In morte del “maestro e dell’amico”, il grande Eduardo de Filippo scrisse con profonda commozione:
<<Pietra lavica di Napoli, cantucci bui e maleodoranti d’ogni angusto vicolo; antri squallidi e “vinelle” ingombre di rifiuti, resi ancora utili dal filosofico e geniale senso di adattamento della nostra povera gente; muri di tufo massiccio e salmastro, che vi chiudeste a scatola intorno alle campane di vetro coi santi, agli opachi letti di ottone, alle rose di carta velina, ai bicchieri dispari, alle forchette di stagno, alle sedie malferme, al palissandro tarlato dei comò traballanti: E’ morto Raffaele Viviani!… Io? Io, Raffaele mio sono rimasto per continuare ad onorarti sulle tavole, fino a quando avrò sangue e fiato……..Ora Raffaele mio, Amico e Maestro, incontrerai il più dolente e santo degli “Scugnizzi”: Tu sai come si chiama: Egli ti verrà incontro con il braccio teso per imprimere con il pollice ferreo l’ultimo tocco alla tua grande maschera tragica>>

Grande scrittore di teatro napoletano e grande attore ,Raffaele Viviani in ogni dramma e commedia seppe trasfondere un’umanità infinita.
I suoi personaggi forgiati, con sottile ironia popolare, nella cruda realtà, attraverso il vero, talvolta deformato in grottesco arrivavano alla rappresentazione della “sua” realtà.
Fu autore, attore, poeta, acrobata, musicista, melodista e cantante del suo teatro. Fu uno dei macchiettisti piu’ celebri della drammaturgia napoletana
Viviani, artista versatile, scrisse anche numerose poesie dialettali, ispirate a soggetti reali della vita di quartiere. Grazie alla straordinaria bellezza del dialetto napoletano, il “Genio stabiese”, seppe enfatizzare con singolare abilità, alcuni aspetti tipici della vita sociale d’epoca.

Nato a Castellammare di Stabia il 10 gennaio 1888, dimostrò sin dalla prima infanzia il suo talento, prendendo parte a numerose commedie teatrali. La passione per il teatro gli fu trasmessa dal padre (anch’egli di nome Raffaele), impresario del teatro dell’Arena Margherita di Castellammare di Stabia. Sull’orlo del fallimento, poco dopo la nascita di Raffaele, però, la famiglia Viviani, a causa di un sequestro tributario, fu costretta a trasferirsi a Napoli, ( citta’ natale ) con tutta la famiglia, e ad avviare una serie di collaborazioni con diverse compagnie napoletane in qualità di fornitore di costumi e attrezzi scenici che erano sfuggiti al sequestro .
Raffaele era solito accompagnare il padre mentre lui lavorava in giro per teatri e compagnie ed era solito portato per ammirazione ad imitare il Trengi nei gesti e nella voce.
Una sera nel teatrino di Porta San Gennaro, dove andava in scena un’operetta marionettistica dal titolo Le cocotte o La bisca di Montecarlo, in cui cantava come tenore e comico Gennaro Trengi, (che si ammalò), il proprietario dei “pupi” Aniello Scarpati, intuendo che il pubblico avrebbe preteso il Trengi…..o i soldi, ebbe l’idea di far cantare ‘o figlio ‘e Rafele.
Aveva solo quattro anni e mezzo, il successo fu strepitoso, anche la stampa si occupò del caso unico, la gente dai quartieri più lontani accorreva ad assistere alle esibizioni del bambino prodigio a tal punto che poco dopo venne affiancato da una duettista, Vincenzina Di Capua.
Nel frattempo il padre sempre grazie al recupero di materiali di scena sfuggiti al sequestro, costruisce il teatro “Masaniello” nei pressi di Porta Capuana
Qui il giovanissimo Viviani già si esibiva con numeri propri insieme alla sorella Luisella. Tre anni dopo il Teatro Masaniello si trasferì nella zona della Marina.
Le umili origini della famiglia Viviani, marcarono fortemente la vita di Raffaele; sacrifici e stenti erano all’ordine del giorno, quando, la prematura scomparsa del padre (Raffaele aveva appena 12 anni), aggravò ulteriormente le già disagiate condizioni familiari, la perdita del riferimento paterno, costrinse lo scugnizzo ad una forzata maturità di capo famiglia. Nel difficile ruolo di “pater familias” doveva occuparsi della madre e della sorella Luisella, anch’ella giovane attrice e grande cantante. I tre vissero nella piu’ cupa disperazione e miseria; Raffaele da buon scugnizzo, passava le sue intere giornate per le strade e per i vicoli di una Napoli pericolosa e criminale. Ma sapendo di avere un talento naturale, decise di sfruttarlo e nonostante fosse una persona analfabeta, che non sapeva ne leggere e ne scrivere, volle studiare da autodidatta per migliorarsi, e seppe riscattarsi socialmente e culturalmente dopo un lungo tirocinio da artista poliedrico quale egli era.
La famiglia abitava in quel periodo in una stanzetta al Vico Finale del Borgo Sant’Antonio Abate, un quartiere che influenzò parte della sua produzione successiva.
Obbligato dal senso del bisogno, riuscì con caparbia determinazione, girando per tutta l’Italia ad ottenere una rapida crescita artistica che lo vide autore dei testi e molto spesso anche delle musiche delle sue commedie . Egli collabora con molte compagnie di Varieta’ nell’Italia settentrionale e le sue opere furono apprezzate nei teatri più importanti d’Italia Tornato a Napoli nel 1904, riuscì a farsi scritturare al Politeama Petrella, dove interpreta per la prima volta una delle sue macchiette più riuscite: «’O scugnizzo».
Venne scritturato poi all’Eden uno dei maggiori varietà cittadini, dove il suo genere realistico impressiona e poi passa al Teatro Nuovo, dove divenne popolarissimo, indovinando un successo dopo l’altro.
Questo fu un periodo di rilevante crescita artistica per Raffaele Viviani: poi recita a Roma dove lavorò con Petrolini, allo Jovinelli e per il cinema in alcuni film di successo.
Furono gli anni piu’ creativi e fertile di Viviani.
In quegli anni scrive e rappresenta con grande successo Tuledo ’e notte, ’Nterr’‘a Mmaculatella, ‘O cafè ‘e notte e juorno, Piazza Municipio, Eden Teatro
Fonda poi durante la Grande Guerra una propria compagnia teatrale dialettale richiamando molti suoi cari amici conosciuti sui palchi del Varietà, e comincia a portare le sue opere in giro per l’Italia riscuotendo grandi successi , mettendo in scena spettacoli che gli permisero di acquisire prestigio a livello nazionale e non solo: due tragedie, I pescatori e Zingari, ma anche commedie come Napoli in frac, La festa di Montevergine, Vetturini da nolo, La morte di Carnevale e Putiferio. I n seguito dal 1929, Viviani e la sua compagnia partirono per una tournèe di un anno in America Latina, riscuotendo notevoli approvazioni da pubblico e critica.

