Nato a Napoli intorno al 1570 (non si conosce ancora la data certa ) da Fabio e Giuditta Borriello, egli  fu battezzato il 6 gennaio 1573 nella piccola chiesa di S.Angelo a Segno, in via dei Tribunali. 

Della sua vita sappiamo veramente poco, ma dai pochi dati a noi pervenuti, sappiamo  che probabilmente consegui’ la laurea in diritto nel 1597 con margini di fuoricorso colmati da un viaggio in Spagna oltre che da un trasferimento a Firenze alla corte di Ferdinando de’ Medici dove pare ebbe disavventure amorose.

A Firenze in quel periodo operò anche nell’ambito dell’Accademia della Crusca e fu probabilmente annoverato fra gli accademici della città.

Nel 1599 ebbe poi modo di ritornare in Spagna per recapitare a nome del granduca di Toscana Ferdinando,un regalo nuziale a  Filippo IiII e Margherita d’ Austria che si univano in matrimonio. Egli  dopo questa importante committente come membro di una delegazione medicea , si aspettava una maggiore considerazione e ulteriori importati compiti affidatari da parte del granduca Ferdinando.

Ma Cortese, contrariamente alle sue aspettative non ebbe la fiorente carriera politica e cortigiana cui gli esordi fiorentini sembravano avviarlo.

Durante questi suoi anni vissuti da esule forestiero egli fu certamente un cortigiano frustato, motivo  per cui nel 1604 egli decise di trasferirsi a Napoli, alla corte del viceré Fernandez de Castro conte di Lemos,  che lo nomino’  per un anno assessore di Trani e successivamente per un altro intero anno Governatore di Lagonegro sotto il conte di Benavente .

Nonostante i due importanti incarichi,  Giulio Cortese, non riuscì comunque a migliorare le sue condizioni economiche; per cui dovette accontentarsi di vivere con i proventi dell’usura, esercitata in società con le sorelle Isabella (vedova Vollaro) e Vittoria (clarissa del conservatorio dello Splendore), e con la riscossione di qualche pigione.

Nel 1616, il viceré, nell’andar via da Napoli, pur avendo fatto precise promesse al Cortese, lo lascio’ comunque da solo, alla sua sorte , visto poi che neanche Francisco de Castro, (fratello di Fernandez) che assunse la luogotenenza della città si interessò più a lui. 

Cortese venne quindi coinvolto nella secentesca crisi di dignità della funzione del letterato borghese, egli  sperimentò su se stesso le delusioni del clientelismo (in particolare presso il viceré conte di Lemos) che affliggeva gli artisti di quei tempi.

Fortunatamente a superare tutte le varie difficoltà egli non era mai solo perché al suo fianco si ritrovò’  sempre il suo amico letterato Giambattista Basile, che certamente fu il suo più grande ispiratore .

 

N.B. Cortese e Basile furono grandi compagni di banco a scuola, e poi amici fraterni per tutta la vita.

Erano quelli gli anni in cui a Napoli si andava affermando una reazione dialettale di tipo poetico contro la poesia ufficiale e aulica irradiantesi dalla Toscana e sia il Cortese che il Basile, rappresentavano in città i maggiori rappresentanti di questo movimento culturale, anche se a dire il vero, entrambi comunque talvolta verseggiasse per mero accademismo d’arte dialettale,anche in fiorentino .

Entrambi riuscirono a congiungere senza sforzo poesia e dialetto, proponendosi all’attenzione generale di quei tempi, come i giusti divulgatori e difensori della parlata della propria terra ed entrambi furono autori di opere che meriterebbero il giusto spazio tra le attività culturali delle Istituzioni locali e didattiche delle nostre scuole superiori.

Essi rappresentano ancora oggi , i cantori di quella antica viva Napoli tanto ricordata con un pizzico di malinconia che oggi sopraffatta dal consumismo lascia il posto a luoghi come McDonald’s e Starbucks.

Una Napoli che oggi preda di un turismo selvaggio ed anarchico sta perdendo la sua vera identità , i suoi veri costumi , le sue leggende , le sue fiabe , i suoi luoghi ed i suoi veri canti popolari .

Cortese è stato iniziatore e dictator della letteratura dialettale napoletana. Di quel dialetto napoletano scelto in passato da grandi scrittori e poeti come Salvatore di Giacomo che adoperavano nelle loro composizioni poetiche un napoletano da salotto e quello che il sommo Eduardo per rendere le sue commedie fruibili in tutto il Paese aveva costruito in un napoletano fortemente italianizzato .

