassarono nei vicoli limitrofi e persino nelle grotte di Monte Echia.
Eppure il patriota risorgimentale Luigi Settembrini qualche anno prima aveva proposto di bonificare gradatamente i quartieri bassi diradando man mano quelle affollate abitazioni, e giudicava — come ricorda Barbagallo — il progetto del «Rettifilo», sul modello parigino di Hausmann, espressione del despotismo di Napoleone III per poter agevolmente caricare il popolo in rivolta con la cavalleria e la mitraglia.
Gli altri intellettuali non si resero conto che l’operazione Risanamento si convertì presto da intervento di pubblica utilità in una colossale speculazione edilizia privata.
Eppure nel1887 proprio l’ingegner Giambarba, dirigente del Comune e autore dei progetti e degli interventi aveva a tutti denunciato la presenza di speculazione su quei lavori . Egli aveva avvisata che dietro la più grande opera pubblica mai realizzata a Napoli si celavano speculatori bancari, Lui aveva capito che dietro a qual cemento si celavano soldi sporchi e criminalità prganizzata.
Emblematica a tal proposito è la strana vicenda che coinvolse Bruno, Ferraro e Cigliano, tre ingegneri napoletani che, nel 1880 si erano aggiudicati la costruzione della funicolare del Vomero. La cordata di imprenditori fu ” convinta ” a cedere la preziosa commessa alla banca Tiberina , proprio mentre la Banca acquistava tutti i terreni del Vomero per edificare la nuova Piazza Vanvitellli le fognature, le strade e tutto ciò che potesse riguardare la struttura urbanistica del nuovo quartiere.
La Banca Tiberina, divenuta proprietaria di gran parte dei suoli sulla collina del Vomero, tra la villa Floridiana e l’antichissimo villaggio di Antignano, progettò l’urbanizzazione della collina, con un comprensorio chiamato Nuovo Rione, dove furono costruiti alcuni palazzi di abitazione concentrati nella zona via Scarlatti e via Morghen. Per difficoltà economiche la Banca Tiberina cedette le proprietà e i terreni alla Banca d’Italia, che per facilitarne la vendita suddivise i terreni in piccoli lotti, creando una rete di strade a maglia reticolare, seguendo l’urbanesimo razionale inaugurato a Parigi da Haussmann. Iniziarono quindi a sorgere in questi lotti piccoli villini mono e plurifamiliari destinati alla media borghesia. Furono costruite nel 1891 la funicolare di Chiaia e la funicolare di Montesanto creando un collegamento organico e veloce con il centro cittadino. Con l’apertura nel 1928 della funicolare Centrale si ebbe l’esplosione urbanistica del Vomero che è continuata fino agli anni 70 del secolo scorso, coinvolgendo anche l’adiacente quartiere Arenella.
CURIOSITA’: Solo L’eccentrico architetto Lamont Young che in città ha progettata e realizzato vere e proprie opere d’arte come la sede del Grenoble (Via Crispi), il castello Aselmeyer (parco Grifeo) e villa Ebe, non riusc’ in quel periodo atrovare banche che potevano finanziare un suo visionario quartiere turistico e residenziale composto da giardini pensili, palazzi di cristallo, strutture ricreative e di balneazione, collegato da autostrade, canali navigabili e ferrovie. Egli per ben due volte, presentò il suo progetto del ” Rione Venezia ” a Bagnoli , ma lo stesso naufragò nel 1888, perché fu impossibile trovare finanziatori . Ovviamente subito dopo Bagnoli fu poi regalata all’Ansaldo di Genova per la costruzione dell’Italsider.
Il cosidetto ” Risanamento “, cioè un vasto programmo urbanistico che aveva l’intento di sventrare e finalmente mettere fine al degrado abitativo di certe zone della città, tra ritardi e scandali non riuscì del tutto a rispettare il suo intento iniziale .
Decongestionare e restaurare il centro urbano a scapito di monumenti, opere d’arrte e antichi giardini storici, con la politica del “Risanamento” e senza un piano di riferimento che sarà poi redatto solo nel ‘39, favorì solo la speculazione fondiaria ed edilizia di persone che fecero a gara per ottenere la concessione di quegli appalti pubblici che dovevano realizzano nuovi rioni popolari (Arenaccia, S. Eframo, Materdei, Arenella, Vomero, Sannazzaro, Posillipo, Fuorigrotta), dove ammassare le persone sloggiate senza tetto ed espandere a prorio favore economico la città .
La sola giornalista e scrittrice Matilde Serao definirà tutto questo come un “paravento”
i lavori di ristrutturazione di vaste aree della città. Infatti dietro la costruzione delle nuove arterie continuavano a celarsi il degrado urbano abitativa, igienica e sociale.Alla fine quel famoso Rettifilo che partendo dalla stazione centrale sventrava tutto l’antico tessuto medioevale della città , sacrificando alcuni storici edifici e parte di antiche chiese , lasciava , ai due lati della nuova strada , la stessa situazione abitativa, igienica e sociale.
