L’insegnante deve insegnare e per farlo serve una capacità empatica e comunicativa, la fascinazione. Se non apri il cuore, non apri nemmeno la testa delle persone.
Questa ci sembra la frase migliore per incominciare a parlare di Basilio Puoti , un uomo che ha dedicato la sua intera vita allo studio , alla scuola e sopratutto all’insegnamento .
Egli primogenito di sette figli , nacque a Napoli il 27 luglio 1782 da Nicola e da Maria Arcangela Palmieri,
La famiglia Puoti, originaria di Arienzo (Caserta), apparteneva alla cosiddetta nobiltà di toga. Essa era una famiglia patrizia e agiata, ed il padre , il marchese Puoti, con il tempo aveva ceduto la rappresentanza e l’indirizzo della casa a Giammaria, secondogenito, e dotto e onesto magistratoche da quel momento divenne , il vero marchese e il vero capo della famiglia. Il nostro Basilio, rimasto solo marchese onorario, si diede invece con molto ardore agli studi letterali . Fulcro della sua formazione, impartita da precettori privati, furono inizialmente il latino e le lettere italiane; tuttavia, gli interessi e le letture giovanili via via si allargarono a vari campi del sapere. Con grande dedizione approfondì quindi anche la conoscenza del greco, anche moderno.
In verità Basilio Puoti era inizialmente destinato alla carriera legale, ma a venticinque anni, dopo una malattia che lo mise in pericolo di vita, gli fu concesso dal padre di abbandonare gli studi di diritto e di dedicarsi esclusivamente a quelli letterari. Finì cosi per conoscere benissimo il latino, e meglio ancora il greco, ma nonostante questo la materia prediletta dei suoi studi rimasero le lettere italiane. pigliando posto accanto al Cesari, al Montone, al Giordani, al Perticari, al Fornaciari, al Paravia, e a tutti i benemeriti cittadini che si affaticavano a restituire la lingua nella sua purità.
Un forte influsso sulla sua educazione la esercitò lo zio Carlo, sacerdote e poi arcivescovo, che istillò nell’adolescente l’ammirazione per l’alto esempio di virtù laiche offerto da Domenico Cirillo e Mario Pagano, a cui aveva somministrato i conforti religiosi la notte prima dell’esecuzione, dopo la repressione della rivoluzione napoletana del 1799.
Durante il cosiddetto decennio francese , entrò poi anche in contatto con intellettuali impegnati nel processo riformistico, come Matteo Angelo Galdi, che gli fece assegnare l’incarico di ispettore onorario della Pubblica Istruzione.
N.B. Molto probabile che il Galdi , molto sensibile al rapporto tra istruzione e progresso civile, abbia esercitato con le sue idee illuministiche anche lui un importante influsso sulla riflessione pedagogica di Puoti.
Fu proprio durante questo incarico che si rese conto di quanto l’istruzione pubblica non era funzionale nel formare uomini di cultura. Allora infatti non ci erano regolamenti e programmi d’istruzione pubblica , e la laurea non era necessaria per professare la lingua italiana. La divisa del governo in fatto d’istruzione era questa: “non incaricarsene”.
Una sua sctittura a noi pervenuta ci racconta perfettamente lo stato di istruzione pubblica nella nostra città a quei tempi.
” Da professore del Collegio Militare, un giorno mi sfogavo col cappellano, e gli mostravo cosa ci era da fare per raddrizzare gli studi. Colui sentì: poi tutt’a un tratto mi prese per mano e mi disse: “Senti un consiglio d’amico, non te ne incaricare: il Re dice: -Più asini sono loro e più dotto sono io-”. Due anni dopo lo spiritoso cappellano fu nominato vescovo.
N.B. : Da allora il Puoti parlava con poca stima dei nobile e dei preti, come di gente ignorante e oziosa; il peccato non era il nascer patrizio o il divenir prete; il vero peccato era l’ignoranza.che affligeva la gente comune .Con questo sistema si riuscì ad imbarbarire le classi inferiori .Per ben capire la figura del Puoti bisogna innanzitutto capire la Napoli di quei tempi. I tempi politici in quel periodo erano invece sospettosi: impossibile ogni libertà di pensiero; inceppato ogni movimento letterario e scientifico. I giovani , sopratutto quelli appartenenti alle fasce sociali più aristocratichee si sentivano separati da un governo “incivile” e “oscurantista” .
A Napoli in quel periodo , in quanto capitale del regno , giungevano da quindici a ventimila studenti, ma poichè la laurea non era necessaria per ottenere un lavoro e la stessa non era neanche difficile da ottenere, il mondo giovanile era alquanto disinteressato alla cultura . I concorsi non tenevano conto ne della laurea , ne del voto conseguito e di conseguenza non rappresentavano certo una delle mete da raggiungere. La conseguenza di tale mancanza di ingegno e stima del sapere , fu un livello di ignoranza presente nel popolo e nella maggior parte dei cittadini mai forse salito ad un livello cosi alto .
Tutto questo però non valeva per i ceti sociali medio- alti dov’erano condensate in quel periodo tutte le forze intellettuali del paese . Essi infatti accorrevano in massa dove il livello degli studi era più alto e i principii più larghi, e sotto questo aspetto a farla da padrone erano proprio le scuole private ed in particolare quella tenuta da Basilio Puoti . Qui i giovani intravedevano tutto ciò che c’era di vivo e di nuovo nella cultura nazionale.
Nacque cosi in questo ambiente scolastico privato del Puoti quell’amore disinteressato della cultura che ancora oggi rappresenta il maggior titolo di gloria per una generazione, nonchè il segno più chiaro di una ristorazione filosofica e letteraria: in Napoli in quel periodo la cultura divenne perfino un’arma politica e uno strumento di opposizione. In città era infatti vietato parlar di libertà, ed il sistema governativo pur di deculturizzare il popolo per renderlo meno capace di ragionare, pensare , ragionare e quindi magari capace di ribellarsi aveva affidato la cultura prevalentemente nelle mani dei seminari che certo non parlava di di civiltà e di progresso. In questi posti la laurea non era difficile ottenerla e se vogliamo non era neanche tanto necessaria in società.
Ma ecco avvenire nella nostra città il grande miracolo …
Quello che ancora oggi , io ogni giorno mi aspetto da questa città.
Quello che ogni giorno mi auguro per il bene ed il futuro dei nostri luoghi e dei nostri figli.
I giovani studenti , riunitisi in città da quindici a ventimila, svilupparono da soli , il desiderio “disinteressato” della coltura , e l’amore per la scienza.
Napoli, capitale alla francese, dov’erano condensate tutte le forze intellettuali del paese, divenne un centro culturale dove si fecero lentamente largo nuove forze liberali che il governo almeno inizialmente sottovalutò . Esse furono l’anticamere di movimenti ben piu forti che animarono ed armarono nuove forze intellettuali.
La gioventù usciva dalle scuole con la coscienza della sua superiorità sopra quelli che erano i pubblici uffizi, considerati i più ignoranti, e si sentiva sempre più separata da un governo “incivile” e “oscurantista”.
Il governo di loro non se ne incaricava e meno il governo “se ne incaricava”, e più queste forze operavano e producevano. Questa fu la prima battaglia della nuova generazione contro il passato, in nome del progresso, della civiltà, della coltura, e la battaglia fu vinta senza cospirazioni e senza violenze, per la sola forza della pubblica opinione.
I giovani disertando una istruzione pubblica oscurantisca e poco liberale si rifugiarono quasi tutti in quelle scuole dove a fare il da padrone del campo,vi erano sopratutto un livello degli studi più alto e dei principi culturali più larghi . Essi rinnegarono quei studi pedanti o empirici ed incominciarono a frequentare dei corsi (peraltro gratuiti ) dove erano presenti nuove idee e nuovi modelli di cultura nazionale. Tra questi capeggiava la scuola che Basilio Puoti teneva in maniera gratuita nel suo bel palazzo nell’attuale Piazza Dante .