Oggi se fosse ancora in vita il nostro Giulio Cortese , rabbrividirebbe nel sentire parlare il nostro antico dialetto in quel storpiato e strascico napoletano dei rioni popolari .

Oggi quella antica e nobile lingua perde la sua originale ortografia e si intorbidce di un aspetto fonetico strascicato perche’ semplicemente drogata da una nuova comunicazione culturale che trova nello slang di un rapper napoletano di periferia la sua massima espressione .

Quell’ antico e nobile dialetto napoletano che come tutti sanno, deriva dal greco antico, dal latino, dalla lingua francese, e dallo spagnolo , oggi appare straziato è diffuso nel mondo, da serie tv diffuse in Italia e all’estero come “Gomorra”, “L’Amica Geniale” e  “Mare Fuori” 

Il nostro Cortese invece diede al nostro dialetto una nobile collocazione letterale e poetica . La sua più grande ambizione era dare al dialetto napoletano opere che dimostrassero la congenialità del nuovo mezzo linguistico ai tre generi allora più in voga: il poema, il romanzo e la commedia. Ed in questo fu bravissimo e coerente Egli fu un autore esclusivamente ed orgogliosamente dialettale.

Scrisse quindi i poemetti eroicomici La vaiasseide (pubblicata nel 1612, dopo una prima stesura parziale quasi sicuramente del 1604) e Micco Passaro ‘nnamorato (1619); e ancora la favola “posellepesca che un toscanese decerria favola boscareccia o pastorale”, La rosa, e il romanzo Li travagliuse ammure de Ciullo e Perna pubblicati per la prima volta nelle Opere burlesche in lingua napoletana del 1621. 

Esaurito il programma o “quintana”, al C. si presentò spontanea la necessità di una chiarificazione, su un piano di poetica, delle sue scelte artistiche; nacque così l’idea del Viaggio di Parnaso (1621), cui seguì il “postumo” poemetto Lo cerriglio ‘ncantato che irrigidiva l’eroicomico cortesiano (gli smargiassi napoletani, guidati da Sarchiapane, danno l’assalto alla taverna-regno del Cerriglio) nell’amido di una storia eziologica.

Frequentava sì, insieme a Marino, l’Accademia dei Sileni e si fregiava nelle composizioni in lingua, e fra l’altro con sospetto di abuso – del titolo di “accademico della Crusca”; ma tutto questo apparteneva all’abito di cerimonia di un borghese mancato che rimpiangeva un’ormai impossibile autonomia dell’intellettuale nello stesso tempo in cui, con malcelato desiderio di successo mondano e d’inserimento cortigiano, celebrava la “vertù lucente e bella” che al più fortunato amico Giambattista Basile aveva procurato “lo titolo di conte e cavaliere”. 

Giulio Cesare Cortese è stato sicuramente un personaggio che possiamo considerare molto importante per la letteratura napoletana e barocca in quanto, con Basile, pone le basi per la dignità letteraria e artistica della lingua napoletana , contrapposta al toscano, lingua in cui comunque produce una serie di scritti per lo più encomiastici

In pura lingua napoletana scrisse invece molti poemetti eroicomici come : 

La vaiasseide (pubblicata nel 1612

Il poema epico “Micco Passaro ‘nnamorato” (1619) 

la favola “posellepesca “ La rosa “

Il romanzetto in prosa “ Li travagliuse ammure de Ciullo e Perna “ pubblicati per la prima volta nelle Opere burlesche in lingua napoletana del 1621. 

Viaggio di Parnaso (1621), cui seguì il “postumo” poemetto Lo cerriglio ‘ncantato che irrigidiva l’eroicomico cortesiano (gli smargiassi napoletani, guidati da Sarchiapane, che danno l’assalto alla taverna-regno del Cerriglio) .

Nel Micco Passaro ‘nnammorato, egli narra delle peripezie amorose del “guitto” Micco e della “guagnastra” Nora dentro la cornice storica della lotta al banditismo. In questo poema , il nostro Cortese, procedendo sulla “parodia dei comportamenti e dei valori aristocratici” non manca di dare luce  alla letteratura di un folclore autentico e di un vissuto popolare.

