Di fronte a questa statua di Francesco Jerace situata come ultima delle otto statue allogiate nelle nicchie sulla facciata pricipale della Reggia di Napoli, ogni volta mi rendo sempre più conto che raccontare la vera storia della fine del regno di Napoli , diventa qualcosa di faticoso e difficile in quanto il percorso è accidentato e talvolta pericolosamente insidioso.
La figura del re Vittorio Emanuele II , in questa statua è lasciata compiere la mossa di tenere levata in alto la spada col braccio, Il suo braccio sinistro è invece piegato si che la mano poggia sul petto mentre stringe una copia della Costituzione. Al momento stesso un mantello, ”largo e piegoso come un lenzuolo” avvolge per intero tutto il lato sinistro della statua del re .
CURIOSITA’: Questa statua dI Vittorio Emanuele II, alloggiata come ultima delle otto statue della facciata pricipale della Reggia di Napoli, è la statua più grande ma anche quella più discussa di tutte . Di fatto il titolare del trono Savoia non fu re di Napoli, data l’annessione del regno al neonato Regno d’Italia.
Vittorio Emanuele II, è stato infatti il primo re d’Italie e ll’ultimo re del Regno di Sardegna ma certamente non è mai sato re del Regno delle due sicilie . La sua statua da questo punto di vista non ha molto senso come presenza tra i tanti re di Napoli .
Nato a Torino il 14 marzo del 1820 , Vittorio Emanuele II, figlio di Carlo Alberto di Savoia Carignano e Maria Teresa Asburgo Lorena di Toscana, da molti ricordato anche con l’appellativo di Re galantuomo, perché dopo la sua ascesa al trono non ritirò lo Statuto Albertino promulgato da suo padre Carlo Alberto, grazie sopratutto alle abilità di statista del suo primo ministro Cavour, riuscì ad ottenre il titolo di primo re d’Itala ma certamente non quello di re del Regno delle Due Sicilie.
Egli dopo la caduta della fortezza di Gaeta che segnò sostanzialmente la fine del Regno delle Due Sicilie e aprì la strada all’annessione del regno al nascente Regno d’Italia. preoccupato dell’accrescersi della fama, già notevole, del generale Garibaldi, decise di dirigere le sue truppe militari vero il sud.
Favorevole alla spedizione dei Mille, ma risoluto nell’impedire l’occupazione garibaldina di Roma, nel settembre 1860 , Vittorio Emanule II invase quindi alla testa del suo esercito l’Umbria e le Marchep er marciare su Roma ed infliggere una dura sconfitta all’esercito pontificio.
L’ultima cosa che restava da fare era quella di incontrate quanto prima il generale Garibaldi per evitare il pericolo che l’Italia non sarebbe stata di Vittorio Emanuele ma di Garibaldi.
Il 26 ottobre avvenne quindo lo storico incontro di Teano tra Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II. Fu questo un avvenimento decisivo del Risorgimento italiano,
CURIOSITA’: Mentre la data è certa, il luogo, dove realmente avvenne l’incontro a dire il vero, è un po’ meno certa. La notizie accolte dalle cronache del tempo e passata poi in molti manuali di storia, in assenza di una relazione ufficiale delle autorità militari, è stata in seguito messa fortemente in dubbio dagli storici sulla base di testimonianze di alcuni dei personaggi che assistettero all’evento e che indicarono come punto dell’incontro il quadrivio di Taverna della Catena nel comune di Vairano Patenora, ma peraltro è vero che a Teano i due protagonisti si dettero il saluto di commiato, dopo aver cavalcato affiancati .
L’incontro mantiene in ogni caso un valore simbolico importantissimo e segna di fatto il passaggio di sovranità sui territori appena conquistati dalla spedizione dei Mille da parte di Gariblaldi che di fatto li consegnò a Vittorio Emanuele II.
Omaggiato del Regno delle due Sicilie nell’incontro di Teano da Garibaldi, al quale negò la possibilità di continuare a governare il Mezzogiorno, Vittorio Emanuele si recò quindi nella città partenopea dove si trasferì per circa due mesi .
Egli fece ingresso a Napoli 7 novembre con Garibaldi che gli sedeva accanto nella carrozza.
Malgrado la pioggia c’era una folla notevole e plaudente ma le acclamazioni erano qusi tutte dirette a Garibaldi nonostante che, con il gesto, questi indicasse il re.
Per tutto il percorso la scena fu sempre uguale e Vittorio Emanuele, anche se seccato, non lasciava niente trasparire ma constatava personalmente come fosse amato e di quanta popolarità godeva colui che gli aveva conquistato un regno.
Eppure il giorno prima il re , gli aveva fatto uno sgarbo non andando, come aveva promesso, a passare in rassegna i garibaldini per manifestare loro, come aveva detto, « la propria riconoscenza ».
Quella mattina a Caserta, nel parco della Reggia, 1 12 mila volontari avevano atteso per tre ore, dopo l’orario stabilito, l’arrivo di Vittorio Emanuele II, desiderosi di mostrarsi in ordine, disciplinati, per niente inferiori ai soldati dell’esercito regolare,
Avevano atteso schierati in ordine di parata, con le divise logore, dietro le gloriose bandiere ridotte a brandelli.
Finalmente squillarono le trombe: eccolo!
Ogni garibaldino si raddrizzò e restò immobile con il suo fucile al piede. Ma il re non apparve.
Venne avanti il loro generale, cupo in viso, accigliato, seguito dallo stato maggiore.
Venne avanti a cavallo, percorse lentamente il fronte dello schieramento, poi tornò indietro e si mise all’entrata del palazzo per presenziare alla sfilata.
I garibaldini cominciarono a passare fissando con gli occhi luccicanti di lacrime il loro generale che immobile sul cavallo, teso, con la spada davanti a sé, fissava a sua volta quegli occhi che mutamente lo interrogavano ed ai quali non sapeva cosa rispondere.
Tre giorni dopo, il mattino del 9 novembre, Garibaldi s’imbarcò sulla nave da trasporto « Washington» per far ritorno a Caprera.
Portava con sé un rotolo di merluzzo secco, un sacco di grano da semina e poche centinaia di lire.
In seguito ai risultati dei plebisciti del 21 e 22 ottobre , Vittorio Emanuele II , poté alla fine finalmente annettere al suo regno di Sardegna anche Napoli e la Sicilia, divenendo in questo modo il primo re d’Italia (dal 1861 al 1878).
Assunse il titolo di re d’Italia, il 17 marzo del 1861 conservando, nonostante il parere contrario dei democratici, il suo nome originario, a dimostrazione di un forte attaccamento alla continuità storica della dinastia.
N.B. Vittorio Emanuele II è stato certamente il più amato dei sovrani di casa Savoia, anche per via delle sue qualità umane. Divenuto re di Sardegna nel 1849, egli collocò il suo Piemonte alla guida del progetto risorgimentale, coronato nel 1861 con l’Unità d’Italia e nel 1870 con la presa di Roma.
Fu salutato alla sua morte avvenuta il 9 gennaio 1878 come il Padre della Patria e a lui dedicato un monumento nazionale in Piazza Nazionale a Roma che risulta essere la statua più grande del mondo ( nell’interno del suo ventre si è tenuto un banchetto tra gli operai alla fine della lavorazione).
Se oggi noi vogliamo quindi capire qualcosa di Risorgimento dobbiamo necessariamente fare i conti con questo personaggio , Egl all’epoca era lui il re in quegli anni , Egli divente re di Sardegna nel 1849 quando si è appena persa disastrosamente le prima guerra di Indipendenza . E’ ancora re dieci anni dopo quando si fa la seconda guerra di Indipendenza cheè l’unica che gli italiani vincono , Rimana a lungo re ed dunque il primo re d’Italia.Intorno a lui viene costruito un mito propagandistico , Il termine “re galantuomo ” non è quindi una cosa che sia uscita così spontaneamente magari dopo che era morto , quamdo si era dimentica chi era davvero . Esso è una formula che viene messa in moto gia durante il suo regno … è un’invenzione , diciamo così dell’ ufficio stampa di corte,
Vittorio Emanuele II, non è uno dei grandi uomini del Risorgimento , Se uno infatti studi Cavour o Garibaldi capisci subito che erano questi gli uomini che in quel periodo hanno preso delle decisioni forti , corsi dei rischi e fatto succedere delle cose che realmente hanno cambiato la storia di questo paese . Vittorio Emanuele invece NO . .Di lui possiamo sostenere che la cosa migliore che ha fatto come re è quella di non aver fatto sbagli disastrosi mentre avrebbe potuto benissimo farne ,
Certo, non so se questo basti a meritarsi tuttie le vie , le piazze e i monumenti ma egli certamente ha avuto un ruolo positivo perche non ha gatto sbagli catastrofici,
Se invece analizziamo bene la sua vita , certo non possiamo dire che egli sia stato un perfetto uomo intelletuale od una grande cima politica lo si capiva perfettamente fin dalla sua giovane età quando il suo profitto a scuola era pieno di giudici negativi da parte dei suoi insegnati che lo definivano pigro svogliato, addormentato, maleducato e quasi mai preparato agli esami
Alla corte di Parigi chiacchierando con l’Imperatrice Eugenia , moglie dell’Imperato Napoleone III , oltre che riferire di esse molto contento di trovarsi a Parigi perchè aveva scoperto che la parigine non portavano le mutande .
Qundo per motivi politici vogliono farlo sposare con la principessa inglese Mary, lei ostinatamente si oppone in tutti i modi sostenendo la tesi che secondo lei a questa persona mancano totalmente i buoni principi e le buone maniere ed è talmente rozzo e grossolano da non riuscire nemmeno a compensar ele sue debolezze ,Alla fine la trattativa naufraga
I suoi contemporanei lo definiscono un uomo dai modi molto diretti che dice qualsiasi cosa gli passi per la testa dotato di un carattere difficile con il quale era quasi impossibile avere rapporiti sociali in quanto la sua conversazione era spessa brusca e militaresca al massimo. Il suo comportamento rozzo e capace di dire cose irripetibili .
Il ministro degli estreri inglese Lord Gladstone nel suo diario in cui annotò quanto dicevano di lui i suoi stessi ministri , lo descrive ipocrita ignorante ed imbecille oltre che disonesto che mente con tutti ( parole dei ministri dello stesso governo guidato da Vittorio Emanuele )
Vittorio Emanuele era di una religiosità sincera ma meno problematica rispetto a quella del padre, e pertanto firmò nel maggio del 1855 la legge sui conventi, benché qualcuno avesse visto nei gravi lutti che lo avevano colpito tra il gennaio e il maggio di quell’anno il castigo divino per la normativa antiecclesiastica che aveva comportato per lui e lo stesso conte Cavour la scomunica da parte di papa Pio IX
CURIOSITA’: In meno di un mese il re perse la madre, la moglie e il suo unico fratello; successivamente venne a mancare anche il neonato Vittorio Emanuele).
N,B, Alla fine del1 854 , il primo governo Cavour che non era riuscito a risolvere, nonostante gli sforzi, la crisi finanziaria del paese, spinse il presidente del consiglio ( sempre Cavour ovviamente ) ad emanare un disegno di legge poi approvato che prevedeva la soppressione nel Regno di Sardegna di tutte le corporazioni religiose, ad eccezione di quelle che facevano capo alle Suore di Carità e alle Suore di San Giuseppe, dedite all’assistenza dei malati e all’istruzione. Ad essere attaccati erano soprattutto gli ordini mendicanti, definiti come nocivi alla moralità del Paese e contrari alla moderna etica del lavoro. I beni di tali enti avrebbero formato la Cassa ecclesiastica il cui unico scopo sarebbe stato quello di pagare le pensioni ai sacerdoti ed ai monaci degli enti soppressi.
Curiosita’: Il padre Carlo Alberto di Savoia, la moglie Maria Teresa e il primogenito Vittorio Emanuele II, a seguito dei moti piemontesi del 1821 che già alcuni mesi prima avevano coinvolto Torino, si trasferirono nell’estate del 1822 a Firenze, nella villa di Poggio Imperiale, dove il 16 settembre 1824, scoppiò un incendio proprio nella camera dove dormiva il piccolo Vittorio Emanuele.
L’incendio divampato pare che fosse stato involontariamente provocato dalla combustione alla zanzariera della culla dalla stessa balia Teresa Zanotti Racca.. Essa purtroppo sembra che con una candela appiccò il fuoco alla zanzariera che proteggeva la culla, nell’intento di ammazzare delle zanzare che ronzavano attorno alla bocca del bimbo affidato alla sua custodia. Questo incidente pare che procurò vaste gravi ustioni al bambino e causò la morte della sua stessa nutrice che si prodigò molto per salvare il bambino . Lei infatti riportò ustioni tanto gravi da morirne dopo qualche giorno. Il bambino, almeno ufficialmente, rimase illeso. Nonostante il materasso fosse stato bruciato a metà. Ai fiorentini parve impossibile che il piccolo fosse uscito illeso da un simile incidente e si cominciò a spettegolare.
Da questo evento nacque la leggenda che il principe non fosse sopravvissuto all’incendio e che fosse stato sostituito con un bambino di origini popolane, figlio di un macellaio locale. Pare infatti che quella notte fosse morto anche il piccolo Vittorio Emanuele e poiché la famiglia non si poteva permettere la perdita del primogenito, fu deciso di sostituirlo in gran segreto. Voci mai confermate, raccontarono che venne sostituito con il figlio di un macellaio di Porta Romana, tale Gaetano Tiburzi detto “il Maciacca”, già fornitore dei Savoia. Pare infatti che il Tiburzi dopo l’episodio dell’incendio ebbe a lamentare la scomparsa del figlioletto e, a distanza di poco tempo, si arricchì inspiegabilmente, arrivando ad acquistare un intero palazzo dove aprì un nuovo e più grande esercizio .
Le assurde maliziose voci presero maggiore diffusione quando il giovane ragazzo arrivò all’età in cui il carattere, le tendenze e il temperamento lo mostrarono molto diverso non solo da Carlo Alberto, ma da tutti i principi di Casa Savoia.
Si disse allora che il figlio di Carlo Alberto nel settembre 1822 fosse morto in preda alle fiamme e che la nutrice, con la complicità di qualche funzionario addetto alla Casa dei principi di Carignano, lo avesse immediatamente sostituito col figlio del macellaio Tanaca, di Poggio Imperiale, che aveva un bambino della stessa età di Vittorio.
Il lato più notevole dell’assurda leggenda sta appunto nel fatto che la pretesa sostituzione d’infante sarebbe avvenuta col figlio di un macellaio, intendendo il popolo far derivare da una tale parentela gli atteggiamenti democratici che il duca di Savoia assumeva volentieri negli anni immediatamente precedenti alla sua salita al trono e specialmente dopo.
Resta il fatto che quest’uomo, toscano o piemontese,che sia , dopo i famosi plebisciti il 17 marzo del 1861, venne proclamato dal primo Parlamento italiano re d’Italia .