A Napoli in quel periodo di scuole pubbliche vi era appena il nome, l’Università era deserta; insegnava lettere italiane un tal canonico Bianchi, il quale pagava egli due o tre suoi studenti; di lettere latine era maestro Lucignano, e di diritto di natura un abate Cutillo; Manfrè rappresentava la medicina, e Pugnetti la giurisprudenza; Galluppi e Nicolini non erano ancora venuti su .
Le lezioni del canonico Michele Bianchi, che nel 1818, al concorso per la cattedra di letteratura italiana, era stato preferito a Puoti e a Gabriele Rossetti, erano disertate. Le scuole private in città erano invece assai numerose . Esse attiravano studenti molto più delle aule universitarie e quella del Puoti sopratutto perchè gratuita raccolse intorno a sé i più eletti ingegni del Napoletano.
La gioventù , sopratutto quella aristocratica e nobile rinnegava l’universita pubblica e si affidava per completare i loro studi principalmente alle scuole private e sopratutto a quella del Puoti , riconosciuta per coscienza superiore a tutte le altre e sopratutto a quelle pubbliche universitarie .
La presenza del Puoti con la scuola ed i suoi insegnamenti in città , fu forse una delle prime vere battaglie fatte da una nuova generazione contro il passato .Una battaglia vinta senza cospirazioni e senza violenze, ma con la sola cultura ed in nome del progresso , della civiltà, e della libertà .
Di questa battaglia egli fu il protagonista piu potente , ma anche quello meno consapevole. La sua passione per le lettere e per l’insegnamento era infatti tale che riempiva tutta la vita e non gli lasciava luogo ad altro. Il marchese del Carretto soleva infatti ridere di questo pedante del marchese Puoti. Un altro marchese, ministro dell’interno, Santangelo, si degnava esprimergli la sua benevolenza, e il principe di Satriano, Filangieri, compiacevasi di proteggerlo. La sua famiglia era nota per antica devozione al trono ed i suoi insegnamenti non preoccupavano il governo .
Egli dal governo non veniva considerato pericoloso ma solo un innocuo acuto studioso della lingua italiana che teneva in città (dal 1825) , a Palazzo Bagnara dove abitava con la famiglia del fratello Giammaria , una scuola di lingua italiana, libera e gratuita, , dove da indagini raccolte egli educava i giovani, in senso puristico, al solo studio severo dei classici antichi e dei trecentisti.
Puoti non era considerato dal governo un uomo politico, non era visto come un cospiratore,egli era un puro e semplice uomo di lettere, un “pennarulo”, come lo chiamava Ferdinando; ma quello che seppe fare questo “pennarulo” si vedrà dagli effetti che il suo insegnamento produceva sulla gioventù.
Tutti lo consideravano solo un uomo di cultura tutto immerso negli studi della lingua, ed estraneo affatto alle cose politiche. La sua scuola era dunque considerata passatempo innocentissimo, e lo si lasciava fare e dire, senza ombra di sospetto.
Non c’era quindi bisogno di mettersi in guardia verso di un uomo che aveva nella sua vita solo due più grandi ambizioni : divenire accademico della Crusca e maestro del Principe ereditario.
N.B. Nel primo intento ci riuscì, e ne fu talmente contento , orgogliodo e compiacente da far aggiungere sui suoi libri al proverbiale e simpatico “Basilio Puoti” l’epiteto di “accademico della crusca”. Nell’altro intento fallì e n’ebbe tale pena al cuore, che fu non ultima cagione di quella malattia che indi a poco lo condusse alla tomba.
Puoti si dedicò difatto esclusivamente agli studi e alla formazione culturale dei giovani , ma anche senza accorgersene egli travalicò di gran lunga il suo obiettivo e il suo nome nella Napoli del ventennio 1825-45 divenne come scriverà Francesco De Sanctis nel 1868, sinonimo di «libertà, scienza, progresso, emancipazione, lotta contro il seminario, e aspirazioni ancora indistinte di nuove idee liberali . Egli quindi anche, senza apertamente proporselo, fu l’ispiratore di nuovi sentimenti patriottici. Se è vero infatti che nella scuola del Puoti si conversava e si discuteva, sotto la guida del maestro, intorno ai passi di autori antichi tradotti dagli alunni o intorno alle loro composizioni originali, badando soprattutto alla purità della lingua italiana , egli parlava anche continuamente di sentimenti di unità nazionale. Egli, fortemente convinto che uno Stato per avere un futuro radioso e florido , doveva essere uno Stato che investiva sull’educazione dei giovani , parlava si di cultura , insegnava al meglio la lingua italiana nella sua forma migliore ma sopratutto raccontava ai giovani di valori come unità nazionale e sopratutto patria. Il suo impegno e la sua opera servì quindi politicamente a risvegliare le coscienze dei giovani italiani ed a tenere acceso nei loro cuori la fiamma della libertà.
La scuola di Puoti come vi abbiamo accennato era gratuita a tutti i giovani e questo fatto straordinario attirò alcune delle migliori menti del futuro , fra cui Francesco De Sanctis che all’epoca era giusto un ventenne giunto a Napoli dalla remota provincia irpina , e Luigi Settembrini noto a tutti noi, per le sue prose e per il forte impegno profuso nel Risorgimento italiano.
I due intellettuali e patrioti napoletani, considerate da tutti come due figure esemplari del nostro Risorgimento,sono sicuramente quelli che tra gli allievi del grande maestro hanno a noi lasciato nelle loro memorie il ritratto del Puoti e del suo metodo, all’interno di un vivace affresco della vita culturale della Napoli borbonica.
Queste pagine, poco conosciute al grande pubblico, insistono e ci invitano a riflettere sull’importanza della figura del “maestro” che Luigi Settembrini riteneva essere il vero artefice delle rivoluzioni. Le rivoluzioni “prima si compiono negli spiriti, poi nelle piazze”. Egli in particolare ci raccontan elle sue memorie che il maestro era solito rivolgersi ai suoi discepoli con il seguente appello: :” Se io vi dico di scrivere la vera lingua d’Italia, io voglio avvezzarvi a sentire italianamente e avere in cuore la patria nostra…Io vorrei che gli Italiani parlassero come il Macchiavelli ed operassero come il Ferruccio”.
Dai profili biografici pressoché speculari seppur con esiti politici e letterarii completamente diversi, dei due allievi è però forse il De Santis ha lasciare a tuttui noi la migliore descrizione del grande letterato .
” Lo trovai fra una dozzina di giovani in una stanza dove non era altro arnese che libri negli scaffali, su le tavole, su le seggiole; ed in un canto v’era il suo letto dietro un paravento. “So che amate i giovani, io gli dissi, ed io desidero farmi aiutare da voi.” “Bravo, giovanotto; se vuoi studiare saremo amici. Vediamo quello che sai: spiegami un po’ degli Uffici di Cicerone.” Spiegai, risposi a varie domande: “Bene, batti sul latino ogni giorno: ogni giorno una traduzione dal latino, e una lettura d’un trecentista. Nulla dies sine linea.” E mi accettò tra i suoi scolari. Egli non viveva che di studi, in mezzo ai giovani ai quali era compagno ed amico: con essi studiava, con essi passeggiava, con essi lavorava ai comenti dei molti classici che fece ristampare per diffondere la buona lingua; ad essi dava consigli, libri, avviamento; molti ritrasse dai pericoli, a molti diede anche del suo. Sapeva bene il latino, bene il greco antico, parlava il moderno, benissimo il francese: pieno di motti e di lepori, facile all’ira, facilmente placabile, ebbe animo sempre giovanile, e seppe mettersi a capo di dugento giovani senza dare sospetto a chi reggeva “.
