La nostra terra  vanta una tradizione enologica di origine antica che risale addirittura al periodo antecedente la nascita di Cristo , quando appunto alcuni coloni greci provenienti da Rodi nel 470 a.C.  decisero di stabilirsi  lungo le coste del nostro golfo , creando una colonia commerciale sull’isolotto di Megaride.. Questi antichi greci  provenienti dalla Magna Grecia, portarono con loro molte antiche tradizioni   compresa quella del vino e dell’olio che come sappiamo  consideravano dei doni divini e non  mancarono quindi ovviamente di piantare  nell intera  nostra regione, sia piante di olivo che piante di viti, fino ad allora non coltivate dalle popolazioni locali ,  se non dagli  etruschi che secondo alcuni   coltivavano la vite già prima dell’arrivo dei Greci.

A tal proposito vi ricordiamo che gli Etruschi producevano il  vino  picatum , cioè un  vino giallo , dorato , aromatico e profumato molto  simile a succo d’uva, anche se talvolta più liquoroso di quello che siamo abituati a bere oggi.  Esso  era considerato una bevanda  molto preziosa e fu molto esportato in capienti anfore  attraverso i commerci marittimi, non solo nel bacino del Mediterraneo ma, specialmente fra il 625 e il 475 a.C., al di là delle Alpi e verso il Nord Europa. Gli etruschi cedevano vino in cambio di metalli ,sale, corallo, e schiavi ( secondo Diodoro Siculo, i Galli erano disposti a pagare addirittura  ben uno schiavo per un’anfora di vino ).

Secondo Livio, l’attrazione per questa bevanda avrebbe contribuito ad indurre i Celti ad invadere l’Etruria nel IV sec. a.C;

Antichi vasi e calici etruschi di origine greca fanno comunque emergere l’importanza e l’influsso che ebbero i Greci nella diffusione del vino  anche presso il popolo etrusco .

Gli antichi  greci , ritenevano sia l’ olio che  il vino due alimenti essenziali della loro tavola  e certamente favoriti dalla buone condizioni climatiche e la particolare natura dei suoli, diedero vita nelle nostre antiche terre a dei vini che divennero poi particolarmente apprezzati e famosi in tutto il mondo allora conosciuto .  

I greci ne facevano largo uso  sopratutto  a scopo alimentare  durante i loro tre pasti principali ( l’ariston, il deiphon e il dorpon ) .  L’olio  veniva  anche usato  per ricavarne unguenti e profumi o bruciarlo in onore degli dei ). 

CURIOSITA’:  La pianta di ulivo con l’olio che da essa derivava era  molto considerata in Grecia e a sottolinearne l’importanza gli antichi greci portarono con loro antichi racconti  mitologici . Uno di questi narrava di una sfida tenutasi tra Poseidone ed Atena per aggiudicarsi la protezione della città di Atene .Il Dio del mare per aggiudicarsi la gara colpì con il suo tridente  una roccia e da lì apparve a tutti un cavallo. La Dea della saggezza rispose invece piantando il primo ulivo . La giuria composta dagli Dei dell’intero Olimpo assegnò la vittoria ad Atena  per i benefici che l’olio avrebbe apportato all’umanità.

Anche il vino era considerato un dono divino , concesso agli uomini da Dio Bacco che aveva nell’antica Neapolis un Tempio a lui dedicato nell’area oggi presente tra l’attuale Via Mezzocannone e l’odierna Piazza San Domenico . 

Gli antichi abitanti di Partenope e poi Neapolis , forti del retaggio della colonizzazione greca , per loro antica esperienza ,erano coloro che meglio  conoscevano le tecniche di potatura delle viti e  grazie alle particolari favorevoli  condizioni climatiche diedero luogo in pochi decenni  ad una coltura dei vitigni più importanti e nobili dell’epoca le cui  produzione veniva considerata qualitativamente superiore .a tutte le altre regioni. 

Essi incominciarono  a piantare nel nostro territorio non solo  le prime piante di ulivo, ma anche  trapiantare molti  nuovi vitigni  esportati dalle  loro terre greche i quali attecchirono perfettamente , sfruttando le scarse piogge e gli abbondanti raggi solari sopratutto  sui terreni vulcanici alle pendici del vesuvio e sui campi ardenti della zona flegrea . Ebbero così luogo antichi vitigni, come la VITIS HELLENICA, l’AMINEA GEMINA, la VITIS APIANA, le UVE ALOPECI,AMINEA LANATA,da cui oggi  discendono l’aglianico, il greco, di Tufo  il Fiano, la coda di volpe, il per’e palummo, l’asprino, il biancolella, la forastera, e gli altri vitigni autoctoni coltivati nella  nostra regione. Come vedete si tratta di una  grande varietà di vini bianchi e  rossi. che grazie a moderne tecniche di coltura e di vinificazione danno ancora  oggi luogo alla produzione  di vini altamente tipicizzati sotto il profilo organolettico e di alto livello qualitativo.

Ecco il motivo per cui  molte uve che noi oggi appezziamo delle nostra terra  e che  tendiamo a considerare autoctone come l’Aglianico ( da ellenicoo da Eleatico di Elea-Velia ) , o il Piedirosso, sono  invece di origini greche.

In antichi tempi tutto l’arco collinare che cingendo  la nostra  città , si estendeva da Capodimonte , fino alla   zona  denominata Colli Aminei, e allargandosi sia portava fino al monte Ermio ( oggi detto S. Martino ) ,arrivavando infine a Posillipo , era ricco di  numerose  campagne dove si coltivava un pò di tutto ma sopratutto broccoli , frutta  e molte vigne che davano luogo a tanti vini. Alcuni di questi, , sopratutto quelli che si producevano in prossimità dei terreni in cui si coltivavano i broccoli, non erano di grande qualità , visto che questi ultimi alteravano il sapore dell’uva , mentre altri che si producevano invece nella zona di Posillipo dove non si cercava di ricavare troppi frutti dalla terra , erano invece dei buoni vini , ma come abbiamo gia accennato , certamente quelli più rinomati ( Lacrima Christi  ) erano quelli che provenivano dalle zone che si trovavano di fronte l’arco della città , ossia le pendici del Vesuvio, Somma e Torre del Greco , nota  nell’antichità come Turris Octava per essere l’ottava torre sulla spiaggia di Napoli ( fu poi così chiamata proprio per il vino che vi si produceva).

 N.B. In questa zona si produceva anche  il più moderato Gragnano, oggi ritornato di gran moda .

In atri dintorni napoletani come quelli del Sannio e dei campi flegrei , si produceva la falanghina che veniva considerato anch’esso un ottimo vino , mentre nel solo beneventano , considerato uno dei primi e più importanti centri antichi di insediamento di coltivazione della vite si producevano buoni vini come l’Aglianico,  il Faustiniano, il Caleno ed  il Solopaca . Nell’Irpinia di producevano invece  i due  famosi vini denominati  Fiano di Avellino e Greco di Tufo ,ed il prestigioso Taurasi . mentre  in provincia di Caserta l’Asprino ed il famoso Falerno del Massico Quello invece conosciuto ovunque e che si trovava in diverse località della Campania era il famoso  Aglianico ( da ellenicoo da Eleatico di Elea-Velia ).

Nelle isole del golfo  si produceva il bianco Capri , l’Epomeo , il Biancolella , il Forastera o il Calitto.

Queste sono solo alcuni dei molti vini  uve di origini greche che ancora oggi apprezziamo ma nella nostra regione nel complesso se ne  producevano tantissimi : Ecco un elenco di quelli a noi perventi più consumati e conosciuti .

VINUM AGLIANICUM – Campania e Basilicata, vino rosso di origine greca.
VINUM ALEATICUM – Campania, molto zuccherino.
VINUM APIANUM – bianco della Campania presso Avellino.
VINUM BENEVENTANUM – Campania
VINUM CALENUM – dalla Campania, pregiato e delicato, esaltato da Orazio, Giovenale e Plinio.
VINUM CAUDA VULPIS – Campania, bianco.
VINUM COLUMBINUM – rosso, della Campania, citato da Plinio.
VINUM CUMANUM – bianco, pregiato come tutti i vini campani. Delle falde Vesuviane.
VINUM FALANGHINUM – campania, si ritiene fosse uno dei componenti del Falerno.
VINUM FALENUM – di Capua, bianco, molto pregiato.
VINUM FALERNUM – della Campania, molto alcolico, di colore ambrato o bruno, raccomandato con 10 anni di invecchiamento e con due specie: il secco e il dolce. Marziale suggerisce, a coloro che bevevano il Falerno caldo, di unirvi la mirra perché ne avrebbe esaltato il sapore. Plinio invece ne distingue tre specie: austerum, dulcis, tenuis.
VINUM GAURANUM – della Campania.
VINUM MASSICUM – della Campania vicino al monte Massicum, non pregiatissimo, ma tonico e robusto.
VINUM SORRENTINUM – di Sorrento, molto pregiato e leggero.
VINUM TREBELLUM – di Napoli, molto apprezzato.
VINUM TRIFULINUM – della campania, alle falde Vesuviane, pregiato.
VINUM VOLTURNUM – dal territorio campano presso il fiume Volturno.

CURIOSITA’: Nella nostra regione ,nella penisola sorrentina , il Capo Minerva , cioè l ‘attuale Punta Campanelle  era consacrata al culto della Dea della sapienza , ritenuta inventrice delle olive e dell’olio, mentre in città il suo Tempio , molto bello , si trovava dove oggi sorge la chiesa di Santa Maria Maggiore , detta della ” Pietrasanta ” , che fu  costruita proprio sulle rovine dell’antico Tempio di Diana . Le sue sacerdotesse e seguaci , dette ianare, erano le depositarie di un sapere astronomico e religioso senza tempo ed erano a conoscenze di molti culti misterici ( Il termine janara era la trascrizione dialettale del latino dianara, che significa “seguace di Diana”.

In Grecia l’arte della vinificazione ed il consumo stesso di pane e vino  era considerato lo spartiacque tra popolazioni barbare e civili: bere il  vino  era sintomo di appartenenza, cementava il senso collettivo delle feste, e metteva in comunicazione con le divinità, se bevuto con moderazione. Spesso mescolato con acqua, per mitigare la forza alcolica, era uso comune non berne più di due tazze. “La prima tazza è per la salute, la seconda per l’amore, la terza per il sonno. I saggi vanno a casa. La quarta tazza non appartiene a noi, ma alla violenza, la quinta alla passione, la sesta all’intemperanza, la settima agli occhi neri, l’ottava al poliziotto, la nona alla bile, la decima alla pazzia…”, così scrive Eubulus, politico ateniese, spintosi oltre la terza tazza…..

L’arte della viticultura , con tali progenitori , ebbe quindi dalle nostre parti una rapida ascesa ed i vini da essa prodotta  divennero ben presto famosi in tutto il mondo allora conosciuto per la preparazione di vini dolci, ottenuti tramite l’appassimento delle uve nella prima fase di produzione.  I successivi romani che ben presto ne apprrezzarono le virtu ne furono i più grandi  produttori e una volta  capito la sua importanza come risorsa economica  , come poi  vedremo ,ne divennero  anche i più grandi esportatori.

Pensate solo a tal proposito che la coltivazione della vite, difficile ma molto redditizia, dopo il disastro di Pompei, spinse molti contadini a convertire campi di grano in vigneti, abbassando si da un lato la qualità del vino, ma soprattutto dall’altro lato affamando le legioni romane, che non trovavano più le derrate necessarie alla loro sussistenza.

La storia dell’enologia in Campania ha quindi inizio con l’arrivo dei Greci , ma sicuramente ha trovato  poi grande fama , diffusione  e successo in epoca romana dove Il vino , per lo più diluito con acqua calda o fredda, secondo i gusti e la stagione ( berlo puro non era considerato di buon gusto ),  divenne  parte essenziale di ogni banchetto, e strumento  di eloquienti brindisi e libagioni,.

Gli antichi romani infatti , influenzati dalla cultura greca , diedero luogo ad una produzione viticola molto raffinata e nella  nostra regione , incluso il territorio pompeiano , si incominciarono a produrre   grandi quantità di vino sia rosso ( atrum ) , e sia bianco ( candidum ) . Nacquero così, in poco tempo  numerose piantagioni specializzate  tra cui quella più famosa si trovava alle pendici dei monti Petrino e Massico da cui proveniva il Vinum Falernum .L’area era caratterizzata da terrazzamenti drenanti, che permettevano di  conservare la giusta dose di umidità e calore.  Pensate solo  che un ettaro di questo vigneto arrivava  addirittura a produrre più di 150 quintali di uva  con rese che potevano arrivare anche a 200-300 ettolitri per ettaro. Questa  enorme produttività dei vigneti locali contribuì al crollo delle importazioni dei vini greci a favore del consumo della produzione locale. Per la loro conservazione botti ed anfore di terracotta ( dolia ) venivano interrate dopo essere state  spalmate interamente di resina di pino o di pece greca.

