Quando cominciarono nel periodo borbonico gli scavi archeologi nelle città vesuviane , gli addetti ai lavori si ritrovarono con imbarazzo di fronte al rinvenimento sempre più copioso di affreschi , sculture ed oggetti “osceni”, ad alto tasso erotico e pornografico , che vennero immediatamente occultati alla vista tramite teloni o rinchiusi in magazzini senza alcuna possibilità di accedervi da parte del pubblico, ma aperti solo su esplicita richiesta degli studiosi .
Ad imbarazzare I vari esploratori dei siti archeologici esplorati era sopratutto il grande simbolismo fallico che caratterizzava buona parte delle sculture e di alcuni affreschi.
Il fallo veniva infatti spesso accentuato con evidenza in molti oggetti ed addirittura chiari temi sessuali erano pure presenti in alcuni articoli casalininghi o comunque di uso domestico comune .
Specchi in bronzo, vasi attici a figure rosse, campanelli, candelieri, flaconi per profumo, statue , affreschi ed altri numerosi reperti scabrosi si accumularono in misura sempre maggiore tra lo stupore persino degli stessi addetti ai lavori .Erano reperti che alla loro scoperta scandalizzarono parecchio la società dell’epoca e per lungo tempo furono quindi tenuti ben nascosti al pubblico e solo gli archeologi , dietro formale richiesta potevano accedere alla loro visione .Si trattava per l’epoca di uno shock culturale troppo forte e l’imbarazzo di esporli mise in considerevole crisi il mondo archeologico : ; ad esempio un affresco murale raffigurante il Dio Priapo , dio sessuale per eccellenza e con il pene eccezionalmente dotato sia per dimensioni che per lunghezza, venne ricoperto addirittura con l’intonaco ( quest’ultimo è venuto via soltanto nel 1998 a causa di una serie di abbondanti precipitazioni ).
Il rinvenimento sempre più copioso di oggetti “osceni”, portò alla decisione di dedicare a questi particolari reperti una loro sala riservata ( gabinetto segreto ) nel famoso nascente Museo Ercolanense di Portici , per poi essere in fase successiva trasferiti al Museo Archeologico di Napoli dove al momento continuano a trovarsi e poter essere visualizzati.
CURIOSITA’. Nel 1819, quando il re Francesco I delle Due Sicilie visitò la mostra dedicata a Pompei presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli in compagnia della moglie e della figlia, rimase talmente imbarazzato per le opere di contenuto così esplicitamente sessuale da decidere di far raccogliere tutto all’interno di stanze apposite ( appunto il gabinetto segreto ), e diede disposizione che al ” gabinetto segreto “potessero avere accesso all’ingresso solo unicamente le persone di matura età e di conosciuta morale”,
La censura inizialmente si rivelò tuttavia controproducente, attizzando la curiosità dei visitatori e alimentando veri e propri attacchi politici fatti ad arte contro il regno borbonico . I viaggiatori stranieri del Grand Tour facevano dell’argomento motivo di scherno del regno ed in maniera decisamente denigratoria accostavano in senso libertino gli antichi costumi, ed usi di Pompei ed Ercolano a quelli della moderna corte del Regno di Napoli . Mentre infatti nel corso degli anni lentamente alla collezione si andava mutando il nome in “Gabinetto degli oggetti osceni” o “riservati” o “pornografici”, a queste piccole restrizioni andò sostituendosi un vero e proprio ostracismo, tanto più se si pensa che in epoca tardo-borbonica si radicò la convinzione che i costumi licenziosi di quelle antiche città fossero gli stessi della Casa Reale.
La famiglia borbonica fu accusata di essere “infami monumenti della gentilesca licenza” e -in particolare dopo i moti del 1848 a quegli oggetti si iniziò addirittura a dare una connotazione politica ravvisando in essi il simbolo delle libertà civili e di espressione e di conseguenza censurabili, perchè pericolosi agli occhi del potere reazionario .