De Sanctis ci ricorda imoltre nelle sue memorie del carattere bizzarro di Puoti , che alternava un carattere che andava dal bonaccione all’irrrascibile in un istante : egli raccontava di un uomo che mentre raccontava e spiegava i corretti utilizzi dei termini italiani, faceva batture e scherzi , ma che quanfo si infuriava batteva poi i pugni sul tavolo , sopratutto quando qualcosa non andava bene o quando si soffermava sui gallicismi nell’Italiano.
Lo studi proposto dal Puoti nella sua scuola era molto difficile e sopratutto da svolgere con una disciplina estremamente severa, Egli era un grande amante della lingua italiana … un vero e proprio purista della lingua che aveva come suo unico progetto quello di insegnare l’italiano perfetto a tutte le province del Regno delle Due Sicilie e poi d’Italia. Egli era estremamente convinto che il sentimento di unità nazionale dovesse venire dall’unità linguistica e a questo scopo dedicò la sua intera vita alla scuola e allo studio della letteratura ma anche senza apertamente proporselo, divenne automaticamente in città anche l’ispiratore di nuovi sentimenti patriottici.
La sua scuola alla quale egli dedicò la sua intera vita fu quindi uno dei primi luoghi in città aperto a nuove idee e anuovi modi di pensare e vedere le cose.
Puoti amava insegnare l’Italiano, ma fu il primo ad insegnarla in una maniera diversa e innovativa . Nella sua scuola di lingua italiana che rimase aperta fino alla sua morte avvenuta nel 1847, nelle lezioni che venivano da lui definite “esercitazioni”, i giovani allievi venivano continuamente invitati alla discussione nella quale si aiutavano l’un l’altro : i vari componimenti non venivano corretti dal maestro, bensì dai stessi discepoli.
La sua scuola di lingua che egli amava definire ” studio della lingua “divenne presto in città un nuovo modello di libertà a cui ispirarsi per un modello ancora indistinto di nuova scienza, progresso, emancipazione e civiltà .Egli quindi anche, senza apertamente proporselo, fu l’ispiratore di nuovi sentimenti patriottici perchè la sua scuola divenne punto di raccolta di un numero sempre maggiore di giovani.
Non a caso da essa uscirono tra gli altri uomini come L. Settembrini , e F. De Sanctis , oltre a numerose edizioni di testi classici e notevoli lavori di lingua e letteratura . Frutto della scuola furono, infatti , varie edizioni di testi italiani dei primi secoli,come le Regole elementari della lingua italiana , le Lezioni di eloquenza e letteratura , il trattato Della maniera di studiare l’eloquenza e la letteratura italiana , L’arte di scrivere in prosa per precetti e per teoriche , un Vocabolario domestico napoletano–toscano ed un Dizionario di francesismi.
In quel periodo migliaia di giovani dalle provincie piombavano a Napoli, ed eran chiamati dal popolo gli “studenti” ed anche i “calabresi”. Essi per la maggior parte provenivano dai seminarii, portandosi appresso come trofei i libri imparati, il padre Soave, l’abate Troyse, il Portoreale, l’Eineccio, la geometria di Euclide, la Storia greca e romana di Goldsmith, Tasso e Metastasio e venivano a Napoli per compiere gli studi, come dicevano, e imparare la professione. Napoli era la città del sole, il Faro che doveva guidarli alla gloria,.
Il progresso in città era però incarnato in un solo uomo,: il marchese Puoti la cui scuola era sopratutto una lotta contro il seminario . Nella sua scuola che il Puoti teneva in una vasta sala del suo palazzo, convenivano più di duecento giovani studenti di cui la maggior parte venivano freschi freschi dai seminari. A loro il Puoti spesso parlava con poca stima dei nobile e dei preti, che egli solitamente definiva gente ignorante e oziosa; il peccato come era solito sostenere , non era infatti per lui il nascer patrizio o il divenir prete; il vero peccato era l’ignoranza.che affligeva la gente comune e per ovviare a tutto questo egli da vero eroe dedicò quasi esclusivamente la sua vita agli studi e alla formazione culturale dei giovanii intellettuali con idee liberali, che arriveranno poi a distinguersi in campo filosofico, giuridico, economico e scientifico come Vito Fornari, Stefano Cusani, Stanislao Gatti, Giacomo Savarese, Giovanni Manna, Guglielmo Gasparrini, Angelo Camillo De Meis e molti altri.
Si trattava di una nuova generazionedi giovani che per poter sviluppare le sue forze aveva sopratutto bisogno di trovare innanzi a sé un passato da combattere, ed un avvenire da conquistare.
Allora , in quei tempi il passato con la sua istruzione provinciale si chiamava “seminario”, mentre il progresso si chiamava “purismo” , e la scuola di Basilio Puoti. con il suo estremo concetto di purismo letterario , era la bandiera intorno a cui si raccoglieva la gioventù.
Basilio Puoti divenne quindi inconsapevolmente per la nuove gioventù una sorta di simbolo liberale . Il suo nome in città per loro significava libertà, scienza, progresso, emancipazione e sopratutto lotta contro il seminario.
Puoti con il suo purismo fu il primo atto di questo gran dramma compiuto al ’60: il primo segno di vita che dava di sé la nuova generazione volgendo le spalle al seminario.
N.B. È superfluo notare che di tutte queste grandi conseguenze e di questi grandi profondi significati non ne sapeva nulla né il marchese Puoti, né la gioventù, né la polizia. Vi era lì tutta una rivoluzione ignorata e dagli attori e dagli spettatori e dalle vittime. E rivoluzioni siffatte sono le meno reprimibili e le più efficaci.
Attorno alla sua figura si raccolse inizialmente un ristretto gruppo di accoliti, comprendente, oltre all’abate Gaetano Greco e a Giordano de Bianchi Dottula marchese di Montrone, considerati da Puoti suoi precursori, Carlo Mele, il greco Costantino Margaris, i fratelli Saverio e Michele Baldacchini, Raffaele Liberatore, Luigi Dragonetti, Antonio Papadopoli, che soggiornò a Napoli dal 1825 al 1827.
Dopo il 1830, in coincidenza con l’intervallo di tolleranza consentito alla cultura e alla stampa napoletane dopo l’avvento al trono di Ferdinando II, tale circolo si trasformò in una scuola di vastissima influenza, con cui furono in contatto una serie di intellettuali molto eterogenei (Carlo Troya, la poetessa Giuseppina Guacci, Paolo Emilio Imbriani, Alessandro Poerio, Pietro Paolo Parzanese, Antonio Ranieri, Cesare della Valle e altri), accomunati dall’amore per le fonti genuine della lingua italiana e dall’adesione all’esaltazione giobertiana del «primato nazionale».
Dopo l’avvento del colto monsignor Giuseppe Mazzetti alla presidenza della Pubblica Istruzione e grazie all’appoggio del generale Carlo Filangieri, nel 1839 Puoti venne nominato ispettore degli studi nel Collegio militare della Nunziatella. A sua volta egli fece conferire a De Sanctis un insegnamento prima presso la Scuola militare di S. Giovanni a Carbonara e poi alla Nunziatella. Sullo scorcio del 1845 prevalse la diffidenza della monarchia e Puoti fu rimosso dall’incarico con un pretesto. Ferito profondamente nell’onore dalla motivazione di quell’esonero, la salute del marchese ne risentì e cominciò a declinare. Intanto, il 25 aprile 1843 Puoti aveva ottenuto la nomina ad accademico della Crusca.
Quando morì, il 19 luglio 1847, la sua scomparsa destò viva commozione. Le vicende del 1848, che videro protagonisti molti dei suoi amici e discepoli, e la successiva repressione fecero sì che solo nel 1861 un busto di Puoti potesse essere collocato nel portico superiore dell’Università di Napoli, accanto a quelli di altri insigni maestri.