CURIOSITA’: In verita nell’impero romano, il consumo del vino  fu inizialmente molto difficoltoso, in quanto la stessa Repubblica era fondata sul concetto del “Latte della Lupa che ha nutrito Romolo e Remo”, creando un’inquadratura militare e salutista, in forte contrasto con le tipiche abitudini greche, delle quali ebbe da ridire anche Cicerone, sentenziando che le stesse “rammollissero” lo spirito guerriero romano. La svolta sulla  sua produzione avvenne  durante la guerra ai Cartaginesi, i quali, sconfitti, decretarono la rapida e dilagante espansione dell’Impero Romano, che portò la tecnica della vinificazione fino ai confini del mondo conosciuto.

Gli antichi romani  nel tempo a differenza di quanto sosteneva Cicerone , mostrarono di apprezzare più di ogni altro il vino  e sopratutto quello proveniente dalla nostra regione .. Pensate solo che alla fine della repubblica  il vino più noto e ricercato era  il  Falernum ( insieme al  Caecubume e l’Albanum  che rimasero a contendersi i prime tre posti fino all’inizio del regno di Augusto) , mentre  buona reputazione avevano anchei i vini di Sorrento, il Gauranum ,ed  il Trebellicum di Napoli .

Il Falernum ( rosso Falerno ) fu certamente il vino  più celebre , più costoso e decantato da tutti gli antichi scrittori latini ( Catullo , Cicerone , Varrone , Orazio , Vitruvio, Ovidio, Dionigi d’Alicarnasso , Plinio il vecchio e tanti altri )  . Esso era considerato il re dei vini ed aveva il suo maggior territorio di produzione in provicia di Caserta ( Mondragone, Carinola , Falciano del massico e vulcano di Roccamorfina ) ed a Pozzuoli ( Falerno del monte Gauro ). Era ricavato da uve Aglianico e Piedirosso già coltivate dai greci, nel II secolo a.C. , e veniva prodotto dai romani in maniera massicci interessando almeno 150 grandi ville rustiche tra le cui rovine di frequente è stao ritrovato il torcular , il torchio per l’uva, e sono stati recuperati pollini della vite allora coltivata e persino una vite fossile.

Se ne contavano tre varietà : il Faustianumdi media collina ( la più rinomata ), il Caucinum di alta collina e il generico Falernum di pianura e  veniva veniva esportato in tutto l’impero in speciali anfore vinarie appositamente create e cotte in fornaci della zona. Sappiamo da una scriita di Pompei che esso era anche  molto caro e che un bicchiere costava additittura quattro assi , cioè il doppio di un qualunque buon vino.

CURIOSITA’: Orazio avvertendo Mecenate che sarà suo gradito ospite, lo avverte però del suo desco modesto, nominando quattro superbi vini campani, tutti molto cari: – Caro Mecenate, tu sarai solito bere a Cecubo e Caleno, ma nelle mie coppe non si mesce nè il Falerno nè il Formiano

Intorno ad esso nacque addirittura una leggenda legata al Dio del vino Bacco . Si raccontava infatti che egli , il dio del vino in persona ,  si presentò un giorno  in incognita e sotto mentite spoglie  a casa di un  vecchio contadino di nome Falerno che viveva alle falde del monte Massico .Nonostante la sua umile condizione, il vecchio contadino si mostrò estemamente ospitale con lo sconosciuto  e offrì al viandante tutto ciò che aveva: latte, miele, frutta.   Commosso, il dio Bacco da quel momento , per ringraziarlo della sua accoglienza e della sua generosità , trasformò il latte in un vino che diede da bere al contadino che presto si addormentò per poi scoprire al suo risveglio che tutto il declivio del  Monte Massico era stato trasformato in un florido vigneto, ricco di viti lussureggianti,  capace di plasmare un nettare incantevole, destinato alle tavole degli imperatori.

Curiosita’ :Molte delle “leggende” a tema vino nascono all’interno della mitologia pagana, ma sono state poi riprese ed adattate dalla tradizione cristiana. Pensiamo per esempio a quella che racconta le origini immaginifiche della viticoltura vesuviana e della sua tipologia più conosciuta. La storia si riallaccia alla lezione giudaica secondo la quale Lucifero, l’angelo più bello e sapiente del Paradiso, si ribellò a Dio. Desiderava soppiantarlo e per questo guidò nella rivolta altri angeli trasformatisi in demoni. Finché, schiacciato dalla sua superbia, Lucifero cadde dal cielo insieme al suo esercito maligno, per sprofondare nelle viscere della terra e diventare il sovrano dell’inferno. Prima di precipitare, però, strappò dall’Eden uno scorcio meraviglioso, quello che poi sarebbe diventato il Golfo di Napoli. Affranto per questa doppia perdita, Dio nella sua forma trinitaria pianse e là dove caddero le sue lacrime, alle pendici del Vesuvio, germogliarono le viti del prezioso Lacryma Christi.

 

 

 

 

 

 

In  realà il nome si dovrebbe ai frati Gesuiti  che avevano vigneti alle falde del Vesuvio.Per fare il loro vino quest gesuiti preferivano attendere che le uva passassero il grado perfetto di maturazione ; amavano le uva tardive ( appassiulatelle ). Ovviamente de queste uva veniva fuori un liquido scarso , appena una lacrima : e così il vino ottenuto si chiamò lacrima mentre cristo veniva fuori dal convento gesuita

CURIOSITA’ : Lo stemma dei gesuiti HIS è  niente altro che un modo antico di scrivere “Gesù Cristo” risalente al III secolo. I cristiani abbreviarono il nome di Gesù scrivendo solo le prime tre lettere in greco, ΙΗΣ (dal nome completo ΙΗΣΟΥΣ). La lettera greca Σ (sigma) nell’alfabeto latino è scritta come “S”, e da questo deriva il fatto che il monogramma venga in genere rappresentato come ΙΗS.

Nei primi secoli della Chiesa era un simbolo segreto, spesso inciso sulla tomba dei cristiani. Poi, nel XV secolo, San Bernardino da Siena organizzò una campagna di predicazione per promuovere la reverenza al Santo Nome di Gesù e incoraggiò i cristiani a mettere un IHS sulla porta delle loro case. Un secolo dopo, nel 1541, Sant’Ignazio adottò il monogramma per rappresentare il suo ordine appena fondato, la Società di Gesù (Gesuiti).

Alla fine della repubblica erano noti e ricercati solo tre qualità: il Falerno, il Cecubo e l’albano. Questi tre vini rimasero a contendersi i prime tre posti fino all’inizio del regno di Augusto.
Sotto Augusto oltre ai tre grandi Cecubo, Falerno e Albanum, buona reputazione ebbero nuove celebrità, quali i vini di Setia e di Sorrento, il Gauranum, il Trebellicum di Napoli e il Trebulanum.

Il  vino  divenne così come in Grecia una bevanda  molto diffusa e nella  nostra regione  grazie  al prezioso miscuglio mineralogico, con rocce ignee, calcaree e sedimentarie che caratterizzava i fertili terreni dei monti Petrino e Massico, associato alle  particolari favorevoli  condizioni climatiche , una volta imposta la vinificazione,  si impose come  la regione d’elite nella coltura dei vitigni più importanti e nobili. Tale strapotere qualitativo era già giustificato dagli stessi autori contemporanei (Plinio) che ricordavano come i campani conoscessero da tempo le migliori tecniche di potatura (retaggio della colonizzazione greca), e di conseguenza avessero una maggiore esperienza in materia. e di conseguenza  una produzione qualitativamente superiore.

 

N.B . Il Fiano, che deriverebbe dalla regione greca ” Apia ” da cui apiano e poi fiano , è un vino di sicura origine greca e da molti considerato uno dei migliori vini bianchi italiani. Esso era un vino molto apprezzato già nel medioevo ; nel 1200 era infatti il vino preferito di Federico II di Svevia e dei successori angioini che lo apprezzarono a tal punto da portare il re Carlo d’Angiò ad impiantare nelle sue vigne oltre 16000 viti di Fiano

Il contributo dei Greci fu comunque  fondamentale per il successo dei vini della Campania che si registrò in epoca romana. Esso era il simbolo di una tradizione greca che molto piaceva al mondo romano e che essi spesso tendevano ad imitare Gli antichi romani erano praticamente conquistati dal fascino del mondo greco e dalla loro  impostazione di vita ,e non mancava occasione per fare in modo che le antiche loro tradizioni venissero usate a vanto di civiltà .

CURIOSITA’: Al periodo greco che nella nostra città duro’ circa 350 anni , poi arrivo’ quello romano che duro’ circa sette secoli , durante il quale i napoletani conservano tutto il carattere greco , in particolare ateniese ,mantenendo dei greci , la civilta’ i costumi , gli abiti  e la raffinatezza . Essi continuarono per lungo tempo a cosiderare il luogo come abitato dai greci e scelsero Neapolis come luogo di educazione e di perfezionamento negli studi , attratti anche dalla natura lussureggiante e dal clima temperato . Essi venivano a Neapolis a riposarsi dalle fatiche di Roma e a preparsi agli studi trasferendo immense biblioteche con se.

Gli antichi Greci,  importarono uve e tecniche di lavorazione che ancora oggi fanno parte della tradizione locale, e sulla scia di questi concetti,i romani, grazie  all’ideale clima e grande qualità del nostro terre  ,attraverso  adeguate  tecniche di potatura delle viti , alle quali dedicarono grandi attenzioni,  riuscirono a produrre una grande  quantità di vino che non  mancarono di usare …. alla ” greca” .

Il vino in Grecia era un simbolo di indiscusso  prestigio sociale e  almeno inizialmente veniva considerato un bene di lusso da condividere in comunità . Esso veniva infatti per lo più consumato in occasioni speciali ed era considerata una bevanda conviviale che doveva mantenere il giusto livello di lucidità. Questo il motivo per cui veniva sempre servito diluito con dell’ acqua, che doveva essere prevalente. ( con un rapporto di due quantità di acqua e uno di vino ). Bere il solo vino, oltre al rischio di potersi ubriacare, era infatti vista come un’usanza barbara o sacrilega poiche un certo offuscamento della mente  poteva compromettere  durante l’eventuale convivio,  la  buona usanza di intrattenere gli ospiti con chiacchiere e attività ludiche .

Il vino  bevuto dagli antichi greci e romani era per tale ragione  ben diverso da quello che noi oggi beviamo , esso  era infatti molto più  liquoroso  e  molto più simile ad uno sciroppo di uva , con aspetto   denso,  sapore amaro eccessivamente alcolico e quasi sempre stravecchio :  per tale motivo , per non essere troppo forte, veniva  servito volutamente annacquato con acqua calda o fredda ma anche neve. La misura dell’annacquamento, che poteva anche essere di quattro parti d’acqua contro una di vino, ed era affidata ad un “Arbiter Bibendi“, ad un “Magister Simposii“o agli “Haustores“, così come in Grecia al “Simposiarca“.

N.B Il vino romano era sempre un vino trattato, per paura dell’acetificazione e di altri processi deteriorativi  (  i romani erano infatti già a conoscenza delle proprietà battericide del vino ).. Ad esso talvolta  si aggiungevano miele e resine, che lo rendevano più stabile e più adatto alla conservazione e al trasporto.   I vini importati dalla Grecia, dalle coste africane e dall’Asia Minore per esempio , erano per lo più trattati con sostanze aromatiche: resine, estratti di erbe, miele, legni odorosi, essenze vegetali, mirra, assenzio profumi e rose.

A seconda delle qualità ad una parte di vino si potevano aggiungere anche tre parti di acqua. I Romani usavano moltissimo, inoltre, i “tagli” tra vini diversi: un dolce vino greco di Chio, ad esempio, per mitigare l’asprezza del Falerno. La bevanda comunque preferita rimaneva il mulsum, una miscela di miele e vino con cui si aprivano i sontuosi banchetti delle grandi famiglie patrizie.

Il consumo di vino annacquato avveniva anche per far fronte alle calde temperature estive. Grazie all’acqua fresca presa direttamente alla sorgente, si poteva rinfrescare il vino e ottenere così una bevanda rinfrescante contro l’afa dei mesi più caldi. In assenza di acqua raccolta alla sorgente, i Romani, come i Greci, utilizzavano il ghiaccio. La neve caduta nei mesi invernali veniva conservata in fosse profonde o grotte coperte , per essere utilizzata per tale fine o per essere commercializzata  soprattutto in estate, stagione in cui era molto richiesta,  per essere usata come refrigerio nelle afose giornate di Luglio ed Agosto.

