Ci troviamo in quel tratto di costa napoletana che si estende fino ai campi flegrei disseminata di ricche dimore patrizie destinate agli otia di cultura e piaceri e ovviamente ci troviamo in piena epoca romana . Possedere una villa in questo magnifico posto a quei tempi era segno di status e per tale motivo incominciavano a comparire sparse tra le grandi ville patrizie anche qualche insediamento di liberti arrichitisi con il commercio . Essi certo non possedevano lo stesso ruolo sociale dei nobili patrizi ma erano i nuovi ricchi che ad imitazione degli aristocratici cercavano gli stessi piaceri .
Siamo a cena e siamo a Neapolis , cioè in quella città che alla stregua di Atene , una volta conquistata dai romani , aveva mantenuto intatti gli usi , i costumi e la lingua greca . Qui , in questo luogo di delizie ci si poteva riposare dopo le lunghe battaglie e rilassarsi dalle fatiche di Roma in una di quelle belle residenze lussureggianti che affacciavano sul golfo circondate da una natura incontaminata ,e dal clima temperato.
I romani conquistati dal fascino di questo luogo lo avevano scelto come luogo di riposo ma anche come luogo per ritemprarsi lo spirito e trasferendo con loro immense biblioteche , anche come luogo in cui prepararsi agli studi.
Ci troviamo con precisione in epoca ellenica, in un periodo in cui il corrompersi dei severi costumi sociali aveva già profondamente mutato il senso dei banchetti che , sopratutto per i nuovi ricchi diventano una mera esibizione di lusso. Il luogo preciso dove ci troviamo invece non lo sappiamo con certezza ma dalla descrizione che compare nel racconto sicuramente si tratta di una città portuale e tutto porta a pensare che ci troviamo nell’antica Puteoli.
Siamo a cena e siamo proprio nella residenza di uno di quei nuovi ricchi di cui parlavamo prima , Siamo nella lussuosa residenza del liberto arricchito Trimalcione che con lusso pacchiano tende invano ad emulare i costumi aristocratici .
A raccontarci quanto accade , è un eclettico raffinatissimo intellettuale patrizio di nome Petronio vissuto nel primo secolo alla corte romana di Nerone .
L’episodio fa parte di un suo volume chiamato Satyricon noto nei secoli per gli spassosi divertissement e lo stile peculiare che imita il parlato del volgo cittadino,
Egli in questo suo capolavoro nel XV libro , dipinge con caustica ironia la volgarità e la rozzezza dei nuovi arricchiti liberti che cercano con varie sternazioni di dubbio gusto inframezzate tra scenografiche portate inbandite ,e continue esibizioni di attori e giocolieri , di apparire agli occhi di tutti come dei veri aristocratici.
Si tratta di un divertente racconto dalle fitte pennellate, che mette a nudo il prototipo parodistico e grottesco dell’uomo arricchitosi con la fortuna e l’astuzia, ma privo di cultura, ossessionato dal desiderio di apparire per ciò che non è, con la tragicomica conseguenza di mettere in bella mostra proprio le lacune che si vorrebbero negare.
Purtroppo l’Opera, datata al al I secolo d.C. ci è a noi pervenuta nel tempo solo in piccolissima parte rispetto alla sua presunta vastità originaria, a causa del contenuto scabroso fitto di licenziosità (vengono riportate imprecazioni, si parla esplicitamente di pederastia e la divinità più interpellata è nientemeno che Priapo), che non gli attirò come si dice in latino – mirabile dictu! – e quindi le simpatie dei copisti medievali.
Il protagonista del racconto è Encolpio, che in prima persona racconta le avventure accadutegli durante un viaggio fatto in un’imprecisata località dell’Italia Meridionale assieme all’amato Gitone e al giovane Ascilto.
Dopo diverse vicende, i tre ricevono l’invito per un banchetto a casa del liberto arricchito Trimalcione, dove saranno ospiti assieme ad altri personaggi appartenenti al rango sociale del padrone di casa.
Nella sala della cena ogni elemento è approntato allo scopo d’impressionare:
abbondanti portate e libagioni, bizzarre scenografie, numeri di varietà, mimi, musica ed esibizioni varie; il tutto accompagnato da argomenti pseudoeruditi.
La Cena come vredemo rappresenta per il ricco liberto Trimalcione il contesto ideale per ostentare ad amici e curiosi la propria opulenza, andando ben oltre la misura del buon gusto. Non solo i numerosi servi sciamano attorno agli ospiti nel tentativo di soddisfare ogni capriccio ma, nel farlo, sono costretti ad intonare arie di tragedia, sovrastandosi chiassosamente.
Le portate vengono servite , su vassoi d’argento, brocche di cristallo e coppe d’oro e il cibo stesso ha una presentazione coreografica: dalle finte uova di pavone contenenti succulenta uccellagione al cinghiale arrosto dal cui ventre fuoriescono colombe. Persino la moglie entra in sala esibendo lo sfarzo dei propri gioielli, non potendo vantare la vaghezza delle membra!
A tutto ciò si aggiungono le inopportune uscite del padrone di casa che, fra le molte frasi retoriche, solleva ripetutamente i commensali dall’onere di trattenere i peti per motivi di salute, si spaccia poeta rubando i versi di Virgilio ed espone le vicende dell’Iliade, con una tale serie di strafalcioni e gaffe che i presenti non possono che ridere mentre fingono di acclamarlo.
Infine ormai ubriaco e tormentato dal pensiero della morte, Trimalcione alla fine della cena decide di culminare il banchetto mettendo in scena il proprio funerale . proclama il testamento e si fa adagiare sul triclinio con vesti di porpora; infine impone ai musici di concertare una marcia funebre, allertando i vigili del quartiere che interrompono prontamente la festa.
Per chi ha voglia di divertirsi leggendo , ecco una parte del testo tradotto in italiano, ricavato dal capitolo 30 al 71, della Cena Trimalchionis.
[30] Noi eravamo ormai giunti al triclinio, nella cui anticamera un cassiere ritirava i conti. E, cosa che mi lasciò particolarmente sorpreso, agli stipiti del triclinio erano affissi fasci con scuri, che terminavano in fondo con una specie di rostro navale in bronzo, su cui stava scritto:
« A C. Pompeo Trimalcione, seviro augustale, Cinnamo tesoriere ».
Con sopra la medesima dedica, pendeva dal soffitto anche una lampada a due becchi, e all’uno e all’altro stipite erano infisse due tavole, di cui l’una, se ben ricordo, aveva questa scritta: « L’antivigilia e la vigilia di gennaio il nostro C. è fuori a cena », un quadro l’altra, del corso della luna e delle immagini dei sette pianeti; e come fossero i giorni, se buoni o se cattivi, c’era una borchia distintiva ad indicarlo.