N.B. La storiografia meridionale del secondo Novecento ha respinto la rilettura del puotismo in termini di unitarismo antiborbonico. Egli nella sua difficilissima missione voleva sopratutto solo sprovincializzare l’Italia attraverso la cultura .Questo concetto fu però strumentalizzato durante la narrazione postunitaria trasformandolo in un “eroe patriottico”, con anche un busto nell’Università.
Basilio Puoti morì sessantenne , e oggi cercate sui libri o su internet , ovunque lo troverete indicato come “PURISTA “, nel senso più profondo del termine.Egli infatti odiava l’utilizzo dei termini stranieri nella lingua italiana ed era convinto quasi religiosamente che il sentimento di unità nazionale dovesse venire dall’unità linguistica .Il suo progetto non aveva scopi politici ma solo il fine di insegnare l’italiano perfetto a tutte le province del Regno delle Due Sicilie e poi d’Italia, ma ironicamente eglifu destinato a strade diverse .
Egli con la sua scuola di cultura finì però per armare i suoi discepoli.
E questo è qualcosa di cui dobbiamo fare prezioso ricordo .
E’un qualcosa che non dobbiamo mai dimenticare.
Basilio Puoti con il suo saper , ed i suoi insegnamenti ha mostrato a tutti noi come la sola cultura puo cambiare lo stato delle cose .
La ribellione di un popolo infine non è altro che il naturale progresso della coltura e del sapere.
Ed è questo il motivo per cui le varie dittature nel mondo si sono nel tempo innanzitutto impegnate a deculturizzare il popolo.
La cultura da sempre ha rappresentato il vero nemico di coloro che vogliono comandare e gestire per il proprio tornaconto intere nazioni o un semplice quartiere .
L’ignoranza , la mancanza della conoscenza è da sempre stata la vera base su cui dittatori e camorristi hanno fondato le loro ideologie ed il loro potere.
Solo con la cultura tutti noi possiamo sconfiggere tutto questo . Solo seminando continua e nuova cultura , un giorno , quando essa fiorirà , inattesa, improvvisa , potremo finalmente sconfiggere furbi e corrotti politici o gente di malaffamare . Solo con la cultura possiamo un giorno sconfiggerli e proprio quando il potere si illuderà di aver vinto
La cultura è l’unica vera arma che ci resta per difenderci da un sistema politico corrotto e da una criminalità oppressiva sempre più presente nella nostra società : è solo con la cultura che infatti si impara a vicere insieme : si impara sopratutto che non siamo soli al mondo , che esistono altri popoli , altri modi di vivereche sono altrettanto validi dei nostri . La cultura è presa di possesso della propria personalità e conquista di coscienza , per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico , la propria funzione nella vita , i propri diritti ed i propri doveri .
Cultura significa anzitutto creare una coscienza civile ed una propria dignità , un prorio modo di pensare , ragionare , elaborare un pensiero e magari contestarne una altro . Ecco il motivo per cui oggi il nostro sistema ci vuole tutti deculturizzati .
Il nostro paese ,la nostra città ma anche il mondo intero , ha oggi più che mai un assoluto bisogno di cultura ma questa fa paura ai grandi potenti della terra perché con essa possiamo giudicarli e soffiare un vento di rivolta e allora invece di dare una grossa sterzata culturale , per tenerci narcotizzati e non pensare ai grossi problemi del mondo come il riscaldamento del pianeta , i rifiuti tossici che provocano tumori , la mancanza dei posti di lavoro e le nuove atroci guerre scatenate per miserabili interessi , ecco che ci propinano continuamente una spazzatura mediatica contemporanea fatta di format preconfezionati usati per distogliere l’attenzione da altri avvenimenti importanti che ogni giorno avvengono nel mondo. Ogni giorno a tal proposito siamo bombardati da programmi di basso livello, basati sull’ignoranza e la mediocrità’ con il solo scopo di appiattire la mente umana per poi poterla facilmente controllare .
I nostri politici ci vogliono tutti ignoranti , narcotizzati , obnubilati , e mostruosamente ghetti , e come un tempo gli Imperatori Romani tenevano a bada il loro popolo con ignobili spettacoli circensi oggi ci rifila stupidi programmi televisivi con il solo intento di non farci pensare e tenerci buoni . E’una ignoranza funzionale che serve al sistema al solo scopo di distogliere attenzioni politiche ed economiche ben più gravi . Il pubblico ormai applaude a comando ed I giovani subendo il fascino della mediocrità tentano di emularla preda di un facile narcisismo sostenuto da ignoranti modelli che fanno del loro corpo una bandiera da sventolare con orgoglio .
Alcuni programmi di potenti signore della nostra televisione con la loro proposta di intrattenimento , propagandano continuamente solo ignoranza ma di essa ne fanno una bandiera da sventolare con orgoglio mentre rappresentano solo il peggior degrado sociale, culturale e intellettuale dell’essere umano. Le regine trash dello schermo stanno modellando un italiano medio mediocre patetico senza colonna vertebrale che ha bisogno di questi programmi per dimostrare la propria ipocrisia e bassezza culturale e sociale.
Stanno sdoganando con malafede un modello di ignoranza funzionale ai poteri, di qualsiasi natura e specie essi siano. Essi vogliono mostrare alla società che l’uomo può fare a meno della cultura e addirittura trasformare la sua ignoranza in un motivo di vanto. La nostra società in maniera sempre più rapida e veloce sta imponendo ai nostri giovani modelli ignoranti mostruosamente rifatti e gretti che aiutano a sdoganare comportanti sociali sempre più mediocri .
Oggi , nel nella nostra società ,l’ignoranza come rifiuto o scarso interesse per la conoscenza è ben tollerata da un sistema che prospera sulla sua diffusione per rafforzare i propri interessi di parte in un degrado democratico di cui le stesse vittime ne diventano artefici. Come in un gioco di specchi deformanti in cui è difficile riconoscere se stessi e la propria ignoranza e che non fa sentire nessuno responsabile della diffusa corruzione, frutto di individualismi e di egoismi, che genera ingiustizie e disuguaglianze.
In questo sistema , la cultura, la scuola e in generale la conoscenza fanno paura sia al mondo politico che allle mafie, che ingrassano nell’indifferenza, nell’egoismo e nell’ignoranza. Essi vogliono sudditi compiacenti, non cittadini consapevoli dei loro diritti e responsabili dei loro doveri.
L’ignoranza come rifiuto o scarso interesse per la conoscenza è ben tollerata da un sistema che prospera sulla sua diffusione per rafforzare i propri interessi di parte in un degrado democratico di cui le stesse vittime ne diventano artefici. Come in un gioco di specchi deformanti in cui è difficile riconoscere se stessi e la propria ignoranza e che non fa sentire nessuno responsabile della diffusa corruzione, frutto di individualismi e di egoismi, che genera ingiustizie e disuguaglianze .Come d’altronde sono ben tollerate in questa società tutte quelle norme sociali che fanno dell’ignoranza una valida scusante di comportamenti il cui unico fine è solo quello di aggirare la legge . Un tremendo conflitto di omertà che per quieto vivere nella nostra città da secoli contribuisce a preservare cattivi usi e costumi .Quella tolleranza che ha rappresenta da sempre l’origine dei mali di questa città .
È proprio questo continuo giustificare tutto quello che non funziona la nostra rovina . È quel continuo dire Napoli è bella … è va bene così com’è che ci ha sempre fatto adattare alle tante cose che non vanno.
