Nacque nel 1394 e alla morte del padre Ferdinando nel 1416 ereditò l’Aragona, la Sardegna e la Sicilia. Quando nel 1442 conquistò Napoli divenne uno dei sovrani più potenti dell’epoca.
Sposato a Maria di Castiglia che non amava e da cui non ebbe figli, si innamorò più tardi all’eta di 44 anni di Lucrezia d’Alagno, una nobildonna appartenente ad una famiglia patrizia di Amalfi.
La relazione fu profonda e duratura fino alla morte del re, tanto da indurre Lucrezia, invano, a recarsi ufficialmente dal papa per perorare la separazione del re dalla moglie.
La conquista della città di Napoli non fu facile ed i suoi assedi durarono per lunghi quattro anni durante i quali, ad un certo punto essa dovette apparire inespugnabile. Quando finalmente riuscì a conquistarla pare egli abbia cosi esclamato: < O città, quanto mi costi, per la grande mia sfortuna! Tu mi costi duchi e conti e uomini di gran valore; tu mi costi un fratello ch’io tenevo come un figlio, tu mi costi ventidue anni, il fiore della mia vita; che, in te, sulle guance mi spuntò la barba, in te, mi s’e fatta canuta!>.
Questo per dire quanto aveva dovuto combattere e soffrire per portare a termine la sua conquista e quanto di conseguenza aveva fatto soffrire al popolo della città la fame e la miseria con i suoi continui attacchi iniziati sotto il regno di Giovanna II e terminati sotto il regno di Renato d’Angiò.
La città uscì devastata e distrutta dalla lunga guerra mentre la popolazione era decimata e terrorizzata. I bombardamenti, le carestie, i combattimenti ed il saccheggio finale, avevano distrutti molti borghi e quasi tutte le case erano diroccate dal fuoco.
La situazione era avvilente. Le finanze erano inesistenti e la miseria affliggeva il regno perchè la guerra aveva bloccato il commercio, la stasi dell’artigianato e l’abbandono dell’agricoltura. I nuovi arrivati per altro non erano granchè simpatici ai napoletani.
I militari aragonesi infatti ebbero sempre un atteggiamento arrogante e prepotente con il popolo napoletano, non mancarono alla loro entrata in città di uccidere, saccheggiare ed infine bruciare quanto più possibile.
Alfonso condannò con decisione tale comportamento delle sue truppe, punendo addirittura con la pena di morte i colpevoli ma ciò non bastò a lenire l’astio dei napoletani contro i catalani ed il nome “catalano ” divenne sinonimo di nemico.
Pertanto, nonostante il suo gran prodigarsi, Alfonso non fu molto amato dai napoletani, un pò perchè ricordavano sempre le sofferenze subite per causa sua, ed un pò proprio perché era sempre circondato da collaboratori catalani.
Tutti gli uffici della corte erano infatti dominati da connazionali del sovrano i quali occupavano i posti più retribuiti, mentre i napoletani avevano solo cariche onorifiche.
Questo stato di cose comportò un continuo malcontento ed una crescente insofferenza in tutti gli strati della cittadinanza ed Alfonso fu sempre e comunque solo uno straniero che a malapena parlava la loro lingua.
Eppure egli si diede un gran da fare per ricostruire ed abbellire la città e passò alla storia con il soprannome di “Magnanimo” proprio per le ingenti somme di denaro profuse per dare un aspetto più decoroso alla capitale del suo nuovo regno.
Al suo insediamento trovò la la città completamente distrutta ed egli spese grosse somme di denaro per ricostruirla più bella ed elegante di prima facendola diventare una delle principali capitali rinascimentali d’Italia, come possiamo ammirare nella famosa ‘ Tavola Strozzi’ di autore ignoto (rinvenuta nel palazzo Strozzi di Firenze) oggi conservata nel Museo Nazionale di San Martino.