Ora, al di la del fatto che questo re Vittorio Emanuele II, purtroppo certo non si comportò in maniera leale con suo cugino Francesco( erano purtroppo parenti : mai fidarsi!!) , a distanza di anni , lasciando da parte per qualche momento le varie suggestioni patriottiche ed esaminando la questione con animo distaccato, se è vero che prima della Unione dell’Italia alla rassegna internazionale di Parigi del 1856 l’industria borbonica ottenne il premio per il terzo posto in europa come sviluppo industriale dopo Inghilterra e Francia., è altrettanto vero che all’epoca il sistema economico ed industriale borbonico aveva comunque Il difetto di avere un lento sistema di trasporto delle sue materie prime di estrazione (zolfo) o di coltivazione (frumento ed agrumi), che favorito da un ampio sviluppo costiero e da un regime daziario protezionistico nei riguardi delle merci d’importazione, continuava ad avvenire, come nei secoli precedenti, per via marittima in quanto la rete ferroviaria rimase per lungo tempo circoscritta solo a quel primo tronco Napoli-Portici ,mentre nel frattempo, il Nord si era dotato di una rete di duemila chilometri. Questo ovviamente favoriva piu di ogni altra cosa il commercio e la distrbuzione delle merci.
A difesa dei Borbone va comunque sottolineato il fatto che quandi si parla delle tante ferrovie presenti al nord e poche al sud ,il confronto è incongruo perche il Piemonte se faceva cento chilometri di ferrovia si legava ai mercati del nord Europa, mentre il Regno delle due Sicilie per collegarsi ai stessi mercati avrebbe dovuto prima conquistare lo stato papalin,il granducato di Toscana, lo stato austriaco del lombardo-veneto ed infini il Piemonte ,
Per cui sviluppa l’industria ferroviaria si sviluppò vendendo treni ovunque ( in sud America e nello stesso Piemonte ) ma preferisce sopratutto investire per i traffici nello sviluppo della flotta ed in pochissimi lustri mette su una delle più grandi flotte commerciali del mondo con cui commerciava con il nord Europa , gli Stati Uniti e persino Cina e Austrialia ,a tal punto che l’85% del commercio estero del Regno delle due Sicilie non era con gli atri paesi pre-unitari italiani ma stati nord europei e oltre oceanici .
N.B. Fino alla seconda guerra mondiale i treni che percorrevano il sud america erano treni made nel Regno delle due Sicilie.
Certamente inoltre tutti sappiamo anche che all’epoca, prima che avvenisse l’unione d’Italia, le industrie tessili e siderurgico del regno erano comunque tutte attive ed economicamente salde e che Il regno impiegava nell’industria una forza lavoro pari al 51% di quella complessiva degli stati italiani. Va quindi sottolineato il fatto che allora non erano presenti fenomeni emigratori della popolazione da parte del Regno delle due Sicilie . L’emigrazione industriale è vero che c’era per andare a lavorare nelle industrie del sud , ma riguardava principalmente i bresciani che andavano a lavorare nei stalimenti siderurgici calabresi
N.B. Nella storia del mezzogiorno nei millenni non si era mai emigrato. La prima volta nella storia che questo è successo,è avvenuta vent’anni dopo l’Unità d’Italia .
I più grandi stabilimenti industriali siderurgici d’Italia si trovavano in Calabria e le piu grandi officine meccaniche d’Italia erano quelle di Pietrarsa , Quando infatti il Piemonte ha fatto le ferrovie .le locomotive le ha comprate a Napoli perchè loro non le facevano .
Il Regno delle due Sicilie era quindi un luogo dove i disoccupati erano quelli che il lavoro non lo cercavano .Le offerte lavorative certo non mancavano perche anche gli imprenditori svizzeri,francesi,inglesi e tedeschi venivano nel Regno borbonico a creare nuove aziende.
Purtroppo però bisogna anche comunque riconoscere che le varie imposte erano spesso mal ripartite e le maggiori spese del bilancio statale borbonico, erano assorbite principalmente dalle forze armate ( esercito, marina, polizia,) mentre settori come istruzione, sanità, e opere pubbliche ricevevano pochissimi fondi . La spesa pubblica destinava quindi il grosso del bilancio alle forze armate, che avevano come fine principale tutelare le loro persone e quelle dei loro fedeli, le loro proprietà ed i loro privilegiI ( alla Real casa, ossia a sé stesso, alla sua famiglia, ai parenti, agli amici, ed ai suoi piu stretti collaboratori ,era assegnata una cifra che superava largamente quella spesa per le opere pubbliche e le necessità sociali della popolazione dell’intero regno ) .
Come tutte le monarchie, quindi anche quella borbonica era costituita da un gruppo di pochi governanti che spesso si mostrava essere noncurante della vita quotidiana della grande massa di poveri o poverissimi, e prelevava a proprio uso dal bilancio pubblico somme superiori a quelle spese per milioni di sudditi.
Le condizioni del popolo , seppure in maggior parte quasi tutto schierato in favore della monarchia erano certamente non delle migliori. L’alimentazione dei più poveri escludeva carne e pesce , e la maggior parte delle persone del popolino erano analfabete ( l’analfabetismo nel Sud colpiva l’87% della popolazione; a dispetto di quella nel Nord che era segnalata erroneamente essere del 54%.) , e solo il 18% dei bambini della nostra città contro Il 90% dei bambini del Nord andava alla scuola primaria .
CURIOSITA’: Qundo si parla di analfabetismo al sud in quellì epoca , non bisogna mai dimenticare che in tutte le statistiche retrodatate , la Sardegna viene staccata dal Regno Piemontese e attaccata invece al sud . Persino Giorgio Bocca in un suo articolo su l’Espresso per dimostrare l’arretratezza del Sud dice che il Piemonte aveva all’epoca solo il 45% di analfabeti mentre la Sardegna il 90% dimenticando che la Sardegna faceva comunque parte del regno del Piemonte .
Se è vero comunque che la nostra città nel periodo del gran Tour, a partire dal XVI secolo era meta di viaggi di gentiluomini ed intellettuali attirati dal ricchissimo patrimonio artistico e dall’alto livello culturale del paese, è altrettanto vero che molti degli innumerevoli viaggiatori che giunsero nella Napoli settecentesca riportarono testimonianze abbastanza concordi sul contrasto fra la bellezza dei palazzi e delle chiese da una parte, e la moltitudine di miserabili, e lazzaroni, dall’altra. Non possiamo quindi non ricordare che quasi tutti gli stranieri che scendevano a Napoli nel loro tour de l’Italie erano colpiti negativamente dalla quantità di poverissimi che abitavano nella nostra grande capitale. Le condizioni igieniche in cui viveva molta gente povera erano infatti assolutamente disastrose. La plebe si ammassava in fondaci e bassi quasi tutti sprovvisti di acqua e luce . Le stette strade ed i vicoli , nel loro continuo rivolo di acqua sporca , oltre che contenere l’acqua piovana , spesso conteneva anche i resti dei miseri pasti , la lisciva del bucato ed anche a volte i propri residui organici . Gli effuluvi dei bassi erano della peggiore specie ,ed i rifuiti si accumulavano negli angoli per giorni e giorni , ma certamente tutto questo non è certamente poi cambiato quando il regno divenne parte di quell’unità d’Italia tanto propugnata da Mazzini ,Gioberti ed il furbo Cavour.
Il Sud borbonico era costituito sopratutto di un pugno di latifondisti che possedevano quasi tutta la ricchezza del paese; un modesto nucleo di artigiani poveri , una grande quantità di contadini miseri e affamati ed una piccola borghesia, fatta soprattutto di piccoli proprietari, e di professionisti che assuefatti per secoli a ritmi indolenti, erano abituati a sdegnare la trafila burocratica per affidarsi a procedure che consentivano transiti obliqui e maniere affidate a scappatoie.
L’economia industriale e agricola del sud era comunque protetta da barriere doganali con cui lo stato borbonico proteggeva i suoi prodotti da esportare , impedendo ad altri paesi l’importazion di prodotti come frutta, vini, formaggi, solfo e seta . Essa risentì quindi moltississimo dell’ abolizione di queste barriere doganali che consentivano nella reciprocità di trattamento , ai stranieri la sola importazione di prodotti che il paese non era in grado di produrre. .
Luigi Eunaidi a tal proposito scrisse : “Si è vero, noi settentrionali abbiamo contribuito qualcosa di meno ed abbiamo profittato qualcosa di più delle spese fatte dallo Stato italiano, peccammo di egoismo quando il settentrione riuscì a cingere di una forte barriera doganale il territorio ed ad assicurare così alle proprie industrie il monopolio del mercato meridionale . -LUIGI EINAUDI –
Da questo punto di vista il buon Einaudi aveva ragione…..in quanto prima dell’Unità d’Italia il rapporto tra lira e oro era 1 a 1 per il nostro regno e 1 a 3 per il Piemonte ( questo significava che una lira borbonica era garantita da una lira in oro, mentre per i piemontesi una lira d’oro garantiva tre lire), mnentre all’indomani dell’unità, l’erario italiano fu composto al 65% dal regno delle Due Sicilie (445,2 milioni di lire su un totale di 670,4 milioni di lire)
Le industrie tessili e siderurgico, seppur concentrate sopratutto a Salerno e nella provincia di Napoli erano tutte comunque attive ed economicamente salde prima che avvenisse l’unione d’Italia.
L’opificio Reale di Pietrarsa era al momento dell’unita’ la piu grande fabbrica d’Italia, l’unica in grado di fabbricare motrici navali e il regno delle due Sicilie era l’unico stato della penisola a non doversi avvalere di macchinisti inglesi per la loro costruzione (ciò dava molto fastidio all’Inghilterra) . Venivano costruiti vagoni e locomotive.
N.B,Il gruppo Ansaldo aveva 480 operai contro i 1000 del gruppo Pietrarsa e la Fiat non esisteva ancora nascendo solo 57 anni dopo Esso era l’unico in Italia a costruire motrici navali con 44 anni di anticipo su Breda e 57 sulla Fiat,
A Pietrarsa si costruivano caldaie a vapore per attrezzare locomotive e piroscafi che avevano potenziato la terza flotta mercantile (quella borbonica) più potente in Europa (dopo Inghilterra e Francia) per numero di navi e tonnellaggio.
Il cantiere navale di Castellammare di Stabia con 1800 operai era il primo del Mediterraneo per grandezza e faceva invidia a parecchie regioni d’Europa (Nei due grandi cantieri arsenali- navali del golfo lavoravano 3400 operai su 6650 del ramo in tutta l’ Italia ), e non dobbiamo mai dimenticare che da questo cantiere sono uscite numerose grandi navi compresa la Amerigo Vespucci, la quale ancora oggi desta stupore e meraviglia in tutto il mondo.
N.B.il cantiere di Castellammare di Stabia, con i suoi 1800 operai, era il più grande di tutto il Mediterraneo. In esso furono costruite navi per 43mila tonnellate. Da esso uscirono la Cristoforo Colombo (1928) e l’Amerigo Vespucci (1931);
Sul vicino ponte della Maddalena, fondata da un inglese (notate quanti interessi avevano sul regno gli inglesi) era inoltre presente un opificio metalmeccanico chiamato Guppy con 600 operai; Si producevano macchine pneumatiche, strumenti ottici, utensili chirurgici, orologi e armi. Questo gruppo tra l’altro fornì il supporto per la prima illuminazione a gas della capitale.
Napoli era inoltre specializzata nella produzione di guanti, 500.000 dozzine di guanti l’anno contro le 100.000 del nord e noti come “con lavorazione d’Aragona” ( il nome ad uno dei più’ popolari quartieri di Napoli) erano reputati i migliori d’Europa.
La Macry ed Henry aveva 600 operai e produceva strutture metalliche per le navi militari e per gli ingranaggi.
La Real Fonderia ubicata in Castel Nuovo fabbricava cannoni, fornaci ed altri utensili di tipo industriale e presero ad operare 150 addetti di alta specializzazione. Era inoltre presente una scuola per carpentieri, fonditori, ottonai e macchinisti.
Sul ponte della Maddalena, fondata da un inglese (notate quanti interessi avevano sul regno gli inglesi) era presente un opificio metalmeccanico chiamato Guppy con 600 operai; Si producevano macchine pneumatiche, strumenti ottici, utensili chirurgici, orologi e armi. Questo gruppo tra l’altro fornì il supporto per la prima illuminazione a gas della capitale.
Napoli era specializzata nella produzione di guanti, 500.000 dozzine di guanti l’anno contro le 100.000 del nord e noti come “con lavorazione d’Aragona” ( il nome ad uno dei più’ popolari quartieri di Napoli) erano reputati i migliori d’Europa.
Nel cuore della montagna calabra, attorno a Serra San Bruno, sorgeva lo stabilimento di Mongiana e più tardi venne costruita Ferdinandea. Oggi Mongiana è un piccolo borgo con pochi abitanti e Ferdinandea è spopolata. Queste fonderie furono smantellate nel post-unità poichè situate in posti poco accessibili e lontano dal mare, cioè dalla maggiore via di trasporto dell’epoca. Ovviamente una volta smontate vennero riaperte al Nord.
Immaginate solo per un momento quanto è costato in termini occupazionale, sociale, territoriale, di sviluppo complessivo e di emigrazione massiccia).
Quando venne proclamato il Regno d’Italia nel 1861 gli addetti alla ferriera di Mongiana erano 762 unita’ e si produceva ferro e ghisa di ottima qualità. Da Mongiana usci’ il ferro forgiato per produrre le catena che pesavano 180 tonnellate, per i due magnifici ponti sul Garigliano e sul Calore. Sempre a Morgiana, accanto alla fabbrica, sorse anche una fabbrica di armi e altre ferriere sorsero a Bivonzi e Pazzano.
Nel settore della lavorazione del metallo si specializzarono aziende di Abruzzo e molti dei suio coltelli e rasoi erano più costosi ma anche più belli di quelli francesi ed inglesi e fortemente ricercati.
La chimica industriale del’ 800 era quasi tutta basata sullo zolfo, specialmente l’industria degli esplodenti per le armi. Il sud disponeva dell’importantissima produzione dello zolfo siciliano che nella prima metà dell’800 copriva il 90% della produzione mondiale
Appare pertanto chiara l’enorme valore strategico di tale produzione ed il conseguente atteggiamento dell’Inghilterra nella questione degli zolfi siciliani.
Gli inglesi odiavano il progresso economico del regno delle due Sicilie ed erano molto interessati alle sue miniere di zolfo in Sicilia, pertanto furono ben lieti di aiutare con forti finanziamenti ( massonici ) la spedizione dei mille pur di promuovere la fine del regno Borbonico e liberarsi in questo modo di un soggetto politico-economico divenuto scomodo concorrente.
Per meglio chiarire le cose da un punto di vista solo prettamente economico bisogna quindi subito ribadire che nel 1861,, al momento dell’unità d’Italia vi erano solo tre fabbriche in Italia in grado di produrre locomotive: Pietrarsa, Guppy ed Ansaldo e due di queste erano al sud e sopratutto meglio chiarire a tutti che all’indomani dell’unità, l’erario italiano era composto al 65% dal regno delle Due Sicilie (445,2 milioni di lire su un totale di 670,4 milioni di lire).