È proprio questo continuo trincerarci dietro frasi come “vott’ ‘a campà”, “fatt’ ‘e fatt’ tuoi”, “ma che ce ne fott’”, fino a “ma pienz ‘a salut’” , divenuti il nostro elemento fondamentale del vivere quotidiano che da sempre non ci fa crescere
In tali situazioni i concetti individuali di cosa sia giusto o sbagliato o di cosa sia bene o male sono irrigiditi e poco propensi ad aprirsi a dubbi o diversi punti di vista. Tanto più vero in terra di camorra dove una mentalità di camorra fatta di opportunismo, menefreghismo e prevaricazione si insinua negli atteggiamenti e nelle interazioni sociali. Atteggiamenti sempre più dovuti per dimostrare che non si è fessi, che si sa vivere, alzando il livello della tolleranza fino a tramutarli in norme sociali comunemente condivise.
Il primo grande atto per risolvere nella nostra bellissima città la cronica assefuazione ad un sistema camorristico che si propone comel’unico in grado di offrire lavoro e danaro è quello di dar luogo ad un movimento culturale e morale capace di coinvolgere tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità.
Ma tutto questo non puo funzionare se le istituzioni continuano nella loro politica di far prevalere gli interessi privati di corrotti uomini politici su quelli di una comunità più ampia . Questo portera sempre e purtroppo solo una maggiore radicata sfiducia nello Stato che se da un lato esclude un valido contributo al suo sostegno, dall’altro preclude la nascita di un valido e costruttivo dissenso rendendo la democrazia un formalismo vuoto di significato.
La fiducia nelle istato e nelle sue stituzione presuppone una società civile in cui vi sia la certezza del diritto, e quindi regole rispettate dalla maggioranza degli individui, per uscire dalla ristretta cerchia dei rapporti familiari o di amicizia o dall’ambito del clan o del più forte cui si deve fiducia in cambio di benevolenza.
La presenze continua e costante nei secoli nelle terre della camorra è la evidente sconfitta di uno Stato che non riesce a garantire in questi luoghi posti di lavoro con i quali i ragazzi dei tanti quartieri popolari possono fare o programmare un progetto di vita .
E’ la sconfitta di uno stato che nella sua assenza ha solo ed unicamente le sembianza della disoccupazione, dell’ingiustizia e dei favoritismi . E’ il fallimento delle istituzioni democratiche dove i ragazzi presto arrivano a capire che la vera unica scuola di vita è la quotidiana palestra della delinquenza e della prova di coraggio del vicino di casa più emarginato di te. In questi luoghi lo stato non garantisce nulla . Qui si assiste ogni giorno solo ad un susseguirsi di lamentele, e per poter campare tutto è lecito . I vari sotterfugi, per truffare e sfruttare lo stato , vista la sua assenza , quin non vengono visti come qualcosa di illegale . Quale luogo migliore quindi per creare un rapporto immaturo e sensibile al populismo ?
Chi ne riceve in cambio il consenso ?
La camorra . L’unica in questi luoghi capace di creare lavoro e consenso sociale. Essa in quest luoghi rappresenta il ‘ Miele ‘ per ottenere in tempi rapidi facili guadagni e potere sociale sul territorio in cui vivi .
Il nostro stato d’altronde qui non garantisce lavoro .Non lo garantisce in città nemmeno a chi alla fine di un percorso di istruzione si sia laureato con il massimo dei voti .Figuriamoci a chi poi il suo percorso scolastico lo ha presto abbandonato per seguire facili scorciatoie per il successo economico e sociale rispetto allo stato.
All’assenza di questa incapacità sociale statale , da secoli la criminalità organizza affonda le sue radici .
Il sistema illegale delle associazione malavitose è’ capace al contrario dello stato di garantire lavoro e facili guadagni .
Questa è’ la vera sconfitta del nostro attuale sistema sociale !!!
Qui in questi quarteri, da sempre lo stato guarda , osserva e commenta ma non interviene fino a quando non succede la tragedia .
E ‘ la sconfitta di una comunità civile che ha scelto il far finta di non vedere come soluzione alla risoluzione di un problema .
E’ il fallimento del sistema scuola incapace di imporsi con la cultura all’ignoranza .
Esso rappresenta sopratutto il terreno fertile dove la criminalità organizzata può continuamente reclutare nuovi adepti. Quei stretti , freddi vicoli bui , grazie alla cronica assente presenza delle istituzioni sono il luogo ideale in cui prospera la camorra organizzata.
E’ il successo del sistema di deculturizzazione di massa oggi sbandierato come modello di vita tramite trasmissioni televisive ‘ spazzatura ‘ con audience altissimi ma diseducativi , volgari, e ricchi di violenza, ed odio. E’ il Regno di ” Gomorra ” nei cui contesti sociali difficili si insinua facilmente con i suoi falsi miti la criminalità organizzata.
“Napoli purtroppo ha molti Quartieri dove nello stesso posto possiamo trovare ad abitarci un docente universitario e un camorrista. Il confine tra bene e male quindi in questi luoghi quasi non lo percepisci più.
Un nostro amico in questi luoghi puo finiire in carcere per un furto , e purtroppo crescendo in questi luoghi , la stessa cosa puo toccare anche a noi .
Napoli purtroppo spesso … troppe volte ti pone di fronte ad un bivio ..
Quello del bene o del male .
Esiste in questa città una Napoli piena di luce ed una Napoli sotteranea delle tenebre abitata dal diavolo
Esistono dei luoghi come l’antico quartiere” forcella “, dove il suo nome deriva dalla biforcazione in cui termina la strada principale, che secondo una interpretazione esoterica , evocherebbe la possibilità di scegliere tra due strade e due direzioni diverse ,ognuna con un tipo di esistenza diversa : la prima lunga agiata e felice , ma comune ; la seconda invece , irta di difficoltà e ricca di sofferenze , ma gloriosa ed eroica secondo determinati modelli sociali .Due modelli di vita diversi che hanno da sempre caratterizzato la scelta di vita dei giovani ragazzi del luogo.
E purtroppo sono tante le aree della nostra città e della nostra periferia che vedono i nostri giovani ragazzi vivere situazioni di disagio in contesto familiari dove regna l’ignoranza capace di condizionare ed influenzano le loro scelte ed il loro modo di vivere.
È bello parlare delle bellezze della nostra città e del nostro magnifico panorama , ma tutti noi giriamo lo sguardo ai problemi che echeggiano nei nostri vicoli ed in alcuni luoghi della nostra città .Li valutiamo e raccontiamo solo come lato folkloristico della nostra città ma non abbiamo il coraggio di entrare con forza nelle loro visceri .
Non abbiamo il coraggio di denunciare con forza , la violenza ed il malcostume che rappresenta la normalità per i suoi abitanti .
Ci limitiamo ad evitarli , li isoliamo , li emarginiamo e speriamo solo che non capiti mai a noi che succeda qualcosa di grave . Esiste particamnte un comune senso omertosi di implcita complcità di cui tutti in città sono in qualche modo legati .
Lo stato con i suoi rappresentanti politici continua a non capire che l’unico vero grande modo con cui affrontare la risoluzione delle tante problematiche sociali della nostra città è la cultura dei suoi cittadini. La cultura, la scuola e in generale la conoscenza sono le uniche cose che fanno veramente paura ai camorristi . Loro ingrassano nell’ignoranza di chi abita in questa città e si rallegrano quando alcuni dati statistici ci mostrano che negli ultimi dieci anni le migliori energie intellettuali hanno lasciato la nostra città .mentre i I poveri non riescono a migliorare la loro condizioneconsiderato che la disoccupazione in questa città è alle stelle.
Lo stato , il comune , la regione dovrebbero tutti fare mea culpa perché tutto questo esiste da anni ma fanno finta di non vederlo . A loro poco interesa che ben 170 mila giovani negli ultimi anni hanno lasciato Napoli e di questi ben 50 mila erano giovani con un alto tasso d’istruzione.