Nella favola “La rosa, “ nei canonici cinque atti chiusi da altrettanti brevissimi cori popolarescamente sentenziosi, il nostro autore invece intrica con travestimenti e agnizioni i “drammi” amorosi di due coppie. La vicenda (complicata in conformità ai modelli dell’Amintae del Pastor fido) è resa con grazia madrigalesca rivissuta attraverso l’esperienza dialettale e popolaresca delle “villanelle”. 

 

Li travagliuse ammure de Ciullo e Perna (e il titolo sembra ricalcato su quello di un’opera postuma di Cervantes, Los trabajos de Persiles y Sigismunda del1617) è invece un romanzo in prosa assai spesso manieristica, che si riallaccia alla tradizione della letteratura bizantino-avventurosa in un riadattamento del genere a un racconto per paradossi da equivoci linguistici.

I suoi due maggiori successi sono stati vaiasseide e il Viaggio di Parnaso .

Nelle vaiasseide, scritto ovviamente tutto in lingua napoletana egli descrive in uno scritto comico e trasgressivo, avventure sentimentali di un gruppo di “vaiasse” domestiche napoletane.

Il poemetto racconta, con sufficienza tutta borghese, l’insurrezione delle “vaiasse” o serve napoletane che vogliono sposarsi contro la volontà dei loro padroni. Ma le realistiche scene di vita popolare (le nozze, il parto, la giostra) mimano parodisticamente i “trionfi” in corte delle “sdamme sciorentine”, che nell’occasione di nozze e parti contemplavano travestimenti ancillari e rappresentazioni del mondo .

Il Viaggio di Parnaso , anch’esso ovviamente scritto in completa lingua napoletana, si  apre con il riconoscimento ufficiale della letteratura e si chiude con la bellissima favola autobiografica: egli in questo poema immagina un viaggio nel mondo dei poeti, dove tutto è ambientato sul Parnaso dove Apollo e le sue Muse risiedono in un divertentissimo regno con i suoi fantastici giardini, e con i banchetti attorno ai quali si discorre per argute freddure, coi “comizi” sulle corna dietro l’esempio de Il mirabile cornucopia consolatorio di Tommaso Garzoni.

 

Il Cortese, in un clima di polemica e di scottante esperienza autobiograficain queto poema mettere in risalto i peccati della poesia, compiuti in una società degradata, dove è all’ordine del giorno un reato come il furto letterario. Un poema quindi dedicato alla condizione della letteratura e del letterato con varie allusioni autobiografiche, piene d’amarezza e pessimismo.

Il poeta entrato in Parnaso, il C. dopo il “benvenuto” di Apollo è investito da un’ondata di protesta da parte di tanti poeti che si sentono offesi dall’ingresso nel mondo della poesia di un “ommo de Puorto” (uno dei più popolari quartieri di Napoli). In difesa del poeta dialettale intervengono Tasso, Cariteo, Rota, Tansillo e Sannazaro, che impersonano la tradizione letteraria napoletana. La novità dialettale non è infatti per il nostro sommo Cortese in “rottura” con la tradizione (non a caso dichiaratamente napoletana e in lingua, in un accenno di risentimento regionalistico), ma piuttosto in polemica con la svalutazione semantica di una lingua letteraria inflazionata dall’uso retorico.

Come alternativa al consumo accademico della lingua, il Cortese propone una soluzione: l’adozione del dialetto naturalisticamente intesa come recupero della dignità espressiva attraverso le “vuce chiantute” – piene, robuste – “de la maglia vecchia”. 

Ed è proprio in questo riaggancio alla tradizione, se ben notate che il nostro scrittore si conquista l’autorizzazione alla deviazione linguistica, è evidente il moderatismo della poetica dialettale del Cortese .: “Chillo che bò de Febo essere ammico / non esca niente da lo stile antico” .

A difendere il poeta dialettale dalla furia dei poeti “matricolati” intervengono pure Berni e Caporali. Al di là della finzione poetica, il Cortese ha inteso evidenziare la sua filiazione dalla letteratura bernesca (peraltro di livello “dialettale” in ambito toscano) che aveva minato l’impostazione prevalentemente morale, eroica ed idealizzante in senso aulico della civiltà precedente.

Il tutto  si risolve con un finale fiabesco e con l’amara delusione del poeta che si vede negate le proprie ambizioni.