Per un certo periodo fu addirittura avanzata la proposta di distruggere l’intera collezione alla quale provvidenzialmente si oppose l’allora direttore del Real Museo Borbonico, riuscendo ad ottenere che continuasse ad esistere ma che fosse vietata la visita al pubblico, o per lo meno che ne fosse reso molto difficile l’accesso. Per questo motivo la stanza fu blindata con un portone che contava ben tre serrature con altrettante chiavi diverse in possesso rispettivamente del direttore del museo, del “controloro”, e del real maggiordomo maggiore.
La scoperta della antica sessualità di Pompei fu quindi presto sottoposta ad una più rigorosa censura dalla corte borbonica, non tanto per mero bigottismo, quanto come reazione all’utilizzazione strumentale politica che i nemici del regno erano soliti fare . Il Dio “Pan e la capra” della villa dei Papiri di Ercolano, considerato “cosa lascivissima”, fu così chiuso tout court nell’armadio del restauratore Canart, nella sala XVIII del Museo Reale di Portici . Insieme ad altri ” Priapi ” con i loro grossi falli egli divenne parte di una segreta collezione per la cui visita si richiedeva un permesso speciale.
N.B .Il culmine della censura del luogo si ebbe nel 1851 , quando agli oggetti della collezione furono aggiunte anche le immagini di Venere solo perchè nuda, e la camera fu definitivamente sigillata e poi murata affinché “se ne disperdesse per quanto era possibile la funesta memoria”.
Nonostante la segregazione, la fama della collezione continuò comunque a crescere durante tutto l’Ottocento e i moduli per i permessi ufficiali che sempre più numerosi venivano rilasciati dal Ministro dell’Interno si dovettero riprodurre a stampa, il che non evitò, naturalmente, al Governo borbonico feroci critiche e salaci commenti .che al contrario dei precedenti stavolta mettevano in evidenza il bigottismo e l’arretratezza del regno borbonico ( della serie come fai , fai , sbagli lo stesso ).
Questa gestione della collezione diventò quindi quasi simbolo dell’arretratezza culturale del Regno, sicché tanto la rivoluzione del 1848 quanto la spedizione garibaldina del 1860 posero nei loro programmi la riapertura del Gabinetto riservato come simbolo libertario.
Il divieto alla visione di questa arte erotica fu infatti temporaneamente interrotto quando Garibaldi arrivò a Napoli, nel settembre del 1860: egli ordinò di rompere i sigilli e che la sala fosse res “giornalmente accessibile al pubblico”, e al mancato ritrovamento di una delle chiavi delle serrature ordinò di scassinare la porta (un documento ufficiale esposto all’ingresso della sala ne attesta la verità storica). Il furbo Garibaldi , arrivato a Napoli come conquistatore , pensò infatti di usare questo accesso ad un luogo proibto per un suo particolare uso politico . Egli voleva dimostrare e sancire a tutti l’arrivo di una politica più liberale ed impose quindi l’esposizione di tutte le opere “per farle osservare giornalmente al pubblico”.
La collezione,da quel momento ha avuto una intrigata storia fatta di divieti e permessi, chiusure e aperture. legate spesso ai momenti politici e conseguente senso del comune pudore .
Dopo l’Unità d’Italia il Gabinetto si arricchì dell ’acquisto a Roma nel 1894 di un mosaico con pigmei ma la sua accessibilità fu ben presto di nuovo limitata .-
La censura tornò di nuovo in vigore nell’epoca fascista , quando per visitare il Gabinetto occorreva il permesso del Ministro dell’Educazione Nazionale a Roma: nel 1934 fu sancito che la sala poteva essere visitata soltanto da artisti che avessero certificato la propria professione, o dalle personalità in visita ufficiale che ne avessero fatta richiesta.
Solo dopo la fine del regime e dopo le richieste del 1971, per regolamentare le modalità di accesso alla sala, la censura andò lentamente restringendosi.
Nonostante tutto questo , è stato solo nel 2000 , che la sala è stata resa accessibile al pubblico nel modo in cui lo è oggi.