N.B. Un’estrema raffinatezza era bere il vino raffreddato facendolo passare attraverso una tela colma di neve, naturalmente raccolta sui monti. Tenendo conto che il vino freddo si beveva nella stagione calda si può capire cosa costasse arrivare sui monti e tornare a precipizio perchè la neve non si liquefacesse. Il vino si mesceva in coppe larghe e quasi piatte.

CURIOSITA’: Questa antica pratica del commercio della neve divenne molto comune nel corso dei secoli e additittura  spesso disciplinata da specifiche leggi. In molti luoghi la neve era considerata infatti proprietà dello stato (come la cacciagione) e la sua raccolta, se non per fini personali, nonché il suo commercio, non erano pertanto liberi. Pensate solo che a cominciare dall’età moderna e fino all’800,  nello Stato Pontifico, la raccolta  e la vendita della neve venivano date in concessione pluriennale a imprenditori che dovevano garantirne la fornitura per tutto l’anno, sia  per fini medici (veniva usata come antipiretico e antiemorragico) che  per uso alimentare (per fare sorbetti e per rinfrescare le bevande), anche se, in questo caso, i fruitori erano solo  notabili ed ecclesiastici. In pratica, il  papa concedeva concessioni per la raccolta e la conservazione della neve, in regime di monopolio e per una determinata zona, fissando persino delle penali se i concessionari non erano in grado di soddisfare la domanda  della corte papale stessa, dei nobili o dei malati, per ciò i commercianti si preoccupavano  di avere sempre copiose scorte, anche superiori ad una anno di consumi, per cautelarsi in caso di una successiva stagione poco nevosa. La neve veniva conservata in  fosse o grotte coperte di frasche ed ubicate in montagna e quindi trasportata a valle e nelle città con carri o muli  dotati di sporte “termicamente isolate” con sacchi. Nel ‘700 in Sicilia, la neve dell’Etna, il cui trattamento era disciplinato dalla Curia Vescovile di Catania,  veniva anche esportata a Malta, dove era  considerata un bene di lusso, visto che sull’isola era rarissima;  allo scopo venivano effettuate con continuità spedizioni di neve dal porto etneo, per la goduria dei cavalieri dell’omonimo ordine, alla cui mensa era in gran parte destinata. Ovviamente come  succede sempre in casi simili, anche la neve aveva il suo mercato parallelo, che veniva gestito clandestinamente da imprenditori non autorizzati. Nell’Inghilterra dell’800 fu scoperto anche dai borghesi  che le bevande fredde erano meglio di quelle a temperatura ambiente e così, grazie alla lievitazione dei redditi della borghesia, resa possibile  dalla rivoluzione industriale, esplose talmente la domanda di bibite ghiacciate che il ghiaccio veniva sistematicamente importato addirittura dalla Norvegia e persino dagli Stai Uniti.

Questa antica abitudine è all’origine di una famosa un’espressione originaria del nostro dialetto d “Te piac o vin ca nev” ( ti piace il vino con la neve ) che come avete potuto capire ha origini piuttosto antiche . Essa  si riferisce infatti proprio  al periodo in cui per tenere il vino al fresco veniva impiegata la neve, trasportata dalle montagne sin dove necessario e  come potete facilmente  ben immaginare,  portare la neve sino ai territori più caldi doveva essere un lavoro stancante e pieno di attenzioni per evitare che la neve si sciogliesse. L’espressione sta quindi ad indicare il lusso e ” lo sfizio ” derivante dalla fatica ( probabilmnte altrui ) che è possibile avere solo certe volte con grandi sacrifici : quindi il significato di “ti piace il vino con la neve” è quello di  ” ti piacciono le cose quasi impossibili  o troppo lussuose  da avere.

Il vino come abbiamo visto era parte essenziale di ogni banchetto, ed era per lo più diluito con acqua calda o fredda, secondo i gusti e la stagione, e berlo puro non era considerato di buon gusto, sia perchè le cene abbondavano di brindisi e libagioni, sia perchè all’epoca erano maggiormente alcolici, sia perchè a volte si aromatizzava o dolcificava il vino in vari modi, anche se Plinio sosteneva la superiorità del vino senza aggiunte. La birra era conosciuta ma poco stimata. D’altronde il suolo italico si chiamava allora Enotria, cioè terra dei vini.

Il vino poteva essere Atrum (rosso) o Candidus (bianco) o Rosatum (rosato)
Apicio ricorda un vino mielato condito con il solo pepe e, aggiunge che questo vino si conservava a lungo e per questo veniva dato ai viandanti.
Sempre in Apicio si legge che il rosato si poteva ottenere anche prendendo delle foglie verdi di limone che, dopo averle sistemate in un cestino fatto con foglie di palma, dovevano essere messe nel mosto e lasciate in infusione per 40 giorni. Al momento dell’utilizzo vi si doveva aggiungere del miele.

Il  vino  divenne così nella nostra regione ed in tutto l’impero romano , come in Grecia una bevanda  molto diffusa sopratutto tra gli uomini ma poteva essere gustato solo da dai maschi di età superiore ai trent’anni , mentre era  vietato alle donne alle quali era riservato il solo mulsum, una sorte di vino mescolato al miele ( un quarto di miele per un litro di mosto già fermentato da tre settimane ) . Per le donne erano guai se beccate a bere: se baciando la moglie il marito percepiva sapore di vino, era autorizzato a punire severamente la consorte per la “trasgressione”.Una risposta affermativa in tal senso permetteva al pater familias di addirittura poter uccidere la donna colpevole.Il divieto venne abolito da Gulio Cesare, e così Livia, moglie del primo Principe, Augusto, potè scrivere di aver raggiunto una notevole e sana vecchiezza grazie al vino che aveva allietato i suoi pasti.

CURIOSITA’: La donna  veniva additata come adultera   solo se avesse assaggiato il vino . All’interno del nucleo familiare, la suocera aveva il diritto di sentire se l’alito della propria nuora sapeva di vino . Secondo Plinio terribili punizioni venivano inflitte alle donne che trasgredivano la legge: allo scopo di verificare se esse avessero bevuto era permesso al congiunto di baciarle in bocca. .In età imperiale le regole cambiarono e la donna poteva bere quanto meno il vino passito. Lo ius osculi scompare invece  completamente già a fine Repubblica; di pari passo con l’evoluzione dei costumi si infati evolve anche il grado di tolleranza dei ceti medio-alti, nei quali la matrona gode di numerose libertà (tra cui va inserito anche l’uso del vino).

La donna greca e romana non solo non poteva bere vino, ma non poteva partecipare per nulla ai banchetti e ai simposi. Questi eventi infatti erano riservati solo agli uomini liberi, serviti da schiavi (nudi), che discutevano di affari e vita. Le uniche donne ammesse al banchetto greco erano le eteree ( prostitute di alto livello ) , cioè cortigiane con anche abilità artistiche come il canto, mentre la donna romana poteva partecipare alla cena ma non al consumo di vino, né in pubblico né in privato. La donna greca inoltre  non poteva uscire di casa se non accompagnata, partecipare alla vita pubblica, gestire i propri beni e a volte nemmeno occuparsi dei propri figli: la donna etrusca invece sì. Essa secondo quanto giunto a noi beneficiava di una considerazione civile e sociale ben diversa dal ruolo subalterno rispetto all’uomo del mondo greco-romano , dove il suo compito era quello  soprattutto di curare le  attività domestiche  o comunque di attendere a occupazioni tipicamente femminili .

N.B. : La società etrusca , come poche altre civiltà antiche considerava molto la donna e dava molta importanza al suo ruolo in società e forse a ben pensarci , nessuna altra donna come quella etrusca ha goduto per lunghi secoli in passato , un così alto grado di emancipazione , libertà ed autonomia . Le donne etrusche sapevano infatti essere incredibili custodi del focolare domestico , ma alllo stesso tempo erano in grado di ” tenere a bada ” la folla di servi e domestici . Esse partecipavano in maniera attiva  alla vita pubblica e a differenza di Penelope e Andromeca non si accontentavano di attendere pazientemente a casa il ritorno degli sposi  ma prendevano legittimamente parte a tutti i piaceri della vita.. Questo il motivo per cui spesso la vediamo rappresentata durante un banchetto dove si beveva vino sdraiata sul triclinio assieme al marito mentre conversa amabilmente con tutti e di tutto.

CURIOSITA’: La donna etrusca poteva  non solo volendo essere  sempre presente ai banchetti, e sdraiata sul triclinio assieme al marito ma addirittura anche bere vino a tavola vino con altri invitati e conversare amabilmente di tutto e con tutti. Essa era anche  padrona del proprio aspetto anche nell’apparire e  indossava abiti e gioielli non  solo  per mera esibizione della ricchezza del marito come succedeva in altre culture, ma per sua libera scelta , Aveva tra l’altro
anche un “nome e cognome” proprio e pertanto  non dipendevano quindi dal nome della gens paterna o maritale. Quando inoltre  entravano nella famiglia del marito, avevano  voce in capitolo sull’economia, sulla produzione e sulla gestione della casa.

Ovviamente tutto questo da parte dei greci prima e dei romani dopo  veniva   considerato come un segno di grande corruzione morale e di critica sociale .Esso era un mondo da ridicolizzare e non emulare in alcun modo. In diversi autori greci e romani si trovano spesso in antichi testi o iscrizioni , accuse morali rivolte al grande lusso dei banchetti etruschi, dove si esibivano vasellame pregiato, preziosi tessuti ricamati, col servizio di numerosi servi .I commensali mangiavano con le mani, pulendosi spesso con ciotole d’acqua profumata e tovaglioli. Nella sala scorrazzavano animali domestici (cani, gatti, polli, anatre…), che mangiavano i resti di cibo che cadevano (o erano buttati) a terra. Il banchetto era inoltre sempre accompagnato da musica, soprattutto dai flauti. Ci potevano essere anche spettacoli di danza e di giocolieri. Si giocava anche: ai dadi o con la tabula lusoria (una specie di scacchi o dama). Il kottabos, arrivato dalla Sicilia greca, consisteva nel centrare un bersaglio con le ultime gocce di vino rimaste nella coppa.

C’è chi riporta, scandalizzato, che addirittura banchettavano due volte al giorno (l’uso comune dei tempi antichi, sia presso i Greci che i Romani, era che a pranzo si consumasse un pasto molto veloce  e frugale).  Alcuni autori romani definivano addirittura gli etruschi “schiavi del ventre” (gastriduloi), tanto che era popolare l’immagine dell’Etrusco obeso diffusa da Catullo. Tuttavia quest’immagine non presentava accezioni solo negative, visto che nella cultura antica l’individuo “grasso” era colui che poteva permettersi di diventarlo, cioè era un simbolo di grande ricchezza e potere.

Ovviamente bisogna prendere queste critiche con le dovute cautele. Non dobbiamo infatti dimenticare che gli Etruschi furono a lungo nemici di Roma, prima di esserne conquistati… e come tutti coloro che venivano sconfitti dovevano poi subire il giudizio negativo dei vincitori .

A  mio pare certi giudizi negativi sono quindi  da prendere con cautela, perché espressi in un momento storico in cui gli Etruschi erano in forte decadenza, ormai soggiogati dall’Impero Romano.

 

etst-2014-0015-fig09

 

Il vino per i greci e quindi di conseguenza per gli antichi nostri antenati che impregnati dalla cultura epicurea erano sensibili alla dimensione comunitaria del buon vivere,  bere del vino  era anche un rito collettivo, e l’occasione per farlo era il simposio, organizzato di solito per un matrimonio, per una festa familiare o per una ricorrenza religiosa. Gli invitati, almeno fino al IV secolo, dovevano essere rigorosamente tra tre e nove, che era poi il numero delle Grazie e delle Muse: assente la donna (almeno fino al periodo ellenistico).

Il convitto prevedeva :gustatio, antipasto, primae mensae, cena vera e propria, secundae mensae, dessert, comissatio o epidipnis, ‘brindisi finale’.

Il padrone di casa  assegnava i posti agli invitati a seconda dell’importanza .  La disposizione doveva essere tale in modo che tutti potessero vedersi e parlarsi, mentre del servizio si occupavano alcuni giovani che miscelavano il vino con l’acqua, lo attingevano e lo versavano. Di solito il primo brindisi lo faceva il padrone di casa, forse per dimostrare che il vino non era avvelenato, ma più probabilmente per far valere un suo potere, a cui poteva rinunciare solo in favore di un ospite particolarmente importante. In questo caso il secondo brindisi restava del padrone di casa. Spesso era lo stesso dominus a chiedere a un ospite di indirizzare un brindisi secondo un suo desiderio. Consumato il pasto, come ci racconta anche Platone (che al simposio ha dedicato uno dei suoi dialoghi), una coppa di vino non annacquato veniva passata in cerchio perché ogni commensale potesse berne un sorso e brindare. Scrive il filosofo nel Convito: “… Socrate si sedette e quando ebbe finito di mangiare insieme ad altri fece libagioni. Poi cantarono tutti in onore del dio, compirono gli altri riti e si misero a bere”. A questo “brindisi” ne seguivano altri, secondo un rituale che prevedeva il lavaggio delle mani e l’utilizzo di profumi e corone di fiori sul capo, di mirto o di edera (pianta sacra a Dioniso, con cui si adornavano anche le coppe). Del vino, versato fuori dalle coppe, era offerto anche a Zeus Olimpio, agli “spiriti degli eroi” e a Zeus Salvatore.