Quando insomma ad ereditare il Regno fu Francesco II (chiamato comunemente dai napoletani Francischiello) figlio della prima moglie di Ferdinando, Maria Cristina di Savoia, le casse del regno erano ceratamente attive ed economicamente salde .
Il rapporto tra lira e oro era 1 a 1 per il nostro regno e 1 a 3 per il Piemonte ( questo significava che una lira borbonica era garantita da una lira in oro, mentre per i piemontesi una lira d’oro garantiva tre lire) e sopratutto che Il regno impiegava nell’industria una forza lavoro pari al 51% di quella complessiva degli stati italiani ,
Contemporaneamente in quel periodo l’Austria aveva inviato un ultimatum al Piemonte di tre giorni per procedere al disarmo.
Il Piemonte allora non sapendo come uscire da quella britta storia,chiese nella persona di Vittorio Emanuele una sua alleanza nella guerra contro l’ Austria. Egli proponeva di unirsi contro l’Austria, e di stipulare un patto in cui si garantivano reciprocamente l’indipendenza territoriale dei due territori senza mai farsi guerra. A fine guerra proponeva inoltre la concessione della Costituzione.
Francesco rivevuto la proposta, volle rispettare il testamento politico del padre che gli raccomandava la neutralità delle dispute e quindi declinò cortesemente l’invito.
N.B. Non ascoltò nemmeno il consiglio del suo anziano ministro Carlo Filangieri, principe di Satriano che invece, invano tentò di convincerlo ad accettare le proposte del Piemonte. Egli in seguito a questo rifiuto poi si dimise dalla carica.
A questo punto il machiavellico Cavour chiese ed ottenne protezione dalla Francia, cedendo in cambio i territori di Nizza e Savoia ( a tal proposito mi piace ricordarvi che Cavour aveva una conoscenza molto imperfetta dell’italiano e preferiva scrivere e parlare in francese).
La Francia a questo punto fece presente all’Austria che un’eventuale invasione del Piemonte sarebbe stata considerata un atto contro la propria sovranità.
Cosi Francia e Austria si riappacificarono mentre il perfido e diabolico Cavour trattava segretamente con gli inglesi progettando la spedizione dei mille con i soldi della massoneria presente nei circoli politici inglesi e scozzesi anti papista.
CURIOSITA’: A tal proposito ricordiamo che nel ‘68, Giulio Di Vita, studioso massone, presentò un rapporto al Collegio Maestri Venerabili del Piemonte. Titolo: ‘Finanziamento della spedizione dei Mille’. Di Vita scopre negli archivi londinesi che i britannici versarono a Garibaldi 3 milioni di franchi francesi in ‘piastre’ oro turche. Una cifra enorme per convertire molti dignitari borbonici alla democrazia liberale (in poche parole a corrompere i comandanti dell’esercito Borbonico).
Sfruttando il crescente numero di adepti che i due mazziniani Rosolino Pilo e Francesco Crispi raccoglievano nella sempre irrequieta Sicilia, Cavour manifestò al governo britannico un piano per liberarsi del” fastidioso ” regno Borbonico.
La Sicilia per l’ennesima volta ripropose la sua eterna velleità di indipendenza facendo appello proprio al Piemonte e questi subito ne approfittò.
Francesco era preoccupato ma fu ben presto rassicurato dall’inviato piemontese marchese di Villamarina il quale aveva avuto incarico da Vittorio Emanuele di informare subito il Borbone che egli non avrebbe mai turbato la pace e l’indipendenza del Regno.
L’ipocrita cugino ( erano purtroppo parenti : mai fidarsi!!) aveva però già manifestato al governo inglese le sue reali intenzioni di annettere al Piemonte il Regno delle due Sicilie.
Infatti nel mentre Cavour già stava progettando insieme a Garibaldi la spedizione dei mille e la conquista dell’isola siciliana.
La scelta di sbarcare in Sicilia per l’invasione non fu casuale poiché insurrezioni di masse popolari reclamavano da sempre ed ultimamente sempre di più l’indipendenza dell’isola da Napoli.
Francesco informato delle reali intenzione del suo parente ( serpente) fece in maniera che ben 14 navi presiedessero le acque siciliane per impedire ogni tentativo di sbarco ad appena 1000 uomini peraltro improvvisati e mal addestrati.
Il governo di Sicilia era infatti ben informato non solo dello sbarco ma anche che sarebbe avvenuto a Marsala, noto feudo britannico con la protezione di due navi da guerra di sua maestà che circolavano nel porto.
Quando Garibaldi sbarcò a Marsala stranamente non vi erano truppe di guerra o navi borboniche. Ad accoglierlo e solo a sbarco avvenuto arrivarono due navi che non avendo truppe da sbarco si limitarono a tirare alcune cannonate senza alcun danno per gli sbarcati oramai al sicuro.
Una volta sbarcato Garibaldi, Francesco Crispi proclamò la caduta del Regno Borbonico e in nome e per conto di Vittorio Emanuele, offre la Sicilia a Garibaldi.

Da questo momento in poi prendono maggiormente corpo l’incapacità, l’incompetenza, la codardia e sopratutto l’infedeltà dei più stretti collaboratori di Francesco che favorirono la fine del Regno Borbonico.
A Calatafimi vi fu la battaglia decisiva che ancora oggi resta per molti un inspiegabile enigma. Il generale borbonico Francesco Landi comandava ben 4000 soldati ed era dotato di una possente artiglieria mentre l’esercito garibaldino era formato da appena 1000 uomini male armati e poco formati alla guerra.
Dopo un’intera giornata di fuoco, quando oramai i garibaldini erano esausti e quasi senza più munizioni, inspiegabilmente il generale Landi, tra lo stupore dei suoi uomini ordinò la ritirata e lasciò la via libera per Palermo.
Nel campo avverso dei garibaldini Nino Bixio resosi conto che difficilmente avrebbero potuto resistere ad un ulteriore attacco aveva già dato ordine di apprestarsi alla ritirata. Sotto lo sguardo incredulo dei Garibaldini l’esercito borbonico incominciò invece a ritirarsi e questo fatto apparve talmente strano e illogico ai garibaldini che temendo una trappola per una buona ora non seppero cosa fare e si limitarono ad osservare le manovre di ripiego dei reparti nemici senza sferrare un contrattacco.
Si è tanto parlato nel tempo di questa ingiustificata ritirata dei Napoletani dal campo di battaglia ed è oramai chiaro attraverso vari documenti recuperati, che si trattò di una grossa opera di corruzione operata da emissari del Regno di Sardegna a vantaggio del generale Landi. Oggi sappiamo che egli tentò successivamente a questo episodio di scambiare una fede di credito del valore di 14.000 Ducati datagli da Garibaldi in cambio del tradimento.
La sola verità quindi sulle vittorie dei volontari garibaldini, è quella che esse non sono state conquistate sui campi di battaglia, a prezzo di sangue, ma preparate dagli inglesi e dai massoni ma sopratutto realizzate con l’appoggio della mafia e comprate con l’oro che ha corrotto i comandanti e ministri borbonici.
La stessa famosa frase detta da Garibaldi nei confronti di Bixio avvenuta dopo il suo ordine di ritirarsi è oggi oggetto di rivalutazione ” Nino, qui si fa l’Italia o si muore!“.
Pare che egli già sapesse circa la corruzione dei nemici ed il suo gesto di lanciarsi all’attacco come ultimo tentativo di fermare l’attacco borbonico ad armi bianche fosse ben meditato e certamente meno eroico.
La capitolazione di Palermo, si dice, avvenne con l’oro dato al generale Lanza ed ancora oggi appare poco chiaro il fatto che 20000 soldati borbonici , padroni dei forti e protetti dal mare dai cannoni delle navi schierate in rada accettassero la capitolazione e si ritirassero lasciando Palermo in potere di Garibaldi.
Tutto quello che avvenne dopo fu la conseguenza di questo primo scontro perché alla notizia della ritirata di Landi, Palermo insorse e agevolò l’entrata di Garibaldi mentre schiere di volontari andarono ad ingrossare le file dei mille.
Venivano arruolati con il facile soldo centinaia di nuovi combattenti, molti dei quali passavano in cambio di raddoppiato stipendio dall’esercito borbonico a quello sabaudo, basti pensare che un’armata di appena 1.085 uomini sbarcata a Marsala, in Sicilia, in breve tempo ( un mese ) era divenuta di 43 mila uomini.
La cassa e l’amministrazione di questo tesoro con cui erano sbarcati i mille (si parlava di un finanziamento di 10 mila piastre turche paragonabili a circa 15 milioni di euro attuali) che era arrivato a Garibaldi dalla massoneria inglese, era tenuta dal preciso contabile garibaldino Ippolito Nievo che non mancava di annotare tutto quanto speso e per conto di chi.
Egli conservava tutto quanto in una cassa, da cui non si separava mai. Nel suo interno erano contenuti soldi, ricevute, fatture, lettere e tutto quello che riguardava la gestione dell’ingente patrimonio garibaldino e di quello poi “trovato” nelle casse delle banche siciliane.
La resa dell’isola fu firmata a Palermo su una nave di bandiera britannica ( ??) e una volta ottenuto l’armistizio con l’esercito Borbonico si passò alla requisizione del Banco di Sicilia e ai suoi soldi ( 5 milioni di Ducati cioe’ circa 200 milioni di euro di oggi ).
I corrotti generali borbonici si arresero in cambio di parte del danaro prelevato dalle casse del Banco di Sicilia ( il prezzo dell’armistizio pare sia costato circa 60.000 Ducati ).
Sentirete dire che l’evacuazione dell’esercito borbonico da Palermo finì il 19 giugno 1860, quando la Banca di Sicilia era ancora chiusa al pubblico. Al pubblico sì, ma non ai direttori, ai presidenti e ai tesorieri del Banco. Furono essi responsabili, insieme a Crispi, del pagamento ai generali borbonici, perché lasciassero Palermo senza più combattere. Il pagamento avvenne con soldi prelevati dai conti correnti dei palermitani. Il Banco fu poi successivamente rimborsato, per la Legge del 1867 sul ripianamento dei debiti contratti da Garibaldi sul Banco di Sicilia e di Napoli nel 1860. Ma alcune partite non furono rimborsate, perché non furono presentate pezze d’appoggio valide.
Quindi la liberazione di Palermo avvenne addirittura con i denari dei siciliani e non solo degli inglesi e se di alcune partite non si ebbe il rimborso fu perché non si poteva dire come i denari erano stati usati.
Dopo solo un anno dallo sbarco dei mille, la Sicilia era stata completamente annessa al territorio sabaudo, grazie sopratutto ai soldi usati per corrompere alte cariche ufficiali e civili ed un piccolo manipolo di appena 1000 uomini sbarcati a Marsala aveva messo in fuga paradossalmente 100mila uomini al prezzo di soli 78 caduti ( un vero miracolo !!).
Il danaro provenienti da fondi internazionali serviva per foraggiare e stipendiare tutti; corrotti appalti, false commesse militari, sprechi, promozioni facili, aumento di stipendi spesso raddoppiati e rendite elargite ai potenti del posto.
I Garibaldini facevano una carriera molto rapida e su 24.000 combattenti vi erano 6 mila ufficiali ben pagati ( in un normale esercito dell’epoca vi era un solo ufficiale ogni 30.000 soldati).
Il Vice Intendente idealista Ippolito Nievo era rimasto nauseato da ciò che aveva visto, da come veniva trattato il popolo siciliano e di come le cose erano andate contro le sue aspirazioni.
Egli aveva minuziosamente annotato nei suoi registri tutte le entrate e le uscite dei soldi finanziati per la spedizione dei mille ivi compresi le ingenti somme usate per corrompere l’esercito borbonico ( aveva annotato nomi , cifre , somme e tanti segreti ) e trascrisse tutte le irregolarità in maniera rigorosa nei suoi libri contabili.
Nel suo rendiconto, Ippolito Nevio, dimostrava, con meticolosa precisione, l’operato di tutta l’Intendenza delle finanze garibaldine. Nel fascicolo erano contenute notizie riservate, che non sarebbe stato opportuno rivelare perché avrebbero acclarato il coinvolgimento dell’Inghilterra nel finanziare la spedizione dei mille.
La cosa interessante fu che successivamente alla conquista del Regno da parte piemontese ed esattamente tredici giorni prima della proclamazione dell’Unità d’Italia, sparì nel nulla, in mare aperto, tra Palermo e Napoli, un piroscafo di nome “Ercole” tra i cui passeggeri era presente proprio Ippolito Nievo con il compito di portare a Torino la documentazione economica relativa alla spedizione militare dei Mille custodita gelosamente in una cassa.
Ippolito era stato invitato a presentarsi con urgenza a Torino, dal suo diretto superiore, il generale Acerbi, insieme alla sua cassa (con le piastre turche e i preziosi libri contabili) dopo che l’ala conservatrice aveva sollevato una questione sulla dubbia amministrazione della spedizione.
L’intendente generale Acerbi, il 16 marzo, aveva infatti inviato a Ippolito Nievo, un telegramma imponendogli di lasciare Palermo al più presto con incarico di riportare nella capitale piemontese nel più breve tempo possibile la scottante documentazione. Era cosa molto urgente, in quanto il governo si trovava in forte imbarazzo e il fatidico giorno della proclamazione dell’unità d’Italia era oramai troppo vicino ( non si poteva certo mostrare che l’Italia si fondava sulla corruzione ……) .
Era in atto da qualche settimana una campagna di stampa e discussione sui beni economici e sulla gestione dei fondi dissipati in malo modo dai Garibaldini e se quelle carte fossero arrivate nelle mani di un tribunale ma anche se il solo Nevio avesse potuto parlare davanti ad un giudice molte persone avrebbero potuto subire conseguenze abbastanza imbarazzanti in Italia e all’estero.
Nevio era stato convocato a Torino perchè doveva dare conto della gestione e amministrazione finanziaria dei mille ma il rendiconto non arrivò mai a Torino.
Il piroscafo Ercole con il suo prezioso carico sparì nel nulla e nessuno si premurò di cercarlo. Le sue carte non sarebbero dovute arrivare a Torino e all’estero dove c’era qualcuno che temeva clamorose rivelazioni.
A Napoli nessuno si accorse del mancato arrivo e trascorsero parecchi giorni senza che nessuno si desse da fare per cercare l’Ercole.
Lo stesso giornale ufficiale di Palermo non dà nessuna notizia del mancato arrivo di questo battello che faceva servizio normalmente tra Palermo e Napoli.
Tutti fanno finta di niente e nessuno lo cerca; mancano pochi giorni (12) alla proclamazione del regno d’Italia e Ippolito e la sua documentazione rappresentano un pericolo per il futuro regno d’Italia.
Solo i portuali si resero conto che il vapore non aveva gettato le cime in banchina. Oramai erano trascorsi troppi giorni: undici. Nessuno si mosse, neppure il ministero della Guerra, né la compagnia marittima, né le autorità portuali. I giornali tacquero, le famiglie rimasero ignare.