Adesso il Gabinetto Segreto è visitabile su prenotazione, gratuita, che si può gestire il giorno stesso della visita. L’ingresso è aai minori di 14 anni non è consentita se sono soli, ma possono invece accedervi se accompagnati da un adulto ( tutore ) e con autorizzazione scritta che se ne assume quindi ogni responsabilità .
Grazie comunque a questo Gabinetto segreto oggi Napoli è il custode di una delle più ricche collezioni al mondo di oggetti e immagini dipinte a tema esclusivamente erotico, provenienti proprio dalle antiche città della cinta vesuviana. ( Il Gabinetto si trova nel piano ammezzato del Museo, di cui occupa le sale 62 e 65).
L’incredibile scoperta di un’arte erotica , durante gli scavi archeologici di Pompei ed Ercolano così fortemente voluta da Carlo I di Borbone , portò presto tutti a ritenere Pompei in passato un luogo di sesso , libertinaggio e perdizione dedito alla più sordida e dissoluta impudicizia per cui da Dio meritò , come Sodoma , il castigo del fuoco , ma ben presto capirono che Pompei non era tanto diversa da altre città romane dove la libertà sessuale era sicuramente maggiore rispetto ai nostri tabù moderni, e i luoghi del piacere non erano assolutamente ritenuti scabrosi, anzi, le prostitute, svolgevano un ruolo fondamentale nella società, consentendo agli uomini la loro libertà e alle donne di poter rimanere oneste e virtuose secondo il mos maiorum.
La prostituzione infatti per la società romana dell’epoca non era un crimine e le meretrici svolgevano abbastanza liberamente la loro professione, vendendosi nelle strade, trivia, oppure alle dipendenze di un lenone, uno sfruttatore di prostitute, in osterie o bordelli. Addirittura il calendario romano prevedeva una festa dedicata alle prostitute che avveniva il 23 aprile ed una festa per i prostituti maschi che avveniva invece il 25 aprile .
La presenza di tali reperti ed immagini indicava solo che gli usi e costumi della civiltà Romana erano molto più liberali rispetto alla maggior parte delle culture dei nostri giorni , e molti di quegli oggetti che a noi oggi sembrano esclusivamente immaginario erotiche erano invece anche simboli richiamanti alla fertilità, o scaramantici talismani portafortuna.
I falli eretti e sopratutto quelli di grandi dimensioni avevano un valore propiziatorio della fertilità e rappresentavano dei potenti talismani portafortuna e beneauguranti. Ad esso si attribuiva il potere di allontanare il male e veniva considerato un simbolo di fecondità ed augurio di prosperità . Per tale motivo , per proteggere dal male la casa e attirare verso di essa invece la buona sorte , venivano spesso venivano esposti o affissi sul muro nell’atrio dell’abitazione .
Anche i famosi Moriones (schiavi giullari)che provengono da Ercolano e sono custoditi nel Gabinetto Segreto del Museo Archeologico di Napoli erano utilizzati a fini ludici e per allontanare la malasorte.
É probabile, che, almeno uno dei due (quello a sinistra) fosse utilizzato per versare bevande se non addirittura in guisa di di rhyton
Il rhytón era un contenitore cerimoniale forato, in basso, dal quale i liquidi, che vi venivano versati, potevano fuoriuscire per essere bevuti a garganella… 😉
Il fallo era quindi particolarmente presente nelle Domus romane . Un esempio su tutte è per esempio la famosa casa dei Vetti . Essa di proprietà di due mercanti arricchiti , meglio rappresenta il lusso degli ultimi decenni di vita della citta’, caratterizzata da fantastiche decorazioni perfettamente conservate delle mura che appaiono nobilitati da soggetti mitologici ed eroici con ricorrenti fregi di Amorini e Psichi .
All’ ingresso della bella abitazione , oltrepassato il vestibolo , si nota e incuriosisce un’oscena figura di Priapo che poggia il suo enorme fallo sul piatto di una bilancia , mentre sull’altro piatto , poggia una borsa di monete ,quasi a simboleggiare il prezzo da pagare per la protezione .