Pieni di tali meraviglie, ci disponiamo a entrare nel triclinio […].
[31] […] Così finalmente ci mettemmo a tavola, con valletti di Alessandria che versavano acqua ghiaccia sulle mani, e altri che li rimpiazzavano ai piedi e con estrema precisione toglievano le pipite.
E neppure questo servizio così ingrato li faceva star zitti, ma in quel mentre cantavano.
Io volli provare se tutta la servitù cantava e chiesi allora da bere.
Lì pronto mi secondò un valletto con un gorgheggio non meno stridulo, e così ogni altro a pregarlo di qualcosa.
Sembrava un coro di pantomima, non il triclinio di un padre di famiglia.
Fu servito comunque un antipasto di gran classe, che tutti ormai erano a tavola, all’infuori di lui, Trimalcione, al quale in nuova usanza era riservato il primo posto.
Quanto al vassoio, vi campeggiava un asinello in corinzio con bisaccia, che aveva olive bianche in una tasca, nere nell’altra.
Ricoprivano l’asinello due piatti, su cui in margine stava scritto il nome di Trimalcione e il peso dell’argento. E vi avevano saldato ancora dei ponticelli, che sostenevano ghiri cosparsi di miele e papavero.
E c’erano dei salsicciotti a sfrigolare su una graticola d’argento, e sotto la graticola susine di Siria con chicchi di melagrana.
[32] Si era alle prese con tali delizie, quando lui, Trimalcione, giunse lì trasportato a suon di musica, e, come lo ebbero deposto tra guanciali minuscoli, chi fu colto alla sprovvista non si tenne dal ridere.
Da un mantello scarlatto lasciava infatti sbucare la testa rapata, e intorno al collo, rinfagottato dall’abito, si era messo un tovagliolo con liste di porpora e frange spenzolanti qua e là.
Aveva poi nel dito mignolo della mano sinistra un grosso anello placcato d’oro, e nell’ultima, falange del dito seguente un anello più piccolo, d’oro massiccio, avrei detto, ma certo con sopra saldate come delle stelle in ferro E, per non far mostra di quei preziosi soltanto, mise a nudo il braccio destro, che era adorno di un’armilla d’oro e di un cerchio d’avorio con una lamina luccicante all’intorno.
[33] Quindi, scandagliati i denti con uno stecchino d’argento, « Amici, – disse, – ancora non mi era a grado venire nel triclinio, ma, per non farvi in mia assenza aspettar troppo, sacrificai tutto quanto mi piace.
Permetterete comunque che si finisca la partita ». Lo seguiva un valletto con una scacchiera di terebinto e dadi di cristallo, e notai in proposito un particolare estremamente raffinato, che invece di pedine bianche e nere si usavano monete d’oro e d’argento.
Intanto, mentre lui tra una mossa e l’altra dava fondo al vocabolario dei carrettieri, dinanzi a noi, che eravamo ancora all’antipasto, fu collocato un vassoio con sopra una cesta, in cui c’era una gallina di legno con l’ali aperte a cerchio, come stanno di abitudine quando covano.
Si accostano suubito due schiavi, che in un concerto assordante prendono a frugare tra la paglia e tiratene fuori uova di pavone su uova, le dividono tra i convitati.
A questo colpo di scena, Trimalcione volge il capo, e « Amici, – dice, – uova di pavone ho fatto mettere sotto la gallina. Ma ho paura, per bacco, che ci sia già la famiglia! Ad ogni modo, proviamo se sono ancora da bere. Si, si possono bere ».
Riceviamo dei cucchiaini da mezza libra almeno e rompiamo quelle uova rivestite di pasta frolla.
Io però fui a un pelo dal gettar via la mia porzione, ché in effetto mi pareva ci fosse già il pulcino.
Ma poi, quanto sento da un commensale di vecchia data « Qui dev’esserci qualcosa di buono », frugo con la mano dentro il guscio e trovo immerso nel tuorlo pepato un beccafico bello grasso.
[34] Già Trimalcione, interrotta la partita, si era fatto anche lui servir di tutto, invitandoci a gran voce, se qualcuno ne aveva voglia, a prendere di nuovo vin melato, allorché parte dall’orchestra un segnale e il coro cantando toglie via sul momento gli antipasti.
Nella confusione che segue un piatto viene a cadere e un valletto lo raccoglie da terra, ma se ne accorge Trimalcione, che fa prendere a schiaffi il valletto e gli fa gettare giù il piatto un’altra volta.
Giunge pronto un cameriere e si mette a spazzare il piatto d’argento con le altre immondizie.
Entrano poi subito due Etiopi ben chiomati con certi otri minuscoli, sul tipo di quelli che servono nell’anfiteatro a innaffiare l’arena, e ci versano vino sulle mani. Che d’acqua nessuno ne offriva.
Complimentato per tanto buon gusto, « Marte – risponde il padrone – vuole tutti alla pari. Per questo ho disposto che a ciascuno fosse riservato un tavolo personale. E così anche gli schiavi puzzoni ci terranno meno caldo con il loro pigia pigia ».
Arrivano all’istante delle anfore di cristallo accuratamente sigillate, che portano attaccate al collo etichette con la scritta: « Falerno Opimiano di cent’anni »
Mentre noi ci leggiamo tali scritte, Trimalcione batte le mani l’una con l’altra, e « Ahi, – esclama, – dunque il vino vive più a lungo dell’ometto! Ma allora facciamo le spugne. È vita il vino. E questo che offro è Opimiano garantito. Ieri non ne ho servito di così buono, e sì che le persone a cena erano di molto più riguardo ».
Mentre noi dunque si beve, tutti in estasi in mezzo a quel lusso, arriva uno schiavo con uno scheletro d’argento, articolato in modo che le sue giunture e vertebre erano disnodate e flessibili in ogni senso.
Come lo getta sulla tavola una prima e una seconda volta, e la catena guizzante assume pose diverse, Trimalcione commenta:
« Ahi, che miseri siamo, che nulla a pesarlo è l’ometto!
Così saremo tutti quel giorno che l’Orco ci involi.
Perciò viva la vita, finché si può star bene ».
[35] Agli applausi tenne dietro una portata non grandiosa certo come ce l’aspettavamo, ma il suo aspetto bizzarro attirò l’attenzione generale.