Il Risanamento si rivelò alla fine un vero e proprio paravento che serviva sopratutto a giustificare le ingenti somme stanziate e non tutte utilizzate a tale scopo che vide alla fine solo la costruzione di una nuova grande arteria stradale denominata “rettifilo dove vennero allineati edifici a 5 piani destinati sopratutto alle classi privilegiate e solo un piccolo ed insufficiente quartiere popolare, quello del Vasto, venne edificato per accogliere le varie persone sloggiate che secondo alcune stime pare risalisse a circa 80 mila persone .
Il risultato finale di una tale politica fu una massa di 80 mila persone che venne sloggiata, epurtroppo costretta ad andare ad occupare altre case ugualmente fatiscenti, motivo per cui si ritrovava in ogni caso priva di sostentamento perché molti vennero sradicati da quella minima fonte di sopravvivenza che era “l’economia del vicolo”, senza che una politica sociale si preoccupò di offrire alternative.
Anche per questo, fra fine Ottocento e inizi Novecento, l’emigrazione divenne l’unica valvola di sfogo: nel 1906 novantamila napoletani – un quinto dell’intera città – si imbarcarono per le Americhe.
Tante di quelle persone sfrattate dai loro vasci , senza lavoro e senza nessuna forma di sostentamento furo costrette a cercare fortuna in America attraverso quella emigrazione che significava drammi umani ed infinite nostalgie, appena lenite dai versi delle tante canzoni che raccontano il dramma della lontananza, da Torna a Surriento a Partono e bastimenti fino a Lagreme napulitane. Persino ‘O Sole mio viene musicata nel 1898 all’estero e gli autori della più celebre canzone napoletana, Eduardo Di Capua e Giovanni
Capurro, quasi a simbolo delle condizioni del tempo moriranno in estrema povertà: il Di Capua dovrà vendersi il pianoforte per pagarsi il trasporto nell’ospedale dove di li a poco si spegnerà.CURIOSITA’: tra fine ottocento ed inizio novecento, tutto queto fu una delle principali cause che diede luogo alla seconda vera grande emigrazione dei napoletani in cerca di lavoro e sostegno economico verso l’estero .
N.B. Ad emigrare per le Americhe furono circa novantamila napoletani ,cioè circa un quinto dell’intera città .
Lo spuntare di quel Rettifilo dedicato al re Umberto e quella piazza chiamata in un primo momento dell’Unità Italiana e poi intitolata, nel 1904, a Giuseppe Garibaldi. come precedemente era successo durante il processo di unificazione, non aveva eliminato i problemi di Napoli .
Dopo appena una ventina di anni tutti incomnciarono a capire che il Risanamento aveva fallito; era stato uno specchietto per le allodole, utile alle banche che sarebbero state travolte da scandali e crisi. Quel Risanamento servì poco e nulla al popolo napoletano.
Il risultato del Risanamento fu solo un caos di appalti trucati, politici corrotti e scandali finanziari che terminò in opere gigantesche, bellissime, ma incomplete . Fu infatti realizzato solo un quinto di quanto preventivato, spendendo più del triplo di quanto stanziato.
Il Risanamento di Napoli non fu quindi mai completato, ma lasciò comunque un segno eterno nel volto della città.
Quando fu dichiarato concluso il lavoro nel 1910 (doveva inizialmente durare 12 anni), la società aveva costruito 180.000 metri quadri dei circa 375.000 minimi previsti da contratto.
N.B Complessivamente il progetto del Risanamento prevedeva la costruzione di 980.686,76 metri quadri di cui fu realizztato solo un quinto.
Le 1000.000 lire versate nel 1884 (equivalenti a circa 500 milioni di euro attuali invece, sparirono nel primo anno a causa degli espopri che diventarono costosissimi . Già nel 1888 (quindi un anno prima dell’inizio dei lavori di costruzione!) la società statale dichiarò di essere sull’orlo della bancarotta per colpa di continue spese imprevista. Per non lasciare una città sventrata e devastata dai cantieri, la società fu ricapitolizzata più volte, un po’ come l’Alitalia, e i costi dell’operazione si gonfiarono a dismisura. Fu quindi emanato nel 1885 un decreto che stanziava altri 120 milioni e 303 mila lire con l’obbligo del Comune di Napoli di farsi carico di tutte le ulteriori spese. Inutile dire che le spese ci furono e il Comune si indebitò talmente tanto da richiedere l’intervento di un commissario speciale nel 1899.