Bere  vino come vedete significava circondarsi di un’atmosfera magica: il vino era esso stesso nello stato puro considerato una divinità, una bevanda ultraterrena il cui consumo  spettava al comune mortale solo  se questi onoravano nel frattempo dapprima gli dei. Il banchetto terminava comunque con una libagione ai Lari, di cui venivano esposte le statuette sacre.

.Seneca ricorda i benefici effetti del vino: “Ogni tanto è bene arrivare fino all’ebbrezza, non perché questa ci sommerga ma perché allenti la tensione che è in noi. L’ebbrezza scioglie le preoccupazioni, rimescola l’animo dal più profondo e, come guarisce da certe malattie, così guarisce anche dalla tristezza”.

Il vino, nel simposio, era sempre diluito con acqua secondo le decisioni del “rex convivii” o “magister” o “arbiter bibendi”, sorteggiato spesso coi dadi, che decideva le proporzioni acqua-vino, la quantità che se ne poteva bere, il numero delle coppe da bere, e l’ordine da seguire nel versare il vino ai convitati . Egli era  colui che secondo il convitto  era in quel particolare momento posseduto dal vino e dalle divinità, fosse questa Eros, Dionisio o le Muse.
Le diluizioni preferite, dopo aver scartato quella metà acqua e metà vino, giudicata pericolosa, erano quelle chiamate “a cinque e tre”. La proporzione a cinque era formata da tre quarti d’acqua e due di vino; quella a tre, invece, da due parti d’acqua per una di vino.

Il vino era quindi parte essenziale di ogni banchetto, ed era per lo più diluito con acqua calda o fredda, secondo i gusti e la stagione, e berlo puro non era considerato di buon gusto, sia perchè le cene abbondavano di brindisi e libagioni, sia perchè all’epoca erano maggiormente alcolici, sia perchè a volte si aromatizzava o dolcificava il vino in vari modi, anche se Plinio sosteneva la superiorità del vino senza aggiunte (la birra era conosciuta ma poco stimata).

N.B. In epoca romana c’era chi già beveva il “merum“, cioè il vino puro, anche se costoro, tra cui c’era l’Imperatore Tiberio, venivano considerati autentici ubriaconi.

Il vino poteva essere Atrum (rosso) o Candidus (bianco) o Rosatum (rosato)
Apicio ricorda un vino mielato condito con il solo pepe e, aggiunge che questo vino si conservava a lungo e per questo veniva dato ai viandanti.
Sempre in Apicio si legge che il rosato si poteva ottenere anche prendendo delle foglie verdi di limone che, dopo averle sistemate in un cestino fatto con foglie di palma, dovevano essere messe nel mosto e lasciate in infusione per 40 giorni. Al momento dell’utilizzo vi si doveva aggiungere del miele.

Ad anticipare il pasto vi era la “propinatio” (‘bere prima”, oppure “offrire, donare”) cioè l’antinesiano del nostro aperitivo che in genere veniva fatto con vini leggeri, speziati e poco dolci, col significato di bere “alla salute”. Il razionale del banchetto era comunque  la “continenza”, cioè godere di tutto ma senza eccedere. Per questo si raccomandava di annacquare il vino, per non eccedere all’ebbrezza. Nel banchetto romano si presentavano contemporaneamente la carne ed il vino, identificando quest’ultimo come una bevanda e non una droga. Durante il banchetto era comunque consuetudine fare dei  continui brindisi  che usando varie  formule come “bene vos, bene nos, bene te, bene me” avevano il compito di  augurare il meglio ai propri commensali. In genere era il padrone di casa che stabiliva i brindisi, a meno che non ci fosse un ospite così importante a cui cedere l’onore. Ma solitamente anche gli ospiti, specie se poeti, aggiungevano i loro brindisi.

Nei conviti si sviluppo quella abitudine ancora oggi molto diffusa del “bibere graeco more”, cioè il fare brindisi e la bevuta per per l’amicizia  e come narrano Plinio e Ovidio,  si facevano anche brindisi all’amore  per la propria ragazza o per conquistare una ragazza, o per brindare ad essa se  assente.

Ma il vino non si beveva solo nelle case, perché c’era il thermopolium, un luogo di ristoro dove era possibile acquistare cibi pronti. Era un locale di piccole dimensioni con un bancone nel quale erano incassate grosse anfore di terracotta, atte a contenere le vivande. I Pompeiani, come i Romani, amavano mangiare pasteggiando vino, o farsi un goccio ogni tanto per rallegrarsi, come nelle osterie romane che ancora sopravvivono a Roma. Ce ne sono ampi resti negli scavi di Pompei ed Ercolano, ma Roma ne era piena.

CURIOSITA’:Per avere un’idea sul prezzo delvino basta leggere ciò che ritroviamo inciso sul muro  di una  Taberna pompeiana, ritrovata dopo la famosa eruzione del 79 d.c.

– un kg di pane costava 2 assi,
– un litro di vino 2 assi;
– un piatto di legumi o verdure: 1 asse;
-entrare alle terme : 1 asse
– un piatto di legumi o verdure costava 1 asse;
– una prostituta nel “lupanare” costava 1 sesterzio
-,una tunica 12 sesterzi
– uno schiavo generico, costava 625 denari, 2500 sesterzi.
N.B. Un sestezio valeva 4 assi  ( Un asse equivaleva  a 1,5 euro; per cui un litro di vino costava circa 3 euro.) .
sesterzio assunse il valore di 4 assi.

La borghesia più bassa aveva circa 5.000 sesterzi di rendita annuale, mentre quella dell’ordine equestre partiva da un censo minimo di 400.000 sesterzi: un senatore almeno un milione di sesterzi. Ma ai tempi di Traiano 20.000 sesterzi di rendita erano appena sufficienti per un piccolo borghese.

Il poeta Giovenale limita a 400.000 sesterzi il capitale di un uomo equilibrato che sappia accontentarsi di 20.000 sesterzi di rendita, al di sotto della quale regnava l’indigenza. Plinio il Giovane possedeva venti milioni di sesterzi, eppure si dichiarava costretto a vivere di vita frugale.Durante la giornata ogni scusa era buona per bere un buon bicchiere di vino. Si brindava alla salute di un amico, di un patronus, di una persona importante o della donna amata e in questo caso l’usanza era che si bevessero tante coppe quante erano le lettere che ne componevano il nome. Si brindava altresì per onorare un defunto, o a una divinità di cui si chiedeva la benevolenza, o semplicemente a un progetto affinchè andasse in porto, ma un accenno alla Dea Fortuna c’era sempre.

Non mancavano ovviamente mai i brindisi per le vittorie romane in battaglia e  la comissatio o epidipnis, cioè il brindisi finale dopo il dolce.
I recipienti per brindare o bere presso i romani erano :il bicchiere In argento o stagno, che avevano forma  cilindrica, a coppa o conici e venivano esposti su tavolini per mostrare l’opulenza della domus ai visitatori. – i calici In bronzo o argento – i Kotyle , che era una sorte di coppa profonda con due anse, in bronzo, argento o oro ed il Kylix , una coppa in bronzo con due anse, bassa e aperta, con alto piede, spesso in ceramica raro in metallo.
Inutile dirvi che tutte queste cose potete tranquillamente ammirarle , provenienti dagli scavi archeologici di Pompei ed Ercolano presso il nostro Museo Archeologico Nazionale .
Curiosita’: Una delle consuetudini romane era quella di bere nel brindisi tanti bicchieri di vino quante erano le lettere che componevano il nome della persona scelta. Inoltre alla  persona amata si era solito  dedicare una coppa per ogni lettera del suo nome.

Altra usanza riguardo all’amata era di cedere a lei la propria coppa, bere un sorso da quella, poi in tingervi un dito e scrivere sulla tovaglia il nome dell’amata.

La folotesia dei greci era  invece il brindisi in cui si levava la coppa in onore di un amico, si chiamava il suo nome, si beveva un sorso di vino passandogli la coppa perché ne bevesse anche Lui, e trattenesse la coppa come pegno d’amicizia, aggiungendo qualche formula di augurio come: “Bevi, accomodati, accetta questa bevuta in amicizia” oppure”Bevo, benaugurante, alla tua salute”.

Chi  brindava assieme creava quindi una comunità, anche se in epoca romana questo elemento rituale e sacrale tenderà progressivamente a diventare sempre più sfumato e  il banchetto si trasformerà in un evento borghese. Nei primi secoli del Medioevo l’ usanza del brindisi cadde poi addirittura  in disuso poiché era un atto considerato peccaminoso per un buon cristiano.

CURIOSITA’: Plinio (Naturalis Historia, XXXI, racconta la pratica del “bere le corone”: consisteva nello sfogliare i fiori delle proprie corone nel vino ed offrire poi la coppa alla persona amata. Un brindisi del genere venne proposto a Marco Antonio da Cleopatra, la quale era offesa con lui poiché si portava sempre dietro un assaggiatore, non fidandosi del personale della regina; cosi, per vendicarsi, intrise la Sua corona di veleno e propose a Marco Antonio di “bere le corone”; quando però questi stava per portarsi alle labbra la coppa, Cleopatra lo fermò perché il diffidente romano le piaceva molto. Chiamò un condannato a morte al quale fece bere quel vino, che cadde fulminato ai piedi di Marco Antonio.

Con  il migliorare delle tecniche impiegate nel vigneto e nella cantina la produzione del vino migliorò non solo quantitamente ma ache qualitivamente e con la conquista di nuovi territori i colonizzatori romani cercarono di espandere molto la coltivazione della vite per produrre vini da utilizzare per il loro fabbisogno, ma principalmente per scambi commerciali con i popoli assoggettati o con quelli oltre i confini, che erano avidi di vino.

CURIOSITA’. Nei primi anni dell’impero romano  i vari vitigni coltivati  presenti in Campania  divennero talmente  ampiamente diffusi   nell’intera regione  a tal punto che  nel 90 d.C. Domiziano dovette imporre ai contadini , con un editto, di sradicare metà delle vigne e vietare nuovi impianti per far fronte ad una preoccupante crisi da sovrapproduzione.   I primi vini romani  per la raccolta molto abbondante e la conseguente trascurata potatura erano per questo motivo comunque piuttosto grossolani e di scadente qualità: quelli più nobili venivano pertanto ancora importati dalla Grecia ( Il vino di Chio, secondo Varrone, era il migliore dei vini greci, e quindi considerato il vino dei ricchi. , mentre rinomato erano anche i vini di Lesbo ).

CURIOSITA’:  Plinio il Giovane si lamentava che le cantine non avessero più recipienti per accogliere l’uva, sempre abbondante. Anche Marziale si lamentava, nel I° secolo d.c. che a Ravenna l’acqua fosse più scarsa del vino.

I Romani  con il tempo facendo tesoro delle tecniche di coltivazione e vinificazione apprese dagli etruschi e di  quanto loro lasciato dagli esperti coloni greci divennero con il tempo degli  eccellenti viticoltori raggiungendo  un livello avanzatissimo di  conoscenza e  tecnica viticola in gran parte ancora oggi  impiegate nella moderna enologia. Dai Cartaginesi  impararono invece  a costruire aziende agricole razionali e capaci di produrre, con grandi guadagni. I Romani infatti ,  avendo  il senso del business, crearono in maniera organizzata e produttiva delle  piantagioni specializzate a conduzione schiavile, dove si coltivarono i grandi vini del passato. Tra queste vi era certamente quella che producava dalle nostre parti  il vinum Falernum.

Secondo Columella, che nel I sec. d.c. scrisse il De re rustica, ( un vero e proprio manuale di viticoltura e tecnica della vinificazione ),  questa nuova conoscenza  acquisita una profonda conoscenza  dei segreti della coltivazione e della vinificazione, fu  collegata con l’arrivo in Italia di schiavi orientali, più esperti di vigneti e di vinificazione che impostarono  nuove tecniche viticole .

N.B.I Romani , dopo aver conquistato nuovi territori, coltivavano in quei luoghi la vite da vino, affidata alle cure degli schiavi, per produrre buon vino su scala sempre maggiore.