Si trattava di un’alzata rotonda, che aveva disposti in giro i dodici segni, su ciascuno dei quali l’imbanditore aveva collocato quel cibo che meglio si adattava al soggetto: sull’Ariete ceci arietini, sul Toro un pezzo di manzo, sui Gemelli testicoli e rognoni, sul Cancro una corona, sul Leone un fico d’Africa, sulla Vergine una vulvetta, sulla Libra una bilancia, con una focaccia al cacio in un piatto e una al miele nell’altro, sullo Scorpione un pesciolino di mare, sul Sagittario un occhiofisso, sul Capricorno un’aragosta, sull’Acquario un’oca, sui Pesci un par di triglie.
Nel mezzo poi una zolla strappata con l’erba sosteneva un favo.
Un valletto egizio faceva girare del pane in una teglia d’argento… ed anche lui con voce cavernosa storpiò un’aria del mimo « Il mercante di silfio ».
Poiché noi ci accostavamo un po’ ingrugniti a cibi così ordinari, « Vi prego, – fece Trimalcione, – pranziamo: qui c’è il sugo del pranzo ».
[36] Appena questo disse, ecco quattro valletti accorrere danzando a suon di musica e togliere il coperchio dell’alzata.
Ciò fatto, vediamo lì dentro capponi e pancette, e in mezzo, a far da Pegaso, una lepre fornita d’ali.
E notammo ancora agli angoli dell’alzata quattro figure di Marsia, dai cui otricelli scorreva una salsa pepata, con sotto dei pesci che nuotavano in una specie di euripo.
Tutti applaudiamo a incominciare dai servi e ridendo muoviamo all’assalto di quella roba prelibata.
Non men lieto anche lui per la bella sorpresa, «Scalca» dice Trimalcione.
Avanza immediatamente un trinciante, che fa a pezzi le vivande con una pantomima a suon di musica, da sembrare un essedario (gladiatore) quando si batte accompagnato dall’organo.
Tuttavia Trimalcione martella con voce cadenzata: « Scalca, Scalca ». Io, preso dal sospetto che quella parola così ripetuta voglia essere una facezia, non mi perito di proporre un simile quesito al commensale che ho dietro.
E questi, che aveva già assistito tante volte a giochetti del genere, « Vedi – dice – quel tale che scalca le vivande? Scalca si chiama. Così lui ogni volta che dice ” Scalca ” con un’unica parola e chiama e ordina ».
[37] Non c’era più niente che avesse sapore, ma, giratomi verso di lui, per raccogliere tutte le informazioni che potevo, incomincio col prendere le cose alla lontana, informandomi chi sia quella donna ch’è sempre di corsa su e giù, « La moglie di Trimalcione, – risponde, – si chiama Fortunata, una che i soldi li misura a staia.
E adesso adesso cos’era? Con rispetto parlando, un pezzo di pane dalle sue mani non lo avresti accettato.
Ma oggi senza perché e percome è salita ai sette cieli ed è il factotum di Trimalcione.
Alle corte, se a mezzo il mezzodì gli dicesse che fa buio, lui ci crede.
Che lui quanto ha non lo sa, straricco com’è, ma questa lupastra è la prima a veder tutto e quando meno te l’aspetti.
Astemia, sobria, di buoni principi: tutt’oro quel che vedi. Però una linguaccia, una gazza quando è a letto.
Chi ama, ama; chi non ama, non ama. E lui, Trimalcione, ha terreni che ci spaziano i nibbi e soldi che ci crescono i soldi. Vi è più argenteria nel casotto del suo portinaio che un altro non ne ha con tutto un patrimonio. […].
[38] E non hai da pensare che lui acquisti qualcosa. Tutto gli nasce in casa: lana, limoni, pepe. A cercar latte di gallina, lo troveresti.
Alle corte, la lana gli riusciva poco buona: lui comperò dei montoni a Taranto e li mise in culo al gregge.
Per avere il miele attico in casa, si fece venire le api da Atene, che intanto anche quelle nazionali un pochetto miglioreranno a stare con le grecule. Ecco, proprio in questi giorni ha scritto in India, che gli spediscano il seme dei funghi. In quanto alle mule, non ce n’è una che non sia nata da un onagro.
Vedi che abbondanza di cuscini: non uno che non abbia l’imbottitura o di porpora o di scarlatto. Il colmo della beatitudine! […].
[39] Interruppe Trimalcione quelle chiacchiere così piacevoli, che già la portata era stata tolta e i commensali tutti allegri avevano preso a bere e a conversare ad alta voce.
Egli dunque, poggiato sul gomito, « A questo vino – disse – voi bisogna che gli facciate onore. I pesci bisogna che nuotino.
Sentiamo un po’, credete che a tavola io mi accontenti di quel che avete visto sul coperchio dell’alzata? […] Anche mentre si é a tavola bisogna far della cultura. […] Il cielo qui presente, in cui abitano i dodici dèi, si trasforma in altrettante figure. Ed ecco diventa Ariete. Perciò chi nasce sotto quel segno ha molte pecore, molta lana, in più una testa dura, una faccia di bronzo, le corna sempre ritte. Nascono in gran copia sotto quel segno i maestri di scuola e i loro montoncelli».
Applaudiamo l’astrologo per la gentile allusione. E lui continua: « Poi tutto il cielo diventa Torello. Perciò nascono allora gli scontrosi, e i bifolchi, e quelli che bastano a sé.
Sotto i Gemelli poi sono le bighe a nascere, e i buoi, e i coglioni, e quelli che tengono il piede in due staffe.
Sotto il Cancro ci sono nato io. Ragion per cui mi reggo su molti piedi e molto posseggo per terra e per mare, ché al granchio quadra qui come là. Ed è per questa ragione che da tempo lì sopra non ci faccio metter niente, per non aver pesi sulla mia genesi.
Sotto il Leone nascono i mangioni e i prepotenti; sotto la Vergine le femminucce, e gli schiavi che scappano, e quelli che finiscono in ceppi; sotto la Libra i beccai, e i profumieri, e quanti vendono a peso; sotto lo Scorpione gli avvelenatori e i sicari; sotto il Sagittario gli occhitorti, che guardano la verdura, ma pescano il lardo; sotto il Capricorno i poveretti, cui per i guai loro vengono le corna; sotto l’Acquario i tavernieri e gli zucconi; sotto i Pesci i cuochi e i retori […] ».
[40] « Perfetto! » esclamiamo a una voce, e, alzate le mani al soffitto, giuriamo che Ipparco ed Arato non erano personaggi da paragonare con lui, finché non intervennero i servi a distendere sui letti dei copriletti ricamati, in cui c’erano reti e vedette alla posta con spiedi e tutta l’attrezzatura per la caccia.