Se dovessimo fare un confronto con le spese moderne, i circa 250 milioni di lire del 1884 sono equivalenti a circa 1 miliardo di euro del 2020. Per costruire solo le fogne, il Corso Umberto, Chiaia e Rione Santa Lucia. Tutti gli altri luoghi, compresa la Galleria Umberto infatti, furono costruite da privati con i propri fondi.
La mancanza più grave fu quella di aver “rinunciato alla costruzione di ogni edificio pubblico“, come denunciò il deputato socialista De Martino nel 1899. Oltre al Palazzo della Borsa (che tra l’altro non entrò mai in funzione) e l’Università Federico II, ( che facevano molto meglio a non farla ) infatti, durante il Risanamento non furono mai mai costruiti Ospedali, scuole, e servizi pubblici previsti nel progetto originale.
Anche il Monte Echia- Pizzofalcone. ebbe il suo progetto di risanamento non realizzato . Erano infatto previsi in quel luogo acensori e scale incrociate in perfetto stile settcentesco .
Il Risanamento insomma alla fine si rilevò solo come qualcosa di disastroso: un caos di appalti truccati, politici corrotti e scandali finanziari che portò a quache opere forse bella, ma di certo incomplete.
Dietro la più grande opera pubblica mai realizza a Napoli che portò allo sventramento della città, si nascosero moti soldi sporchi e la criminalità organizzata
In pratica fu spesa una cifra 10 volte maggiore di quella preventivata per costruire metà del minimo previsto .
Il Rettifilo si dimostrò soltanto un grosso “paravento” dietro cui la città antica continuò a brulicare e a vivere nel disagio, forse anche più di prima, come provò a denunciare la stessa, instancabile, donna Matilde.
E in ultimo, sapete che è accaduto? Che il popolo, non potendo abitare il Rettifilo, di cui le pigioni sono molto care, non avendo le traverse a sua disposizione, non avendo delle vere case del popolo, è stato respinto, respinto dietro il paravento! Così si è accalcato molto più di prima; così il censimento potrebbe dirvi che tutta la facciata del Rettifilo è poco abitata e tutto ciò che è dietro, disgraziatamente, è abitato più di prima; che dove erano otto persone, ora sono dieci; che lo spazio è diminuito e le persone sono cresciute; che il Rettifilo, infine, ha fatto al popolo napoletano più male che bene! In quell’intrico che va da Porto a Mercato, a Vicaria, si aggroviglia una folla spaventosa; non vi sono che poche fontanelle di acqua e le case, che debbono essere demolite (?) ne mancano; non vi sono fognature regolari; non vi sono lampioni, poiché il piano stradale è assolutamente dissestato: tutto cio che serve nella vita, vi manca. Se una epidemia, lontana sia, dovesse capitarci, impossibile circoscriverla; impossibile dominarla: in quei quartieri farebbe novellamente strage, come venti anni orsono […]. E quel popolo che è stato tradito, poiché non ha avuto quanto la nazione gli aveva donato, per redimerlo igienicamente e moralmente, quel popolo che è abbandonato, che lo sa, che un po’ ne ride, un po’ ne sospira, un po’ ne digrigna i denti, questo grande popolo che noi dobbiamo amare, perché ci sentiamo affratellati con esso, perché anche noi siamo popolo, perché noi siamo come esso e figliuoli del medesimo Iddio di giustizia e di clemenza, questo popolo non resiste agli antichi istinti, al bisogno di vivere come che sia, al bisogno di vendicarsi di questa società ingrata e traditrice: non resiste alla suggestione del vizio, del male: e giuoca: e ruba; e si vende: e ferisce: e uccide.
Probabilmente questa è la pagina più intensa scritta dalla Serao nel corso della sua lunga carriera. Poche righe di denuncia ci raccontano mali ancora presenti e il loro perché. A nulla sono valse le sue parole, quando non meno di una cinquantina d’anni fa urbanisticamente e socialmente sono stati commessi gli stessi errori, se non peggiori, di fine Ottocento. Il male è dilagato, la piaga si è allargata anche alle periferie. Viene da domandarci: ne è valsa davvero la pena? Per quanto sia amabile passeggiare tra gli odierni negozi del corso Umberto, è davvero stato un bene, col senno di poi, distruggere diverse strade e piazze della vecchia Napoli?
NOTE A PARTE .
A peggiorare le cose da un punto di vista urbanistico ci furono poi le due Guerre mondiali inframmezzate dal Fascismo, l’occupazione alleata, le distruzioni dei bombardamenti prima alleati e poi tedeschi.
aver svolto per ultimo l’incarico di Presidente del Consiglio dei ministri
Prima del governo Mussolini , il presidente del Consiglio dei ministri era presieduto da Gioliti che grazie alla spinta di grandi intellettuali come Francesco Saverio Nitti, Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini , Pasquale Villari ed il grande Benedetto Croce , varò una legge per l’industrializzazione ed il rilancio della città che prevedeva anche agevolazioni fiscali e doganali
Nacquero cosi’, con l’intento di risolvere il dilagante problema della disoccupazione , le ciminiere dell’Italsider a Bagnoli e numerose fabbriche capannoni industriali nella zona orientale della città .