La città per un certo periodo di tempo fu un cantiere aperto: restaurò l’acquedotto, bonificò le zone paludose dei borghi, pavimentò le strade e ampliò la città verso la parte antica circoscrivendola con una murazione di 22 torti cilindriche ( tale spostamento delle mura presso Castel Capuano poi comportò la costruzione di Porta Capuana), riattò l’arsenale, restaurò la grotta di Cocceio, e fece integralmente trasformare Castelnuovo che fu abbellito con il magnifico Arco di Trionfo che è considerata una delle più belle opere del Rinascimento.
L’arco marmoreo fu fatto costruire per eternare il suo successo nella conquista della città e riproduce nelle sculture i motivi ed i particolari della celebrazione del Trionfo di Alfonso.
La sua costruzione e collocazione avvenne in un primo momento in Piazza Mercato e la sua struttura era in legno dipinto e dorato e solo successivamente fu fatto in marmo e collocato tra le due torri di Castelnuovo.
Alcuni mesi dopo la conquista del regno, Alfonso, per impressionare la fantasia popolare e gli ambasciatori degli stati esteri, volle inscenare un clamoroso e fantasmagorico ingresso nella capitale. La scenografia dell’evento fu improntata allo stile dei trionfi dell’antica Roma: il suo ingresso da vincitore a Napoli avvenne su un carro attraverso un varco aperto nelle mura abbattute del Carmine ( per permettere l’ingresso del carro si dovettero abbattere 18 metri di mura) e la sua entrata in città fu scenograficamente ‘costruita’ come un vero trionfo alla maniera degli imperatori romani.
I lavori di ristrutturazione del castello che divenne a 5 torri come lo vediamo oggi furono affidati all’architetto Guglielmo Sagrera fatto venire appositamente da Maiorca nel 1450.
Nel castello fu costruita tra le altre cose la grandiosa Gran Sala ribattezzata anni dopo sotto re Ferrante “la sala dei baroni” in quanto il sovrano in essa con inganno riunì tutti i baroni che gli si erano rivoltati contro e li fece arrestare.
Vi fu anche una fervida edilizia intrapresa dall’aristocrazia napoletana che scelse per le proprie abitazioni il luogo del decumano inferiore ed in particolare la zona del seggio del Nilo che insieme a quella del seggio di Capuana, accoglieva la nobiltà più antiche.
Le nobiltà di recente formazione abitava invece nei seggi di Montagna, Porto e Portanova.
Sorsero così a Napoli palazzi bellissimi che ancora oggi possiamo ammirare come: Palazzo Beccacelli ( detto ‘ del Panormita ) , il Palazzo di Maddaloni , il Palazzo Marigliano , il Palazzo Orsini di Gravina ( sede oggi della facoltà di Architettura ) ed il Palazzo Sanseverino appartenente al barone più potente del regno, Roberto Sanseverino, principe di Salerno.
Di quest’ ultimo palazzo resta oggi solo la facciata ( in bugnato a punta di diamante ) in quanto una volta acquistato dai Gesuiti questi poi lo trasformarono in una chiesa lasciando del vecchio palazzo la sola facciata esterna. Divenne così la chiesa del Gesù Nuovo dedicata all’Immacolata.
Durante il suo regno avvenne anche l’abbattimento del seggio del popolo alla Selleria, corrispondente oggi ad una parte dell’attuale Piazza Nicola Amore, ufficialmente per allargare la strada. Molte voci invece indicarono la ragione dell’abbattimento dell’edificio solo perchè dava fastidio al vicino palazzo di Lucrezia d’Alagno, la bellissima e giovane favorita del re Alfonso.
Ambizioso e desideroso di potere, aveva sempre bisogno di denaro e per procurarselo non esitò a porre nuove imposte che resero insoddisfatti particolarmente i baroni del Regno che gli si rivoltarono contro disubbidendo.
Fu infatti costretto più volte ad inviare truppe armate per costringerli alla sottomissione.