Né ancora capivamo dove si andasse a parare, quando fuori dal triclinio si levò un gran baccano, ed ecco che cani della Laconia incominciarono a correre per ogni verso senza risparmiare neppure la tavola. Li seguiva un’alzata, dov’era deposto un cinghiale di prima grandezza e con tanto di berretto, dalle cui zanne pendevano due canestrini intrecciati di palme, uno pieno di datteri freschi, l’altro di datteri secchi. Intorno poi dei cinghialetti di pasta dura, come appesi alle mammelle, stavano ad indicare che si trattava di una femmina. E questi, a differenza del resto, servirono da apoforeti. Intanto, a trinciare il cinghiale, non si presentò quello Scalca che prima aveva fatto a pezzi i capponi, ma un gigante dalla gran barba, avvolto di fasce le gambe e coperto di un mantelletto multicolore, che, impugnato il coltello da caccia, lo immerse con forza nel fianco del cinghiale, dalla cui ferita uscì un volo di tordi. C’erano lì pronti con le canne gli uccellatori e li catturarono sul momento mentre svolazzavano per il triclinio.
Poi, dopo aver fatto consegnare a ciascuno il suo, aggiunse Trimalcione: « E adesso guardate quel porco selvatico che ghiande delicate si mangiava ». Immediatamente i valletti si accostarono ai canestrini che pendevano dalle zanne e divisero in parti uguali tra i convitati datteri secchi e datteri freschi.
[41] Io frattanto, ritirato in me stesso, mi stillavo il cervello, perché mai il cinghiale fosse entrato col berretto.
Poi che dunque ebbi dato fondo a tutte le babbole possibili, ardii di proporre al mio consigliere l’atroce quesito. Ma quello: « Eh via, anche il tuo schiavo potrebbe spiegartelo, ché non è certo un indovinello, ma una cosa che balza agli occhi. Ieri questo cinghiale fu chiamato in causa che la cena era alla fine e i commensali lo misero in libertà: naturalmente oggi è come liberto che torna in tavola ». Maledissi la mia balordaggine e non chiesi più nulla, per non dar l’impressione ch’io non avessi mai pranzato con gente di riguardo.
Mentre noi così parlavamo, un valletto affascinante, redimito di pampini e di edere, che ora si dava a conoscere come Bromio, ora come Lieo e come Evio, portava in giro dell’uva in un cestello e tirava fuori poesie del suo signore con la voce più stridula del mondo. A quel suono Trimalcione si volse: « Dioniso, – disse, – va libero! ». Tolse il valletto il berretto al cinghiale e se lo mise in testa. Allora Trimalcione fece ancora una giunta: « Non potete negare – disse – ch’io ho il padre Libero ». Applaudiamo alla battuta di Trimalcione e baciamo di tutto cuore il valletto che fa il giro.
Dopo questa portata Trimalcione si alzò per andare sul vaso. Noi, conquistata, senza il tiranno, la libertà, ci mettiamo a far parlare i commensali. Dama dunque per primo, chiesto qualche boccale, « Il giorno – disse – va via come niente. Mentre ti volti, fa notte. Allora non c’è niente di meglio che andar diritto dal letto alla tavola. E abbiamo avuto un bel freddo. A mala pena mi ha scaldato il bagno. Però una bevanda calda ti veste a dovere. Io ne ho infilato una serie e sono proprio sbronzo. Il vino mi ha dato alla testa ».
[…]
[47] Frullavano fole del genere, quando rientrò Trimalcione, che, asciugatosi la fronte, si lavò le mani con olio profumato. Poi, dopo un attimo di sospensione, « Amici, – disse, – vogliate scusarmi, ma già da molti giorni ho il ventre che non va. Né i medici ci si raccapezzano. Tuttavia mi ha fatto bene la scorza di melagrana e la resina all’aceto. Ma adesso, spero, saprà darsi di nuovo un contegno. Se no, mi viene un brontolio intorno allo stomaco, che pare un toro. Pertanto, se qualcuno di voi avrà da fare un bisogno, non c’è da vergognarsi. Nessuno di noi è nato d’un pezzo. A mio parere, non esiste una tortura come trattenersi. È la sola cosa che neanche Giove ha il potere di proibire. Eh, tu ridi, Fortunata, che di notte così spesso non mi lasci prender sonno! Ad ogni modo, qui nel triclinio io non proibisco a nessuno di fare i suoi comodi, che anche i medici proibiscono di trattenersi. E, se vi viene da fare qualcosa di più, fuori c’è tutto pronto: acqua, pitali, amminicoli vari.
Credete a me, se il meteorismo raggiunge il cervello, produce flussioni anche nel resto del corpo. So di molti che ci son morti, a non voler guardare le cose in faccia».
Lo ringraziamo per la sua liberalità e comprensione, e poi subito freniamo il riso bevendo a piccoli sorsi. Né ancora sapevamo, dopo tante meraviglie, che noi, come dicono, si era solo a metà strada. E infatti, con le mense ripulite a suon di musica, vennero condotti nel triclinio tre maiali bianchi, adorni di cavezze e sonagliere, il primo dei quali, a detta del presentatore, era di due anni, di tre il secondo, ma già di sei il terzo. Io pensavo che fossero arrivati i saltimbanchi, e che adesso quei maiali, come avviene negli spettacoli per la strada, avrebbero fatto qualcosa di eccezionale. Ma Trimalcione, rotti gli indugi, « Quale di questi – disse – volete che all’istante vi facciano da cena? Che un pollo alla Penteo e altri cosi del genere i contadini li fanno, ma i miei cuochi anche i vitelli cotti in pentola sanno fare ». E subito manda a chiamare il cuoco, e, senza attendere la nostra scelta, dà ordine che si ammazzi il più anziano. Poi, ad alta voce: « Di che decuria sei? ».
Come quello gli risponde che è della quarantesima, « D’acquisto, – continua, – o nato in casa? ». « Né l’uno né l’altro, – dice il cuoco, – ma a te lasciato in testamento da Pansa ». « E allora sta’ attento – lui conchiude – a servir bene. Se no, ti faccio spedire nella decuria dei lacchè ». E il cuoco, mogio mogio davanti a tanta potenza, se ne andava in cucina tirato dall’arrosto.
[48] A noi invece Trimalcione si rivolge con uno sguardo affettuoso, e « Il vino – disse – se non va, lo cambio, ma voi bisogna che gli facciate onore.
Grazie al cielo, io non compro, ma attualmente quanto interessa la mangiatoia me lo produce un podere in campagna, che io ancora non conosco. Mi dicono che sia lì al confine tra Terracinesi e Tarentini. E adesso ho in mente con un po’ di terra di collegarmi alla Sicilia, che, se mi vien voglia d’andare in Africa, possa navigare sul mio. […].