Il progetto di industrializzazione della città che voleva nelle sue intenzioni porre le condizioni ideali per rendere il territorio competitivo sollecitando le iniziative locali e mettere un argine alla dilagante disoccupazione locale , si rilevò putroppo nel tempo un vero e proprio fallimento . Questo progetto che delegava ai margini del perimetro della città le attività industriali ha infatti solo portato nell’area di Bagnoli , inquinamento e presenza di un ecomostro derivante dal grande complesso siderurgico a ciclo continuo denominato Italsider e a Gianturco enormi ed inquinanti impianti di raffineria .
Le successive due guerre mondiali non solo portarono lutti e deprivazioni ma anche una notevole diminuzione di tutte le attività commerciali con conseguente altra miseria .
N.B. Durante il ventennio fascista ( 1922-1943 ) , paradossalmente , la città si arricchì di nuove opere pubbliche come il palazzo delle Poste , la stazione Marittima e la Mostra d’Oltremare a Fuorigrotta.
La povertà e la fame provenienti dalla guerra venivano ingigantiti dal dolore della morte dei propri cari che avveniva sotto gli assidui bombardamenti che distruggevano case e affetti.
Il dolore e la mancanza di tutto ( case ed alimenti ) alimentarono lentamente tra la popolazione un forte sentimento antifascista. Dopo l’avvenuto sbarco degli alleati in Sicilia avvenne da parte dei tedeschi una intensificazione dei bombardamenti sulla nostra città . Una di queste ( la novantaseiesima dall’inizio della guerra ) in particolare fu quella che più colpì al cuore i napoletani : 400 bombardieri alleati scaricarono purtroppo il 4 agosto 1943 una valanga di bombe sulla nostra città martoriandola definitivamente nelle vittime dei crolli e nei nostri monumenti e famose e antiche chiese come per esempio quella di Santa chiara fu addirittura rasa al suolo . Napoli venne ridotta ad uno scheletro e messa letteralmente in ginocchio. Il porto fu raso al suolo e i monumenti risultarono gravemente danneggiati. Persino la Reggia di Caserta e gli scavi di Pompei furono ripetutamente e selvaggiamente colpiti perdendo preziosissimi reperti e antichi dipinti.
Ma lo spirito napoletano , lo stesso che secoli prima non aveva permesso all’inquisizione spagnola di insediare un tribunale, non permise con la stessa forza ulteriore abusi ed imposizioni.
L’intera popolazione , stanca ed in preda alla miseria insorse a questo punto da sola contro i tedeschi per ben quattro giorni ( dal 27 al 30 settembre 1943) per liberare la città’ e l’intera nazione dalla loro occupazione .
Imbracciarono in questa circostaza il fucile insospettabili professori e intellettuali , ma anche casalinghe , operai e sopratutto giovani scugnizzi . Tutti insieme con un’unici intento : cacciar via fascisti e tedeschi. Combatterono tutte le fasce sociali della popolazione e con tutti i mezzi a loro disposizione : armi, mobili , materassi ed anche vasche da bagno che pur di sbarrare la strada ai tedeschi venivano gettate dai balconi e poste come barriera .
Dopo la seconda guerra mondiale , la città , ne uscì completante distrutta tra macerie e persone morte.
La storia successiva alla liberazione vide un triste periodo fatto di mercimonio di prostitute , mercato nero e contrabbando purtroppo fortemente alimentata dalla ingombrante presenza degli “alleati americani ” . Ma al male segue sempre il peggio e presto la città si ritrova con un sindaco di nome Lauro che conosceva una solo filosofia : abbattere e ricostruire , perchè l’edilizia da’ lavoro e poco importava se le colline ( Vomero e Posillipo ) ed il verde venivano saccheggiate da costruttori senza scrupoli .
La speculazione edilizia di quegli anni è ancora oggi purtroppo uno dei grandi scempi che deturpano la nostra città nei suoi quartieri e nei suoi paesaggi .
Esso incominciò nel tempo a rappresentare il vergognoso emblema di un secolare disinteresse politico-amministrativo verso una città considerata anche se con toni minori ancora una delle culle di una cultura umanistica di prim’ordine.
E’ intile aggiungere che la storia della nostra città vede tra i suoi carnefici come protagonisti assoluti anche la famosa camorra e numerosi politici locali che hanno retto in malo modo negli ultimi decenni le sorti della nostra città .
Ma questa è unìaltra storia che presto vi racconteremo …
Articolo scritto da ANTONIO CIVETTA