Un tempo dalla collina del vomero si sentiva , solitamente di buon mattino , sollevarsi un dolce canto che accompagnava in un magico risveglio tutti i napoletani . Affacciati alle finestre ogni napoletano volgeva lo sguardo verso l’alto delle campagne del vomero e pensando alle belle ” fate ” non poteva far altro che emettere un bel sospiro di desiderio .
Le belle fate erano però niente altro che delle belle lavandaie che per la maggior parte dimoravano in quel luogo ed erano chiamate “fate ” solo perchè belle e intriganti come spesso erano , mandavano in estasi gli uomini mentre lavavano i panni, e lasciavano scorgere con sensualità qualche piccola parte del loro meraviglioso corpo . Erano tutte donne di quell’incredibile bellezza che solo le popolane di Napoli possiedono, e mentre strapazzavano i panni sui lastroni di pietra ai piu acuti sguardi lasciavano intravedere le loro forme. Indossavano solitamente un corsetto di seta dai colori vivaci ed una gonna di eguale tonalità e fantasia e si si distinguevano sopratutto perchè erano solite portare un fazzoletto al collo, che si appoggiava alle spalle , oppure, una camiciola che spesso era decorata con ciocche di laccetti pendenti sul petto. Dai lobi delle orecchie poi, facevano bella mostra pendenti in simil’oro, molto pesanti, che venivano denominati “rosette”. Ai piedi nudi infine, calzavano “zoccoli” con nastri multicolori annodati in modo tale da formare dei fiocchi.
Queste belle lavandaie con la loro abbronzatura, il loro viso allegro, l’odore di pulito, le movenze flessuose dei loro corpi, hanno per secoli ispirato in città pittori ed autori di poesie e canzoncine . Esse venivano definite “fate”, forse per il loro scomparire e ricomparire fra le lenzuola stese ad asciugare che svolazzavano.
Curiosita’ : Sull’origine del nome fantastico ci sono diverse ipotesi: alcuni sostengono che venivano considerate magiche per la capacità di far tornare splendenti gli abiti usando cenere di legna e olio di gomito; altri dicono che la magia stava nella capacità di raccogliere elemosine per comprare cenere e tinozze; la versione più accreditata racconta che le lavandaie venivano chiamate «fate» perché erano tutte donne di incredibile bellezza, e mentre facevano il bucato sui lastroni di pietra lasciavano intravedere le loro forme.
Le belle ” fate ” abitavano quasi tutte , per la maggior parte , presso l’attuale piccolo borgo delle due porte all’Arenella , un tempo considerato dalla nobiltà napoletana , sopratutto intorno al 1400 , un delizioso luogo di vacanza.
Esse erano quasi tutte riunite in questo borgo di campagna ed in particolare alloggiavano in un vicolo che ancora oggi porta lo strano nome di ” vico delle fate ” . Prima di iniziare il lavoro, e alla fine della giornata, le fate sbucavano dal loro vicolo, imboccavano quello confinante e andavano a sentir messa in una cappelletta di una chiesa piccola ma straordinariamente ricca di opere d’arte.
N.B. La chiesa l’aveva fatta costruire nel 1664 la nobildonna Isabella Di Costanzo, erede di Cinzia Della Porta, figlia di Gian Battista, ( famiglia di Pozzuoli dei «Di Costanzo» ).
Alcune trasportavano i panni, all’andata e al ritorno, in ceste o in “mappate” in equilibrio sulla testa, aiutandosi con armoniosi movimenti del collo. Altre facevano uso di asinelli e altre ancora si avvalevano di carrettini. ( erano caratteristici quelli azzurri della zona di Posillipo, che facevano la spola con i casali di Angara, Migaglia e Santo Strato) .
CURIOSITA’: Fra le lavandaie operanti a Napoli , per antica tradizione quelle che scendevano dai villaggi e dalle contrade collinari del Vomero e di Posillipo. erano quelle maggiormente apprezzate.