[49] Ancora non aveva tutto effuso, che un’alzata con un maiale gigantesco si insediò sulla tavola. Noi ci mettemmo a far le meraviglie per la sveltezza, ché nemmeno un pollo, giuravamo, si sarebbe potuto cucinare così in fretta, tanto più che nella fattispecie quel maiale ci sembrava molto più grosso del cinghiale di poco prima. Ma Trimalcione, dopo che l’ebbe esaminato ben bene, o Come? Come? – sbottò. – Questo porco non è stato sventrato? Proprio no, per dio! Qui, qui il cuoco nel mezzo ».
Il cuoco con aria afflitta si ferma davanti alla tavola ed ammette che di sventrarlo lui se n’è dimenticato. « Come dimenticato? – Trimalcione esclama. – Pare quasi che non ci abbia messo pepe e comino. Spogliarlo! ». Non si perde un momento: il cuoco viene spogliato e se ne sta lì contrito in mezzo a due aguzzini, però tutti incominciano a intercedere e dire: « Son cose che càpitano. Ti preghiamo, lascialo andare! Se gli càpita di nuovo, più nessuno di noi pregherà per lui ».
Io invece, di una severità veramente spietata, non riesco a trattenermi, ma, chinato all’orecchio di Agamennone, « Proprio un bel fannullone – gli sussurro – ha da essere questo schiavo. Chi andava a dimenticarsi di sventrare un maiale? No, per dio, non gli perdonerei, avesse avuto l’amnesia con un pesce ». Ma non Trimalcione, che, spianato il volto a un sorriso, « Avanti, – disse, – poiché hai la memoria così corta, sventralo davanti a noi ».
Ricuperata la tunica, il cuoco afferra un coltello e con mano guardinga incide qua e là il ventre del maiale, Sul momento dai tagli che via via si allargano sotto la spinta del ripieno traboccano salsicciotti e ventresche.
[50] Allo scatto del congegno la servitù proruppe in un applauso e gridò tutta insieme « Viva Gaio! », Ed anche il cuoco si ebbe un invito a bere, con in più una corona d’argento, e la coppa gliela servirono su un vassoio corinzio, che, mentre Agamennone lo esaminava più da presso, Trimalcione fece: « Il solo sono che ho del corinzio autentico ». Mi aspettavo di sentirlo affermare con la solita sicumera che i vasi glieli portavano da Corinto. Ma lui meglio ancora: « E forse ti chiedi, – disse, – come mai sono il solo a possedere del corinzio autentico. Semplice: è che il bronzista da cui compro si chiama Corinto. E che significa corinzio se non che uno che si serve da Corinto? Ma, perché non pensiate ch’io sia un sprovveduto, lo so arcibene com’è nato la prima volta il corinzio. Quando fu preso Ilio, Annibale, tipo scaltro e sfuggente come un’anguilla, accumulò sopra un unico rogo tutte le statue, di bronzo o d’oro o d’argento che fossero, e poi ci appiccò il fuoco. E quelle, nell’insieme formarono una lega. Allora gli artigiani pescarono dall’ammasso e ne fecero scodelle e piatti e statuette. Così nacque il corinzio, un insieme di tutto, ma né questo né quello. Lasciatemelo dire, però: io per me preferisco il vetro, almeno non puzza. Che se non fosse fragile, io per me lo preferirei all’oro. Così invece vale niente.
[…]
[52] « Per l’argenteria ci ho una vera passione. Posseggo dei calici da tredici litri, su per giù un centinaio […], con Cassandra che ha ucciso i figli suoi e i bimbi morti per terra che li diresti vivi.
Posseggo una tazza, che Rummio lasciò al mio patrono, dove Dedalo rinchiude Niobe nel cavallo di Troia.
Quanto agli scontri di Ermerote e Petraite, li tengo sui bicchieri. Tutta roba massiccia, che il mio capire di queste cose non lo venderei a nessun prezzo ».
Mentre ci dava queste informazioni, un valletto lasciò cadere un calice. Volgendosi a guardarlo, « Svelto, – disse Trimalcione, – prenditi a botte da te, ché non fai niente sul serio ». Ed ecco subito il valletto implorarlo a testa bassa. Ma quello: « Che hai da pregarmi? – aggiunse. – Come se io volessi il tuo danno. Il mio è un consiglio, che tu ti convinca da te a far le cose sul serio ».
Ma alla fine scongiurato da noi fece grazia al valletto. Quello prosciolto andò correndo intorno alla tavola…
E « Fuori l’acqua, dentro il vino! » gridò… […] La battuta scherzosa fu accolta con favore, specie poi da Agamennone, che sapeva a quale titolo si era invitati di nuovo a cena. Da parte sua Trimalcione, complimentato a quel modo, si fece più allegro nel bere, e, mezzo brillo ormai, « Di voi nessuno – chiese – prega la mia Fortunata perché balli? Credete a me, nessuno guida meglio il cordace ».
[…] Ed eccolo lì con le mani levate sulla fronte che rifaceva Siro il pantomimo, mentre tutta la servitù ripeteva in coro « Madeia Perimadeia » […].
[53] […] Ma finalmente arrivarono i saltimbanchi. Un omaccione senza un filo di spirito, piantatosi lì con una scala, ordinò a un ragazzotto di ballarci sopra certe ariette gradino per gradino fino in cima, poi di saltare attraverso dei cerchi di fuoco e di reggere un’anfora coi denti. Estasiato appariva solo Trimalcione, il quale diceva che era un mestiere da fame, ma che per lui a questo mondo erano due gli spettacoli dove si divertiva, saltimbanchi e suonatori di corno, mentre il resto, animali, concerti, erano sciocchezze belle e buone. « Effettivamente – continuò – avevo anche ingaggiato una compagnia di comici, ma preferii che facessero l’Atellana e al mio flautista diedi l’ordine di suonare in latino ».
[56] […] – continuò – quale pensiamo sia mestiere più difficile? Io per me penso il medico e il bancario: il medico, che sa cosa gli ometti hanno dentro i precordi e quand’è che viene la febbre, anche se io con loro ci ho il dente avvelenato, perché non fanno che prescrivermi carne d’anitra: il bancario, che attraverso l’argento vede il bronzo.
Quanto poi agli animali che non parlano, i più attivi sono i buoi e le pecore: i buoi, grazie ai quali manduchiamo il nostro pane, le pecore, ché loro con la lana ci fanno andare in gran pompa. E – azione riprovevole! – uno si mangia la pecora e si fa il vestito. Quanto poi alle api, io per me penso siano bestie divine, che il loro vomito è miele, anche se, com’è fama, lo ricavano da Giove. Pungono, sì, ma per questo, che dovunque c’è del dolce lì finisci col trovare anche dell’amaro ».