CURIOSITA’: Di Giulio Cesare Cortese abbiamo una sua biografia molto scarsa perché segnata da silenzi che indulgono con complicità alla costruzione d’un mito, rispetto al quale egli venne a trovarsi nella condizione paradossale di spettatore (e forse celebratore) postumo. 

Gli toccò infatti il privilegio di assistere alla propria “morte”, e soprattutto alla sistemazione già retrospettiva della sua figura di “grande ingegno” in piccolo corpo e in breve vita, cui sorrideva l'”immortalità del merito” di essere stato iniziatore e dictator della letteratura dialettale napoletana. E il riconoscimento gli veniva autorevolmente dal Basile, suo vecchio compagno di scuola e sodale, nel cappello introduttivo alla dodicesima delle cinquanta Odedel 1627. 

A questa data il Cortese era quindi pianto per morto; tanto che l’anno appresso Mattia Basile poteva incitare il figlio Domenico a entrare in competizione con l’arte riconosciuta del C., trasportando in dialetto napoletano il Pastor fido: “Canta, Basile figlio,/ che singhe beneditto a braccia stese; / canta, ca sulo si, no’ nc’è Cortese” (D. Basile, Pastor fido, Napoli 1628). Del resto come opera pubblicata postuma per interessamento dell'”Accademico napolitano detto lo Sviato” veniva presentata – sempre nel 1628 – la prima edizione del poemetto cortesiano Lo cerriglio ‘ncantato. Eppure il poeta, che per tirare avanti esercitava la piccola usura, mentre era dichiarato morto dall’ufficialità letteraria, con stipule varie risultava vivo all’ufficiosità degli atti notarili almeno fino all’altezza del 1640. Né il C., dopo la morte presunta, ebbe più voce nella vita letteraria napoletana come autore vivente. Tacque, e se parlò fu solo per bocca (o nome) altrui.

Questo della morte presunta è l’atto penultimo (considerando ultimo quello relativo alla sopravvivenza nel “silenzio”) di un’avventura biografica cominciata molto presto negli anni universitari.Su queste esperienze foreste, nelle quali ebbe a consumare la meglio gioventù (“Avea già co lo tiempo e co la sciorte / iocato li meglio anne de la vita”), il C. proietterà le frustrazioni di cortigiano d e le tradurrà (nel c. VII del Viaggio di Parnaso del 1621) nei modi di un favolismo popolare educatosi sulla letteratura degli apicarados congeniale alla condizione di “scasato” che non sa dove costruire il proprio “castello”: “Devonca vao tento la sciorte mia / pe fare a quarche parte sto castiello, / ma chesta tene ognuno ch’è pazzia / … / Vago a Spagna e a Sciorenza, e manco cria” / faccio, se be’ ne mostro lo modiello” (vv- 36-38; 40-41). Ma ancor peggio, nel miraggio di realizzare il “castello” delle illusioni, ha barattato il magico “stoiavucco” offertogli da Apollo in Parnaso per ritrovarsi infine a Napoli privo di protezioni: Fernandez de Castro conte di Lemos, che pur gli aveva fatto precise promesse, ha lasciato Napoli nel 1616 abbandonandolo alla sua sorte; lo stesso Francisco de Castro, che ha assunto la luogotenenza della città dopo la partenza del fratello, si è scordato del Cortese. Il bilancio era quindi sconfortante. 

Il poeta aveva ottenuto a Napoli qualche incarico (nel 1599 il conte di Lemos lo aveva nominato assessore di Trani per un anno; nel 1606 il viceré, conte di Benavente, lo aveva mandato a Lagonegro in veste di governatore “pro uno anno integro et deinde in antea ad beneplacitum”), senza però riuscire a migliorare le sue condizioni economiche; per cui dovrà accontentarsi di vivere con i proventi dell’usura, esercitata in società con le sorelle Isabella (vedova Vollaro) e Vittoria (clarissa del conservatorio dello Splendore), e con la riscossione di qualche pigione.

Della sua intuibile biografia ,pressoché priva di eloquenti documenti, bisogna accontentarsi dell’autobiografia letteraria dispersa per allusioni e favoleggiamenti nel corpo della produzione in prosa e in versi; tra i pochi ritrovamenti archivistici sappiamo che il poeta ebbe nove figli ed è morto il 22 dicembre 1622 (come dal Liber Mortuorum della chiesa di S. Anna di Palazzo ai Quartieri Spagnoli di Napoli e qui seppellito).

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