Un lusso che non possiamo permetterci …
Un lusso di fronte al quale i fronte i nostri cari uomini politici dovrebbero , invece di parlare e dire le solite inutili cose ,dovrebbero avere il sano coraggio di dimettersi per il loro fallimento istituzionale .
Come ci potremo mai veramente liberare della criminalità organizzata se rinuciano alle nostre migliori forze intelletuali ?
E mai possibile che non siamo capaci di trattenerli ?
Quando capiremo che per vincere la camorra non ci vuole per le strade un ‘esercito di soldati ma solo un esercito di maestre elementari ?
E’ la dilagante ignoranza il vero male di questa città. Sono le “ragazze che conoscono solo ‘L’Isola dei famosi’ e non sanno che esiste anche l’isola di Robinson Crusoe” che rappresentano il terreno fertile da cui la camorra trae nutrimento .
Sono i ragazzi da “Grande fratello” e quelli da “Uomini e donne” che vanno salvati . E possono essere salvate solo dagli insegnanti, dalla scuola, dalla cultura. Sono infattiI nostri insegnanti che ogni giorno forniscono strumenti straordinari ai ragazzi per distinguere il bene dal male per poterli trasformarli in persone migliori.
La cultura è l’unica vera risposta ai problemi di Napoli …..la cultura e non la subcultura
Bisognerebbe impedire agli pseudo-cantanti che inneggiano alla delinquenza e danno addosso ai pentiti di rimanere liberi, essi andrebbero arrestati. I ragazzini ascoltano queste canzoni, guardano quello che la tv offre. Questa è subcultura.”
Bisogna insomma combattere il mito che il camorrista è uno fico, buono e questo puo farlo solo la cultura come appunto faceva il nostro Puoti .
Per celebrare l’uomo che forse più di tutti si è battuto nella nostra città per migliorare lo stato di cultura della sua gente , vi lascio per concludre, alcune delle tante belle cose scritte su di lui da perte di chi ha avuto il piacare di conoscerlo .
Avevo sedici o diciassette anni. Cresciuto in Napoli sotto la guida di Carlo De Sanctis, a cui ero nipote, riputatissimo maestro di lettere latine a quel tempo, compiuti gli studi filosofici sotto il Fazzini, mi trovavo al primo anno degli studi legali. Avevo letto moltissimi libri e di ogni materia: scrivevo versi e prose, improvvisavo anche, e tutti mi lodavano, e il maestro mi chiamava “penna d’oro”, ed io superbia che mai la maggiore: mi tenevo il più istrutto uomo di Napoli. (…) Mi avvenne che un giorno Francesco Costabile mi propose di menarmi alla scuola del marchese Puoti. “A che fare” diss’io. E lui: “Ad impararvi l’italiano”. Mi pareva un’offesa. Ma molti miei amici ci andavano, e tutti me ne cantavano le meraviglie, e ci andai pur io.
(…) Già quel palazzo magnatizio, quelle superbe scale, quel servitore in guanti, quella sala magnifica tappezzata di libri innalzava l’animo, lo tirava in una regione più elevata. Non so che signorile spirava colà che cacciava in fuga tutte le rozze memorie del seminario. Quel dì che ci andai io, eravamo parecchi a far l’esame di ammissione. Il Puoti volle sapere i nostri studi, e il dove, e il come, tutto minutamente; ci fe’ tradurre un brano di Cornelio Nipote. Dal suo modo di scrivere parrebbe uomo grave e compassato; ma era tutt’altro. Amenissimo, vivacissimo, pieno di motti e di lazzi alla napoletana, non insegnava, non si metteva in cattedra, conversava, raccontava spesso, si divertiva e divertiva: non ci era aria lì né di scuola, né di maestro: parea piuttosto un convegno di amici, un’accademia sciolta da regole e da formalità. A’ provinciali avveniva spesso di chiamarlo maestro, e se ne turbava: voleva esser detto marchese. Per primo atto correvano a baciargli la mano, ma la ritirava vivamente e diceva: “Non si bacia la mano che al Papa”.
Non volea si dicesse la scuola, ma lo studio di Basilio Puoti; né le sue voleva si chiamassero lezioni, ma esercitazioni. In effetti proprie e vere lezioni non erano, o spiegazioni o teorie, ma esercitazioni nell’arte dello scrivere, traduzioni, componimenti, letture mescolate di aneddoti, di riflessioni, di giudizi, d’impeti di collera, di scuse amabili, sì ch’era un piacere a vederlo e a sentirlo: tutto ciò che scuola o maestro ha di convenzionale, era scomparso, fino le proverbiali panche, sostituite da eleganti sedie. Il marchese non solo sdegnava di essere detto maestro, ma non ne aveva l’aria e le maniere: pareva piuttosto un amico, maggiore d’età e di esperienza e di studi, che stava lì compagno e guida ne’ nostri lavori, e sentiva il parer nostro e ci diceva il suo, e poneva tutto in discussione, quello che diceva lui e quello che dicevamo noi. Talora avveniva che il torto l’aveva lui, e lo riconosceva di buona grazia e diceva: “Ho preso un granchio a secco”.
(…) Il marchese era a tutti caro e rispettato, perché amava i suoi giovani, così li chiamava, non studenti, né discepoli, ed era il loro protettore, il loro padre. Ci erano attorno a lui un gruppo di veterani, i giovani stati lì da cinque o sei anni, e che il marchese scherzando chiamava gli Anziani di Santa Zita. Il loro giudizio era molto autorevole, e quando parlava l’un di essi si faceva silenzio, l’irrequieto marchese per il primo, e si stava a bocca aperta. Ci erano anche gli Eletti, giovani che occupavano un posto distinto, e questo nome si dava per consenso di tutti a quelli che facevano un lavoro “indovinato”, componimento o traduzione. Anche il giudizio di questi aveva una certa autorità, ed i nuovi e inesperti si lasciavano volentieri guidare da loro. Così nasceva una certa disciplina naturale, fortificata da una costante cortesia di modi, che rendea tollerabili anche i più severi giudizi. Il marchese soleva dire che le lettere servono a raggentilire e nobilitare l’animo; ed era una grazia, quando si spassava con di bei motti e proverbi alle spese di qualche povero provinciale capitato lì o non bene in arnese, o goffo di modi, o presuntuoso parlatore. Si può pensare quale impressione incancellabile produceva tutto questo su quei rozzi animi. Era tutta una rivoluzione morale. Dopo pochi mesi io mi sentiva un altro uomo.
Né questo solo. In quella scuola i principali attori erano i giovani. Il marchese, come ho detto, non faceva discorsi o lezioni, non insegnava grammatica o retorica: parlava così alla buona, e facea notare più per esempli che per teoriche i pregi e i difetti degli scrittori, aggiungendovi, come l’occasione portava, avvertenze grammaticali o di lingua o di rettorica.
(…) Vi si andava tre volte alla settimana. Un giorno era consacrato alla lettura e all’esame dei componimenti, favole, lettere, dialoghi, sogni, dissertazioni, dicerie, racconti storici, novelle, di rado qualche poesia. Dopo la lettura, il marchese domandava a due o tre il loro parere, i quali ragionavano prima del concetto, poi dello stile e della lingua. La discussione era chiusa da uno degli Eletti o degli Anziani, che ne discorreva ampiamente; il Marchese riassumeva le diverse opinioni e dava un giudizio terminativo. Essendo la più parte dei giovani colti e adulti, le discussioni riuscivano spesso brillanti e animate. Né minor gara era negli altri due giorni, destinati alla traduzione e alla lettura dei classici. Si traduceva non più che due periodi di Cornelio Nipote, né ci era esercizio più acconcio ad addestrare in tutte le finezze della lingua e nell’organamento del periodo. Letta la traduzione, scoppiavano da tutte le parti osservazioni sopra i difetti, quando non era seppellita di un colpo sotto qualche scherzo del marchese, come: “Basta così: l’avete fatta tra gli orrori della digestione”.