Questa figura era stata messa all’ingresso della casa con lo scopo ben preciso di allontanare il malocchio degli invidiosi e dei gelosi della ricchezza dei Vetti .
I due proprietari Aulo Vettio Restiuto e Aulo Vettio Conviva , fecero di questa abitazione una vera e propria lussuosa abitazione privata che dopo due secoli di scavi continua a rimanere forse , nella sua ricca e completa decorazione parietale la piu’ bella casa romana che il tempo ci ha restituito .
CURIOSITA’: Nel mondo Romano il membro virile era considerato un potente amuleto capace di proteggere dal male e ancora oggi , sopratutto dalle nostre parti non è raro osservare persone che contro il malocchio sono soliti toccarsi i genitali in senso scaramantico .
I tintinnabulum (campanelli eolici), sculture in bronzo rappresentanti animali o divinità erano elementi alquanto comuni nella decorazione delle case. Ovunque, sono stati ritrovate sculture di grandi peni in erezione, con tutta probabilità da intendere quindi come simboli di fertilità e fortuna
Tintinnabulum in bronzo a forma di leone, ritrovato a Pompei e risalente al I secolo d.c.
Il tintinnabulum era un sonaglio azionato dal vento e composto da più campanelle legate a un’unica struttura. Spesso questa struttura era di forma fallica e aveva il compito di allontanare il malocchio e portare fortuna e prosperità . Questo genere di amuleti venivano appesi alle porte delle case o davanti ai negozi.
Pompei era una città commerciale, e come tale era attrezzata per accogliere numerosi forestieri ai quali offrire ogni tipo di attrazione . Al Teatro e alla Palestra nonchè ai luoghi di ristoro e di alloggio e alle numerose locande dove veniva servito del buon cibo e dell’ ottimo vino , non mancava no quindi , come avveniva in tutte le altre città , dei posti dove si potevano incontrare giovani donne e ragazzi disponibili….. a pagamento.
La prostituzione veniva infatti praticata da entrambi i sessi, ( la prostituzione femminile era più diffusa ) ed il suo esercizio era autorizzato e legale. Essa veniva considerata nell’antica Roma un fatto del tutto normale. e a differenza dei giorni nostri, quindi, la società romana non giudicava negativamente chi decideva di recarsi in un bordello .Dunque, anche gli uomini romani di più alto status sociale erano liberi d’impegnarsi in incontri con persone che esercitavano la prostituzione, sia femmine che maschi, senza alcun pericolo d’incorrere nella disapprovazione morale. Era importante, però, mostrare moderazione e autocontrollo. L’omosessualità era accettata e non era raro trovare ragazzi che vendevano il loro corpo ( a Pompei tra le diverse testimonianze di prostituti, un graffito ci restituisce le scritte di un tale Menander che pubblicizzava le sue prestazioni, con relativo tariffario) Quello che non veniva accettato era che un uomo, un vir, si sottomettesse passivamente ad un altro uomo di ceto inferiore, essendo che la virilità, a Roma, si identificava con l’assunzione di un ruolo attivo nel rapporto sessuale.
La diffusione e come poi successivamente vedremo , la grande organizzazione della prostituzione trovava fondamentalmente le sue radici in due grandi motivi :
Il primo era da ricercarsi stranamente nella concezione del matrimonio. Le relazioni di giovani uomini con donne libere erano infatti mal viste, e se la donna era sposata il marito tradito aveva il diritto legale di uccidere immediatamente il partner. In pratica, per un ragazzo sino ai 30 anni circa, età media del matrimonio, l’unica possibilità legale (e sicura) di avere dei rapporti sessuali era con le prostitute (la prostituzione era una pratica poco costosa per l’uomo )
Il secondo era invece solo ed esclusivamente di carattere economico . La prostituzione infatti all’epoca rappresentava una fonte di reddito tutt’altro che trascurabile per le famiglie più ricche che vi «impiegavano» una porzione consistente del loro parco-schiavi. Lo stesso l’imperatore Caligola possedeva un suo bordello situato sul Palatino, frequentato dai romani più ricchi che volevano evitare i lupanari più popolari (e quindi più sporchi), dove esercitavano donne di classe e fanciulli liberi.