Solo dopo 2 settimane si ha qualche sporadica e generica notizia della barca sparita nel nulla; un qualsiasi naufragio lascia sempre dei resti della imbarcazione evidenti in superficie, sopratutto se il relitto è fatto di legno e invece nulla, proprio nulla si ritrova della nave .
Dopo la capitolazione di Palermo e la perdita dell’intera Sicilia, Francesco dopo aver indetto un consiglio di stato decide di concedere la Costituzione, ma oramai era troppo tardi e qualche mese dopo la sanguinosa giornata di Milazzo, Garibaldi mise piede sul continente ed entrava in Reggio.
Ora prima di continuare vorrei soffermarmi su tre piccole considerazioni :
La prima riguarda proprio Giuseppe Garibaldi che come avete potuto notare non conquistò un bel nulla, tantomeno non sconfisse il potente es ercito borbonico. Gli alti ufficiali si misero d’accordo con Cavour tradendo il loro re per soldi e promozioni ( prime prove di corruzione su cui poi hanno amministrato l’Italia negli anni ). L.’impresa di Garibaldi infatti stupi l’intera Europa perché la riuscita era ritenuta impossibile, basta considerare che il goverbo borbonico era ben informato non solo dello sbarco dei mille che doveva avvenire ma anche dove presumibilmente doveva avvenire ed in quale giorno a tal punto che una flotta di 14 navi incrociava, fin dalla metà di aprile, nelle acque siciliane per impedire ogni tentativo di sbarco.
Sta di fatto che Marsala si trovò sguarnita di truppe e di navi al momento dell’arrivo della spedizione garibaldina e solo a sbarco avvenuto arrivarono due navi regie che non avendo truppe da sbarco, come non le avevano tutte le altre navi della crociera, si limitarono a tirare alcune cannonate senza nessun danno per gli sbarcati ormai al sicuro.
A Calatafimi il settantenne generale Francesco Landi, con quattromila soldati e l’artiglieria, si limitò a tenersi sulla difensiva di fronte a mille uomini male armati e dopo un’intera giornata di fuoco, quando ormai i garibaldini erano esausti e quasi senza più munizioni, ordinò la ritirata e lasciò la via libera per Palermo. Tutto quello che seguì poi fu la conseguenza del risultato di questo primo scontro perché alla notizia della ritirata di Landi da Calatafimi, Palermo insorse e agevolò l’entrata di Garibaldi mentre schiere di volontari andavano ad ingrossare le file dei Mille.
Da questa storia resta a noi poco chiaro il fatto che 20 mila soldati borbonici, padroni dei forti e protetti dal mare dai cannoni delle navi schierate in rada, accettassero la capitolazione e si ritirassero lasciando Palermo in mano a soli mille uomini mal addestrati alla guerra.
La seconda riguarda la scelta della Sicilia per lo sbarco d’inizio idell’invasione che certamente non tu casuale. Esso fu infatti fu frutto di una sopraffina intuizione politica di Cavour che scelse questo posto in maniera ben calcolata .
Molteplici ed antiche erano infatti le tensioni nell’isola avverso la dipendenza da Napoli.
Senza riandare alle vecchie guerre degli angioini contro gli aragonesi per il possesso napoletano dell’isola ed ai secoli di mal sopportata sudditanza, si rammentino infatti i moti del 1820, con insurrezioni di Vaste masse popolari che reclamavano I’ndipendenza da Napoli.
Altra grossa tensione venne poi generata quando un governo guidato dal principe Paternò Castello e da Giuseppe Alliata di Villafranca, istituito a Palermo,aveva ripristinato la Costituzione del 1812 con l’appoggio degli inglesi, ma fu spazzato via da un esercito che riconquistò la Sicilia con cruente e sanguinose battaglie, ristabilendo la monarchia assoluta e ripristinando l’autorità del governo di Napoli.
Un altro ennesimo e moto rivoluzionario scoppiato a Palermo nel gennaio 1848 con una rivolta popolare guidata da Rosolino Pilo e Giuseppe La Masa,fu quello che forse più do ogni altro creò nei siciliani un atteggiamento rancoroso nei confronti dei Borbone. Esso sostenuta dalla massoneria liberale che combatté l’asso-lutismo monarchico e gli interessi britannici che miravano ad avere un protettorato siciliano.fu capace di ricostituire il parlamento siciliano e proclamare la nascita dello Stato di Sicilia. Il re Ferdinando per ripristinare l’ordine monarchico borbonico in quell’occasione bombardò nel settembre la città di Messina e nel maggio del 1849 si riappropriò dell’intera isola con varie lotte e spargimenti di sangue, che gli valsero l’appellativo di “re Bomba”.
Altre rivolte, sempre represse con l’uso della forza, avvennero nel 1853 e 1856, sotto la guida di Francesco Bentivegna e Salvatore Spinuzza, che furono giustiziati. Nell’aprile 1860, la ribellione era ripresa sotto la guida di Francesco Riso nella rivolta della Gancia, fino a che nello stesso anno si pervenne alla spedizione dei mille ed all’avanzata folgorante di Garibaldi.
Dei poco più di mille garibaldini sbarcati a Marsala , le file delle truppe di Garibaldi si accrebbero da parte dei siciliani che odiavano i Borbone, con una rapidità incredibile, un numero enorme di combattenti (fino a raggiungere il numero di 20.000 unità )
N.B. Non va sottovalutata peraltro nemmeno la propaganda effettuata da Garibaldi e dai suoi partners quanto a promesse di distribuzione delle terre ai contadini, che ampliò notevolmente i consensi, fino ad entusiastiche adesioni e quella situazione da un punto di vista economico che in quegli anni vedeva la Sicilia non avere lo stesso sviluppo della Campania.
Molteplici dunque erano i motivi per giustificare la notevole spinta all’indipendenza siciliana..
La terza riguarda invece l’incosistenza e l’inefficienza politica di re Francischiello che purtroppo aveva soli 23 anni quando successe al padre .Forse se al suo posto ci fosse stato un umo piu forte, deciso , risoluto e determinato le cose avrebbero potuto prendere una piega diversa . Egli avrebbe potuto dare una diversa svolta alla storia ma volle rispettare il testamento politico di suo padre che gli raccomandava la neutralità.
Pertanto rifiutò l’offerta di Cavour che proponeva: l’alleanza offensiva e difensiva del regno delle Due Sicilie e del Piemonte nella guerra contro l’Austria per l’indipendenza d’Italia, la reciproca guarentigia dell’integrità territoriale dei due paesi e la concessione della Costituzione a guerra ultimata.
Francesco II , non fu neanche fortunato ad avere con se alla testa del governo e al comando delle truppe, uomini decisi , fedeli e competenti capaci di controbilanciare un uomo debole ed incerto come lui . Se invece di uomini incapaci di qualsiasi azione seria e dignitosa e comandanti imbelli e traditori che hanno dato prova di viltà e impotenza morale, ci fossero stati uomini diversi e di chiara fedelta e rigida moralità , forse il regno non sarebbe stato perduto. L’unico ad avere un buon senso politico e la chiara visione della situazione fu il generale Carlo Filangieri, principe di Satriano, in quel tempo presidente del Consiglio dei ministri e ministro della guerra, che, invano, tentò di convincere il re ad accettare le proposte del Piemonte o, per lo meno, a conceder lo Statuto. Risultati vani i suoi sforzi , egli si dimise dalle cariche e in seguito non volle accettare nessun altro incarico, nemmeno nel periodo susseguente lo sbarco di Garibaldi a Marsala quando, forse, il suo intervento sarebbe stato determinante per la salvezza del regno, ma non bisogna dimenticare che aveva già 76 anni.
Il regno dei Savoia prima di procedere all’unificazione italiana era fino. ad allora composto da due territori: uno nel continente, che comprendeva le attuali regioni di Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria (più Nizza e Savoia), e un altro, l’isola della Sardegna.
Il territorio piemontese era senza dubbio la zona più sviluppata da un punto di vista economico per le misure di liberalizzazione volute dal conte di Cavour e del re Carlo Alberto. La loro politica economica portò nel 1834 ad una riduzione del dazio sul grano e l’anno successivo all’approvazione dell’esportazione della seta grezza. Successivamente vennero ridotti i dazi doganali di importazione sulle materie prime (carbone, metalli, tessuti) e favorito l’acquisto di macchinari industriali all’estero. Nonostante ciò comportasse minori entrate per lo Stato, il bilancio del Regno permise di affrontare almeno inizialmente molte delle spese per il miglioramento dell’agricoltura, delle strade, delle ferrovie e dei porti.
Il territorio sardo viveva invece in una situazione completamente diversa. Nell’isola il feudalesimo era stato abolito solamente nel 1838 (nel 1847 avvenne l’unificazione legislativa con il resto del regno), e agli ex-feudatari fu dato un indennizzo che gravò sulle spalle delle comunità locali. L’isola si trovava in condizioni di estrema povertà, la piaga del banditismo era stata risolta parzialmente nel XVIII secolo con una dura repressione militare, e l’analfabetismo era il più alto d’Italia. L’isola era tradizionalmente dedicata alla pastorizia, mentre l’unica attività del settore secondario era l’estrazione mineraria, che attrasse molti imprenditori liguri e piemontesi[
Il conte di Cavour, divenuto Ministro dell’Agricoltura e del Commercio nel 1850, e l’anno dopo Ministro delle Finanze, era un profondo sostenitore del liberismo e pur di rientrare dalla catastrofica situazione finanziaria in cui si ritrovava in quel periodo il regno, decise di operare durante la difficile fase di transizione del suo mandato liberando il Regno di Sardegna dal protezionismo sostenendo il libero scambismo.
CURIOSITA’: Il regno necessitava in quel periodo di prestiti per pagare le indennità imposte dagli austriaci dopo la prima guerra di indipendenza e Cavour, per la sua abilità e i suoi contatti sembrava l’uomo giusto per gestire la delicata situazione. Il Regno di Sardegna era già fortemente indebitato con i Rothschild dalla cui dipendenza il conte voleva sottrarre il Paese e, dopo alcuni tentativi falliti con la Bank of Baring, Cavour ottenne un importante prestito dalla più piccola Bank of Hambro [(3,6 milioni di sterline).
I principali prodotti delle loro terre come il vino ed i cerali del Monferrato o la vendita di riso e cerali provenienti dalla pianura novarese certo non bastavano a compensare neanche gli interessi del grosso debito accumulato, mentre l’industria estrattiva delle poche miniere metallurfiche e minerali sparse in tutte le provincie del Regno non bastavano a coprire invece nel tempo , i vari debiti accumulati. Poco si otteneva anche dalle raffinerie di zuccherodi Carignano e dalle manifatturriere di specchi e cristalli di Domosossola e di Savoia o dalle filature di cotone a macchina e di seta in Piemonte, Liguria e Savoia. Qualcosina si recuperava dalle dalla “fabbrica d’armi” a Torino e un centinaio di lanifici e l’unica vera prima fonte di reale beneficio economica si ottenne solo dopo l’annessione della Liguria al regno sabaudo.
Solo da questo momento ebbe infatti inizio una nuova fase di sviluppo. del Regno.grazie allo sviluppo di quel cantiere navale che si estendeva su circa 70.000 m² che diede vita al primo piroscafo militare con scafo in ferro costruito in Italia, varato nel 1866. e successivamente nel 1853 anche l’inaugurazione a Genova della famosa Ansaldo, in sostituzione della Taylor & Prandi, fondata nel 1842 e fallita poi per difficoltà finanziarie.
Cavour per quanto bravo ,riuscì certamente a chiarire e sintetizzare la situazione effettiva del bilancio statale che, per quanto precaria, sicuramente egli riusci a migliorarla rispetto al passato,
Per raggiungere il pareggio della disastrosa situazione del Paese da lui ereditato, il conte prese varie iniziative: fece innanzitutto approvare su tutti gli enti morali laici ed ecclesiastici un’unica imposta del 4% del reddito annuo; ottenne l’imposta delle successioni; dispose per l’aumento di capitale della Banca Nazionale degli Stati Sardi aumentandone l’obbligo delle anticipazioni allo Stato e avviò la collaborazione tra finanza pubblica e iniziativa privata[ . A tale riguardo accolse, nell’agosto 1851, le proposte di aziende britanniche per la realizzazione delle linee ferroviarie Torino-Susa e Torino-Novara, i cui progetti divennero legge il 14 giugno e l’11 luglio 1852.
Egli sostituì inoltre alla dichiarazione dei redditi l’accertamento giudiziario, fece massicci interventi nel settore delle concessioni demaniali e dei servizi pubblici, e riprese la politica dello sviluppo degli istituti di credito[. D’altro canto il governo effettuò grandi investimenti nel settore delle ferrovie, proprio quando, grazie alla riforma doganale, le esportazioni stavano avendo un aumento considerevole.. A partire dal 1855 si registrò un miglioramento delle condizioni economiche del Piemonte, grazie al buon raccolto cerealicolo e alla riduzione del deficit della bilancia commerciale. Incoraggiato da questi risultati, Cavour rilanciò la politica ferroviaria dando il via, tra l’altro, nel 1857, ai lavori del traforo del Fréjus
Vittorio Enanuele II , che adesso aveva contro non solo l’Austria, ma anche la Francia, non poteva certo fronteggiare le imponenti flotte austiache e francesi e sapeva bene che l’erario sabaudo certo non poteva bastava alla bisogna per affontare nuove guerre contro potenti nemici.
Come poteva egli quindi mai declinare l’invito a cuor leggero del trono di un regno che gli offriva su di un piatto d’argento una potenza come l’Inghilterra, contraria all’ipotesi che la Francia avesse altro spazio nel Mediterraneo, e il Regno delle due Sicilie continuasse da solo a gestire le miniere di zolfo presenti in Sicilia (indispensabile per la produzione degli esplosivi) che rappresentavano all’epoca quello che oggi è per noi il Litio o il petrolio ?
Ferdinando II, in un’ottica di favorire il commercio e l’industria locale, resosi conto che la più valida risorsa mineraria della Sicilia era quella dello zolfo cercò di favorirne il commercio e anche di ottimizzarne i profitti ( come qualsiasi buon imprenditore)
Fino ad allora l’estrazione dello zolfo, essenziale per produrre la polvere da sparo, era sotto un sostanziale monopolio britannico. Questi facevano la politica dei prezzi a loro piacimento in danno del regno e dei minatori.
Ferdinando ottenendo condizioni migliori da una società francese, firmò un’intesa con la società Taix-Aycard di Marsiglia per l’estrazione dello zolfo in Sicilia, sottraendo di fatto il monopolio agli inglesi. Fu quindi stipulata una convenzione con la ditta francese più vantaggiosa di quella precedentemente in vigore con gli inglesi.
Le proteste di Lord Palmerston, primo ministro inglese, furono talmente violente che giunsero fino al punto di ordinare alle navi britanniche di compiere manovre preparatorie alla guerra del Golfo di Napoli.