I vini italiani cominciarono quindi ben presto a diffondersi in tutto l’impero romano   già nel III sec. a.c.. e fintanto che il sistema schiavistico resse le grandi richieste produttive, il vino si impose come la bevanda più importante sulle tavole di ogni cittadino romano, in ogni momento conviviale. Da prima del pasto, mescolato puro con il miele, fino alla fine dello stesso: per ogni occasione esistevano differenti versioni e tipologie di mescita. La produzione di vino con i suoi vitigni crebbe a dismisura in pochi decenni e ben presto   l’Italia  non si limitò più a produrre vino per i fabbisogni interni, ma anche per l’esportazione .

N.B. La viticoltura continuò poi a svilupparsi fino prima metà del II sec a.c.  ed in  poco tempo il suolo italico venne soprannominato in tutta Europa  ” Enotria ” cioè terra dei vini.

Le tecniche di viticultura divennero raffinatissime  . Gli antichi romani raccoglievano i grappoli d’uva ben maturi, con coltelli a forma di falce, e li portavano in cantina con ceste, scartando quelli immaturi ed alterati, che servivano per produrre il vino degli schiavi. Vino per gli schiavi che, secondo Catone (234 – 149 a.C.), veniva anche fatto aggiungendo acqua alle vinacce dopo pressate e facendo fermentare il tutto. Della ” lora “, ossia del “vinello ” così ottenuto, agli schiavi spettava una razione di tre quarti di litro al giorno; in media era di 260 litri/anno. Oltre agli schiavi anche i contadini e gli operai in genere bevevano la “lora”.

L’uva veniva  poi pigiata da uomini e donne che, con i piedi, schiacciavano tutti i grappoli posti in apposite larghe vasche costruite in muratura e chiamate “calcatoria” La pigiatura, a quei tempi, era un rito bacchico, in cui uomini e donne, giocondamente, pigiavano con i piedi i grappoli contenuti in tinozze o in vasche in muratura o in pietra molto larghe (il “calcatorium”), poco profonde, in maniera che lo strato di uva fosse relativamente spesso, e sopraelevate rispetto al pavimento . Con la fase della pigiatura si orreneva il mosto fiore, cioè l’insieme di succo, semi e parte delle bucce dell’uva. Eso veniva pressato       L con dei torchi a leva. Il vino ottenuto sottoponendo le vinacce ad una seconda pressatura veniva chiamato “vinum circunsitum” o “mustum tortivum“., e poi grossolanamente filtrato attraverso apposite ceste di vimini.

Dopo una decantazione ed una filtrazione molto grossolana fatta come vi abbiamo accennato , attraverso adatti panieri di vimini, il mosto così filtrato veniva messo a fermentare nei Dolia “,cioè dei grossi  recipienti panciuti di terracotta, della capacità di 600-1000 litri.,che venivano tappati ed interrati per 3/4 della loro altezza, che era attorno ai 2 metri .

La fermentazione ovviamente non era controllata e pertanto il grado  alcolico  dei vini poteva variare di molto ed in alcuni vini il grado alcolico era elevato, ma in realtà i romani già conoscevano i tagli del vino, per cui sovente mescolavano i vini meno alcolici con quelli più forti o aggiungendo miela   o aromi al mosto. 

N.B.Il vino  travasato nei  “dolia“, rimaneva fino al  23 di aprile, quando dopo la festa di “Vinalia o Vinilia” venivano aperti  e si effettuava l’assaggio.

Per ottenere vini alcolici e più dolci i romani  ricorrevano anche alla bollitura del mosto; in tal maniera si riduceva il volume e si concentrava il tenore zuccherino. Per appassimento delle uve su graticci per qualche settimana si otteneva il “Passum“; con aggiunta di miele (fino a 250 g/l) il “Mulsum“; con aggiunta di aromi i picata (con pece), i murrina(con mirra), gli absinthium (con assenzio).

I Romani producevano anche una specie di champagne, detto “Aigleucos“, una specie di mosto che, per conservarlo dolce, veniva mantenuto ad una bassa temperatura immergendo le anfore nell’acqua fredda dei pozzi più profondi.
All’epoca di Augusto (27 a.C. – 14 d.C) i vini preferiti erano quelli dolci e molto alcolici. Questi vini venivano invecchiati a contatto con dell’aria per farli ossidare

Una volta terminata la vinificazione si passava infatti alla fase della degustazione, durante la quale i “pregustatores” cioè i degustatori, assaggiavano i diversi vini per poi classificarne e distinguerne i vari tipi.: dolce (dulce), morbido (soave), molle (lene), debole (fugens), pieno (firmum), aspro, austero e alcolico.

I Romani, come vi abbiamo detto  non bevevano mai vino puro ma preferivano diluirlo con neve, acqua fresca o calda in base alle esigenze di coloro che lo degustavano.  Al vino finito quindi venivano spesso aggiunti estratti di erbe, miele, legni odorosi , essenze vegetali , mirra , assenzio, profumi e rose ,, creando un’incredibile varietà di vini aromatizzati , spesso anche sottoposti a cottura assieme ad ingredienti in infusione .

Il vino ottenuto,  se era troppo torbido, veniva reso più limpido  utilizzando bianchi d’uovo montati a neve o aggiungenso latte  fresco di capra,  e sopratutto migliorato  tagliaandolo  col miele o aggiungendo aromi al mosto, Per renderlo invece  più  brillante fecvano  ricorso a pezzi di argilla o di marmo .

N.B. Ai Cartaginesi, pare invece, si debba l’uso della calce, che veniva aggiunta nel mosto, per addolcire il prodotto.

 La  maggior parte dei vini, proveniente da vigneti meno pregiati, o da vigneti troppo giovani, venivano addizionati con sale, acqua marina concentrata, resina e gesso. . Marziale parla di un mercante che al vino (grossolano) di Sorrento, mescolava gli avanzi di vini pregiati di Palermo, ottenendo un prodotto scadente che però rendeva bene.

Il vino poco pregiato veniva  dato ai rematori e agli schiavi che facevano lavori pesanti  I Romani infatti ben  conoscendo le  proprietà battericida del vino,  come consuetudine lo portavano nelle loro campagne come bevanda dei legionari. Plutarco racconta che Cesare distribuì vino ai suoi soldati per debellare una malattia che stava decimando l’esercito.

II vini migliori, più strutturati invece  non venivano trattati, ma piuttosto arricchiti con l’aggiunta di defrutum, un mosto concentrato che alzava la gradazione di uno o due gradi alcolici. Il vino più pregiato veniva  invecchiato, in soffitta o al sole (Banjuls).

.Il  vino poteva essere Atrum (rosso) o Candidus ( bianco ) o Rosatum (rosato) e anche allora come oggi , vi erano i degustatori patentati (“haustores“) che classificavano i vini. Essi facevano parte della corporazione dei “Pregustatores“, specializzati nell’arte di degustare per primi e dare giudizi su cibi e bevande destinati ai grandi banchetti o ai potenti dell’epoca, che temevano di essere avvelenati. Essi erano insomma  i i sommeliers dell’epoca, e classificavano i vini in molti modi: dolce, corposo, soave, nobile, prezioso, forte, delicato, ecc., dimostrando di avere un palato non inferiore a quello degli esperti odierni.

I degustatori patentati si attenevano a poche ma inderogabili norme che regolavano la degustazione. Queste regole sono riportate da Burgundio   nella sua “norma del perfetto degustatore“:

  1. Non bere nè a digiuno, nè avendo mangiato troppo;
  2. Non bere dopo avere mangiato o bevuto qualcosa di acido o di salato;
  3. Non deglutire il vino che si sta degustando ma, dopo averlo tenuto un poco sulla lingua, sputarlo (pytassare si diceva allora);
  4. scegliere, quando si vuole”degustare”, un giorno in cui tiri la tramontana, anzichè lo scirocco, in quanto lo scirocco intorbida il vino.

     Per la degustazione generalmente si usava la “Pocula“, classica coppa “ombelicata“, simile per molti aspetti all’attuale taste-vin e così chiamata per il poco liquido che conteneva. In base ai risultati dell’assaggio si stabilivano gli eventuali tagli e i trattamenti di affinamento ed invecchiamento.

L’età del vino presso i romani, così come presso i greci, era considerata importante. Il vino invecchiato era indice di qualità.  Gli antichi romani sapevano bene infatti che con  i procedimenti di vinificazione adottati all’epoca solo i buoni vini ed in particolare quelli di elevata gradazione alcolica riuscivano a conservarsi inalterati per 12mesi e di conseguenza andavano  matti per il vino lungamente invecchiato, come il nostro  Falerno che non si poteva bere prima dei 10 anni e rimaneva ottimo fino a 30 ed  i vini di Sorrento  che erano buoni soltanto dopo 25 anni.

N.B. I vini di lusso erano generalmente cotti e sottoposti a lunghissimo invecchiamento e, per essere poi bevuti, venivano mischiati con almeno il 50% di acqua.

Per invecchiare i vini si usavano anfore, in camere che venivano riscaldate  aiutandosi con fumo, calore e rudimentali sistemi di pastorizzazione che non solo accelerava le reazioni chimiche dell’ invecchaimento, ma rendeva più stabile il vino, che non inacidiva più.     

 

 

 

 

 

 

.

Dai Doli  , il vino , una volta avvenuta la fermentazione , veniva travasato in  anfore di diverse forme e capacità . Le più piccole chiamate “Legene”    ovviamente erano quelle che venivano usate  anche per la mescita nelle osterie. La maggior parte di esse avevano  la capacità di contenere circa 26 litri (costituenti unità di misura. ) ed erano a doppia ansa, e di linea slanciata le cosidette fittili ), ma erano presenti anche anfore di13,13 litri ( urna ) e di  39,39 litri ( il cadum ). Tutte , anche se di diverse capacità erano adoperati anche per il trasporto, e grazie alla loro forma cilindrica ed affusolata potevano facilmente essere accatastati in posizione verticale nel terreno dentro i magazzini o nello strato di sabbia nelle stive delle navi da carico. Per i trasporti terrestri si usavano otri fatti con pelli di suini, di capre o di altri animali. Il “cullei ” era la pelle di bue intera, la cui capacità serviva come unità di misura del vino ossia 526 litri pari a venti anfore.

CURIOSITA’: Prima del III° sec d.c. le anfore di ceramica  furono usati anche per far invecchiare e trasportare il vino. Essi  erano i contenitori principali per il traffico marittimo con una capacità di una ventina di litri, Tra il 20 ed il 10 a.c. l’anfora fu sostituita con un tipo più leggero e capiente, che scomparve anch’esso verso la fine del I° sec. d.c., sostituito dalla “botte”, trasportabile anche da due soli uomini e caricabile sui carri

N.B. I romani successivamente oltre che  introdurre  l’uso dei barili di legno contemporaneamente introdussero anche l’uso  delle bottiglie di vetro.

Per il commercio del vino proveniente dalla Sicilia, i romani utilizzavano Naves Vinariae (navi vinacciere) piuttosto piccole, veloci e resistenti alle tempeste, capaci di circa 300 anfore, cioè di 2,78 t.

Le anfore  portavano al collo una specie di etichetta ,  chiamata il pittacium che riportava il luogo di provenienza del vino, il tipo di vino che contenevano, l’anno di produzione, il giorno del riempimento, il nome del produttore e quello del console in carica.,  Tutte erano chiuse ermeticamente con tappi di sughero, sigillati con pece che permettevano l’invecchiamento.  Quelle destinate all’invecchiamento  riportavano la scritta ” Vina Amphorata “, mentre quelle che contenevano i vini di qualità superiore il marchio Effusum , Diffusum o Infusum .

I  vini di poco pregio non venivano travasati , mentre i vini di pregio venivano travasati in anfore a doppia ansa chiamate seriae, da 180 a 300 litri, impermeabili e con una punta che si conficcava nel pavimento. Essi potevano contenere da 180 a 300 litri ed erano impermeabili.

Per il trasporto  via mare si usavano anfore di ceramica con una capacità di una ventina di litri, chiuse ermeticamente con  tappi di sughero sigillati con pece. Verso la fine  del I° sec. d.c., l’anfora inizio a scomparire, sostituita dalla “botte”, trasportabile anche da due soli uomini e caricabile sui carriII dolia

Il vino arrivava a Roma per via fluviale attraverso il Tevere dalll’Umbria e dalle colline sabine e per via marittima dai porti di Ostia, di Pompei e della costa della Campania mentre per i trasporti terrestri si usavano otri fatti con pelli di suini, di capre o di altri animali. Il “cullei ” era la pelle di bue intera, la cui capacità serviva come unità di misura del vino ossia 526 litri pari a venti anfore.