E già rubava il mestiere anche ai filosofi, quando incominciarono a girare in un’urna dei biglietti da lotteria, con un valletto preposto a questo ufficio che dava lettura degli apoforeti. « Argento mortale »: portarono una mortadella con sopra un acetabolo. « Capezzale »: portarono un pezzo di capicollo « Insipienza e contumelia »: fu offerto del biscotto insipido e un corpo contundente con una mela. « Nespole e persica »: si ebbe uno staffile e una daga persiana. « Passeri e ammazzamosche »: uva passa e miele attico.
« Per la tavola e per il foro »: si ebbe un tortino e una tavoletta. « Canale e pedale »: portarono una lepre e una suola. « Murena e lettera »: si ebbe un murice con una rana e una cappa. Ridemmo a lungo. Ce n’erano mille di questo tipo, ma ormai mi sono scappati di mente.
[59] […] Entrò lì subito la compagnia e fe’ strepere l’aste sugli scudi. Trimalcione, anche lui dello spettacolo, si assise su un cuscino, e, poiché gli Omeristi, per fare al solito cosa insolita, discorrevano tra loro in versi greci, lui, con voce squillante, leggeva il copione in latino. Quindi, ottenuto il silenzio, « Sapete – disse – che storia rappresentano? Diomede e Ganimede erano fratelli. Sorella di questi due era Elena. Agamennone la rapì e a Diana offrì in cambio una cerva. E così adesso Omero racconta in che modo Troiani e Parentini si facciano guerra tra loro. Ma lui vinse, si capisce, e diede in moglie ad Achille Ifigenia sua figlia. Questo il motivo per cui Aiace impazzisce. E ne darà qui subito la dimostrazione ».
Appena Trimalcione così disse, gli Omeristi lanciarono un grido, e, mentre la servitù si sparpagliava ai suoi posti, venne introdotto su un vassoio di duecento libbre un vitello lesso, con in più tanto d’elmo.
Seguì sùbito Aiace, che, impugnata la spada, come in via di ammattire, procedette al massacro, e, dopo aver duellato ora di punta ora di taglio, raccolse infilzandoli i pezzi del vitello e li distribuì tra noi che assistevamo ammirati.
[60] Ma non ci fu dato di ammirare a lungo tanta eleganza di finte, ché all’improvviso i cassettoni incominciarono a cigolare e tutto il triclinio ne tremò. Sconcertato io balzai in piedi, nel timore che per il tetto calasse giù un saltimbanco. Né con minor meraviglia alzarono il volto gli altri commensali, chiedendosi che razza di novità si annunziasse dal cielo. Ed ecco, dischiusisi i cassettoni, discenderne tutto a un tratto un gran cerchio, staccato evidentemente da una grossa botte, da cui pendevano per tutta la circonferenza corone d’oro con ampolle d’unguento.
Mentre venivamo invitati a ritirare questi apoforeti, volti gli occhi alla tavola […] Vi era già stata deposta un’alzata con sopra delle focacce, il cui centro era occupato da un Priapo cotto al forno, che secondo l’usanza reggeva nel grembo assai vasto frutti d’ogni genere e grappoli d’uva. Ingordamente allungammo le mani a quel trionfo, ed ecco lì una nuova sortita di scherzi rianimare la festa. Che tutte le focacce e tutti i frutti anche al minimo tocco incominciarono ad effondere croco, e l’umore pungente ne sprizzava sino a noi. Immaginando allora che una portata imbibita di un ingrediente così tipico del culto fosso sacra, ci alzammo decisi e « Salute ad Augusto, padre della patria! » esclamammo. Ma poiché certuni pur dopo quell’atto di devozione continuavano a far man bassa dei frutti, anche noi ce ne riempimmo le salviette, ed io specialmente, che dei doni ammucchiati in seno a Gitone non mi pareva ce ne fosse mai abbastanza.
Frattanto, in veste candida e succinta, entrarono tre valletti, due dei quali collocarono sulla tavola i Lari con tanto di medaglie, mentre l’altro, portando in giro una tazza di vino, « Propizi gli dèi! » invocava,.. E diceva che uno si chiamava Affarone, l’altro Contentone, il terzo Guadagnone. Ed anche noi, quando giunse l’immagine al vero di lui, Trimalcione, poiché tutti la baciavano, ebbimo ritegno di trascurarla.
[…]
[64] […] Trimalcione, dopo aver fatto, per non essere da meno, l’imitazione dei trombettieri, si rivolse all’amor suo, che egli chiamava Creso. Il ragazzino cisposo, coi denti tutti cariati, stava però infagottando in una fascia verdeporro una cagnetta nera e grassa da non dire, che non ne poteva più, ma lui teneva sul letto un pane da mezza libbra e la ingozzava di forza. Tócco da tali premure, ordinò Trimalcione che si conducesse Cucciolo, « il presidio della casa e della famiglia ». Fu condotto sull’istante, tenuto alla catena, un cane di grossa taglia, che, appena il portinaio con un calcio gli fece « A cuccia! », si accovacciò davanti alla tavola. Allora Trimalcione, gettandogli un pezzo di pane bianco, « Nessuno – disse – in casa mia mi ama di più ». Stizzito il ragazzino che lui lodasse Cucciolo a quel modo, mise a terra la cagnetta, aizzandola a far baruffa. Cucciolo, comportandosi ovviamente da quel cane che era, riempi il triclinio di latrati assordanti e per poco non fece a pezzi la Gemma di Creso. Né lo scompiglio si limitò alla baruffa, che un candelabro ancora, rovesciatosi sulla tavola, fracassò per un verso tutti i vasi di cristallo e spruzzò per l’altro d’olio bollente un certo numero di commensali, Trimalcione, per non aver l’aria di preoccuparsi del disastro, diede un bacio al ragazzino, invitandolo a salirgli sul dorso. Senza farselo ripetere, quello gli montò a cavalcioni, e, picchiandolo fitto fitto sulle spalle a piene mani, tra le risa gridava:,« Cucù, quante sono? ». Calmatosi così dopo un poco, Trimalcione ordinò di preparare un gavettone, per distribuire da bere a tutti gli schiavi accoccolati ai nostri piedi, con una clausola però: « Se qualcuno – disse – non vorrà accettare, innaffiagli la testa. Di giorno serietà, ma adesso allegria! ».
