A San Leucio, un piccolo borgo presente a nord di Caserta, Ferdinando IV re di Napoli  volle realizzare la Real Colonia, una comunità operaia felice, in linea con le città ideali delle utopie settecentesche fondata sui principi della solidarietà, uguaglianza e assistenza secondo le più moderne e avanzate idee illuministiche del tempo.

Egli volle costruire una fabbrica industriale da usare poi come modello esportabile in tutto il regno intorno alla quale si doveva poi formare una comunità operaia autogestita che, oltre a produrre stoffe pregiate, doveva formare un nuovo suddito consapevole, ricco della propria professionalità e sopratutto felice.

Scelse come luogo per il suo esperimento illuminista, la bella ed estesa campagna di Caserta, precisamente una piccola collina dove era presente il rudere di una antica chiesetta intitolata al Santo San  Leucio.
Il santo, nato ad Alessandria d’Egitto, visse per molto tempo in Italia e morì nel territorio casertano.
Restaurato di recente, il piccolo borgo di San Leucio, che prende il nome dall’antica chiesa, è stata per circa sessant’anni un piccolo grande sogno, una cittadella utopistica ideale in cui si istituiva la perfezione che fu fortemente voluta da Ferdinando IV ( re Lazzarone ).

Durante una delle sue tante battuta di caccia, su di una collina nel Casertano, Ferdinando, scopri un vecchio rudere di una antica chiesetta dedicata a San Leucio vescovo di Brindisi.
Il luogo silenzioso e con una vista  stupenda piacque moltissimo al re, al punto da sceglierlo come suo luogo di ritiro lontano dalla vita mondana e dal baccano della Reggia di Caserta che lo soffocavano. Decise pertanto di costruirvi un suo personale casinò di caccia, affidando i lavori di restaurazione all’architetto Collecini.
Il re, oltre a costruire un casinò di caccia, fece edificare anche nuovi edifici destinati alle famiglie dei residenti locali che allora non erano più di venti.
Sul Belvedere intorno al  casinò di caccia, il sovrano vi fece poi insediare alcune famiglie affinchè  provvedessero alla regolare gestione del complesso.
I fedeli coloni con il tempo crebbero di numero e diventarono una piccola comunità.
Nel regno si diceva che la zona fosse popolata di belle donne felici di soddisfare ogni desiderio di Ferdinando; non a caso i bambini del luogo erano chiamati ” e figli d’ o’ Rre “.

Ferdinando IV, che  era un gran sognatore a quel punto probabilmente anche influenzato dalle mode utopistiche dell’epoca decise di fondare in quel luogo tanto amato una colonia modello fatta di persone felici.
Egli realizzò un esperimento sociale ed economico unico in Europa: tramite la creazione di una seteria e di una fabbrica di tessuti cercò di fondare una comunità operaia autogestita, capace di autonomia economica che, oltre a produrre stoffe pregiate, doveva formare un nuovo suddito consapevole, ricco della propria professionalità e sopratutto felice, come solo nelle utopie settecentesche poteva accadere.

Nel paesino che si sarebbe dovuto chiamare Ferdinandopoli, il re costruì un moderno centro industriale per la tessitura della seta; diede allo stesso una organizzazione sociale particolare basata su leggi speciali fatte in uno specifico codice (scritto di suo pugno)  chiamato Ferdinandeo, pieno di straordinarie intenzioni e intuizioni con cui regolava la vita dei cittadini  e la cui compilazione fu affidata a Gaetano Filangieri.

I pilastri della Costituzione di San Leucio-Ferdinandopoli erano L’EDUCAZIONE – LA BUONA FEDE – e IL MERITO.
L’educazione veniva considerata l’origine della pubblica tranquillità; la buona fede era la prima delle virtù sociali e il merito la sola distinzione tra gli individui.
Era vietato il lusso. Gli abitanti dovevano ispirarsi all’assoluta eguaglianza senza distinzioni di condizioni e di grado, e vestirsi tutti allo stesso modo senza distinzione sociale.
Il lavoro e la casa erano garantiti a tutti. Gli  operai e le loro famiglie ricevevano ottimi salari, cure mediche, assistenza ed educazione.
Il re fece costruire una scuola e la frequenza della stessa era obbligatoria a partire dai sei anni di età: i ragazzi erano poi messi ad apprendere un mestiere secondo le loro attitudini e i loro desideri.
Rese obbligatoria  la vaccinazione contro il vaiolo.
Pretese che, come condizione primaria, venisse curata l’igiene e la pulizia.
Fu evitata la mendicità mediante l’istituzione di un fondo per i bisognosi.
I giovani potevano sposarsi per libera scelta, senza dover chiedere il permesso ai genitori.
Proibì la dote per i giovani sposi ai quali egli stesso donava una casa e due telai.
Le mogli non erano tenute a portare la dote: a tutto provvedeva il re, che s’impegnava a fornire la casa arredata e quello che poteva servire agli sposi.
Furono aboliti i testamenti e i figli ereditavano dai genitori per diritto naturale: i figli ereditavano dai genitori, i genitori dai figli, quindi i collaterali di primo grado e basta.
Alle vedove andava l’usufrutto. Se non c’erano eredi, andava tutto al Monte degli orfani.
Nella successione maschi e femmine avevano pari diritti.
I funerali si celebravano senza distinzione di classe, anzi erano sbrigativi perché non dovevano affliggere. Ferdinando che era un gran superstizioso, abolì anche il lutto che trovava sinistro: al massimo una fascia nera al braccio.
Il parroco ed il popolo (tramite i  capifamiglie ) eleggevano gli anziani.
La città era amministrata da cinque anziani che con funzioni di magistrati e giudici civili restavano in carica un anno.
Le norme del codice prevedeva che ogni dipendente delle manifatture della seta, era tenuto a versare una parte dei guadagni alla Cassa della Carità, istituita per gli invalidi, i vecchi ed i malati.