Si sforzò comunque di mantenere la pace e di non portare ulteriori guerre al già provato popolo e durante il suo regno Napoli fu tranquilla poichè ebbe il merito di portare tutti gli eventi bellici che si succedettero lontani dalla città.
Con l’arrivo di Alfonso e il periodo pacifico che caratterizzò il suo regno ci fu una notevole ripresa economica grazie anche sopratutto all’industria della lana e della seta che furono in quel periodo particolarmente rigogliose dando da vivere a quasi la metà della popolazione.
Amico e protettore di poeti, musicisti e umanisti, fu elogiato dai contemporanei come sovrano illuminato e generoso, che seppe fare del regno un centro artistico e culturale tra i primi in Europa; egli spese molto danaro per il mantenimento a corte di numerosi artisti e letterati dei quali lui amava circondarsi. La sua corte fu il punto di incontro di alcuni dei più illustri umanisti del tempo: Lorenzo Valla, Antonio Beccadelli detto ‘ il Panormita ‘, Giovanni Pontano, Jacopo Sannazzaro, Pietro Summonte sono solo alcuni dei grandi personaggi che frequentarono a sue spese la sua corte.
Costituì una importante e imponente biblioteca e favorì la nascita dell’Accademia fondata dal Beccadelli.
Antonio Beccadelli, detto ” il Panormita ” per la sua città natale, ( nacque a Palermo ) fondò a Napoli la prima accademia italiana chiamata Porticus Antoniana che poi in onore del suo successore, Giovanni Pontano, fu chiamata ” Pontaniana “.
La critica moderna fa carico ad Alfonso di aver impoverito Catalogna e Aragona per realizzare le conquiste italiane e lo accusa di aver provocato la separazione del Regno di Napoli da quello di Aragona, da lui lasciati rispettivamente al figlio Ferdinando e al fratello Giovanni.
Lasciava infatti l’Aragona, la Sardegna e la Sicilia al fratello Giovanni ed il regno di Napoli al figlio naturale Ferrante che aveva fatto riconoscere come suo legittimo successore ed erede. Nel testamento che aveva dettato il giorno prima di morire, raccomandava al figlio di sostituire i funzionari spagnoli con napoletani, di alleggerire il popolo dalla pressione fiscale e di cercare la pace con gli stati d’Italia.
Morì il 27 giugno 1458 nel Castel dell’Ovo dove il giorno prima si era fatto trasportare. Aveva 65 anni e si era ammalato il mese precedente di malaria..La notizia della morte del re si diffuse rapidamente in una città smarrita, ancora impaurita dalle recenti guerre e spopolata dalla peste. Alcuni biografi di Alfonso riportano che il sovrano, dopo essersi fatto capovolgere per potere osservare il crocifisso posto a capo del letto, assistette agonizzante, per oltre due ore, al tentativo di una schiera di demoni di aggiudicarsi la sua anima. «Fu la Vergine a strapparlo al maligno, grazie alle preghiere che Alfonso le aveva rivolto in vita. Così il re poté comunicare ai frati la sua prossima dipartita: In brevi transmigrabo ad dominum». (Francesco Senatore, Le ultime parole di Alfonso il Magnanimo).
Le sue spoglie riposarono per qualche tempo in un sepolcro posto nella sagrestia della trecentesca chiesa di San Domenico insieme a quelle di altri re aragonesi imbalsamati fino al 1667, quando il vicerè don Pedro de Toledo, a differenza di quelle degli altri sovrani aragonesi , decise di traslarle in Spagna. Egli con la scusa di esaudire l’espressa volontà di Alfondo d’Aragona le fece quindi trasportare all’Abbazia di Santa Maria de Poblete in Catalogna ( ci rimane l’opera sepolcrale ). Ma per alcuni il vicerè volle trasportare quel sepolcro in Spagna solo perchè con sè il Mgnanimo , nella sua tomba pare potrebbe aver portato anche uno straordinario segreto: il segreto del Graal, il mitico calice con il quale Gesù celebrò l’Ultima Cena e nel quale Giuseppe d’Arimatea raccolse il sangue di Cristo dopo la sua crocifissione.