Si trattava quindi di una vera e propria attività da ottimizzare cercando di ottenerne il maggior lucro possibile . Una sorta di azienda con cui fare bussiness.attraverso i suoi dipendenti . Gli schiavi infatti , purtroppo , erano proprietà privata e non esercitavano per conto proprio, quanto piuttosto erano obbligati a vendere il proprio corpo per fare gli interessi economici del padrone. Un po’ come se fossero beni immobili, campi agricoli o animali da soma da «affittare» a terzi.
Ogni uomo libero che «investiva» in schiavi poteva allestire squadre di prostitute e prostituti che obbedivano a un lenone (di solito era un liberto di fiducia) e si vendevano in giro procacciandogli liquidità. Un «patrimonio» in carne e ossa dalla rendita certa ma anche soggetta a svalutazione (l’età, si sa, ha il suo peso).
La prostituzione era quindi una vera e propria attività regolamentata, da cui trarre profitto senza incorrere in alcuna sanzione penale o morale. . Le prostitute dovevano registrare sull’ufficio dell’edile il proprio nome, l’età, il luogo di nascita e lo pseudonimo con il quale potevano esercitare. Se la ragazza era giovane ed apparentemente rispettabile, il funzionario aveva facoltà di cercare d’influenzarla per farle cambiare idea per non farle intraprendere questa strada; in mancanza di ciò le rilasciava la licenza (licentia stupri), accertare il prezzo con cui intendeva impegnarsi a vendere i suoi favori, e infine far entrare il suo nome nella lista delle professioniste . Le loro prestazioni erano tassate mediante un dazio dal nome “télos pornikòn“, ( lo stato democratico basava molto del suo PIL sulla riscossione dei tributi dei lupanari ) ed erano le uniche donne romane che indossavano la toga, un capo formale che era prerogativa dei cittadini maschi romani. Le loro tariffe andavano da un minimo di due assi (equivalente ad un bicchiere di vino) fino ad un massimo di sedici assi , ma potevano anche aumentare, evidentemente per i servizi più raffinati e rivolti alla clientela benestante ( una prostituta a basso prezzo poteva arrivare a guadagnare tre volte il salario di un operaio urbano non qualificato ). Nella fascia di prezzo più basso un rapporto sessuale consumato con una prostituta costava come comprare una pagnotta di pane. .Esse quindi non guadagnavano molto e come se non bastasse , spesso , sopratutto quelle che esercitavano nei postriboli dovevano fronteggiare perennemente la concorrenza di una significativa quota di patriziato femminile che amava camuffarsi per poi prostituirsi nei lupanari ( questo era il passatempo preferito dell’imperatrice Messalina, moglie di Tiberio Claudio, che amava prostituirsi con lo pseudonimo di Lycisca).
N.B. A Pompei , come a Roma , e come in tutto il mondo romano, seppur molto diffusa, la prostituzione era comunque considerata infamante al pari del mestiere di attore o di chi praticava l’usura .Coloro che decidevano di esercitare questa professione cadevano quindi comunque nella vergogna sociale , e venivano private della maggior parte dei propri diritti civili inclusa la facoltà di testimoniare di fronte a un giudice . Esse venivano relegate alla condizione di infamia , persone cioè totalmente mancanti di qualsivoglia posizione sociale e deprivate della maggior parte delle protezioni concesse a chi possedeva i requisiti di cittadinanza dal diritto romano .
I nomi più comuni con i quali esse venivano indicate erano sopratutto quelli di meretrix e lupa. Il primo deriva dal verbo merere, che indicava un guadagno dietro una prestazione; la meretrix non era una prostituta qualunque, ma una cortigiana esperta nell’ars amatoria, nella musica, nella danza e nel canto: una vera intrattenitrice spesso con un nome esotico, greco o orientale. ( ricordiamo sempre infatti che chi esercitava era una schiava che spesso veniva da terre lontane o una donna di ceto umile ).