Ferdinando, di fronte alla minaccia, si preparò alla guerra inviando in Sicilia ben 12.000 soldati decretando l’embargo a tutte le navi britanniche.
Ferdinando era oramai pronto alla guerra se non fosse stato per la mediazione di Vienna e Parigi: il re francese Luigi Filippo adoperò la sua diplomazia revocando il privilegio alla Taix-Aycard, e rendendo di fatto nullo il contratto tra questa e il regno borbonico.
La crisi rientrò ma il Regno dovette versare degli indennizzi alle ditte francesi.
La conseguenza fu il guasto dei rapporti sia con la Francia che con l’Austria, oltre che con l’Inghilterra e di conseguenza ad un isolamento politico dal resto dell’Europa mostrando risentito poi la mancanza totale di interesse nei confronti di ciò che avveniva al di fuori dei confini napoletani e siciliani.
I britannici non contenti avviarono una politica destabilizzante nei confronti del Regno delle Due Sicilie ( che culminerà con l’appoggio alla spedizione dei Mille nel 1860 ed alla annessione del Regno al fidato Piemonte).
Il governo inglese si adoperò per creare ad arte frequenti “incidenti diplomatici”.
Lord Palmerston fu protagonista di un’ignobile calunnia che certo non fece onore al suo buon nome. Egli d’intesa con un tale Lord Gladstone fece diffondere la lettera da quest’ultimo inviate al ministro degli esteri, lord Aberdeen, nelle quali si etichettava il regno del Sud come la “negazione di Dio eretta a sistema di governo” causa della violazione sistematica di tutte le leggi umane e divine.
Il Gladstone riferiva di una visita, in realtà mai avvenuta, alle carceri napoletane. L’Inghilterra gridò così ad alta voce al mondo intero il proprio sdegno per le asserite disumane condizioni in cui erano tenuti i detenuti politici e queste notizie trovarono ampie casse di risonanza sui giornali di Torino e negli ambienti ambienti degli oppositori borbonici. Nascondendo il vero motivo economico di questa disonorevole bugia il poco Lord Palmerson insieme all’altro suo amico, Gladstone, gettarono volutamente per i propri interessi fango su Ferdinando ed il suo Regno.
In seguito a questa infamia tutta l’Europa di conseguenza cominciò a odiare Ferdinando II
finché Gladstone ammise di aver scritto quelle lettere senza aver mai visitato il regno, ma avendole compilate in pratica su dettato degli uomini cui fu affidato da Lord Palmerston.
A”giochi fatti”, cioè dopo l’annessione piemontese, il deputato inglese Gladstone ( avete visto come si fa carriera? ) ammise candidamente la menzogna e confessò che egli non aveva mai visitato alcun carcere . Confesso’ di aver scritto quella lettera per incarico di lord Palmerston, e su dettato dei suoi uomini .
Successivamente Lord Aberdeen, in Parlamento, fu protagonista di una furiosa orazione di condanna nei confronti di quelle calunnie scoperchiando una delle piu’ tristi pagine della storia Inglese.
Infatti , sempre dai lavori del Parlamento inglese, dopo 1861, emergono le condanne all’appoggio britannico circa la conquista piemontese del Regno delle Due Sicilie, giudicata una lesione del diritto internazionale e cagionatrice di crimini più orrendi e più gravi di quelli che erano stati attribuiti a Ferdinando II.
Intanto però il guaio era stato fatto, poiché Ferdinando restò circondato da un alone di sospetto e possiamo senz’altro dire che questa seconda parte del suo Regno questo momento coincide con la parabola discendente del suo operato : il rispetto e l’ammirazione relativi ai suoi primi dieci anni di regno all’insegna di idee liberali andranno completamenti persi nel tentativo di non perdere potere monarchico e difendere l’assolutismo del suo Regno .
Dal loro punto di vista, l’allargamento del Regno di Sardegna all’intera Italia era una manna: aveva fatto calare dal cielo, attraverso miracolosi processi, un mercato pari in ampiezza a quello britannico e a quello francese, ma tutto ancora da riempire di speculazioni. In tale clima, i progetti stradali e ferroviari saltavano fuori dai loro portafogli e da quelli dei mediatori sardi dei banchieri inglesi e francesi, come i piccioni dal cappello di un prestigiatore.
Insomma, nel quadro della politica liberista e allo stesso tempo espansionista (protezionismo dall’interno, la definì Francesco Ferrara) impostata, ed imposta, da Cavour, il paese meridionale, con i suoi nove milioni di abitanti, con il suo immenso risparmio, con le sue entrate in valuta estera, appariva una gran risorsa.
Invece il Sud borbonico era pago di sé, alieno da ogni forma di espansionismo territoriale e coloniale. La sua evoluzione economica era lenta, ma sicura. Chi reggeva lo Stato era contrario alle scommesse politiche e preferiva misurare la crescita in relazione all’occupazione delle classi popolari. Nel sistema napoletano la preoccupazione principale dei Borbone stava nell’assicurare il vitto al popolo, nel suo paese.Nella loro visione politica i processi di modernizzazione andavano regolati, la modernità sarebbe venuta un passo dopo l’altro, con una crescita equilibrata della produttività del lavoro.
Il Sud borbonico era un paese strutturato economicamente sulle sue dimensioni, I Borbone non intendevano bruciare le tappe, creando parrocchie di ladri e tangentisti ante litteram come fece poi all’epoca il cosiddetto grande ministro Cavour. Il circuito economico legava le varie realtà regionali in modo perfetto e la capitale assolveva compiuta mente la sua funzione, assicurando al paese napoletano un prestigio di rilevanza mondiale, come mai più si vide; l’erario era ricco e i segni monetari in circolazione (le famose fedi di credito) accettati con fiducia e rispetto ; la banca era incredibilmente solida, cosa di cui non solo le Due Sicilie, ma l’intera Italia ha perduto persino il ricordo. Il risparmio era interamente incorporato nell’argento circolante e in quello depositato presso il Banco. Partendo da così solide basi, all’occorrenza si sarebbe potuta emettere moneta bancaria per tre miliardi, senza dar luogo ad alterazioni nel cambio, cosa che invece turbò per più di trent’anni la vita italiana.
Il consistente surplus della bilancia commerciale permetteva il finanziamento di industrie, le quali, diversamente dalle favole sabaude raccontate dagli accademici circonfusi di alloro, erano sufficientemente grandi e diffuse, sebbene ancora non perfette e incapaci di proiettarsi sul mercato internazionale, come, d’altra parte, tutta l’industria italiana del tempo (e dei successivi cento anni).
Niente di più sbagliato, dunque, che analizzare tale politica economica applicando canoni di valutazione coerenti con il liberismo, secondo la moda invalsa nelle nostre università, a cominciare da quella di Napoli.
Quella consistente ricchezza avrebbe permesso la crescita industriale del paese e il compimento delle opere stradali, ferroviarie e portuali quando, quarant’anni dopo, la navigazione a vela sarebbe stata scavalcata anche nel piccolo cabotaggio. Ma essa andò tutta a beneficio dei padani. Il Sud ebbe infatti un coloniale allungamento delle ferrovie padane solo per permettere un veloce spostamento dell’esercito dal Nord al Sud e la sua costruzione diede luogo all’intrallazzo più grosso e clamoroso della storia nazionale (altro che tangentopoli!) Tutto questo non al fine di difendere le coste meridionali da un eventuale attacco dei turchi, che se ne stavano buoni buoni a casa loro, ma per il caso di evitare altre ipotetiche insurrezioni dei cafoni meridionali.
N.B. I nostrani scrittori di storia, quando affrontano il tema “Meridione borbonico”, hanno il vezzo di lasciar intendere al lettore che la Torino del tempo non avesse niente da invidiare a Manchester , quando in effetti l’industria piemontese era alquanto indietro rispetto a quella napoletana e l’officina Ansaldo era finanziata da Cavour non meno di quanto lo fosse Pietrarsa da Ferdinando II (con la bella differenza, però, che questa era in condizione di realizzare prodotti che Genova ancora non si sognava).
Fu quindi attraverso la stampa londinese e le missioni all’estero dei suoi leader mondiali,che nella prima metà del XIX secolo, si diede inizio ad una campagna diffamatoria nei confrotni del regno borbonico.
Sotto accusa, I re di Napoli divenne in poco tempo quello che convinto di essere ” unto dal Signore ” erano stinatamente contro la modernizzazione capitalistica e al buon esito di questa macchinazione, fece da supporto quel nascente gruppo di ingordi capitalisti pronti ad avventarsi al potere per accumulare a scapito della fame popolare , i loro ingenti profitti.
Da quel momento infatti, una nuova emergente classe di capitalisti agrari, industriali e finanziari, incominciò a mostrare una grande avversione per quei re che si ostinavano a non cederle il potere. Essi ebbero l’abilità di caricare l’aggettivo borbonico di un segno fortemente negativo.
N.B. In poco tempo il contenuto negativo, venne insufflato nell’aggettivo borbonico, e questo ovviamente fu qualcosa che fece molto comodo al regno sabaudo che unito alla sistematica diffamazione di calunnie contro l’intera dinastia dei Borbone di Napoli, da parte di logge massoniche nazionali e forestiere, portarono l’Europa intera a considerare i Borbone come i più fieri accaniti moderna unità nazionale , della civiltà, della democrazia politica, della giustizia sociale, del progresso culturale. e della libertà di pensiero. Le loro carceri erano infami, e così pure la loro polizia; i loro ministri erano degli autentici carnefici; gli stessi re dei feroci buffoni
In poco tempo una burocrazia poco funzionante veniva raffigurata come borbonica.
Quei re borbonici erano gli unici che si ostinavano a non cederle il potere, essi erano gli unici padroni che si opponevano al nuovo. Ancora oggi un padrone antiquato ed esoso subisce identica censura e viene accusato di borbonismo. Ancora oggi i Borbone sono considerati la negazione di Dio.
Tuttora un’imposta particolarmente oppressiva viene definita borbonica e per logica opposizione i loro avversari godono della palma di patrioti, di persone che si prodigarono fino al martirio per la libertà del popolo meridionale e per la grandezza d’Italia; a loro viene attribuito il merito di aver salvato il Meridione, altrimenti condannato all’arretratezza, all’improduttività, all’ignoranza.
Quanto detto salvataggio sia stato proficuo, è inutile dire: la cosa è sotto gli occhi di tutti.
Nell’analisi dei processi sociali c’è qualcosa che infatti resta ancora in ombra.
Certo, fare il re costituzionela non era cosa semplice da fare allora per Vittorio Emanuele in quanto gli toccava governare con un sacco di limitazioni. un sovrano assoluto fa quello che vuole ,, comanda, governa, sostiruisce i ministri … il primo mnistro risponde a lui … non c’è da vincele le elezioni , non c’è da controllare i partiti,.
Invece se sei un re costituzionale non sei tu che governi . Certo nomini il primo ministro ma quello poi deve avere il sostegno del Parlamento . E’ una gran seccatura .
Un re costituzionale regna un popolo ma chi governa è il primo ministro ( in quel caso prima D’azeglio e poi Cavour con i quali lui certo non andava molto daccordo)
E certo quella di Vittorio Emanuele non era certo un vera democrazia ( questo nessunio lo dice mai ).Basta solo dire che a votare potevano farlo solo quelli che pagavano un certo livello di tasse .E il livello era fissato così in alto che a votare era solo il 2% della popolazione . Quindi parliamo di una democrazia estremamente limitata, perche a votare era solo la parte più ricca del paese.
La verita è quella che storia d’Italia si regge su una menzogna sfacciata.
Le colpe dei Borbone sono l’alibi rivolto a coprire le colpe delle classi dirigenti padane e, da ultimo, dell’intera “nazione nordista” Il disastro del Sud e le responsabilità dello Stato nazionale sono entrambi incommensurabili.
Non credo che al mondo ci sia mai stata una nazione altrettanto doppia e altrettanto ridicola. E non esiste un termine più appropriato per definire la pagliacciata.
Se sono passati più di 150 anni dalla caduta della dinastia borbonica , perché anche gli attuali mali del Sud sono da imputare ai Borbone?
Se Genova viene sommersa dall’acqua e dai detriti dei torrenti, a nessuno viene in mente di chiamare in causa Carlo Alberto o la Compagnia di San Giorgio ?
Se a Firenze accade la stessa cosa, nessuno si mette a sciorinare le responsabilità del granduca.
Se Venezia sprofonda nella laguna perchè non è colpa dei Doge?
La spiegazione c’è, ma si ha un pressante, interesse a tenerla nascosta. Essa consiste nel rovesciamento delle responsabilità, nella precostituzione di un alibi a favore del vero colpevole.
La retorica unitaria, che copre interessi particolari, non deve trarci in inganno. Le scelte innovative adottate da Cavour, quando furono imposte all’intera Italia, si erano già rivelate fallimentari in Piemonte. A voler insistere su quella strada fu il cinismo politico di Cavour e dei suoi successori, l’uno e gli altri più uomini di banca che veri patrioti. Una modificazione di rotta sarebbe equivalsa a un’autosconfessione. Quando, alle fine, vennero imposte anche al Sud, ebbero la funzione di un cappio al collo.
Bastò qualche mese perché le articolazioni manifatturiere del paese, che non aveva bisogno di ulteriori allargamenti mercato per ben funzionare, venissero soffocate.
L’agricoltura, che alimentava il commercio estero, una volta liberata dei vincoli che i Borbone imponevano all’esportazione delle derrate di largo consumo popolare, registrò del tutto una crescita e ci vollero ben venti anni perché i governi sabaudi arrivassero a prostrarla. Da subito, lo Stato unitario fu il peggior nemico che il Sud avesse mai avuto; peggio degli angioini, degli aragonesi, degli spagnoli, degli austriaci, dei francesi, sia i rivoluzionari che gli imperiali e prima ancora che si riunisse il parlamento nazionale (marzo 1861), il paese meridionale mandava segnali ben visibili d’insofferenza.
Il Sud borbonico era un paese strutturato economicamente sulle sue dimensioni, Essendo, a quel tempo, gli scambi con l’estero facilitati dal fatto che nel settore delle produzioni mediterranee il paese meridionale era il più avanzato al mondo, saggiamente i Borbone avevano scelto di trarre tutto il profitto possibile dai doni elargiti dalla natura e di proteggere la manifattura dalla concorrenza straniera. Il consistente surplus della bilancia commerciale permetteva il finanziamento di industrie, le quali, diversamente dalle favole sabaude raccontate dagli accademici circonfusi di alloro, erano sufficientemente grandi e diffuse, sebbene ancora non perfette e incapaci di proiettarsi sul mercato internazionale, come, d’altra parte, tutta l’industria italiana del tempo (e dei successivi cento anni).
Niente di più sbagliato, dunque, che analizzare tale politica economica applicando canoni di valutazione coerenti con il liberismo, secondo la moda invalsa nelle nostre università, a cominciare da quella di Napoli.