Un Calice di cui Alfonso aveva dichiarato più volte di esserne entrato in possesso. La leggenda vuole che quel mistico oggetto, che tanta passione ha acceso nei secoli, sarebbe stato donato dai monaci del convento di San Juan de la Pena alla corona aragonese. Nel 1424 Alfonso lo avrebbe portato nel suo palazzo reale a Valencia, per poi lasciarlo in pegno alla cattedrale, in cambio di un maxi-finanziamento per la sua campagna napoletana. E in quella cattedrale il Graal si troverebbe tuttora, all’interno della Cappella del Sacro Calice.
Ma secondo alcuni invece il calice , Alfonso lo ha portato invece con se a Napoli ed infine nella sua tomba che guarda caso è l’unica ad esere stata portata via ….quale segreto custodiva ?
Secondo alcuni storici pare che Alfonso fosse ossessionato dal sacro Graal che come sapete è stato identificato come il calice dell’Ultima cena e poi protagonista perenne prima dei cavalieri di re Artù e poi prezioso tesoro custodito secondo una leggenda dai misteriosi Templari.
Re Alfonso era un uomo di cultura, amante dei classici e dei poemi cavallereschi. Certo conosceva la leggenda del Graal così come descritta da Robert de Boron, con la sua trilogia romanzesca dedicata a Giuseppe d’Arimatea, alla Storia del Graal e a Merlino e Perceval, e certamente era a conoscenza che Galahad, figlio di Lancillotto, fosse l’unico cavaliere tanto puro da poter occupare, senza esserne ucciso, il seggio periglioso,cioè il tredicesimo trono della Tavola Rotonda di re Artù, destinato al solo cavaliere degno di ritrovare la sacra coppa.
Poichè pare che Alfonso sia riuscito a ritrovare questo calice e poi divenirne possessore , egli si sentivail nuovo Galahad e volle ricreare nel nostro Maschio Angioino una simbolica analogia fra il cavaliere e se stesso, celebrando il diritto di governare il Regno di Napoli come Galahad aveva acquistato il diritto di sedersi sulla tredicesima sedia alla corte di re Artù. Egli infatti fece rappresentare il «seggio periglioso», come un trono con al centro una fiamma, sui pavimenti e nell’arco trionfale all’ingresso del Maschio Angioino, dove noterete che egli appare gloriosamente seduto vestito delle sue insegne.
Ma queste insegne del calice se osservate con attenzione le ritroverete un pò ovunque nel castello .
Per tutto il periodo in cui fu sovrano a Napoli , Alfonso indossò anche un’armatura decorata con questo simbolo-talismano. Senza contare che alla base del Balcone del Trionfo, da cui il sovrano si affacciava sul cortile del castello, è scolpita una giara, l’emblema dell’Ordine della Giara, fondato dal padre di Alfonso, Ferdinando il Giusto: era sì una delle onorificenze più importanti del regno, ma anche una coppa ,appunto, il Sacro Graal.
Oltre al trono in fiamme e uno stupefacente balcone che, rovesciato, assume le sembianze di un grande calice , c’è un’altra misteriosa immagine che, nelle giornate più lunghe dell’anno, durante il solstizio d’estate, compare nella Sala dei Baroni, l’antica Sala del Trono, luogo di intrighi e congiure: un libro aperto, colpito dai raggi del sole. Raggi che penetrano dal finestrone più grande della stanza, sul lato ovest del cortile, «creando sul muro opposto, una sagoma ben definita, che ricorda la forma di un libro aperto e sale fino al centro della parete». Qual è il significato di questa immagine? Davvero siamo in presenza di un messaggio cifrato lasciato da re Alfonso? Gli appassionati della leggenda del Graal ne sono convinti. Così come sono convinti che l’antico Chastiau continui a nascondere segreti.