Di quante se ne leggevano, il marchese sceglieva una che gli sembrava migliore e sopra quella faceva la correzione, sicchè ne uscisse un lavoro perfetto, che ciascuno scriveva nel suo quaderno. Il giovane sul cui lavoro era caduta la scelta, se ne usciva quella sera con la testa più alta. Non è a dire che diligenza metteva il marchese in queste correzioni: spesso stava una mezz’ora ad acchiappare una parola o una frase che non voleva venire, e a tutti a suggerirgli, e lui a dar col pugno sulla tavola e a gridar: “No!” con una di quelle sue favorite esclamazioni. Oimè! Talora la frase tanto cercata non veniva, e si veniva per stanchezza con una rappezzatura, e il marchese levava la spalla e se ne consolava dicendo: “Non è poi il Vangelo”.
Dopo la traduzione si leggeva qualche brano di autore classico, trecentista o cinquecentista, e la scelta era fatta con molto gusto. Il marchese era sincerissimo nelle sue impressioni e le comunicava irresistibilmente all’uditorio, soprattutto ne’ luoghi affettuosi, come la morte di sant’Alessio, o il lamento della madre di Santa Eugenia, o il racconto del carbonaio nel Passavanti, o le patriottiche querele di Dino Compagni.
(…) Come si vede i giovani erano in continuo lavoro; ma non bastava. Il marchese richiedeva che essi studiassero a casa ne’ classici; e si accorgeva subito quando lo studio era poco o mal fatto. Talora, sentendo un lavoro o una traduzione, interrompeva bruscamente il giovane e domandava: “Cosa leggete?”. “Il Manzoni”, scappò su a dire un mal capitato, e il marchese si fe’ rosso di collera non perché avesse in poco pregio il Manzoni, ma perché voleva gli studi fatti con ordine e di soli classici. Aveva egli in casa una compiuta raccolta di libri classici, fatta col peculio de’ giovani. Uno degli Anziani era bibliotecario, il quale dovea dare a leggere quei libri con un certo ordine prestabilito dal marchese. Si cominciava con gli scrittori più piani, dove si dovea studiar non altro che parole e frasi, come il Sigoli, o il Novellino; poi venivano gli scrittori che avevano stile, e prima bisognava studiar quelli di stile naturale, come il Villani, il Cavalca, i Fatti di Enea, i Fioretti di san Francesco, e poi i più artificiali e arguti e di “stile conciso”, come Dino Compagni, Passivanti, gli Ammaestramenti degli antichi e il Sallustio di Bartolomeo da San Concordio: in ultimo veniva il Boccaccio che apriva la porta a’ cinquecentisti. E qui lo stesso ordine: e si leggevano prima gli scrittori piani, eleganti, forbiti, e poi i serrati e concisi, prima i liviani e poi i tacitiani, finchè non si giungeva a’ due sommi e riserbati per le frutta, Guicciardini e Machiavelli. Del seicento permetteva di soli pochi lo studio, come il Bartoli, il Segneri, e con le debite cautele. Ciascun giovane aveva i suoi quaderni, repertorio di tutti i bei modi di dire ed eleganze pescate in queste letture, e ne’ lavori facea mostra delle sue ricchezze.
Sono convinto che niente giovi più a rilevare gli studi letterari ed a educare la mente, che questo assiduo lavorare del giovane, questo leggere, tradurre, comporre, notare, più utile che non il mandare a memoria grammatiche, rettoriche e arti dello scrivere. Il marchese solea dire, citando un detto di Socrate, che il maestro dee essere come la levatrice che aiuti a partorire. Il miglior maestro è quello che pensi meno a comparir lui, e lasci fare ai giovani, dissimulando la sua opera e creando in loro questa illusione che quello che imparano sono loro stessi che l’hanno trovato. Quello teniamo a mente che abbiamo acquistato col sudore della fronte: tutto l’altro facilmente entra e facilmente esce dalla memoria.
(…) Se quello che insegnava il Marchese non era tutt’oro di coppella, per usare una sua espressione, il modo d’insegnamento, il “come” era istrumento efficacissimo di educazione e di progresso. Il giovane si sentiva alzato a’ suoi occhi, piaceva a se stesso, veggendosi chiamato a leggere, commentare, discutere, giudicare, lavorare in comune, non discepolo, ma compagno e collaboratore. (…) Ah! Ci amava tanto quel buon marchese! E noi lo cambiavamo di pari affetto. L’amore è il primo segreto del buono insegnamento. Non basta il metodo del Puoti, ci vuole il cuore del Puoti.
(…) Entrati appena in questo Studio, la sorpresa era grande. Si sentiva per la prima volta parlare del secol d’oro della favella, dell’aureo trecento e del dotto cinquecento, e ci vedevamo sfilare innanzi una turba di scrittori, di cui ignoravamo anche i nomi. Ed io che m’immaginavo d’essere il più istrutto uomo di Napoli! Mi sentii bestia accanto agli Anziani di Santa Zita. Sentir gettare a mare il padre Soave con la sua grammatica e le sue novelle, e Goldsmith con la sua storia greca e romana! Proscritti il Tasso e il Metastasio! Gli ex-seminaristi si guardavano, e il Marchese sempre lì a incalzarli nelle loro credenze e nelle loro abitudini, tutto frizzi ed epigrammi. Nessuno avea scritto mai in latino o in italiano: appena barbare traduzioni dal latino; ciascuno però avea fatto qualche sonetto in vita sua; onde l’aborrimento del Marchese per i sonetti. Di storia greca e romana sapevano appena; di storia italiana punto; avevano tradotto, senza intenderli e senza gustarli, Ovidio, Tibullo, Catullo, Properzio, Virgilio, Cicerone, Livio ed anche Tacito; del Tasso e del Metastasio sapevano a mente le ottave e le ariette, esercizio di memoria, non di critica; gli scrittori italiani scarsa notizia e nessuno studio, perché non era mai loro entrato in capo che libri scritti in italiano e perciò di comune intelligenza si avessero a studiare. Che un italiano dovesse apprendere l’italiano, dovea sembrar loro un paradosso. Immaginatevi la sorpresa. Sentivano che non tutte le parole italiane sono italiane; che ci sono parole pure e impure, proprie e improprie, rozze e gentili, aspre e soavi, nobili e plebee, prosaiche e poetiche, in uso, fuori d’uso, in disuso.
(…) La parola per il marchese era luccicante come l’oro: soleva dire: “parole di buona o falsa lega”, “parole di finissima lega”, “oro purissimo”, “oro di coppella”. Così ciascuno si avvezzò a scrivere col dizionario avanti e col suo quaderno di frasi, cacciando via le parole sospette di falsa lega, soprattutto quelle che avevano qualche somiglianza con parole francesi, per tema di cascare in qualche francesismo. Il marchese aveva giurato, come Annibale, odio impalcabile a’ francesismi o gallicismi, ricordo, diceva, di servitù straniera, e “bisogna ad ogni patto purgar la lingua di queste brutture”, aggiungeva. Il francesismo non era solo nelle parole, ma ne’ giri, nelle movenze, ne’ trapassi, nell’uso delle particelle, nella formazione del periodo; e dove non si ficcava il francesismo?
(…) Secondo il marchese il francese concepisce e pensa in un modo altro che l’italiano; indi la differenza dello scrivere tra’ due popoli. Quello che in francese suona sì bene, recato in italiano l’è una sconciatura, e n’esce uno scrivere tagliuzzato, a singhiozzi, senz’arte di passaggi e di chiaroscuri. Conchiudeva doversi scrivere con le parole del trecento e con lo stile del cinquecento. Non è che egli accettasse tutte le parole dell’aureo secolo, e che dicesse o scrivesse “carogna” per cadavere, e “sirocchia” per sorella, come spargevano gli avversari. Ammetteva supremo giudice l’uso toscano, specialmente de’ contadini, di favella più schietta, e non lodava lo scrivere troppo artificiato del Boccaccio e del Guicciardini. Nella lotta che sorse comprendo che gli avversari usassero l’arma della caricatura ed esagerassero le sue dottrine. Ma quelle teorie con quelle spiegazioni e limitazioni ci parevano irreprensibili: e a ogni modo erano per noi un mondo nuovo così attraente che già alla porta della professione ripigliavamo gli studi letterarii.