In nessun paese al mondo il colonialismo interno come quello effetuato dai Savoia è stato così duro e interminabile quanto in Italia. Esso non sarebbe stato (e non sarebbe) possibile altrimenti che rovesciando su altri la responsabilità del disastro. L’onta riversata a piene mani sui Borbone e sull’uomo meridionale non hanno altro scopo e funzione che assolvere i gruppi dominanti dalle loro storiche responsabilità.
Persino la tesi secondo cui l’unità d’Italia sarebbe nata dalla conquista regia puzza di falso lontano un miglio, questo perché la vera arma usata in quel gioco fu l’oro inglese e il tradimento dei notabili del Sud.
La verità vera è che lo Stato unitario altro non è che un’arlecchinata, un imbroglio.
Riportare a galla la verità, la storia effettiva, non è impresa facile in un ambiente in cui il falso è glorificato come patriottismo. Farla conoscere è ancora più arduo, perché la verità si scontra con una falsificazione istillata nella mente dei fanciulli insieme al catechismo.
In quest’opera di recupero, che coinvolge animi generosi e autentici patrioti, gli autori non hanno messo soltanto la passione che il lettore vede zampillare da ogni trase, ma alquanta sagacia; la sagacia di chi vuole comunicare una fede, e che pertanto scrive per farsi leggere.
Nel libro, le informazioni arrivano come le raffiche di una mitragliatrice che non s’inceppa. Bastano le prime venti pagine per stendere l’avversario.
È vendetta, rivalsa, giustizia sommaria? No, è la dignità di patria nata nel cuore di persone coraggiose. Ed è un’arma terribilmente efficace, in quanto arma a sua volta il cuore degli altri. ( Nicola Zitara ).
Di tutte le istanze che furono collegate al Risorgimento, ben poche hanno trovato soddisfazione: i mazziniani non ebbero né la repubblica né la democrazia del suffragio popolare, Garibaldi ebbe piazze e monumenti dedicati ma anche Caprera e l’Aspromonte, i Siciliani non ebbero l’autonomia se non alla dissoluzione della monarchia sabauda; gli inglesi non ebbero né la Sicilia né il libero commercio delle merci, perché travolgenti crisi finanziarie e le spese per gli armamenti a seguito della unificazione della Germania portarono a intense guerre commerciali ed a un lungo periodo di protezionismo economico.
Il Risorgimento purtroppo si concluse solo con l’ingrandimento del Regno di Sardegna e in questo senso lo interpretarono i Savoia; il loro piccolo regno si espanse a macchia d’olio acquisendo territori che essi trattarono come terra di conquista, specialmente il Sud.
Essi misero a disposizione la forza militare strumentalizzando a loro esclusivo vantaggio l’ideale unitario e gli uomini che lo perseguivano. Con la loro aggressione agli altri stati preunitari calpestarono tranquillamente il diritto all’autodeterminazione dei popoli.
Il meridione non aveva nessuna intenzione di unirsi agli altri stati preunitari e manifestò questo suo dissenso con una rivolta decennale contraddicendo, con decine di migliaia di vittime, i plebisciti farsa definiti invece dai nuovi conquistatori “suffragio unanime”.
I Savoia alla fine ebbero quindi il Regno d’Italia, ma lo persero ingloriosamente in appena ottanta anni (per una incredibile nemesi storica l’ultimo Savoia, Umberto II, partì da Napoli per l’esilio dalla stessa scala d’imbarco usata da Francesco Il di Borbone, primo emigrante duosiciliano).
La fallimentare politica sabauda postunitaria partori anche gli stati d’assedio (più di dieci in quaranta anni), le leggi speciali, le patetiche guerre coloniali, la prima guerra mondiale, e quindi il fascismo, la seconda guerra.
L’unità italiana, a parte il senso politico, era stata intesa dagli intellettuali come partecipazione alla vita pubblica, e dalla borghesia come l’acquisto di maggiore potere mentre dal popolo era stata intesa sopratutto come un miglioramento di vita.
L’unione, invece, apportò a Napoli la perdita dell’autonomia e Il dissesto economico che si propagò a tutto il mezzogiorno. Il popolo sopratutto venne vessato con le tasse e l’illusione di benessere e rivincita sociale delle classi più umili fu presto infranta. La tanta promessa e agognata riforma agraria che doveva destinare la terra ai contadini fu dimenticata e mai fatta, mentre sentimenti dei settentrionali nei confronti dei meridionali furono astiosi. Essi dimostrarono ben presto di odiare i meridionali che consideravano fannulloni, perdigiorno e incapaci di qualsiasi cosa.
Da allora una parte dell’Italia fu depredata e condannata a regredire nel tempo , mentre un’ altra parte dell’Italia , quella che era piena di debiti , sulla soglia della bancarotta , con la sua guerra ed il conseguente bottino finanzio’ la propria crescita e prese un vantaggio , poi difeso nel tempo , con ogni mezzo incluse le leggi .
Appena dopo il passaggio di Garibaldi, il governo centrale assunse la direzione di tutti i poteri e la tiepida voce dei deputati meridionali, quasi tutti filogovernativi, non impedì che gli ordinamenti napoletani, validi a tutti gli effetti, fossero sostituiti dalle leggi del regno sardo o su quelle modellate
I comitati liberali composti dai ricchi borghesi e dai massoni, ferventi “unitaristi”, s’impossessarono delle amministrazioni comunali e delle relative casse, misero mano ai documenti relativi alle assegnazioni degli usi civici, ne delinearono la consistenza e li misero all’asta; fu così che il patrimonio rurale passò velocemente nelle loro tasche; ai contadini rimasero due possibilità, come disse Giustino Fortunato, “o brigante o emigrante”.
Le strutture economiche e sociali rimasero immutate e molti ordinamenti provinciali e comunali passarono sotto la diretta dipendenza di Torino.
Il governo centrale di Torino, lontano da Napoli e dai suoi problemi impose le sue leggi cancellando quelle funzionanti del Regno Borbonico.
Ne furono colpiti: La Corte dei Conti, la Scuola, le Poste, la Stampa, la Zecca, E persino l’Ordinamento Giudiziario che con l’adozione dei codici sardi suscitò un vivo malcontento nell’ambiente forense, gli Ordinamenti Provinciali e Comunali che pose l’Amministrazione alle dirette dipendenze di Torino e le tariffe doganali che vennero parificate a quelle del regno sardo.
Questo trasferimento di poteri portò allo smantellamento degli uffici ormai suprflui, con il conseguente licenziamento o la messa in riposo degli impiegati che dopo anni di lavoro si videro messi sulla strada ed andarono ad aumentare il numero dei disoccupati che già in
precedenza erano stati licenziati in tutti i settori pubblici,perchà persone di fede borbonica o ritenuti tali.
Con l’unità Napoli, oltre alla perdita dell’autonomia,si ebbe anche un calo nel campo economico. Molte delle industrie vennero trasferite al nord e le poche che rimasero furono costrette a chiudere per la concorrenza delle stesse fabbriche settentrionali che potevano contare su una più facile ( maggiore sviluppo della rete viaria ) e vicina importazione di materie prime. Ma sopratutto potevano contare su un minor costo della manodopera grazie al largo uso delle donne e dei ragazzi che percepivano una paga inferiore a quella degli uomini.
Le industrie, quelle poche che c’erano, vennero paralizzate dalla concorrenza delle industrie settentrionali che avvantaggiate dal minor costo dei prodotti finiti invasero i mercati riforniti, fino allora, dalle ditte napoletane.
Il minor costo dei prodotti finiti era reso possibile alle fabbriche del nord per la più facile importazione delle materie prime, dato il maggior sviluppo della rete viaria e la vicinanza dei paesi esportatori e importatori, ma quel che piu contava come vi abbiamo accenneato, era il minor costo della mano d’opera per il largo impiego delle donne e dei fanciulli che percepivano una paga inferiore a quella degli uomini.
CURIOSITA’ : Da una statistica del tempo si rilevava che nell’Italia settentrionale erano addetti alle industrie: 65 mila uomini. 146 mila donne e 76 mila fanciulli.
Mentre nell’Italia meridionale si riscontravano: 18 mila uomini, 14 mila donne e 5 mila fanciulli.
Tenendo conto delle proporzioni le donne impiegate nelle industrie del nord erano in maggior numero, rispetto agli uomini, del 125 % e i fanciulli del 17 % mentre al sud le donne erano numericamente inferiori, sempre in confronto agli uomini, del 23 % e i fanciulli del 72 %
Un divario sensibile, dunque, che si ripercuoteva sui costi dei prodotti a danno delle industrie napoletane costrette a limitare o a cessare l’attività e venendo a diminuire la produttività veniva a scemare anche il commercio già danneggiato per altre cause.
Una di queste cause, forse la più notevole, era l’abolizione della Casa Reale che convogliava a Corte i nobili della provincia con tutti i loro seguiti e che ora erano ritirati nei propri possedimenti e quella lconfisca delle terre appartenenti al clero che portò via al meridione e sopratutto ai contadini un’enorme quantità di capitale relativi al raccolto ed ai pagamenti immediati che esso comportava.
La politica accentratice di un governo lontano e poco attento verso le reali esigenze del sud in quel momento, i diversi investimenti economici post-unitari fatti quasi tutti prevalenttemente al nord (fatti tra l’altro con le ex casse borboniche ) e la soppressione post unitaria di barriere doganali di matrice borbonica che favorivano le industrie meridionali permettendo loro il monopolio del mercato indusriale e agricolo , contribuì certamente ad una flessione del commercio e ad aggravare il ritardo del Sud. Se inoltre consideriamo che quelli che erano prima comunque i soldi delle casse borboniche , una volta passati nelle mani sabaude , venivano impiegati sopratutto per ammodernare e favorire le strutture agricole ed industrili del nord, si può subito comprendere come la gente del Meridione mal sopportava di essere amministrata da funzionari piemontesi. Questi, non comprendendo il linguaggio e riluttanti a comunicare, non sapevano cogliere le esigenze di comunità bisognose di rinnovamento e, soprattutto, erano mal guidati da una amministrazione centrale lontana, imbarazzata ed incapace di fornire suggerimenti idonei ad affrontare, con gli scarsi mezzi a disposizione, le pressanti problematiche locali
A dimostrazione di tutto questo basta vedere il triste destino a cui fu sottoposta la fabbrica del Reale Opificio di Pietrarsa cioè una grande industria siderurgica voluto da Ferdinando di Borbone nel 1840 che suddivisa in quattro padiglioni , grazie ad efficaci fucine e forni, era deputato alla costruzione di locomotive a vapore. La fabbrica , capace di dare lavoro a circa 700 operai , era al momento dell’unita’ la piu grande fabbrica d’Italia, e l’unica in grado di fabbricare motrici navali in tutta la penisola senza doversi avvalere di macchinisti inglesi per la loro costruzione e che possiamo considerare il primo e più importante nucleo industriale italiano presente nella nostra penisola oltre mezzo secolo prima che nascesse la Fiat . La fabbrica era famosa e conosciuta in tutta Europa con grande gelosia del solo governo inglese e nel suo periodo di maggiore attività fu visitato da noti ed importanti personaggi come lo zar di Russia Nicola I che manifestò l’intenzione di prendere Pietrarsa a modello per il complesso ferroviario di Kronstad e anche dal papa Pio IX. .
Gli oltre 700 operai , oltre ad essere ben pagati , avevano diritto alla pensione e sopratutto ricevevano puntualmente ogni mese la loro paga .Cosa diversa a quello che avvenne poi con l’ instaurarsi della monarchia sabauda che non solo abbasso’ le paghe ma grazie ad una serie di licenziamenti ridusse anche il personale . L’intera Europa guardava con ammirazione questa nostra grande industria , la sua perfetta organizzazione ed il suo modello gestionale , ma non Il nuovo governo piemontese , che subito dopo l’annessione di Napoli al Regno d’Italia , anziché essere fiero di questo piccolo gioiello che tutta l’Europa ci invidiava , penso’ invece solamente di smantellarlo inviando a Napoli il generale Alfonso La Marmora affinché ne visitasse le officine e studiasse la possibilità di impiantarne una analoga a Torino . Nel 1861, l’Opificio . colpevole del solo fatto di essere presente nel sud Italia , fu considerato dal governo piemontese come una fabbrica poco utile con una attività peraltro poco redditiva e una volta dichiarato antieconomico da una relazione fatta da un loro ingegnere emerse addirittura la volontà da parte delle istituzioni piemontesi di venderlo o addirittura demolirlo .
Ora se solo per un attimo volessimo dar ragione a questa fantomatica relazione piemontese ci risulta però altrettanto difficile poi capire perchè mai invece , lo zar di Russia Nicola I , ordinò addirittura di prenderla a modello per la realizzazione del complesso ferroviario di Kronstad .
Con l’unità d’Italia, l’Opificio fu quindi subito considerato antieconomico e successivamente adibirlo solo alla rimessa in sesto di rotte locomotive. La fabbrica di conseguenza attraversò un periodo di grande difficoltà, che portò a licenziamenti e ad una serie di proteste e scioperi da parte dei lavoratori sedate spesso con violenza come dimostrano antichi documenti ritrovati non molti anni fa nel fondo della Questura dell’Archivio di Stato. I documenti raccontano di un eccidio verificatosi nei confronti degli operai in sciopero nel 1863 da parte della nuova subentrata “ Italia “ . Le forze armate italiane, agli ordini della monarchia sabauda , il 6 agosto di quell’anno , intervennero sparando sulla folla che scioperando manifestava i suoi diritti contro impropri licenziamenti e abbassamento della paga di lavoro . Il bilancio delle povere vittime operaie fu quello di sei feriti e quattro morti.
La Sicilia, inoltre, aveva un motivo aggiuntivo di risentimento in quanto si era vista negare la promessa di una forma di autonomia e l’abolizione della luogotenenza non fu intesa come una facilitazione all’integrazione ma piuttosto come una spinta alla centralizzazione.
I nuovi governanti, da Cavour in poi, si rifugiarono nell’opinione che il Meridione, pur naturalmente ricco, fosse condannato all’arretratezza scontando i danni del malgoverno borbonico, tralasciando il particolare che la Sardegna, da un secolo e mezzo governata dai Savoia, si trovava in condizioni di arretratezza ancor peggiori. Pertanto mai presero in considerazione, malgrado le sollecitazioni , la possibilità di recarsi in quei luoghi per assumere una conoscenza diretta delle problematiche che limitavano la crescita di quelle genti di cui si marcavano solitamente gli aspetti deteriori (delinquenza, corruzione, analfabetismo e superstizione) e verso cui da più parti si manifestava disprezzo (“un esercito di barbari accampato fra di noi”) fino a proporne l’abbandono al loro destino poiché le altre regioni non erano in grado di sopportare l’onere della loro emancipazione
Il famoso sbarramento dell’acqua santa di cui parlava Ferdinando II, nonostante fosse stato poi cancellato non portò quindi certo ad una nuova distribuzione del benessere e della ricchezza , e il continuo costante disinteresse del nuovo governo , verso le esigenze del Sud portò nuove forme di disuguaglianza che da 150 anni ad oggi non accennano purtroppo ancora a dimunuire.