La bevanda , oltre che farne uso personale , veniva anche venduta dai mercanti e, solitamente, era trasportata da alcune navi che una volta arrivate a destinazione scaricavano le anfore in luoghi appositamente riservati al deposito del vino, dove in  occasione delle conviviali,  gli schiavi sollevavano le pesanti anfore e versavano il vino nei “crateri” di forma e dimensioni diverse e dall’imboccatura grandissima. A quell’epoca era consuetudine a Roma mettere anche dell’acqua nei crateri per annacquare i vini; l’abitudine di mescolare il vino con l’acqua era anche la conseguenza della scarsa potabilità delle acque ( igli antichi greci già conoscevano  le  proprietà battericida del vino ). 

Per prelevare il vino dai crateri e versarlo nei calici i “pocillatores” della antica Roma usavano principalmente:

  • il “simpulum“, una sorta di ramaiolo a manico lungo adoperato nel caso di crateri molto profondi, che in Grecia era chiamato “kytos
  • l'”olpe” che nelle sue varie forme ricorda la nostra caraffa d’acqua;
  • l'”oinochoe“, che differisce dall’olpe per la caratteristica imboccatura a orlo trilobato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Durante l’epoca repubblicana ed imperiale i Romani diffusero la vite non solo in Italia, ma in gran parte delle province che man mano conquistavano e che poi, in particolar la Gallia, richiedevano vini in abbondanza. I vini ricercati dai romani erano liquorosi per poi annacquarli, mentre i Galli bevevano il vino puro, non miscelato con l’acqua, considerato incivile dai romani perchè portava all’ubriachezza.

Omero a tal proposito scrisse : Vino pazzo che suole spingere anche l’uomo molto saggio a intonare una canzone,
e a ridere di gusto, e lo manda su a danzare,
e lascia sfuggire qualche parola che era meglio tacere.     

L’espansione della viticoltura nella Sicilia e nell’Italia meridionale ben presto determinò, una contrazione delle importazioni di vino dall’Egeo e dalla Grecia e nel III sec. a.c. l’Italia non si limitò più a produrre per i fabbisogni interni, ma anche per l’esportazione e continuò a svilupparsi soprattutto nella prima metà del II sec a.c.

Fra gli scambi commerciali di Roma , ricchissimo era il commercio del vino, come testimonia il Testaccio, una collina alta 35m e con un perimetro di 850m alla base, poco distante dal Tevere; la cui origine deriva dallo scarico dei cocci (in latino: testa)delle anfore vinarie e olearie gettati via dai mercati del vicino emporium. .

CURIOSITA’ :  Le anfore normalmente rimanevano nel luogo di consumo del vino, in quanto erano “vuoto a perdere“. A Roma , dove il commercio del vino era ricchissimo , queste anfore venivano ridotte in frantumi e finivano in una discarica che col tempo diventò una collinetta chiamata il “Testaccio” o monte dei cocci  Esso,  divenuto oggi un quartiere molto amato dai romani  trae quindi la sua origine   dallo scarico dei cocci delle anfore vinarie e olearie   gettati via dai mercati del vicino Emporium.

Trasportare il vino in luoghi lontani poneva però dei grossi problemi .sopratutto quando vennero introdotte le botti di legno . Esse a differenza dell’anfora di terracotta, che poteva essere chiusa ermeticamente,  presentava una porosità che non permetteva di invecchiare a lungo il vino senza che si alterasse sopratutto se questi come sempre più spesso accadeva , erano sempre meno alcolici.  I vini a   lunghi invecchiamenti tipici della tradizione e del gusto greco-romano., e da molti considerati quelli migliori non riuscirono per lungo tempo ad essere esportati e questo problema rimase irrisolto fino alla caduta dell’impero romano, fino a quando gli inglesi avendo abbandonato la coltivazione della vite, in considerazione delle poco favorevoli condizioni climatiche, e ponendosi il problema del rifornimento da centri di produzione generalmente lontani, non scoprirono la tecnica dell’alcolizzazione . L’aggiunta di alcol ai vini consentiva, infatti, non solo di renderli più dolci, ma anche più stabili, meno alterabili e quindi più facilmente trasportabili durante i lunghi viaggi in nave.
Tale tecnica di alcolizzare il vino venne così introdotta verso il Seicento in Portogallo, esattamente ad Oporto , per la produzione del Porto, e successivamente a Jereza della Frontera per lo Sherry e in Sicilia, a Marsala per la produzione dell’omonimo prodotto.

Durante l’epoca repubblicana ed imperiale i Romani diffusero la vite non solo in Italia, ma in gran parte delle province che man mano conquistavano ed in   in particolar la Gallia, che richiedeva vini in abbondanza. I vini ricercati dai romani erano liquorosi per poi annacquarli, mentre i Galli bevevano il vino puro, non miscelato con l’acqua, considerato incivile dai romani perchè portava all’ubriachezza.L’espansione della viticoltura nella Sicilia e nell’Italia meridionale ben presto determinò, una contrazione delle importazioni di vino dall’Egeo e dalla Grecia e nel III sec. a.c. l’Italia non si limitò più a produrre per i fabbisogni interni, ma anche per l’esportazione e continuò a svilupparsi soprattutto nella prima metà del II sec a.c. 

Con l’espansione dei confini , si espansero  anche gli usi e i costumi (nonché le risorse) e Roma come tutte le  società ricche , finì tendenzialmente a divenire una società dedita anche ai vizi e agli intrattenimenti. Questi ebbero la sua massima espressione nel periodo aureo imperiale che come sappiamo corrisponde al momento di massimo rilassamento dei costumi romani . Nel III secolo d.C. Imperatori , ricchissimi patrizi portò personaggi con grandi disponibilità economiche , abituati al lusso a grandi eccessi che trovarono la loro massima espressione nelle  famosi pratiche sessuali di Eliogabalo riferiti da Cassio Dione

Image for post

Il declino della viticoltura Campana,  registrò nel  Medioevo , uno dei periodi più cupi per la vite e per il vino nella nostra regione. Nei primi due secoli dell’Era Cristiana, di conseguenza  l’Italia diventò  non più il maggior esportatore di vino in Europa ma addirittura il maggiore importatore di vino dell’Impero facendolo pervenire dalla Grecia, dalla Spagna e dalla Gallia, . Ovviamente questo era solo il segno dell’abbandono di tanti vitigni italiani, e dell’agricoltura in generale in quanto, non vincendo più le guerre, non si avevano più schiavi. Per giunta la Spagna stava cominciando a diventare un grosso produttore di vino, e per produrre vino si era tolta la produzione di grano procurando fame a tutto l’Impero.

Purtroppo  con la fine dell’impero romano anche  la produzione del nostro famoso Falernum andò scemando ma non si esaurì mai del tutto , tanto da essere stata poi ripresa con il DOC Falerno del Massico.

Purtoppo da allora ,dopo l’epoca romana,   con il passare del tempo , nonostante le nostre antiche origini greche e romane , e la possibilità di realizzare ottimi vini, purtroppo l’arte di vinificare , non fu a lungo più  nei secoli successivi  seguita ,  ,coltivata e  trasmessa  alle future generazioni , Essa quindi  non trovando validi adepti , non ha più  visto  il nostro territorio per anni,  avere la capacità di ralizzare ottimi vini . Pertanto  per un lungo periodo  di tempo , i vini locali non eccellevano certo in qualità , anzi i vini sfusi , tranne rare eccezioni, erano spesso scadenti e le famose cantine  napoletane spesso  smerciavano  prodotti di cattiva qualità. Da ciò forse la consuetudine estiva , oggi tanto apprezzata , di correggere il vino bianco o rosso , all’uso spagnolo della sangria , con fette di pesca ( percoca ). o allungare il vino , sopratutto quello rosso con la gassosa .

La strada della qualità venne imboccata di nuovo finalmente  solo a partire dagli anni 1980, e recentemente i vini Campani  grazie a nuove moderne ed adeguate tecniche di potatura delle viti, le nostre terre producono  di nuovo buoni vini sia bianchi che rossi , che stanno oggi  registrando incredibili successi e notevole interesse da parte dei consumatori.

CURIOSITA’:Il culto del vino, soppresso nei baccanali, riapparve negli ultimi anni della Repubblica con le feste viticole istituzionali, i Liberalia del 17 marzo per celebrare il dio Libero-Bacco, ed i Vinalia, festa del 19 agosto per propiziare la vendemmia.

Eravamo e siamo ancora oggi insomma  la  terra dei vini e questo grazie all’ideale clima e grande qualità del nostro terre a cui gli antichi greci donarono prestigiose  viti  che portò ad una grande  produzione di vino ,

Negli ultimi decenni del 1900, dopo essere stati per anni trascurati , i vini della Campania sono poi  rinati a nuova vita. L’enologia campana è infatti migliorata in tutti i sensi dando vita ad ottimi prodotti e a testimoniare la predilezione di Bacco per il golfo partenopeo , oggi in Campania vengono prodotti tre vini DOGC, diciotto vini DOC e nove vini IGT . Le isole di Ischia e di Capri vantano ciascuna una DOC.

N.B. Un  grosso contributo in questo senso al nostro patrimonio enologico è dato dall’Irpinia dove si producono almeno tre vini conosciuti in tutto il mondo : il Fiano , il Taurasi ed il Greco di Tufo .

Tra i vini più conosciuti della nosta terra  abbiamo  il Fiano, il Greco e la Falanghina. I primi due rientrano nelle DOCG Irpine: il Fiano di Avellino e il Greco di Tufo. La Falangina del Sannio, invece, viene prodotta nel territorio sannita, ma compare anche in alcuni suoli vulcanici nella zona flegrea

Ma altrettanto famosi sono anche l’Aglianico, il  Pallagrello bianco,  il Taurasi,  il  Capri bianco, l’ Aversa Asprinio,  i Campi Flegrei DOC ( ” Piedirosso “o Per ‘e Palummo ) , il  Casavecchia di Pontelatone Doc, il Lacrima Christi,  , il Costa d’Amalfi doc Furore bianco , il Falerno del Massico doc Primitivo, l’Irpinia doc Aglianico, il Beneventano igt Rosso “Essentia”, il Sannio Rosso ,  il Solopaca Bianco, , il Biancolella di Ischia , il vino falanghina del sannio  la falanghina dei campi flegrei ed ultimamente anche il meno ambizioso  Gragnano. 

Quattro di essi sono docg : due bianchi ovvero il  fiano d’Avellino ed il  greco di Tufo, e due rossi , cioè l’ aglianico del Taburno ed il  taurasi , mentre ben  16 sono  doc (tra queste, Lacryma Christi del vesuvio, falanghina del Sannio e Capri) .

Il Fiano occupa certamente oggi il primo posto nella lista dei i vini più famosi e conosciuti non solo in Campania ma in tutta l’Italia. Si tratta di un vino bianco DOC prodotto nella località di Avellino, anche se è possibile trovalo anche in Puglia e in alcune località della Sicilia.Il Fiano è un vitigno giunto in Campania grazie ad alcuni coloni greci provenienti dalla città di Apia, nel Peloponneso. Successivamente, le popolazioni locali e poi i colonizzatori romani diedero impulso alla coltivazione di questo vitigno. In particolare, la zona di Lapio, prima chiamata Apia, come la città greca, sulle colline ad est di Avellino, fu individuata come area di massima espressione del Fiano. E proprio qui si cominciò a produrre un vino bianco molto apprezzato. II suo nome fu, inizialmente, quello di “Apiano”, o in riferimento alla città di “Apia”, da dove proveniva il vitigno, o da “ape” perché quest’insetto mostra una certa attrazione per la dolcezza degli acini del vitigno, attaccandone il grappolo, poi  successivamente attraverso una serie di trasformazione linguistiche si è giunti all’attuale “Fiano”.                I primi documenti scritti relativi al vitigno e al vino risalgono alla metà del XII secolo e ci rivelano quanto il Fiano fosse già apprezzato e conosciuto: nei racconti di Federico II di Svevia c’è un passaggio in cui si fa riferimento alla bontà dei vini della regione e all’ordine di ingenti quantità di Fiano e di Greco, altro vitigno e vino campano famosissimo. Testimonianze scritte del XIII secolo ci raccontano dell’ordine impartito da re Carlo II d’Angiò al proprio commissario di trovare 1600 viti di Fiano da spedire a Manfredonia, al fine di piantarle nelle proprie tenute. Il Fiano di Avellino D.O.C.G. è un vino bianco molto profumato e, infatti, si contraddistingue per il suo profumo fruttato fatto di  complessi ed eleganti di misture agrumi, di pera, di mela golden, con delicati sentori di frutta secca e con tipiche sensazioni acide e minerali, mentre in bocca è fresco, equilibrato, avvolgente e coinvolgente. presenta ntosi con caratteristiche aromatiche definite ed inconfondibili, con sentori di mandorle tostate. Si tratta di un vino versatile capace di esaltare tanti piatti sia a base di pesce sia a base di carne bianca . Eccellente anche il suo abbinamento con piatti di pasta al pesto e con formaggi a pasta morbida. Spettacolare il suo abbinamento con la mozzarella di bufala . Si tratta insomma di un prodotto di grande rilievo per l’enologia italiana la cui  zona di produzione comprende ventisei comuni localizzati nel cuore della provincia di Avellino tutti vocati per questa coltura