[65] A questa gentilezza tennero dietro gli stuzzichini, di cui, potete credermi, basta il ricordo a disgustarmi. Immaginate che in luogo dei tordi portarono in giro delle galline di allevamento, una per ciascuno, e delle uova di papera incappucciate, con Trimalcione quanto mai intestardito a farcene mangiare, ché quelle, diceva, erano galline senza ossa. Intanto un littore bussò alla porta del triclinio, e, vestito di un abito bianco, con intorno una gran folla, entrò un nuovo crapulone. Impressionato dal fare maestoso, io pensai fosse arrivato il pretore. Per questo feci il tentativo di alzarmi e di mettere in terra i piedi nudi. Rise Agamennone a vedermi così agitato, e « Calmati, – disse, – scioccone. È Abinna, seviro e insieme marmista, che, a quanto pare, fa delle tombe magnifiche ».
Rinfrancato da queste parole, mi misi di nuovo comodo e seguii a bocca aperta l’ingresso di Abinna, Quello invero, già alticcio, si appoggiava con le mani alle spalle della moglie, e, carico di parecchie corone, con l’unguento che gli colava per la fronte sugli occhi, andò a sistemarsi al posto d’onore, e ordinò sull’istante vino e acqua calda. Compiaciuto che ci fosse allegria, Trimalcione ordinò anche lui un calice più grande e volle sapere dall’altro che accoglienza aveva avuto, « C’era di tutto, – quello rispose, – all’infuori di te, ché la pupilla dei miei occhi era qui. Ma, giurabbacco, è andata bene.
Scissa offriva un ricco novendiale per un poverino, suo schiavo, che egli aveva affrancato in punto di morte. E con gli esattori, immagino, avrà da farci una bella giunta, che il morto glielo valutano cinquantamila sesterzi. Ma comunque è andata egregiamente, anche se si era costretti ogni mezzo bicchiere a versarlo sulle ossicella di quello là ».
[66] o Insomma, « saltò su Trimalcione, – che vi han dato per cena? », o Vedo di dirtelo, – quello rispose, – se ci riesco, che ho una memoria io, da dimenticarmi tante volte del mio nome. Ad ogni modo, come primo ci hanno servito un porco coronato di ventresche, con intorno dei sanguinacci, e delle rigaglie cucinate a puntino, e, già già, delle bietole, e del pane integrale autentico, che io preferisco a quello bianco, perché dà forza e quando faccio i miei bisogni non ho da piangere. La portata seguente era una focaccia al cacio fredda, con sopra versato caldo del miele spagnolo di qualità. Di focaccia così me ne mangiai più che un pezzetto, di miele poi mi riempii da scoppiare. Il contorno era di ceci e lupini, con noci a volontà e una mela a testa. Io due però me ne son prese – guarda, le ho qui avvolte nel tovagliolo – che se non porto qualcosa in regalo al mio schiavetto, mi sento le mie.
Ha ragione la mia signora di farmi segno. Ci avevano messo davanti un pezzo di carne d’orso, che quella sconsiderata di Scintilla, per averne assaggiato un boccone, poco ci mancò non rimettesse l’anima, mentre io ne mangiai più di una libbra, che il sapore era proprio di cinghiale. E poi, mi chiedo, se l’orso si mangia l’ometto, non ha tanto più ragione l’ometto di mangiarsi l’orso? Alla fine ci hanno servito formaggio fresco e mostarda e una lumaca per uno e listerelle di trippa e fegatini al tegamino e uova incappucciate e rape e senape e una scodella scacazzata – basta, basta! Ma no, che fecero ancora girare dentro un bacino delle olive in salamoia, con certi maleducati che arrivarono a pescarne tre manciate. Quanto al prosciutto, lo mettemmo in libertà.
[67] Ma di’ un po’, Gaio, ti prego, come mai Fortunata non è qui a tavola?».
« Sai lei com’è, – esclamò Trimalcione, – che, se non ha riposto l’argenteria, se non ha diviso quel che resta tra i ragazzi, non mette dentro una goccia d’acqua! ».
« D’accordo, – rispose Abinna, – ma, se lei non viene qui a tavola, io levo le chiappe ». E già faceva l’atto di alzarsi, senonché, trasmesso un segnale, tutta la servitù chiamò quattro e più volte Fortunata.
Così ella giunse con la veste tenuta su da una cintura giallina, che di sotto le spuntava la tunica color ciliegia e gli anelli le si vedevano alle caviglie e gli scarpini bianchi trapunti d’oro. Asciugandosi allora le mani in un fazzoletto che aveva al collo, va a prendere posto sul letto dove si trova Scintilla, la moglie di Abinna, e, nell’atto di baciarla, con quella che batte le mani, « Si riesce – dice – a vederti? ».
Giunse così il momento che Fortunata si sfilò dalle braccia cicciose i braccialetti e li porse a Scintilla da ammirare. Infine anche gli anelli si tolse e la reticella d’oro – oro di coppella, diceva.
Notò Trimalcione la cosa, e, fattosi portare lì tutto, « Vedete – disse – i lacci delle donne! È così che ci pelano, babbioni che siamo. Sei libbre e mezzo dev’essere. Però anch’io ci ho un braccialetto di dieci fatto coi millesimi di Mercurio ».
Alla fine poi, perché non sembrassero frottole, ordinò di portare lì una bilancia e di farla girare a controllo del peso. Né più riservata fu Scintilla, che si sciolse dal collo un medaglioncino d’oro, che lei chiamava Contentone. Quindi mise in mostra due orecchini e a sua volta li passò a Fortunata da esaminare, « Grazie al mio signore – aggiunse – nessuno ne ha di più belli ». «Sfido, – disse Abinna, – mi hai lasciato pulito, per farti comprare la pallina di vetro. Certo, se avessi una figlia, le taglierei le orecchie. Non esistessero donne, la roba sarebbe a niente. Così invece si piscia caldo e si beve freddo».
Intanto le donne a sentirsi punzecchiare ridevano tra loro e già un po’ brille si scambiavano baci, una cianciando della sua serietà di madre di famiglia, l’altra dei capricci del marito e della sua leggerezza.
Mentre stavano così appiccicate, Abinna si alzò quatto quatto, e, afferrati i piedi di Fortunata, glieli tirò sul letto. « Ohi, ohi! » quella gridò, che la tunica le era salita fin sopra le ginocchia. Riaggiustatasi allora tra le braccia di Scintilla, nascose nel fazzoletto la faccia tanto più involgarita dal rossore.
[68] Dal momento che Trimalcione, concessa una tregua, aveva dato poi ordine che si servissero i nuovi piatti, tolsero gli schiavi tutte le mense e ne portarono altre, e intanto spargevano della segatura tinta di croco e cinabro, non che, cosa prima mai vista, della mica ridotta in polvere.