Il cambio di staffetta e testimone , avvenuto con ll’Unificazione del Meridione, non died quindi luogo a nessun beneficio all’intero territorio meridionale ma diede solo avvio ad una lunga e sanguinosa occupazione militare volta a sedare la ribellione che, in opposizione al nuovo Stato era ufficialmente sostenuta da finanziamenti borbonici ed in maniera occulta dal clero , e aveva coinvolto in maniera diretta o indiretta larghe fasce di popolazione fino a trasformarsi nella protesta sociale che aveva alimentato il brigantaggio. Questo, sintomo di un male profondo ed antico, con tutto il carattere disperato che lo sosteneva, aveva trovato alimento nell’imposizione di tutte quelle norme e leggi piemontesi, estranee al sentire della gente e tra cui ebbero un impatto dirompente la proscrizione obbligatoria di sette anni e la mancata risoluzione dei vincoli che opprimevano un’agricoltura involuta ed improduttiva. Nel Meridione in genere e, nella Sicilia in particolare, sopravvivevano residui feudali in cui i contadini, mal pagati e sfruttati, venivano ammucchiati in alloggi dove trovava spesso riparo l’animale di sostegno , Essi nonostante al governo non vi era più un sovrano borbonico ma questa volta uno sabaudo , continuavano a vivere una condizione disagiata
Il nuovo stato , in una guerra ad oltranza durata quasi un decennio, combatté contro il brigantaggio con l’impiego di un esercito smisurato ed atrocità che coinvolsero indiscriminatamente comunità inermi, e marcarono così una profonda rottura tra le popolazioni meridionali ed il nuovo Stato, verso cui si manifestò una avversione maggiore di quella contro il precedente regime borbonico.
I Piemontesi in questa circostanza commisero ineffabili stragi e cancellarono nel sangue 51 paesi. Per tutti si ricordano Casalduini e Pontelandolfo, nel Sannio.
Riporto, ancora una volta, ciò che la Basile e la Morea hanno detto del brigantaggio e sulle cause che lo determinarono: “prese le mosse dalle spontanee rivolte contadine contro l’appropriazione, da parte dei proprietari terrieri, del latifondo; contro i soprusi perpetrati da chi voleva in ogni modo spadroneggiare su terre faticosamente lavorate da braccia che spesso non riuscivano a percepire nessun provento del loro lavoro, se non quello stabilito dal padrone di turno.”
Con l’Unificazione, le imposte volte all’assestamento del deficitario bilancio del nuovo Stato che si trascinava dietro il debito pubblico più elevato d’Europa, accumulato dal Piemonte per la politica espansionistica di annessioni e per gli investimenti infrastrutturali, aumentarono vertiginosamente e si abbatterono sul contribuente meridionale oneri fino ad allora sconosciuti, Per reperire infatti maggiori risorse volte a riequilibrare il bilancio , venne adottata, trascurando le eventuali ripercussioni sociali , una severa ed impopolare stretta fiscale con l’imposizione di pesanti tributi , tra cui la più odiosa fu la tassa sul macinato che, malgrado gli scarsi vantaggi apportati all’erario e le rivolte popolari causate per l’aumento del prezzo del pane, e delle la pasta, indispensabili al popolo per vivere, venne comunque conservata .
Il sistema fiscale quindi certo non migliorò e le cose non andarone bene neanche con le industire autarchiche come quelle siderurgiche dell’Ansaldo ed i cotonifici di Salerno che sotto il regno borbonico godevano di un protezionismo industriale fatto di rigide barriere doganali volte a favorire l’industria locale. Essi furono presto soppiantate da quelle liguri e lombarde che producevano a minor costo ed avevano certamente a loro favore una migliore e piu organizzata rete di trasporto.che venne sempre più ampliata e meglio organizzata grazie ai nuovi introiti economici provenienti dalle casse borboniche. L’unificazione della nazione , realizzata all’insegna del centralismo, evidenziò maggiormente le diverse entità economiche che vedeva le regioni del Nord proiettate in un processo di modernizzazione volto a sviluppare il settore industriale attraverso la meccanizzazione dei processi produttivi ed investimenti nel settore delle infrastrutture (ferrovie, strade, canali). Tutto questo fu possibile grazie alle nuove entrate economiche della ricche casse borbonico che all’epoca era la terza potenza economica europea , che rappresentò una vera e propia boccata di ossigeno per le magre finanze sabaude che pur di adeguare le sue infrastrutture a più moderni sistemi di produzione, avevano portato ad un grosso debito pubblico .
“Il Regno delle Due Sicilie aveva due volte più monete di tutti gli altri Stati della Penisola messi insieme –FRANCESCO SAVERIO NITTI – ”
L’agricoltura padana , grazie a questo indebitamento si era comunque giovata di nuove attrazzature e più moderni sistemi produttivi che portarono nel tempo ad una più evoluta gestione delle aziende capaci di integrare le coltivazioni con allevamenti di bestiame e caseifici. Nelle regioni meridionali invece permaneva una diversa e più equilibrata agricoltura che si affidava a metodi tradizionali, corretti con procedimenti di coltivazione aggiornati ma sobri, e produceva solo quanto necessario. Il settore agricolo nel sud , ad eccezione di pochi esempi , non viveva di moderni processi produttivi ma principalmente di un processo produttivo basato su una manodopera pricipalmente familiare in cui il figlio maschio rapprentava una enorme risorsa produttiva . Essa appariva quindi sostanzialmente più debole ed arretrata di fronte a quella del nord e come sempre avviene in questi casi , l’unificazione con una diversa economia molto più accentrata in un solo luogo diede vita ad una diseguagliata fase di sviluppo che in poco tempo distrusse la sua produzione primitiva che non dimentichiamo era comunque , sopratutto per quanto riguarda la produzione dei prodotti bufalini , dalla metà del 1700 fino all’unità d’Italia, uno dei primi esempi di industria casearia d’Europa, ed era in continua crescita .
Molti di questi I prodotti erano ignoti al resto d’Italia e tanta era l’ignoranza riguardo i prodotti di bufala nel resto d’Italia che riguardo il caciocavallo: “Il Gorani (Giuseppe Gorani, conte e scrittore Milanese, del 1740), alle favole del suo viaggio alle corti meridionali, associa errori ridicoli. Egli dice che tal formaggio si fa dal latte di cavalla”
Con l’unità d’Italia ormai avvenuta, il quadro cambiò notevolmente giacchè il numero dei capi fu ridotto a poco più di un terzo come conseguenza diretta ed immediata delle bonifiche che interessarono le piane intorno al Volturno, recuperando terre all’agricoltura, ma riducendo drasticamente quelle idonee all’habitat bufalino. Dal 1861 al 1871, come tutta l’industria meridionale dell’epoca, anche la produzione della mozzarella di bufala si fermò e molte pagliare vennero dismesse, ed abbandonate. In questo modo , Carditello, la Campania e l’Italia persero purtroppo uno dei primi esempi in Europa d’industrializzazione casearia, e la produzione ebbe un lento declino fino agli anni 50 e 60 del novecento, che portò l’industria bufalina quasi a scomparire.
Da quel momento , a parte alcune e limitate zone privilegiate coltivate ad agrumi, in agricoltura si evidenziarono quindi ancora di piu i contrasti tipici del sottosviluppo dove, accanto ad immensi latifondi prevalentemente sterili in cui l’agricoltura era incredibilmente misera, esisteva una piccola proprietà sminuzzata in inadeguati appezzamenti che utilizzavano solo concimi naturali, mezzi rudimentali (aratro a chiodo) e, non applicando la rotazione agraria, ottenevano raccolti insufficienti anche nelle annate normali. Il contadino , ad eccezione di alcune zone come per esempio San Leucio , possedeva una moneta e vendevano animali , corrispondeva esattamente gli affitti e con poco alimentava la famiglia, e tutti, in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato materiale. Se a tutto questo aggiungiamo poi il fenomeno dell’ immigrazione delle popolazioni del Mezzogiorno verso altri paesi esteri. e l’obbligo prolungato di leva militare a cui dovevano sottostare tutti i giovani , fate un po voi i calcoli ….
La realtà apparve quindi ben presto in tutte le sue sfaccettature negative per i napoletani e tutti i meridionali . Essi dopo qualche tempo capirono che oltre alla perdita dell’autonomia, dovevano fare i conti anche con una perdita della propria economia.
La ribellione del popolo meridionale si fece presto sentire con il cosidetto fenomeno del brigantaggio ( specie tra le classi dei contadini deluse dai nuovi rapporti di proprietà ) che portò ad una vera e propria ribellione armata.
L’accentramento amministrativo del regno che escludeva il meridione, la vendita all’asta dei beni demaniali ed ecclesiastici che acquistati da nuovi ricchi creo’ nuovi padroni più avari e tirannici dei nobili precedenti, le forti imposizioni fiscali, l’obbligo della ferma di leva militare per 7 anni che sottraeva le braccia dei figli al lavoro della terra ai contadini, ed il regime violento esercitato da carabinieri furono certamente gli elementi scatenanti di una vera e propria reazione popolare al nuovo governo.
La legge che più di tutte fece insorgere le masse fu l’obbligo della leva militare nell’esercito sabaudo per lunghi sette anni. In una terra di contadini in cui i figli erano tutto sottrarre questi figli significava spesso abbandonare le campagne. Tanti ragazzi si rifiuteranno e per questo verranno trattati da ” briganti “. E molti vista l’occasione briganti lo diverranno davvero.
Si calcola che le bande dei briganti arrivarono ad essere più di 350 che trovavano sempre più nuovi adepti nel grosso serbatoio delle masse contadine.
I briganti venivano visti come una sorta di moderno Robin Hood, una sorta di eroici paladini contro i soprusi dei ricchi e nuovi padroni, protetti ed armati talvolta dalla stessa chiesa inizialmente contraria al primo parlamento italiano sopratutto per le numerose espropriazioni di beni che dovette cedere.
Francesco appoggiato almeno inizialmente dalla chiesa tentò di reclutare interi settori di popolazioni disposti a portare avanti l’insurrezione tramite lo spagnolo Borjes che per mesi girò l’intero meridione.
Alle azioni talvolta anche violente delle numerose bande di Crocco, Ninco Nanco, Tortora, Schiavone, il nuovo governo rispose con una energica, feroce e sanguinosa azione di repressione guidata dal generale Cialdini che durò fino al 1865 e vide la soppressione per fucilazione o per combattimento di migliaia di ” cosiddetti Briganti ” .
Cialdini è stato uno degli uomini più cattivi, violenti e fetenti che la nostra storia ricordi poiché fu autore di diverse stragi di popolazioni del Sud durante l’invasione e la conquista del Regno delle Due Sicilie. Egli è responsabile del massacro di Pontelandolfo e Casalduni, così come del bombardamento di Gaeta nonostante la roccaforte si fosse già arresa, provocando morti inutili e incredibilmente crudeli.
Ad un certo punto era chiamato ” brigante ” qualsiasi persona che non condivideva la politica piemontese o era dissenziente dalle loro idee o dalle loro leggi. Era brigante anche chi solamente rifiutava di passare nell’esercito dei Savoia o che solamente mostrava fedeltà alla vecchia monarchia.
I piemontesi con sempre maggiore forza incominciarono ad imporre il loro modo di fare con il potere e la violenza dei fucili. I meridionali piuttosto che sottostare ai nuovi padroni preferirono darsi alla macchia e agli stenti e ai sacrifici che essa comportava.
Ad un certo punto i comuni di Pontelandolfo, Casalduni e Campolattaro si ribellarono ed abbatterono le insegne savoiarde issando nuovamente le bandiere borboniche. Il generale piemontese Cialdini, da Napoli, diede ordini precisi di stroncare col sangue qualsiasi accenno o fermento di ribellione. I paesi furono completamente distrutti e saccheggiati. Si diede fuoco a tutte le case e operato un vero massacro a danno dei locali. I piemontesi spararono contro vecchi, donne e bambini, sorpresi nel sonno. I paesi divennero un immenso rogo. Uccisioni, stupri, fucilate, grida, urla e saccheggio si susseguirono per un’intera giornata e alla fine i morti che si potevano contare erano a migliaia.
“Entrammo nel paese, subito abbiamo incominciato a fucilare i preti e gli uomini, quanti capitava, indi il soldato saccheggiava ed infine abbiamo dato l’incendio al paese abitato da circa 4500 abitanti . quale desolazione, non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti e chi sotto le rovine delle case – CARLO MARGOLFO, bersagliere entrato a Pontelandoflo, 1861 -”
Per capire con quale spirito i piemontesi erano venuti nel Meridione, basta leggere il contenuto di un bando che un capitano dei bersaglieri piemontesi aveva fatto affiggere per le vie di un paese.
1) Chiunque tratterà o alloggerà briganti sarà fucilato.
2) Chiunque darà segno di tollerare o favorire il più piccolo tentativo di reazione sarà fucilato.
3) Chiunque verrà incontrato per le vie interne o per le campagne con provvigioni alimentari superiori ai propri bisogni, o con munizioni da fuoco per ingiustificato uso, sarà fucilato.
4) Chiunque, avendo notizie dei movimenti delle bande non sarà sollecito di avvisare il sottoscritto, verrà considerato nanutengolo o come tale fucilato.
Furono operate deportazione in veri e propri campi di concentramento ( o di sterminio, nel quale confluivano i briganti o le truppe di Francesco II che si erano rifiutate di passare nell’esercito dei Savoia ( anch’essi dichiarati briganti).
Tra questi veri e propri lager ricordiamo i campi di prigionia di San Maurizio nella zona nord di Torino detta delle Vaude. In questo posto i soldati dell’esercito di “Franceschiello” che rifiutando di riconoscere il nuovo goveno sabaudo, venivano rinchiusi e ritenuti bisognosi di rieducazione morale e civile. Vi giungevano spesso dopo tre-quattro giorni di nave che li portava a Genova, stipati sottocoperta come facevano gli schiavisti nelle Americhe e poi a piedi, in marcia per almeno una settimana, con abiti sempre più rotti e con scarpe sempre più sfondate. Non arrivavano tutti, ma per chi aveva la fortuna (se di fortuna si può parlare) di resistere, cominciavano i tormenti. Stremati dalle fatiche solo colpevoli di essere ancora fedeli al loro re avevano diritto a “mezza razione di cattivo pane” e una ciotola d’acqua sporca che, secondo l’ufficiale di rancio, era minestra.
In una terra dove l’autunno è freddo e l’inverno freddissimo, dormivano in tende senza giaciglio e con ripari approssimativi. Morivano di fame e di freddo ma dei loro decessi nella maggior parte dei casi non esiste traccia, perché i cadaveri venivano ammassati in botole di calce viva che riuscì a liquefarne anche le ossa.
Cercarono di cancellare anche la memoria. Morti senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo.
I prigionieri arrivavano a frotte e alla fine furono quasi 40 mila i prigionieri.