Il Greco di tufo è un vino certificato DOCG. da sempre conosciuto come un vino particolarmente pregiato, rispettato per la sua storia, per la sua antica tradizione e per la capacità del suo vitigno di svilupparsi su terreni vulcanici, per molto tempo considerati troppo selvaggi per la vite. Pensate che la zona dell’Irpinia fu nominata così dai Romani, dal sabino “hirpus”, “lupo”, un animale selvaggio come i terreni dove coltivare il “Greco” . Esso viene  prodotto in provincia di Avellino, nella località di Tufo, di Montefusco, di Altavilla Irpina e di Petruro Irpino.  Si tratta di uno dei più importanti vini bianchi della Campania prodotto in provincia di Avellino che secondo numerose testimonianze venne  importato dalla Tessaglia dai colonizzatori Greci. E’  vino che ha quindi origini antiche e lo attesta il ritrovamento a Pompei di un affresco appartenente al I secolo a.C., dove veniva espressamente nominato il “vino greco”, la cui coltivazione avvenne inizialmente ai piedi del Vesuvio, per poi diffondersi ad Avellino. Questo non è la sola testimonianza, ne parlava anche Plinio il Vecchio, il quale diceva ‘In verità il vino Greco era così pregiato, che nei banchetti veniva versato solo una volta‘,  facendo riferimento all’alto valore di questo vino, molto amato per il suo gusto delicato . Di colore.giallo paglierino più o meno intenso; odore: gradevole, fine, caratteristico; sapore: fresco, secco, armonico; sentori: agrumi, fiori di ginestra e mela , è  un vino indicato per essere gustato con aperitivo oppure con antipasti freddi. ed è certamente indicato per piatti a base di pesce , frutti di mare , calamari, vongole, cozze oppure piatti di carne bianca e con la mozzarella di bufala . Il Greco di Tufo inoltre  è una delle poche varietà di vino bianco con un’elevata propensione all’invecchiamento e con grande capacità di resistere alle ingiurie del tempo restando giovane per diversi anni. C’è chi sostiene che la sua massima espressione si ottiene dopo 3 anni circa e chi, addirittura, ritiene che questo vino è in grado di invecchiare fino a 10 anni. Una certa confusione ha identificato per anni il locale vino ” caprettone ”  biotipo della coda di volpe. In tempi recenti le analisi sul vino  hanno invece evidenziato come in realtà si tratti di due vitigni distinti. Il vino Greco viene oggi  prodotto in un area limitata, estremamente vocata che comprende otto comuni tutti della provincia di Avellino.

 

Falanghina del Sannio è un vino DOC campano prodotto in provincia di Benevento. Ha un odore fruttato e ha un sapore leggermente vivace. Esso prende il nome dai pali , detti falanghe , utilizzati per sostenere i vigorosi tralci delle vite. Si tratta di un vino molto antico  contemporaneo probabilmente agl’altri autoctoni della medesima zona, come il Greco e Coda di Volpe, risalenti al I secolo a.C. Presente nell’intero territorio della provincia di Benevento, distingue quattro sottozone tipiche:  Solopaca , Guardia Sanframont io Guardiolo, Taburno,Sant’Agata dei Goti .Esso  è un vino di colore  giallo , mediamente intenso  e  moderatamente fruttato . In bocca risulta  secco , fresco  ai limiti dell’ acidulo . La sua limpidezza può trarre in inganno, trattandosi di un bianco dalla buona personalità che non sfigura accanto ai più celebrati e conterranei. Mostra le migliori virtù in abbinamento con i piatti di pesce, specie quelli a tendenza dolce e con i crostacei.

 

L’ Aglianico del Taburno è un vino Campano DOC. Viene prodotto nella provincia di Benevento. E’ un vino di colore rosso intenso e ha un sapore piuttosto asciutto. Si tratta di un vino sempre di origini greche  il cui nome sembra derivare proprio da ” Hellenicus “.La Denominazione DOC non si riferisce ad un singolo vino, ma ne comprende diversi anche se fino al 2011 indicava un prodotto enologico della provincia di Benevento. Le uve destinate alla produzione di questi vini devono essere coltivate nei comuni di Apollosa, Bonea, Campoli del Monte Taburno, Castelpoto, Foglianise, Montesarchio, Paupisi, Torrecuso, Ponte, Cautano, Vitulano e Tocco Caudio. L’origine di questa vite è antica e risale al secondo secolo a.C. Queste uve meridionali arrivano dalla Antica Grecia e si sono acclimatate perfettamente nelle zone di Avellino e Benevento. Questa denominazione è riservata ad una cerchia di vini rosso, rosso riserva e rosato prodotti con Aglianico all’85% e altre uve a bacca nera sempre della Campania.Esso servito ad una temperatura di 18 °C  si abbina perfettamente con le carni sia bianche che rosse, il pollame nobile, la selvaggina e le ricette elaborate. Il nome originario (Elleanico o Ellenico) divenne Aglianico durante la dominazione aragonese nel corso del XV secolo, a causa della doppia l pronunciata gli nell’uso fonetico spagnolo.

Il Pallagrello bianco è un vitigno a bacca bianco prodotto in Campania.che anticamente  fu considerato come un sinonimo della coda di una volpe bianca. I suoi  vitigni infatti avevano una forma che ricordava la coda di una volpe. Il vitigno è originario dell’area di  Casertae ne esiste anche una varietà a bacca nera. Ha grappoli piccoli e acini perfettamente sferici, da cui il nome  Pallagrello , cioè piccola palla,  in dialetto locale “U Pallarel”. Il nome potrebbe anche provenire dal  pagliarello , il graticcio di paglia dove l’uva veniva tradizionalmente posta ad appassire. La sua provenienza risale presumibilmente alla colonizzazione Greca, la cui tradizione fu poi proseguita poi dai romani. Esso ha un colore giallo paglierino con profumi di mela, ananas, melone, il gusto è equilibrato e di buona persistenza aromatica.

 

Il Taurasi è uno  dei vini rossi più apprezzati in Italia . Si tratta di un vino certificato DOCG che viene prodotto ad Avellino.con uve di Aglianico. Esso si ottiene dal miglior vitigno dell’antichità , cioè la Vitis Hellenica ed è uno dei pochissimi vini italiani meritevoli di lunghissimo invecchiamento . Questo vitigno necessita infatti di un periodo di invecchiamento di almeno 3 anni in botti di legno, mentre assume la qualifica “Riserva”, dopo oltre 4 anni di invecchiamento obbligatorio e 18 mesi in botte. Il suo odore è molto intenso e l’odoro è asciutto ma al contempo armonico. Il suo colore è rubino granato ed il suo sapore ben strutturato e spesso tannico , sapido ed equilibrato. E’ in genere ben abbinato a cibi dotati di buon spessore aromatico come primi piatti al sugo di carne, selvaggina, carni rosse arrosto, formaggi a pasta dura stagionati.  La varietà Riserva è un vino da meditazione da servire alla temperatura di 18°C. e va in genere   abbinato a secondi piatti molto saporiti come carni rosse cotte a lungo in intingolo o nel vino, selvaggina marinata e cotta in casseruola.Si tratta del  primo vino del sud a cui è stata conferita la Denominazione di Origine Controllata e Garantita, massimo riconoscimento che può essere attribuito ad un vino. Il nome Taurasi trae origine dalla storica e antica cittadina Taurasia, distrutta dai Romani nel 268 AC. In questa cittadina  I Romani trasferirono una popolazione di Liguri-Apuani, di stirpe celtica e questi, trovando delle zone molto fertili, riprendono la coltivazione dei campi e della vite cosiddetta “greca”. Mentre nel 42 a.C. Dopo la battaglia di Filippi in Macedonia, il territorio di Taurasia viene assegnato ai soldati romani veterani che vinificano la “vitis ellenica” da loro portata dalla Macedonia.. Attualmente il Taurasiè prodotto in un’area di tradizione vitivinicola, che comprende diciassette comuni.Si tratta insomma di un vino dalle caratteristiche superiori, per una complessa aromatica, per un gusto vellutato, pieno, ed elegante, per i profumi intensi e delicati.

Il Capri bianco è un altro vino che rientra nella classifica dei vini più famosi campani. Questo vino campano, che fino agli anni ’60 dello scorso secolo, veniva prodotto con uva che proveniva esclusivamente dall’isola di Capri, ha  un tasso alcolemico pari all’11%, con  un sapore fresco oltre che un profumo molto gradevole. I vitigni bianchi utilizzati per la produzione del Capri DOC sono due classicissimi della Campania: il Falanghina e il Greco. A volte nell’assemblaggio viene incluso anche il Biancolella, altra uva autoctona presente sulle isole e in provincia di Napoli, molto apprezzata. Il rigido disciplinare prevede la presenza di Falanghina e Greco per un minimo del 80% di cui la Falanghina deve essere presente per un minimo del 50%. A questo assemblaggio si può aggiungere anche il Biancolella fino ad un massimo del 20% . Si tratta di un buon vino e dalle caratteristiche forti .. Secondo gli antropologi gli inizi della viticoltura caprese risalgono a tremila anni fa. Vino antichissimo, apprezzato dai romani e lodato dall’imperatore Tiberio che aveva scelto Capri come sua dimora, e che per la sua passione enologica, si era guadagnato il soprannome di Biberio. Attualmente le viti sono allevate, nel rispetto delle tecniche culturali tradizionali su assolati ripiani a picco sul mare. E’ prodotto in limitate quantità, ottenuto dalla vinificazione di uve locali di grande pregio: Falanghina, Greco, e la Biancolella per il tipo bianco, e Piedirosso per il tipo rosso.

 

Il Galluccio, la cui  zona di produzione  comprende cinque comunni dominati dal vulcano spento di Roccamonfina . Egli  con la sua attività eruttiva, ha reso i terreni, per struttura e composizione, particolarmente vocati alla coltivazione dei vitigni, inoltre la ricchezza di micro elementi, di potassio dei depositi lavici, conferiscono alle uve, e dunque ai vini, profumi intensi e delicati. La base ampelografica è costituita da vitigni autoctoni di grande pregio, come l’aglianico per i vini rossi e rosato, la falanghina per i vini di tipo bianco.

 

L’ Aversa Asprinio è un vitigno DOC che viene prodotto in provincia di Aversa. Caratterizzato da un sapore fresco e da un odore fruttato, questo vino ha una gradazione alcolica pari all’11,5% , Si tratta di un vino di antiche tradizioni, la cui origine risalirebbe secondo molti alla dominazione degli Angioini del Regno di Napoli del XIII secolo. Pare infatti che sarebbe stato Roberto d’Angiò  a chiedere al cantiniere della Casa Reale Louis Pierrefeu di scegliere un luogo nella campagna napoletana per piantare un vigneto per produrre uno spumante per la Corte Angioina, senza dover far arrivare lo Champagne dalla Francia. Pierrefeu scelse il terroir tufaceo di origine vulcanica dell’agro aversano e un vitigno, forse lontano parente dei Pinot, che riteneva particolarmente adatto alla spumantizzazione. L’intuizione si rivelò corretta e la coltivazione, secondo il metodo etrusco delle viti maritate, ha nel tempo  fatto dell’Asprinio un’eccellenza del territorio campano, capace di deliziare i palati più raffinati ed esigenti, dai tempi della Corte Reale di Napoli fino ai nostri giorni. Gli etruschi, al contrario dei romani che erano soliti coltivare la vite ad alberello ,sfruttavano come il metodo di coltivazione della vite, la caratteristica di pianta rampicante della vitis vinifera appoggiandola agli alberi, che fungevano così da sostegno naturale ( cosidetta alberata di origine etrusca )  Ancora oggi nelle campagne di Aversa si è conservata questa tradizione particolarissima. Le viti sono “maritate” ai pioppi e salgono fino a 15/20 metri d’altezza. A vederle sono Vigne veramente straordinarie, che conservano la secolare memoria della coltivazione dell’uva da parte delle popolazioni etrusche. Si tratta di Viti antiche e storiche, che formano filari con alte barriere verdi colme di grappoli. Uno spettacolo unico al mondo. La vendemmia avviene con lunghe scale appoggiate agli alberi: un lavoro da esperti equilibristi. L’Asprino  spesso affinato nelle grotte di tufo che conservano una temperatura costante di 12/14° in tutte le stagioni dell’anno, come dice il nome, è un vino che spicca per una vivace freschezza. Di colore giallo paglierino con riflessi verdolini, è un vino molto secco, con note citrine, agrumate, minerali e lievemente mandorlate. Lo spumante, prodotto sia con metodo classico, che con il metodo charmat, è connotato da un’acidità tagliente e da una piacevole nota minerale. Tra gli abbinamenti gastronomici tradizionali spicca quello con la mozzarella di bufala d’Aversa e prosciutto. Ottimo con le fritture di scoglio, con i crostacei, le insalate di mare e piatti di pesce non troppo strutturati. La versione spumante è piacevole come aperitivo e per accompagnare gli antipasti e i fritti di mare. Le caratteristiche fisiologiche del vitigno Asprino, coltivato solo nella zona aversana, ne fanno, oltre ad un vino “ allegro, leggero, brioso”  uno spumante elegante, eccezionalmente buono, molto ricercato per la sua naturale freschezza. L’area di produzione include ventidue comuni, ricadenti nelle province di Caserta e di Napoli.