E sùbito Trimalcione: « Certo – disse – avrei potuto accontentarmi di questo servizio, ché i piatti nuovi li avete. Ma, se qualcosa di buono c’è, lo si porti ».
Intanto un valletto di Alessandria, che mesceva acqua calda, prese ad imitare i rosignoli, con Trimalcione che a tratti gridava « Cambiare! ».
Ed ecco un altro numero. Lo schiavo accoccolato ai piedi di Abinna, per ordine, credo, del padrone, attaccò all’improvviso con voce squillante:
« Frattanto in mezzo al mare già Enea con la flotta era giunto ».
Mai suono più stridulo colpì i miei orecchi, ché, a parte gli errori, come i barbari fanno, nel pronunziare o le lunghe o le brevi, quello ci mischiava dei versi di Atellana, tanto che allora per la prima volta anche Virgilio mi sembrò uno strazio. Tuttavia, quando a un certo punto, sfinito, la smise, Abinna aggiunse il suo commento, e « Non è che abbia studiato, – diceva – ma io lo mandavo in giro dai ciarlatani, che si facesse un’istruzione. Ed oggi non ha il compagno, mulattieri o ciarlatani che gli salti di imitare. Ha un’intelligenza da far paura: lui è sarto, lui è cuoco, lui è pasticciere, uno rotto a tutti i mestieri. Ha però due difetti, che, se non li avesse, tutti i numeri avrebbe: è circonciso e russa. Quanto al fatto che è strabico, non me ne importa: guarda come Venere. Proprio per questo non sta mai zitto, che ha l’occhio sempre in movimento. Lo acquistai per trecento, denari…».
[69] […] Né ci sarebbe stata una fine a tanti strazi, se non avessero servito il dessert, tordi di siligine imbottiti di uva passa e di noci, cui tennero dietro anche mele cotogne trapunte di spini, così da sembrar ricci. E sin qui poteva andare, ma una portata di gran lunga più grottesca ci diede il senso che meglio se mai era morire di fame. Che, come servirono in tavola, così almeno ci parve, un’oca di allevamento con intorno pesci e uccelli di ogni genere, « […] – disse Trimalcione – quanto vedete qui in tavola, è fatto di un’unica sostanza ». Io naturalmente, sapientone come al solito, capii subito di cosa si trattava, e, volgendomi ad Agamennone, « Scommetto – dissi – che è tutto di… o se mai di mota. A Roma, di Carnevale, ne ho viste di cene così per immagine ».
[70] Non avevo ancora finito di parlare, quando Trimalcione riprese: « Ch’io non abbia più a crescere, di soldi, non di grasso, se tutta questa roba il mio cuoco non l’ha fatta col maiale. Un uomo più prezioso non è possibile trovarlo. Basta dirglielo: di una vulva ti fa un pesce, di un pezzo di lardo un colombo, di un prosciutto una tortora, di uno zampone una gallina. E per questo con la mia inventiva gli ho messo un gran bel nome, ché si chiama Dedalo. E, poiché ha tanta disposizione, gli ho portato in dono da Roma dei coltelli di ferro norico ».
E sùbito ordinò che li tirassero fuori e dopo averli esaminati se li guardava ammirato. E anche a noi diede licenza di provarne il filo sulla guancia.
All’improvviso entrarono due schiavi, con l’aria di aver fatto baruffa alla fontana, che in collo almeno ci avevano ancora le brocche. Messosi allora in mezzo a giudicare della contesa, Trimalcione pronunziò il verdetto, ma nessuno dei due lo accettò, che anzi si diedero l’un l’altro coi bastoni sulle brocche. Sconcertati per quel loro fare tracotante da ubriachi, eravamo lì con gli occhi fissi a guardarli battagliare, quando vedemmo da quei vasi panciuti sfuggire ostriche e pettini, che un valletto raccolse in un piatto e portò in giro.
Alla pari con tanta raffinatezza fu il cuoco ingegnoso, ché ci servì delle chiocciole su una graticola d’argento e intanto cantava con voce tremula e cavernosa.
C’è da vergognarsi a riferire quanto segue, ché, cosa inaudita, valletti ben chiomati recarono in un catino d’argento olio profumato, con cui unsero i piedi dei commensali, dopo di aver loro avvinto gambe e talloni di coroncine.
Poi sempre di quell’olio un po’ ne versarono nel vaso del vino e nella lucerna.
Già smaniava Fortunata di mettersi a ballare, già batteva le mani Scintilla più spesso che non parlasse, allorché Trimalcione: « Vi dò il permesso, – disse, – Filargiro e Carione, se anche tu sei un Verde arrabbiato, e dillo pure a Menofila, la tua compagna, che venga qui a prender Posto ».
Figurarsi! Per poco non finimmo buttati giù dai letti, tanto la servitù invase tutto il triclinio. Ricordo che dietro me trovai sistemato il cuoco, quello che col maiale aveva fatto l’oca, tutto puzzolente di salamoia e di intingoli. Né si accontentò di aver trovato posto, ma sùbito prese a imitare Efeso, l’attore tragico, e a sfidar di tanto in tanto il padrone a scommettere con lui: « Al Circo nei prossimi giochi, tu fossi dei Verdi, vittoria! ».
[71] Commosso da quell’assalto, « Amici, – disse Trimalcione, – gli schiavi pure sono uomini e hanno bevuto lo stesso latte degli altri, anche se un triste destino pesa loro sulle spalle. Ad ogni modo, mi venga un colpo, se presto non respireranno l’aria della libertà. Alle corte, nel mio testamento li affranco tutti. A Filargiro anche un fondo gli lascio e la sua donna, a Carione pure una casa d’affitto e il cinque per cento e un letto bell’e pronto.
Quanto a Fortunata, la faccio mia erede e la raccomando a tutti gli amici miei. E, se do pubblicità a tutto questo, è perché sin da ora mi si ami in famiglia come defunto ».
Avevano tutti incominciato a render grazie alla benevolenza del padrone, quand’egli lasciati gli scherzi si fece portare una copia del testamento e lo lesse per intero da cima a fondo con la servitù che singhiozzava.
Volgendosi poi ad Abilma, « Di’ un po’, – fece, – mio buon amico, me la stai costruendo la tomba nel modo che ti ho ordinato? Ti prego, ve’, che ai piedi della mia statua tu ci dipinga la cagnetta, e corone, e profumi, e tutti gli scontri di Petraite, che a me tocchi, grazie a te, di esser vivo anche dopo morto. E che poi ci siano cento piedi in larghezza, duecento piedi in […].