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Napoli non è mai stata soltanto una semplice città. È stata, per secoli, una civiltà urbana, un luogo di produzione continua di pensiero, arte, musica, diritto, filosofia.
Ridurla oggi a una sequenza di immagini consumabili — cibo, murales, folklore di superficie — non è solo una semplificazione: è una forma di smemoratezza culturale che finisce per negare la sua stessa ragion d’essere storica.
La Napoli, che oggi viene narrata e resta  sui social ‘ una città fraintesa: storia, cultura e arte di questa millenaria città , grazie a improvvisati Ciceroni che oggi giorno bombardano la stupida piattaforma digitatale denominata TikTok , ha lascato la scena ad una nuova
povertà della narrazione contemporanea basata sul murales di Maradona , pizzerie , ristoranti , cuopperie , bar , barretti , tarallerie , pasticcerie o esperti di limonate a cosce aperte e , brod e purp .
Napoli non è un murales, la limonata a cosce aperte – il finto scippo nel tour camorra a Scampia e la real experience napoletana come il Vascitour, dove come esperienza napoletana viene proposto ai turisti di dormire in un basso come se fossero in un safari .
Questa città non merita la tremenda riduzione culturale che oggi sta vivendo .
Non merita l’analfabetismo del racconto attuale.
Contro questa deriva, basterebbe tornare a leggere. A leggere Napoli attraverso chi l’ha studiata, interpretata, amata senza mitizzarla. Da Giovanni Antonio Summonte a Bartolomeo Capasso, da Gino Doria a De Blasiis, da Francesco De Sanctis a Giustino Fortunato, fino a Benedetto Croce, Napoli è stata oggetto di una riflessione storica rigorosa, mai indulgente, mai consolatoria. Una città analizzata come organismo complesso, attraversato da grandezze e contraddizioni, da slanci intellettuali e profonde lacerazioni sociali.

A questa tradizione di studio si affianca una genealogia ancora più profonda: Giambattista Vico, che a Napoli elaborò una delle più alte filosofie della storia; l’abate Galiani, lucidissimo osservatore dell’economia e del potere; Tommaso d’Aquino, Giordano Bruno, Tommaso Campanella, figure che hanno attraversato la città lasciando tracce di pensiero universale. E, in tempi più recenti, Gerardo Marotta, che tentò ostinatamente di difendere questa eredità dall’oblio e dalla mercificazione.

Questa Napoli non è un’invenzione nostalgica. È una realtà documentata, stratificata, visibile. È sufficiente attraversare la città con uno sguardo non distratto per accorgersene. Davanti ai dipinti di Francesco Solimena, Belisario Corenzio, Giovanni Lanfranco, Andrea Vaccaro, Francesco De Mura, Paolo De Matteis, l’esperienza estetica non è inferiore a quella offerta da qualsiasi grande capitale europea. La Cappella del Tesoro di San Gennaro e il Cristo Velato non sono attrazioni turistiche: sono vertici assoluti della storia dell’arte occidentale.

Camminare nei vicoli dove vissero Croce, Vico, De Sanctis, Filangieri dovrebbe suscitare rispetto, silenzio, consapevolezza. E invece oggi quei luoghi sono spesso immersi in una confusione che non è vitalità, ma rumore. L’odore persistente di fritto, l’invadenza commerciale, la trasformazione sistematica degli antichi vasci in esercizi di consumo rapido producono una frattura dolorosa tra il peso della storia e la povertà della rappresentazione presente.

Lo stesso accade in ambito musicale. Via San Sebastiano, con i suoi negozi di strumenti, conduce al Conservatorio di San Pietro a Majella, uno dei cuori storici della musica europea. Qui si incontrano i nomi di Pergolesi, Paisiello, Cimarosa, Jommelli, Traetta, Durante, Scarlatti, Porpora, Martucci, Cilea, De Simone, fino a Riccardo Muti. Un’eredità che non è semplice memoria, ma tradizione viva. Eppure, anche questo patrimonio sembra oggi soffocato da una narrazione che non sa più distinguere tra intrattenimento e cultura, considerata la chiusura del tanti negozi musicali oggi tutti trasformati in bar , barretti e cuopperie varie,

Entrare in luoghi come San Domenico Maggiore, San Lorenzo, il Gesù Nuovo, la basilica dei Dioscuri, significa attraversare secoli di storia religiosa, filosofica, artistica. Sono spazi che parlano ancora, ma sempre più spesso non trovano interlocutori. Non perché siano diventati muti, ma perché manca chi sappia ascoltarli.

Nel frattempo, la narrazione dominante della città si concentra su pochi simboli reiterati. Il murales di Maradona — fenomeno comprensibile sul piano emotivo e popolare — è diventato uno dei luoghi più visitati della città, superando istituzioni come il Museo Archeologico Nazionale, Capodimonte, il Pio Monte della Misericordia. È un dato che non va giudicato moralmente, ma interrogato culturalmente.

Napoli, fondata dai Greci, abitata da Romani, Normanni, Angioini, Aragonesi, Spagnoli e Francesi, è una città che dovrebbe essere raccontata come stratificazione di civiltà, non come parco tematico. Quando questa complessità viene sostituita dall’odore persistente della frittura e da un consumo disordinato dello spazio urbano, il disagio non è estetico: è storico.

Difendere Napoli da questa narrazione impoverita non significa rifiutare la dimensione popolare della città. Significa restituirle dignità intellettuale. Significa ricordare che Napoli non ha bisogno di essere semplificata per essere amata, ma compresa per essere rispettata.

Perché una città che dimentica la propria tradizione di pensiero, arte e musica non perde solo il passato: perde anche la possibilità di immaginare il futuro.

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