Il secondo invece, quello cioè di “lupa” , era sopratutto riferito ad una prostituta di bassa categoria, e da qui deriva la parola lupanare (luogo delle lupae). Esisteva però anche la fornicatrix, colei che si prostituiva sotto i ponti (fornices); la bustuaria, che si prostituiva presso i cimiteri dove c’erano i busti in marmo dei defunti; e la circulatrix, che passeggiava ricercando i clienti.
N.B. Solitamente, il ceto sociale dei clienti era medio; i romani più ricchi potevano liberamente disporre di schiavi e schiave che avevano nelle loro domus e volendo potevano ricevere le prostitute scelte direttamente in casa propria .
Esistevano prevalente 3 classi di prostitute :
Le prime chiamate ” Pornai ” erano la classe inferiore di donne che commerciava il proprio corpo, allo stesso modo dei colleghi uomini, i Pornoi. Esse erano quelle donne spesso costrette a questo mestiere da una grave condizione sociale che non lasciava scampo ad altra soluzione (schiave o cittadini senza diritti). Erano quelle in genere , per la maggioe parte impiegate nei bordelli al servizio di un protettore, che le gestiva in modo professionale come un mestiere equiparato a tanti altri. La paga della sua prestazione era di un “obolo” ( nell’antica Roma divennero gli Sprintria ) che corrispondeva a un sesto di una dracma, e che costituiva un prezzo accessibile a tutti. Durante la Grecia classica le Pornai erano quasi sempre donne “barbare”, che giungevano in condizioni di schiavitù ad Atene, mentre durante la Grecia ellenistica poteva trattarsi anche di giovani ripudiate dalla famiglia e costrette a prostituirsi per sopravvivere.
CURIOSITA’ :Le Spintriae erano dei particolari gettoni romani, usati in genere per pagamenti all’interno di un lupanare, e su di essi vi erano di solito raffigurate inequivocabili scene erotiche. Essi i erano utilizzati per pagare le prestazioni sessuali delle prostitute e di norma venivano coniati in ottone o bronzo con le dimensioni di una moneta da 50 centesimi di euro. Su un lato vi era la rappresentazione di scene in 15 diverse forme di coito o fellatio, mentre sull’altro i numeri da I a XVI. In alcune spintriae si trova a volte impressa la lettera “A”, probabilmente ad indicare il costo delle prestazioni in assi. Molti di questi particolari gettoni vengono spesso rinvenuti nel corso degli scavi archeologici, soprattutto nelle vicinanze dei Lupanari.
La seconda classe di prostitute erano quelle ” libere ” cioè senza alcun protettore , Esse erano quindi quelle donne che erano riuscite a liberarsi dalle case di tolleranza, e potevano quindi esercitare la prostituzione in strada, liberamente, sempre versando i tributi allo stato . La loro condizione era immediatamente superiore a quella di “schiave sessuali” come le pornai, ma era comunque infima, e non a caso condividevano il nome con le donne impiegate nei bordelli. Esse per attrarre in strada clienti visto che che non potevano esporsi nude come facevano le colleghe dei lupanari, indossavano dei sandali speciali che, nella suola, recavano la scritta: ΑΚΟΛΟΥΘΕΙ – Seguimi
Un esplicito invito a fruire delle prestazioni in luoghi appartati.
CURIOSITA’: Era abbastanza comune nell’antichità scrivere sotto la suola delle scarpe ed i Greci sotto le suole scrivevano il nome dell’oggetto dei propri desideri. Le prostitute greche, sapendo che la pubblicità era l’anima del commercio, incidevano la suola delle loro scarpe a mò di timbro, in modo che rimanesse impressa sulla strada da loro percorsa la frase “SEGUI I MIEI PASSI”.