Ritornato in Italia, Viviani conquista definitivamente le platee nazionali con commedie come L’ultimo scugnizzo e Guappo ’e cartone. Nel ’34 interpretò Don Marzio ne La bottega del caffè di Goldoni alla Biennale di Venezia e nel ’36 andò in tournèe a Tunisi, riscuotendo in entrambi le occasioni un clamoroso successo. Dal ’36 in poi Viviani fu pesantemente ostacolato dalla politica linguistica deliberata dal regime fascista, che voleva l’eliminazione delle lingue straniere (e dei dialetti) dal parlato e dai luoghi pubblici, a favore della lingua italiana. Fu costretto a lavorare come interprete di opere altrui (La casa delle ortensie di E. Grassi; Il pazzo sono io di S. Ragosta; Miseria e Nobiltà di E. Scarpetta; Chicchignola di E. Petrolini). Nel ’41 mise in scena Siamo tutti fratelli, una sua riduzione di un testo di A. Petito.
Gli ultimi dieci anni della sua vita furono segnati dal crescente avanzare della sua malattia, che ne limitò progressivamente l’attività e la produzione.
Dopo aver trascorso quattro lunghi mesi di sofferenza nel proprio letto a causa del suo male incurabile , la sua ultima volonta’, prima di sospirare, fu quella di vedere la sua magica citta’ dalle vetrine della sua finestra:<<Arapite, faciteme vede Napule>>.
Dopo una brillante carriera, si spense il 22 marzo 1950, all’età di 62 anni.

Il suo teatro era fatto di creature vive e non di figure romanzesche-letterarie; sulla sua scena ci sono ritratti umani tragico-comici della societa’ napoletana. Il suo non era un popolo piccolo borghese di matrice scarpettiana, ma era un popolo di scugnizzi, di spazzini, di guappi, di prostitute, di ladri, di miseri vagabondi, di venditori ambulanti, di vicoli, di rioni e di quartieri napoletani degradanti, dove si vive un’esistenza faticosa e penosa, di indigenza e di emarginazione
Egli odiava ogni forma di faciloneria e di improvvisazione e, fin dall’inizio della sua attività nel teatro di prosa, impose a se stesso e agli attori della propria compagnia un rigore interpretativo e una fedeltà al testo scritto che erano assolutamente sconosciuti nel teatro napoletano di allora.
Era un regista esigentissimo, che non perdonava neanche il più piccolo sbaglio o una semplice dimenticanza. Gli attori erano tenuti a imparare le parti a memoria già durante le prove e neanche per la prima rappresentazione veniva consentito l’aiuto del suggeritore

Eduardo Scarpetta, assiduo frequentatore delle sue rappresentazioni, così scriveva:
<< Quelle brevi rappresentazioni, non si ascoltano, si vivono, e si vivono perché, ancora prima degli spettatori le ha vissute e sentite l’autore, le ha infine riprodotte con quella sincerità e semplicità che costituiscono il tono degli artisti veramente sommi >>.
<< Il riso addita e scopre sempre una piaga sociale! E’ un piccolo mondo in cui la comicità più schietta si fonde con l’osservazione arguta e profonda e l’ambiente dei bassifondi napoletani palpita nel più lieve dettaglio scenico. Sono tocchi di colore, sono scorci di figure umane, sono brandelli di vita messi a nudo. Si ride anche qui, ma fra il riso spunta, ad un tratto una lagrima, e il dramma infine prorompe con un crescendo ed una chiusa efficacissima >> .

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