(…) Diceva essere assai meglio capitassero i giovani affatto ignoranti che guasti e male avvezzi. Perdonava non difficilmente le sgrammaticature e gli errori di ortografia, ma per gli errori di lingua e massime per i francesismi era inesorabile. Ma per piacergli non bastava cansare gli errori: richiedeva l’eleganza. E scrivere elegante era fuggire i vocaboli e i modi usati comunemente, e sostituirvene altri peregrini e fuor della lingua parlata come “andar per la maggiore”, “saper grado e grazia”, “esser di credere”, “tener fermo” e molti altri. Quando i componimenti ne erano sopraccarichi, il marchese diceva sorridendo: “Per ora va bene: veggo che leggete i buoni scrittori”. Con questo indirizzo era inevitabile che sorgesse un modo di scrivere a tutti comune, certi collocamenti di parole, certi legami o passaggi, certi ripieni o trasposizioni o idiotismi, simpatie o antipatie venuteci dalle predilezioni o da’ furori del marchese, modo di scrivere che degenerava nella maniera o nel convenzionale. Se non che dopo alcuni anni i giovani d’ingegno se ne affrancavano, e il marchese andava “allentando il freno”, come diceva, e tollerava certe licenze. Soleva dire che co’ giovani si dee esser severi, e fino pedanti; ma che quando si va innanzi negli studi, si può “secondare il natural genio”, perché l’eccellente scrittore è superiore alle regole, e sa quello che fa. Ci raccontava anzi che il Voltaire a taluno che gli rimproverava una sgrammaticatura avesse risposto: “Tanto peggio per la grammatica”. Ma conchiudeva: “Queste libertà sono pe’ Sommi; per voi è meglio stare alla regola”. Se dunque da quella scuola sono usciti scrittori pedanti, “peccato è loro e non natural cosa”, e non colpa del marchese Puoti.
Principal dote dello scrittore dovea essere la chiarezza. Quando in certi periodi non si raccapezzava, “montava in bestia”, frase sua, e rinnegava la pazienza e diceva: “ Non si può correggere; meglio cassare e far da capo”. Attribuiva la poca chiarezza al cattivo concepire, all’ignoranza della lingua, alla fretta, e se il giovane non se ne chiamava in colpa, anzi teneva qualche difesa, lo investiva di così bei modi di rimproverare toscani, che colui non vedeva, non sentiva e non capiva più nulla e balbettava. Diceva la chiarezza esser la base dello scrivere, ma sola esser come l’acqua, senza sapore e senza odore. Voleva l’efficacia: così chiamava tutte le altre qualità che danno vigore e nerbo e colore, danno sangue allo stile. Quelli un po’ aridi e fiacchi li chiamava defrigidis et maleficiatis, e talora diceva: “Manca l’utero”. L’efficacia era in certe scorciatoie e rapidi trapassi, e scelta di epiteti o di avverbii e spostamenti di parole che davano all’aspetto non so che di peregrino e lontano dal volgare. I più guasti da’ seminarii erano certi “abati”, così chiamava il marchese i preti, che avevano imparato tutto il De Colonia, avevano scritto molti panegirici, e si tenevano maestri e stavano gonfi e pettoruti. Uno di questi tali venne a lui e disse: “ Ho fatto tutt’i miei studi e sono già maestro nel seminario. Da voi non chiedo altro se non di apprendere un po’ di lingua, sì che io impari a scrivere, per esempio, come Annibal Caro”. Il marchese raccontava spesso quest’aneddoto. E raccomandò l’abate a certi Anziani, i quali al primo lavoro ch’ei lesse gli fecero tale pettinatura, che l’amico si rannicchiò e non si fece più vivo. Il marchese aborriva il rettorico, il declamatorio, il gonfio, il convulso, i concetti e le antitesi: tendeva più verso l’Arcadia che verso il Seicento.
(…) Tale era il marchese ritratto così alla buona e alla naturale, come m’è venuto in memoria. Aveva mente chiara e giusta, ma anche a lui “mancava l’utero”. Aveva però qualche cosa di più possente: aveva cuore. Spese tutta la vita per il bene della gioventù, e in questo pose tutto se stesso, quanto era in lui d’intelligenza e di passione e di ambizione. Ottenne così maggiori effetti per il progresso degli studi, che non molti altri di più ingegno.
Il difetto capitale di questa scuola non è difficile a intendere, specialmente oggi. Vi si dava troppa importanza alla parola come parola e alle parte meccanica dello scrivere come la formazione del periodo. Né questo studio potea riuscire a bene, segregato dal presente e dal vivo, e fondato sugli scrittori e di parecchi secoli indietro, come si fa di una lingua morta. Perciò criterii dello scrivere falsi e arbitrarii e mutabili, spesso mera antipatia o simpatia. (…) Lo scrivere non era più una produzione, ma una imitazione secondo certi preconcetti o archetipi. E mi persuado come a quella ottima forma di scrivere prestabilita giungessero anche i più mediocri, sol che usassero diligenza, e come il marchese, a cui mancava il fiuto dell’ingegno, li tenesse in quel pregio che i suoi più valenti discepoli, come un abate Meledandri, un Pessolani, vivuti senza infamia e senza lode.
Il marchese stesso confessava che una certa esagerazione era nella sua scuola, e la scusava, come il frutto del grande amor suo a’ buoni studi, e diceva: “Chi ama esagera”. Stimava con ragione che una ferrea discipilina fosse necessaria a svezzare la gioventù dalle male abitudini contratte nelle scuole, che si richiedevano rimedi così violenti com’era il male, che chiodo ci vuole per trarre dall’asse il chiodo, e ch’egli facea come il chirurgo che par crudele ed è pietoso. Il fatto è che la sua scuola operò una compiuta trasformazione nella cultura nazionale. Si cominciò a studiare un po’ meglio il latino ed il greco; venne in voga lo studio delle cose italiane anche ne’ seminarii, si diffusero nelle più remote provincia gli scrittori classici, sorsero qua e là scuole simili a quella del Puoti, e in poco spazio non ci fu scienziato di qualche valore che non cercasse di scrivere pulitamente. (…) La missione del marchese era finita, lo scopo ottenuto, e quando io, suo discepolo, uscii a dire in pubblica accademia che il purismo non avea più ragione d’essere, perché aveva già vinto, e che la questione non era più di lingua, ma di stile, il brav’uomo se ne compiacque ed accettò la teoria per buona. Ma quando fui a tirarne le conseguenze, si ribellò, o piuttosto chiamò me un ribelle. Non di meno gli ebbi sempre tale riverenza e devozione che gli screzii letterarii non furono sufficienti a farmi cader dal suo animo, e presso a morte, veggendomi accanto al suo letto, disse: “Tu sai ch’io ti ho sempre amato”.
Grandi e libere scuole sono quelle nel cui seno germoglia la ribellione, cioè a dire il progresso, come grandi e libere società sono quelle in cui niente stagni e tutto si mova naturalmente. Il marchese, non che a dispiacersi, doveva applaudirsi di questo fatto, che la ribellione non venne dal di fuori, ma dalla sua scuola, dal suo metodo, da lui stesso che ci aveva educati e posti in noi germi preziosi che dovevano fruttificare. Ma gli uomini sono così fatti. E fu suo dolore quello che era sua gloria.