La lavannara (lavandaia), fu un mestiere femminile che durò fino a tutti i primi anni ’60 del 1900 quando poi nelle case degli operai evoluti e della piccola borghesia apparvero le prime lavatrici. Esse con con cadenza settimanale o bisettimanale passavano di casa in casa ritirando la biancheria da detergere e sbiancare che poi provvedevano a lavare ( con sapone di piazza ) presso il proprio domicilio e riconsegnava alle clienti nel giro di un paio di giorni. Tale procedura era però seguita nella zona collinare della città dove domiciliavano le famiglie di professionisti o dell’alta borghesia che però spesso nelle loro eleganti case non avevano , (perchè non esisteva ) , il cosidetto lavaturo (il lavatoio) in pietra , che rappresentava un elemento essenziale per procedere all’operazione di lavatura dei panni; tale lavaturo ( lavatoio) esisteva invece in tutte le case della città bassa.
La lavandaia quindi o trasportava i panni da lavare presso il proprio domicilio , oppure come spesso accadeva , dava corso alla sua opera settimanalmente o bisettimanalmente direttamente nel domicilio delle clienti.
Fino agli inizi del Novecento, era quindi consuetudine che le lavandaie si recassero dai clienti a prelevare i panni sporchi per poi riportarli dopo averli lavati e fino a quando , prima degli anno sessanta , non erano ancora diffuse le lavatrici elettriche domestiche, il lavaggio dei panni era un problema. Nelle case più o meno borghesi dove non c’era una cameriera “notte e giorno”, si svolgeva il rito, per lo più settimanale, della venuta in casa di una lavandaia che quasi sempre veniva dal contado di Napoli.
Era un lavoro faticoso e per lavare a mano questi panni in un lavatoio ( bassa vasca di pietra ) ci voleva forza e spesso muscolosi avambracci . Una volta lavati i panni andavano poi sistemati dentro la tina per procedere alla sbiancatura della colata, usando la cenere del focolare; terminata la colata poneva la biancheria cosí lavata in un capace cufenaturo ( conca metallica) per trasferirla quindi infine sul lastrico solare, dove la biancheria lavata era posta ad asciugarsi, adeguatamente sciorinata su approntate corde, tese da una parete all’altra dove vento e sole la facevano da padroni.
N.B. Il mestiere di lavandaia si tramandava spesso da madre in figlia ed occupava molta “mano d’opera” femminile . Era in genere un lavoro ben retribuita, che spesso le donne riuscivano ad alternare con i propri lavori agricoli e per tale motivo era spesso tra il popolo il mestiere a cui maggiormente si dedicavano le giovani donne. Esse si dedicavano al lavoro delle lavandaie per farsi la dote e il corredo, che probabilmente si incrementava anche di qualche capo di biancheria non ritirato dai clienti.
I “lavaggi” dei panni non potevano comunque avvenire fino agli inizi del primo novecento, nel centro della città perchè l’acqua scarseggiava e quella esistente era soprattutto piovana raccolta nelle pochissime cisterne , oppure nei pochi pozzi esistenti. Per questi motivi, i cosiddetti “ cupielli ” (secchi ) costavano più di quanto le povere fate potessero pagare. Conseguentemente si narra che andassero “pezzente” ovvero chiedendo la carità…..perché fosse loro offerta una quantità sufficiente per quel lavoro e, in virtù d’essere appunto delle “fate”; riuscivano, quasi sempre, ad ottenerne quanto era necessario.
La cosidetta “culata” che per le difficoltà accennate, era una operazione non semplice che partiva dal dover ammollare la biancheria in un “cufenaturo” o “cantero” (recipiente di legno o terracotta) che, nella parte bassa, aveva un foro chiuso da un sughero per la fuoriuscita dell’acqua , era un’operazione che durava qualche ora ed era necessaria per rendere i tessuti più morbidi. Dopo questo i panni si “ncufanavano”: ovvero si stendevano piegati nello stesso recipiente sul quale veniva posto un “cennerale” (un panno) versandogli sopra il “ranno”: ovvero un misto di acqua e cenere bollita che aveva la funzione di rendere i panni non solo candidi ma anche profumati nel caratteristico “addore e culata”. Infine si “arrecentavano”: cioè si sciacquavano con acqua fresca per eliminare eventuali residui di cenere e “scufanati” si stendevano al sole. Asciugati venivano stirati e cosparsi di spicaddossa una lavanda profumata usata anche dai Greci e dai Romani.