Ma il vero inferno fu attrezzato a Fenestrelle, all’imbocco della Val Chisone, dove ancora oggi sorge una fortezza situata a quasi duemila metri di altezza .
In questo posto dove l’inverno era tremendo, all’arrivo dei prigionieri borbonici, i comandanti di Finestrelle, in pieno inverno fecero togliere i vetri dai locali dove alloggiavano affinché i cafoni deportati si civilizzassero!
Uomini nati e cresciuti in clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimare di fame e di stento per le ghiacciaie”.
Vivevano con un camice di tela quando i montanari di la indossavano tre maglioni, uno sull’altro.
Quelli che dopo i primi mesi sopravvivevano erano poi costretti ai lavori forzati.
Per sbarazzarsi, in maniera definitiva, di quella massa sempre più numerosa di meridionali che da anni, ormai, marcivano nei loro campi di prigionia tentarono addirittura di ottenere dal governo portoghese la concessione di un’isola disabitata nel bel mezzo dell’Oceano Atlantico dove “depositare” i prigionieri napoletani, togliendoseli, così, definitivamente di torno.
Questo fatti indignò talmente tanto l’opinione pubblica e la stampa locale che fortunatamente alla fine i portoghesi opposero un netto rifiuto e l’infame disegno non poté andare in porto.
Molti di questi prigionieri alla fine addirittura si suicidavano. Nel corso delle deportazioni mediante nave, molti dei prigionieri erano stipati all’inverosimile sia sottocoperta che sopra. In quella situazione di particolare disagio, molti prigionieri ricorrevano al suicidio gettandosi in mare. In alcune occasioni, si verificarono suicidi in massa. Le autorità preposte, intervennero e risolsero il problema: le navi venivano accompagnate nel loro viaggio, da alcune piccole imbarcazioni che avevano lo scopo di raccogliere quelli che tentavano il suicidio. I prigionieri non avevano il diritto di suicidarsi; la loro vita apparteneva ai padroni, allo stato, al re Savoia.
Ma il maggior numero dei suicidi avveniva con la constatazione della realtà dei lager, nella quale erano portati a vivere. Era meglio morire!
Da questi campi andavano via solo quelli che accettavano di vestire altra divisa ma e’ anche vero che venivano esclusi coloro che non avevano le attitudini necessarie.
Gli altri per andare via dovevano solo morire di stenti o di malattia o per fucilazione poichè ribelli.
Intanto le campagne senza più braccia giovani e forti e senza moderni strumenti vennero progressivamente abbandonate dando luogo ad un primo grosso esodo immigratorio delle popolazioni del Mezzogiorno verso altri paesi esteri. In queste regioni in quel periodo si verificò un esodo di tale portata che la popolazione locale diminuì in valori assoluti mentre l’economia toccò bassi livelli mai visti prima di cui ancora oggi si sentono gli effetti.
Le terre , in assenza di forze di lavoro , furono quasi tutte abbandonate . I contadini sottratti della forza produttiva dei propri figli che o partivano per la leva obbligatoria o si davano per sfuggire ad essa al ” brigantaggio ” , in assenza di nuovi sistemo agricoli di produzione , furono quasi tutti costretti ad emigrare .all’estero .
“Caro Presidente, ti salutano qui ottomila moliternesi: tremila sono emigrati in America; gli altri cinquemila si accingono a farlo – Lettera del sindaco di Moliterno (PZ) al primo ministro Giuseppe Zanardelli 1901 -”
“Nel secolo precedente, il Meridione d’Italia rappresentò un vero e proprio eden per tanti svizzeri, che vi emigrarono, spinti soprattutto da ragioni economiche, oltre che dalla bellezza dei luoghi e della qualità della vita. Luogo di principale attrazione Napoli, verso cui, ad ondate, tanti svizzeri, soprattutto svizzeri tedeschi di tutte le estrazioni sociali, emigrarono, con diversi obiettivi personali. Verso la metà dell’Ottocento, nella capitale del Regno delle Due Sicilie quella svizzera era tra le più numerose comunità estere – CLAUDE DUVOISIN, Console svizzero, 2006 -”
Elenchiamo a tal proposito quanto scritto negli anni a seguire da qualcuno che ha voluto poi leggere la storia senza alcuna benda sugli occhi ed in maniera obiettiva :
“Gli scrittori italianissimi inventarono dunque i briganti, come avevano inventato i tiranni; ed oltraggiarono, con le loro menzogne, un popolo intero sollevato per la sua indipendenza, come avevano oltraggiato principi, re ed anche regine colle loro rozze e odiose calunnie. Inventarono la felicità di un popolo disceso all’ultimo gradino della miseria, come avevano inventato la sua servitù al tempo de’ sui legittimi sovrani. – HERCULE DE SAUCLIERES, 1863.
“Potete chiamarli briganti ma combattono sotto la loro bandiera nazionale. Potete chiamarli briganti ma i padri di quei briganti hanno riportato due volte i Borboni sul trono di Napoli. E’ possibile, come il mal governo vuol far credere, che 1500 uomini comandati da due o tre vagabondi tengano testa ad un esercito regolare di 120 mila uomini? Ho visto una città di 5 mila abitanti completamente rasa al suolo e non dai briganti. – GIUSEPPE FERRARI -”
“Il governo piemontese che si vede presto costretto ad abbandonare il suolo napoletano, si vendica mettendo tutto a ferro e fuoco. Raccolti incendiati, provvigioni annientate, case demolite, mandrie sgozzate in massa. I piemontesi adoperano tutti i mezzi più orribili per togliere ogni risorsa al nemico, e finalmente arrivarono le fucilazioni! Si fucilarono senza distinzione i pacifici abitatori delle campagne, le donne e fino i fanciulli. – L’ OSSERVATORE ROMANO, 1863 – ”
“In un solo mese nella provincia di Girgenti, le presenze dei detenuti nelle prigioni furono 32000. Non si turbino! Ho qui il certificato, la nota è officialissima, 32.000 presenze in carcere, solo nei trenta giorni del mese. Ed ora, codeste essendo le cifre, io domando all’onorevole ministro dell’Interno: ne avete ancora da arrestare? – FRANCESCO CRISPI – ”
“Non parliamo delle dimostrazioni brutali contro i giornali; non parliamo dell’esilio inflitto per via economica; non parliamo delle fucilazioni operate qua e là per isbaglio dalle autorità militari; ma degli arresti arbitrari di tanti miseri accatastati nelle prigioni senza essere mai interrogati. – IL NOMADE, giornale liberale 12 settembre 1861”
“Sorsero bande armate, che fan la guerra per la causa della legittimità; guerra di buon diritto perché si fa contro un oppressore che viene gratuitamente a metterci una catena di servaggio. I piemontesi incendiarono non una, non cento case, ma interi paesi, lasciando migliaia di famiglie nell’orrore e nella desolazione; fucilarono impunemente chiunque venne nelle loro mani, non risparmiando vecchi e fanciulli – GIACINTO DE SIVO – ”
“Aborre invero e rifugge l’animo per dolore e trepida nel rammentare più paesi del regno napoletano incendiati e rasi al suolo, e quasi innumerevoli integerrimi sacerdoti e religiosi e cittadini di ogni età, sesso e condizione, e gli stessi malati indegnissimamente ingiuriati, e poi eziando senza processo, o gettati nelle carceri o crudelissimamente uccisi. – PAPA PIO IX, 30 settembre 1861 – ”
“Posso assicurare alla Camera che specialmente in alcune province, quasi non vi è famiglia, la quale non tremi dell’onnipotenza dell’autorità di polizia, dei suoi errori ed abusi. Sotto la fallace apparenza della persecuzione del brigantaggio si vuole avere in mano la facoltà di arrestare o mandare al domicilio coatto ogni specie di persone al Governo sospette. – PASQUALE STANISLAO MANCINI, intervento alla Camera, 1864 – ”
“L’Italia, dove per sostenere quanto gli usurpatori hanno denominato ‘liberalismo’, si stanno barbicando dalla radice tutti i diritti, manomettendo quanto vi ha di più santo e sacro sulla terra. Italia, dove sono devastati i campi, incenerite le città, fucilati a centinaia i difensori della loro indipendenza – NOCEDAL deputato spagnolo, 1863 – ”
“Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti – ANTONIO GRAMSCI -”
“I Borboni non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno – NAPOLEONE III (lettera a Vittorio Emanuele II, 1861 ) ”
“Non vi può essere storia più iniqua di quella dei piemontesi nell’occupazione dell’Italia Meridionale. In quel luogo di pace, di prosperità, di contento generale che si erano promessi e proclamati come conseguenza certa dell’unità d’Italia, non si ha altro di effettivo che la stampa imbavagliata, le prigioni ripiene, le nazionalità schiacciate ed una sognata unione che in realtà è uno scherno, una burla, un impostura – MCGUIRE deputato scozzese, 1863 –
”“Pare non bastino sessanta battaglioni per tenere il Regno. Ma, si diranno, e il suffraggio universale? Io non so niente di suffraggio, so che al di qua del Tronto non ci vogliono sessanta battaglioni e di là si. Si deve dunque aver commesso qualche errore; si deve quindi o cambiar principi o cambiar atti e trovar modo di sapere dai napoletani, una buona volta, se ci vogliono si o no. Agli italiani che, rimanendo italiani, non vogliono unirsi a noi, non abbiamo diritto di dare archibugiate – MASSIMO D’AZELIO – ”
“Quelli che hanno chiamato i piemontesi e che hanno consegnato loro il Regno delle Due Sicilie sono un’impercettibile minoranza. I sintomi della reazione si vedono ovunque – JORNAL DE DEBATS, novembre 1860 – ”
“Sento il debito di protestare contro questo sistema. Ciò che è chiamata unità italiana deve principalmente la sua esistenza alla protezione e all’aiuto morale dell’Inghilterra, deve più a questa che a Garibaldi, che non agli eserciti stessi vittoriosi della Francia, e però, in nome dell’Inghilterra, denuncio tali barbarie atrocità, e protesto contro l’egidia della libera Inghilterra così prostituita – LORD LENNOX, parlamentare inglese, 1863 –
”“La guerra contro il brigantaggio, insorto contro lo Stato unitario, costò più morti di tutti quelli del Risorgimento. Abbiamo sempre vissuto si dei falsi: il falso del Risorgimento che assomiglia ben poco a quello che ci fanno studiare a scuola – INDRO MONTANELLI –
“Come ha potuto solo per un momento uno spirito fine come il tuo, credere che noi vogliamo che il Re di Napoli conceda la Costituzione. Quello che noi vogliamo e che faremo è impadronirsi dei suoi Stati – CAVOUR (all’ambasciatore Ruggero Gabaleone) – ”
“Napoli è da sette interi anni un paese invaso, i cui abitanti sono alla mercè dei loro padroni. L’immoralità dell’amministrazione ha distrutto tutto, la prosperità del passato, la ricchezza del presente e le risorse del futuro. Si è pagato la camorra come i plebisciti, le elezioni come i comitati e gli agenti rivoluzionari. – PIETRO CALA ULLOA – ”
“Intere famiglie veggonsi accattar l’elemosina; diminuito, anzi annullato il commercio; serrati i privati opifici. E frattanto tutto si fa venir dal Piemonte, persino le cassette della posta, la carta per gli uffici e le pubbliche amministrazioni. Non vi ha faccenda nella quale un onest’ uomo possa buscarsi alcun ducato che non si chiami un piemontese a sbrigarla. Ai mercanti del Piemonte si danno le forniture più lucrose: burocrati del Piemonte occupano tutti i pubblici uffizi, gente spesso ben più corrotta degli antichi burocrati napoletani. Anche a fabricar le ferrovie si mandano operai piemontesi i quali oltraggiosamente pagansi il doppio dei napoletani. A facchin della dogana, a camerieri a birri, vengono uomini del Piemonte. Questa è invasione non unione, non annessione! Questo è voler sfruttare la nostra terra di conquista. Il governo di Piemonte vuole trattare le province meridionali come il Cortez ed il Pizzarro facevano nel Perù e nel Messico, come gli inglesi nel regno del Bengala. –FRANCESCO PROTO CARAFA, Duca di Maddaloni – ”
“L’unità d’Italia è stata purtroppo la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico sano e profittevole. L’ unità ci ha perduti. E come se questo non bastasse, è provato, contrariamente all’opinione di tutti, che lo stato italiano profonde i suoi benefici finanziari nelle province settentrionali in misura ben maggiore che in quelle meridionali – GIUSTINO FORTUNATO – ”
“Se dall’unità d’Italia, il Mezzogiorno è stato rovinato, Napoli è stata addirittura assassinata. E’ caduta in una crisi che ha tolto il pane a migliaia e migliaia di persone – GAETANO SALVEMINI -”
La città , infatti totalmente abbandonata a se stesa da un governo centrale che si trovava lontano e non poteva rendersi conto dei veri problemi del popolo si ritrovò in uno stato di crisi e di miseria peggiore di quello precedente avvenuto sotto i sovrani borbonici.
Il cambio di staffetta da loro tanto desiderato e propugnato, non portà al popolo nessun cambiamento e sopratutto nessun giovamento visto l’aumentare della disocuppazione e il costretto abbandono delle terre da parte dei giovani, dando origine al brigantaggio e al il triste fenomeno della emigrazione.
Un vero fallimento. ! Visto che almeno prima dell’unione d’Italia, i Borbone permettevano ai contadini il diritto di potere usufruire gratuitamente delle terre del demanio per coltivare, piantare, fare pascolare le greggi, e tagliare legna,consentendo quindi ai contadini di vivere in maniera decorosa.
L’unità d’italia e tutte te le chiacchiere che ruotavano intorno alla libertà ed i relativi vantaggi economici si rivelarono presto per i meridionali solo una grossa burla per la loro qualità di vita causata dall’aumento del prezzo del pane, delle la pasta e degli ortaggi, indispensabili al popolo per vivere,
I problemi della città l’unità d’Italia quindi cominciarono presto ad essere gravosi e la situazione intollerabile.
Anche strutturalmente Napoli aveva urgente bisogno di rinnovazione e di bonifica; la popolazione, che ormai superava il mezzo milione ,viveva in gran parte nei « bassi», nei fondaci, e nei vicoli stretti privi di aria e di luce.
La città era carente di fognature e di acquedotti, le strade avevano bisogno di essere allargate in quanto intransitabili nei giorni di pioggia perché si trasformavano in torrenti.
A Via Toledo robusti popolani, i cosidetti « passalava », trasportavano a « coscecavuoglio» (a cavalcioni) da un marciapiede all’altro coloro che dovevano attraversare la strada per il compenso di una grana, vale a dire poco più di 4 centesimi.
Si andavano praticamente costituendo le basi di quelle epidemia di colera che poi successivamente si scatenò in città .
Un’ultima curiosita’: Un altro grande ribelle al regno Sabaudo ( e quindi brigante ) possiamo definirlo San Gennaro che a modo suo si oppose ai nuovi CONQUISTATORI visto che in alcuni anni il prodigio non si é mai verificato in presenza dei sovrani di Casa Savoia (nel 1861, 1870 e 1931).