La terza classe di prostitute erano le ” Etere” , cioè la classe più elevata che si dedicava anche alla prostituzione, paragonabili per molti aspetti alle ” Geische giapponesi ” o alle prestigiose cortigiani veneziane del Rinascimento. Esse erano donne coltissime, che costituivano spesso compagne abituali dei ricchi uomini greci (fra loro si ricordano Socrate, Pericle e Alessandro Magno, fra gli altri), che erano gli unici a poter sostenere le ricchissime parcelle che queste richiedevano, anche solo per la loro compagnia. Le Etere avevano infatti dei costi salatissimi che potavano arrivare anche a 30 mine ( una mina corrispondeva a 100 Dracme ) . Tenete presente che 3000 Dracme era il salario di un dipendente pubblico con 8 anni di servizio, era di circa 3000 Dracme .
Le Etere in privato, erano solite indossavano abiti sgargianti e pregiati in seta trasparente. Le prostitute di bassa estrazione sociale, invece tendevano a mostrarsi quasi del tutto nude di fronte al proprio cliente. Essa doveva dare subito all’occhio, per attirare clienti e vestivano quindi con abiti succinti e trasparenti, trucco marcato e capelli tinti con colori sgargianti come il rosso o il biondo .
CURIOSITA’: Tra i tanti graffiti ritrovati sulle mura di Pompei, vi sono anche quelli di molte prostitute che esprimevano giudizi sui loro clienti oppure facevano pubblicità enfatizzando le loro specialità e il prezzo.
A Pompei durante gli scavi , fino ad oggi sono stati riconosciuti oltre trenta bordelli, alcuni erano molto modesti, altri erano posti nei piani superiori delle cauponae (alloggio),I che erano degli esercizi aperti al pubblico e destinati alla ristorazione (la piu famosa cauponae, era quella di Sempronia Asellina ) , altri ancora erano appositamente costruiti e organizzati per questo tipo di attività. Spesso come vi abbiamo accennato le prostitute lavoravano in questi luoghi per un ruffiano, il quale aveva il compito di procurare loro la clientela. Molte di loro erano schiave o ex schiave. e purtroppo in quanto tali erano spesso costrette a svolgere questo mestiere .
CURIOSITA’: I luoghi dell’epoca dedicati al piacere sessuale , quelli che oggi noi chiameremmo bordelli o case chiuse , erano chiamati Lupanari (dal latino lupa = prostituta), e per la maggior parte erano degli ambienti composti da una singola camera situata nel retro di una locanda. Le stanze (cellae meretriciae) erano generalmente spoglie, infatti vi era situato sempre un letto (spesso in muratura) provvisto di materasso resistente. L’unico ornamento delle camere erano le pitture murali a sfondo erotico che decoravano l’ingresso. Sulla porta della camera vi era scritto il nome della prostituta al suo interno e il tariffario; inoltre, qualora la stanza fosse stata momentaneamente occupata, veniva posizionato un cartello sulla porta che invitava il cliente successivo ad attendere il proprio turnoI lupanari erano frequentati maggiormente dalla plebe (ma sono accertate anche presenze di patrizi). Tutti i lupanari erano personalizzati da una particolare lanterna e dagli organi maschili scolpiti, ben visibili, mentre gli interni erano caratterizzati da un desolante squallore, da un ambiente insalubre e sporco e spesso affumicato dal fumo delle lanterne. Generalmente questi luoghi non erano situati lungo le vie principali della città, ma in strade secondarie vicino a luoghi pubblici particolarmente affollati come le Terme.
Una prostituta, in alcuni casi, poteva mettersi in proprio e affittare una camera per il lavoro. In altri casi, invece, una prostituta poteva convivere con una ruffiana o lena (da cui deriva il termine lenocinio) o mettersi in affari sotto la gestione diretta di sua madre. Questi accordi suggeriscono che le prostitute spesso nascevano come donne libere, ma, a causa di gravi problemi economici, sceglievano lpoi a via del meretricio. Nonostante ciò, molte delle prostitute furono schiave o ex schiave. Essendo quindi donne schiavizzate o liberte, è difficile determinare se la scelta di questo mestiere fosse o meno scelto liberamente
ARTICOLO DI ANTONIO CIVETTA