Le ” fate lavandaie ” per darsi un ritmo , nel duro lavoro di lavare i panni delle famiglie nobili nei ruscelli delle campagne , intonavano i loro canti , e al sole rivolgevano le stessa preghiera che le loro antenate un tempo rivolgevano ad Apollo , il Dio del Sole . Una delle loro cantilene era infatti considerata una sorta di invocazione , un canto propiziatorio , quasi una preghiera pagana,che esse rivolgevano al Sole per invocare giornate calde , limpide e serene, ideali per accompagnare il loro faticoso lavoro ed asciugare il loro bucato .
Jesce sole, jesce sole
nun te fa’ cchiù suspirà!
Siente mai ca le ffigliuole
hanno tanto da prià..
Una filastrocca antichissima di cui si hanno testimoninaze che risalgono addirittura al XIII secolo ( epoca di Federico II di Svevia ) che si è poi radicato nel sentimento popolare, al punto da divenire un’espressione tipica del dialetto napoletano e della parlata quotidiana a cui molto spesso si indugia anche nella vita quotidiana come intercalare di speranza e buona sorte .
CURIOSITA’: La prima attestazione scritta della filastrocca risale al Quattrocento, in un codice manoscritto oggi conservato nel museo nazionale di Parigi. Ma lo stesso testo contiene le sue radici che risalgono a ben due secoli prima . Nella seconda strofa della filastrocca della filastrocca si accenna infatti ad un “Imperatore”, incitando il sole a venire fuori per scaldare anche lui e Federico II di Svevia fu l’unico sovrano del lungo regno napoletano ad utilizzare quell’appellativo.
Jesce jesce sole
scajenta ‘Mperatore
scanniello mio d’argento
che vale quattuciento…
Grazie poi al grande Gian Battista Basile e al suo capolavoro “Cunto de li cunti”, la filastrocca una volta riscritta per la prima volta per intero, con l’aggiunta di una terza parte fino ad allora inesistente , essa divenne una famosa cantilena che venne poi musicato nell’ottocento da Guglielmo Cottrau, ( egli trascrisse in musica l’ormai già celebre cantilena delle lavandaie ) .
Ma le stesse fate erano spesso esse stesse spesso le autrici dei loro canti i e alcuni di questi sono addirittura finiti a far parte del patrimonio storico canoro della città e appartenere alla letteratura napoletana.
I luoghi, dove i panni raccolti a domicilio venivano lavati, erano quelli che offrivano la possibilità di avere acqua a disposizione, cioè pozzi e ruscelli. Essi richiamavano più lavandaie, che stando vicine, assieme, durante il lavoro intonavano i canti. Fra gli argomenti dei canti ovviamente l’amore era uno dei motivi più ricorrenti.
La sveglia di ogni buon napoletano era quindi spesso una famosa cantilena che le lavandaie intonavano dalla collina del Vomero. Esse erano giovani donne che svolgevano l’antico mestiere di lavare i panni delle famiglie nobili , sotto la guida di una “fata maestra” che le seguiva in tutte le loro azioni di lavoro, elargendo poi, alla fine della giornata, il compenso, solo per per quanto avevano svolto . Capite quindi quanta importanaza aveva per loro il sole e le bella giornata che esso comportava . Il “fatturato” delle lavandaie era legato alla presenza del sole, tant’è che il loro canto più famoso, ripreso da Roberto De Simone per la sua Gatta Cenerentola, è l’invocazione al sole di uscire dalle nuvole:
Jesce sole, Jesce sole
nun te fa cchiù suspirà
siente maie che le figliole
hanno tanto da prià?
In conclusione le belle parole della oramai famosissima canzone napoletana , databile intorno al 1200 divenuta nel tempo un vero successo nella versione presentata dalla Nuova Compagnia di canto popolare :
Jesce, jesce sole,
scajente ‘mperatore,
scanniello mio d’argiento
ca vale cincuciento;
cientocinquanta,
tutta la notte canta,
canta Viola,
lu masto de la scola.
Masto, masto,
mannacenne priesto,
ca scenne masto Triste,
ce llanze e cu spate,
da l’aucielle accumpagnato.
Sona, sona zampugnella,
ca t’accatta la vunnella,
la vunnella de scarlatto:
si nun suone te rompo la capa.
Nun chiovere, nun chiovere,
ca aggia ire a movere,
a movere lu ggrano
de masto Giuliano.
Masto Giuliano,
manname ‘na lanza,
ca voglio ire ‘n Franza,
in Franza e in Lombardia,
addò sta madamma Lucia.