Il Lacrima Christi , il noto vino vesuviano prodotto alle pendici del Vesuvio , ha un nome che ci riporta al diavolo Lucifero che decise di portare all’inferno un pezzo del Paradiso terrestre e ovviamente scelse il golfo di Napoli . Ma quando Gesù Cristo si accorse che aveva scelto proprio l’area vesuviana , pianse copiosamente . E dalle lacrime di Cristo nacquero le vigne che produrranno poi il vino . In realta il nome si dovrebbe ai frati gesuiti che avevano vigneti alle falde del Vesuvio . Per fare il loro vino questi gesuiti preferivano attendere che le uve passassero il grado perfetto di maturazione ; amavano cioe le uve tardive chiamate ” appassiulatelle ” . Ovviamente da queste uve veniva fuori un liquido scarso , appena una lacrima … e così il vino ottenuto si chiamò lacrima mentre il Cristo veniva fuori dal nome del convento gesuita. Esso è uni dei più famosi vini bianchi campani a denominazione controllata Ha un bel colore giallo paglierino chiaro e si distingue per una mineralità particolare. È un vino bianco fresco e fruttato, perfetto con gli antipasti e i piatti di mare e i secondi di carne bianca.La sua versione rossa invece ha un bel colore rosso rubino e un carattere deciso e rotondo, dato dall’unione di Piedirosso (noto come Per e’ Palummo) e Aglianico (le stesse uve usate per il Lacryma Christi rosato), ed è perfetto con i ragù e gli intigoli di carne.

Il Falerno del Massico che come vi abbiamo detto fu fortemente apprezzato  fin dall’antichità, dagli antichi romani che lo usavano conservarlo in anfore da tappi chiusi muniti di targhette (pittacium) che ne garantivano l’origine e l’annata. è oggi una delle perle della enologia italiana. Dal sapore pieno, elegante, nei tipi rossi, ottenuto da uve Aglianico e Primitivo, fresco e aromatico, nel tipo bianco, derivante da uve Falangina, esso è prodotto in un’area limitata di 5 comuni tutti in provincia di Caserta.

Il Guardiolo. è un vino tra i più interessanti della viticoltura beneventana..  La  sua zona di produzione  include quattro comuni tutti intensamente vitati, il cuore cioè della viticoltura sannita.  Nel disciplinare di produzione rientrano gli stessi vitigni della D.O.C. Solopaca.

 

 

Il  Solopaca DOC è vino che estende la sua area di produzione nel Beneventano  e comprende i territori dei comuni de i Cerreto Sannita, Melizzano e naturalmente Solopaca. La DOC prevede la versione bianco e rossa. Il bianco è vinificato con falangina, malvasia di Candia, Coda di Volpe ed altri vitigni locali. Il Rosso nasce da un uvaggio complesso che comprende Sangiovese, Piedirosso, Aglianico, Sciascinoso ed altri vitigni tradizionali della zona.

Il  Taburno nasce da  tredici Comuni collocati sulle pendici del monte Taburno, ricoperte da vigneti ed oliveti. Da essi  si ottengono  vini di grande pregio che  per  tecniche di coltivazione è  simile alla zona del Solopaca. Da quest’ultimo si differenzia la composizione ampelografica imperniata in particolare sull’aglianico per la produzione dei rossi. Inoltre i vini di questa doc comprendono anche greco, falanghina,coda di volpe, per i bianchi.

I vini del  Sannio istituiti sotto la sigla la d.o.c. Sannio , sono Localizzati  interamente nel territorio beneventano. L’aria di produzione è quella collinare, a maggiore vocazione della provincia di Benevento. Nelle tipologie bianco, rosato, e rosso, si prevedono gli stessi vitigni del Solopaca DOC.

Il vino di  Sant’ Agata dei Goti è uno dei piccoli grandi vini di cui la Campania è ricca. Nasce da un’antica tradizione ed è ottenuto da vigneti ben esposti su terreni particolarmente vocati. Nell’area del DOC Sant’Agata sono stati coltivati i vitigni che hanno rappresentato la storia enologica della Campania: il greca, il piedirosso, l’aglianico, la falanghina. Ed è proprio nei vigneti di quest’area che è avvenuta la riscoperta della falangina, vitigno autoctono che, malgrado la sua storia antica era stato trascurato al punto di rischiare la sua scomparsa.

Il vino  Ischia d.o.c. dal 1966 è tra i primi vini italiani a Denominazione d’Origine Controllata. La zona di produzione coincide con i confini dell’isola d’Ischia dove la vite fu introdotta dagli antiche greci provenienti dalla Calcide. Si tratta di una antica colonia greca, nota con il nome Petecusa., cioè “Terra dei vasai”, produttori di anfore. In alcune aree la vite è allevata secondo forme arcaiche, strettamente vincolate alla tradizione; si ottiene da uve Biancolella, Forastera e Pere palammo  allevate solo in Campania e sapientemente vinificate con tecnologie moderne.

I vini della  Penisola Sorrentina derivano dalle tre sottozone, Sorrento, Gragnano e Lettere, che dal 1994  sono state riunite nella Doc Penisola Sorrentina.: Gragnano e Lettere, nella tipologia rosso frizzante e Sorrento, nella versione Bianco e Rosso. Il territorio relativo a tale denominazione comprende il comune di Castellammare di Stabia, sale verso i Monti Lattari fino a raggiungere il promontorio di Punta Campanella. Le varietà impegnate per la produzione doc Gragnano e Lettere sono: piedirosso, scancinoso, aglianico, ed altri vitigni locali. Infine per il bianco le varietà utilizzate sono falangina, biancolella, e/o greco

I vini del  Vesuvio hanno una coltivazione della vite alle pendici del  Vesuvio che risale addirittura  risale al V secolo a.C. Secondo Aristotele furono i Tessali, antico popolo della Magna Grecia, a piantare i primi vitigni nella zona vesuviana.  Si tratta di magnifici vitigni disposti sulle pendici del monte, su terreni di natura vulcanica, legati alle vicende dell’area vesuviana che periodicamente hanno danneggiato questa produzione vinicola fino alla disastrosa eruzione del 1944. Da allora, si è avviato un recupero lento ma continuo fino ad arrivare alla d.o.c. Vesuvio, che se, raggiunge una gradazione non superiore a 12 gradi si può fregiare della dizione Lacrima Christi del Vesuvio

 

Il vini dei Campi Flegrei deriva da uno dei più apprezzati prodotti dell’antichità  (il falerno Giurano,) che venne  inserito nella carta dei vini della corte di Napoli e di quella papale. Il clima, il terreno, i vitigni, la cultura, la storia vitivinicola, le basse rese ad ettaro, la presenza di aziende enologhe, tecnologicamente all’avanguardia, ma rispettose della tradizione,ne fanno un vino di grande tradizione e storia. La zona di produzione in cui i vitigni sono, cosa molto rara, ancora allevati su piede franco, include sette comuni, tutti in prossimità di Napoli ed è un’area tra le più ricche per cultura e bellezze naturali; i terreni che derivano dall’incessante succedersi di eruzioni vulcaniche e che, oggi, si adagiano su crateri spenti sono ricchi di ceneri, lapilli, tufi microelementi che conferiscono alle uve e ai vini sapori e aromi del tutto originali.

I vini della Costa D’Amalfi:  da questo territorio, caratterizzato da terrazze, enormi scalini, dove predominano coltivazioni a vigna e limone e dove i gusti e i profumi degli agrumi e della flora mediterranea si mescolano con gli odori del mare, si ottengono i vini della Costa D’Amalfi. Il disciplinare di produzione prevede tre sottosezioni: Furore, Ravello, Tramonti.

Prima di concludere la rassegna dei nostri più famosi vini , mi sembra doveroso anche un  tributo  ad un vino  prodotto nei comuni di San Sebastiano al Vesuvio, Massa di Somma, Cercola, Pollena Trocchia, Sant’Anastasia, Somma Vesuviana, Ottaviano, San Giuseppe Vesuviano e Terzigno.

Tutti territori che come vedete caratterizzano il territorio del Monte Somma , parte residuale dell’originario “Somma Vesuvio”, collassato a seguito di millenni di eruzioni ( culminate in quella del 79 d.C. ) estremamente ricchi di minerali, e capaci quindi di  donare  all’uva una connotazione del tutto particolare.

Il  famoso vino uvio, dal grappolo rado, dgli acini rotondeggianti e la buccia dorata, spessa e croccante, è denominato ” Catalanesca ” perchè fu portata a Napoli dalla Catalogna da Alfonso I di Aragona nel XV secolo ed impiantata alle pendici del Monte Somma, tra Somma Vesuviana e Terzigno, dove attecchì perfettamente.

L’uva di questi vitigni , per molti anni catalogata dai registri ampelografici come uva da tavola, per tale motivo non poteva essere vinificata  e commercializzarla come uva da vino, nonostante da sempre i contadini locali, consci delle sue qualità, avessero in uso di trasformarla in vino. Ne sono testimonianza gli enormi torchi vinari risalenti al ‘600, facilmente reperibili negli antichi cellai delle masserie della zona, ricavati da tronchi di mastodontici alberi di quercia, da cui assunsero la denominazione dialettale di “cercole”.

N.B. La Catalanesca ha assunto  ufficialmente il rango di uva da vino solo nel 2006 quando è stata inserita  nell’elenco delle uve da vino  ,mentra  dal 2011 è stata anche messa in commercio con la tanto attesa ed agognata denominazione “Catalanesca del Monte Somma IGT”.

Denominato anche come vino ” caprettone “, esso è un vino bianco dal grado alcolico di 13,00% , di colore giallo pagliarino caratterizzato dall’odore intenso e fruttato che in genere, servito a 8-10 °C , accompagne tutti i piatti di pesce e di molluschi.

Ovviamante vi abbiamo elencato i principali vini campani e volutamente non vi abbiamo elencato le varie case vinicole per non far torto ad alcuna visto che sono tutte molto brave e ben  organizzate

In merito a tutto questo è comunque doveroso aprire una piccola parentesi inerente al grand cru più famoso del mondo latino: il celebre Falerno. Si tratta in assoluto del vino maggiormente citato e decantato da gran parte delle fonti romane, assumendo una fama assimilabile a quella di alcune delle grandi etichette di oggi, un vero  status symbol) dell’epoca. Il Falerno, all’epoca come oggi, si produceva lungo le pendici del Massico, in Campania.

Il vitigno dell’epoca, almeno per la versione bianca, è stato sostituito nei nostri giorni da un uvaggio 100% falanghina. Rimane il fatto che le particolari condizioni climatiche, la grande cultura viticola della zona campana e la massiccia espansione delle villae rusticae nel Massico portarono allo sviluppo di un vino di eccellenza, a partire dalla coltura dell’uva fino alla sua lavorazione e conservazione.

IL FALERNO DELL’EPOCA ERA CARISSIMO E NON TUTTI POTEVANO PERMETTERSELO :

Image for post

N.B. Il Falerno bianco , tanto decantato migliaia di anni fa da poeti e scrittori latini, era un vino prodotto sopratutto nell’area oggi corrispondente all’alto casertano.

Per concludere come avete avuto modo di vedere la   nostra terra e tutta la Campania vanta una tradizione vitinicola risalente addirittura alla colonizzazione magno greca dell’VIII secolo a.C. quando i greci portarono con se dalla madrepatria grandi vitigni quali il Falerno e il greco . Esso ha poi  raggiunto il suo massimo apice di popolarità  in epoca romana dove riuscì non solo a conquistare la predilezione degli imperatori ma anche quello dei mercati esteri. Dal porto di Pozzuoli, il Falerno, il Caleno, il Faustiniano, “i vini degli imperatori” , vennero infatti esportati con gran successo in tutto il mondo. 

L’antica tradizione dei nostri metodi di coltivazione e le raffinate tecniche di sempre più qualificate aziende vinicole,  ancora oggi , a distanza di tanti secoli , mantengono alto il nome dei nostri vini ponendo il  territorio campano   tra i primi centri di produzione ,  di coltivazione, e di studio della vite e del vino nel mondo .

 




 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  • 3191
  • 0