Insomma: uguaglianza, solidarietà, assistenza, previdenza sociale, diritti umani.
Un misto di socialismo reale e surreale: io vi dò queste leggi, rispettatele e sarete felici.
Tutto ruotava intorno alla fabbrica. Nel cortile del Belvedere fu costruito un impianto per la lavorazione della seta, affinché i contadini del luogo, ora disoccupati trovassero occasione di lavoro. Una seteria meccanica sostenuta dal re con mezzi potentissimi che sfruttava la materia prima generata dai bachi allevati nelle case del Casertano e oltre. Dai primi filatoi e dai telai fino alla costruzione di una grande filanda.

La fabbrica in breve tempo si andò sviluppando con altri reparti necessari per il completamento del ciclo di lavorazione ed in breve tempo tutto il piccolo centro di lavorazione si trasformò in un opificio industriale intorno al quale sorsero infrastrutture e altre abitazioni per tecnici e operai specializzati che accorsero da ogni parte d’Italia.
Si producevano stoffe per abbigliamento e per parati.

I tessuti di San Leucio rifornivano i sovrani della casa borbonica e le famiglie della nobiltà napoletana sia per gli abiti sia per le tappezzerie. Clientela che forse firmava gli ordini anche per un nobile spirito di assistenzialismo.
Per migliorare la fabbrica non si badava a spese e furono acquistati i più moderni impianti e macchinari, sicchè essa raggiunse un livello così alto che poteva essere paragonato a ciò che vi era di meglio in altri paesi stranieri.
Il complesso industriale oltre ad essere dotato di quanto di meglio la tecnologia dell’epoca offrisse, precorreva in organizzazione e normativa quei princìpi che, molto tempo dopo, saranno applicati dalle più evolute società industriali: il merito come unico elemento discriminante tra i lavoratori, una perfetta parità di trattamento tra uomo e donna, l’apprendistato retribuito, la formazione professionale e l’assistenza sanitaria gratuita; persino i funerali erano a spese dello Stato.

Il potere giudiziario fu conferito a un soprintendente generale e la responsabilità della produzione a un amministratore.
Il primo ad assumere tale carica fu Domenico Cosmi, ufficiale della Real Casa e già soprintendente all’insegnamento professionale. Questi era un uomo di grandi capacità tecniche e gestionali che portò, in breve tempo, la fabbrica a livello di una manifattura altamente industriale.
Eppure la fabbrica, che s’ingrandì e produsse una gamma ricchissima di tessuti, non riuscì mai a prosperare economicamente. Se non ci fosse stato il re che metteva mano al portafoglio e rinvigoriva le casse, addio.
Un’industria di Stato: esattamente come ai nostri tempi ( Fiat, Alitalia etc).

L’esperimento della “Reale Colonia ” e la sua filosofia sociale, durò circa sessant’anni; il fallimento del suo ideale fu provocato dalla crescita della popolazione. Quando la gente cominciò a litigare, la rigidità della legge cominciò a sfaldarsi e la gabbia dorata ad arrugginirsi.
L’antico borgo industriale con le abitazioni per i lavoratori, invece, grazie a provvidenziali recenti opere di restauro continua a sopravvivere al tempo nella sua bellezza.

 

Quello  che oggi rimane è un maestoso complesso il cui impianto urbanistico è ancora intatto. In alto il palazzo del Belvedere, con il primo setificio, la chiesa, la scuola per i figli degli “artisti” della colonia, il teatro e gli appartamenti del re e della corte: in basso le residenze degli operai, case a schiera tutte uguali per una comunità di uguali. La manifattura invece è l’unica ad esser sopravvissuta al tempo senza particolari aiuti e ancora oggi seppure con caratteristiche molto diverse continua ad essere un prodotto estremamente ricercato ed apprezzato in ogni dove si parli di seta.





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