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Ci sono uomini che attraversano il tempo senza far rumore.
E poi ci sono uomini che, senza saperlo, scrivono una melodia destinata a non finire mai.
Ernesto De Curtis appartiene a questa seconda categoria. È stato il compositore di ’O sole mio, ma ridurlo a una sola canzone sarebbe un torto alla sua vita, alla sua musica e alla sua Napoli.

Nacque il 4 ottobre 1875, in una città che allora era già teatro, voce, contraddizione. Napoli.
E proprio a Napoli, il 31 dicembre 1937, mentre il mondo si preparava a salutare un nuovo anno, Ernesto De Curtis salutava la vita. Come se il suo destino fosse legato per sempre a quella soglia simbolica tra fine e inizio.

Figlio di Giuseppe De Curtis, pittore-decoratore, e di Elisabetta Minnon, Ernesto crebbe in una famiglia in cui l’arte non era ornamento, ma linguaggio quotidiano. Era il quarto di sette figli. Il fratello maggiore, Giambattista De Curtis, poeta e pittore, sarebbe diventato il suo compagno artistico più fedele; il più giovane, Federico, pittore “fiorista”. E, come se non bastasse, per linea materna Ernesto era anche pronipote di Saverio Mercadante, uno dei grandi nomi della musica italiana dell’Ottocento. Il talento, in casa De Curtis, non era un’eccezione.

A otto anni iniziò a studiare pianoforte con Vincenzo Valente, suo vicino di casa in via Rosaroll. Poi vennero l’armonia, la composizione, il Conservatorio di San Pietro a Majella, dove si formò sotto la guida di maestri illustri. Si diplomò giovanissimo, e il suo talento non tardò a manifestarsi. Dopo un breve periodo accanto al padre, Ernesto provò la strada del varietà, formando un duo con un cantante e portando la sua musica tra Napoli, Roma e Viareggio. Fu lì che ricevette persino i complimenti di Giacomo Puccini.

Ma il destino di Ernesto De Curtis era la canzone.
Fu Giambattista, il fratello maggiore, a spingerlo in quella direzione. La prima prova arrivò nel 1897 con A prima vota, cantata da Ida Belli e arrivata seconda al concorso della Tavola Rotonda. La giuria la definì “geniale e affascinante, ma troppo fine per diventare popolare”. Era un giudizio che, col senno di poi, suona quasi ironico.

Da quel momento Ernesto “mise le ali”.
Diventò una figura riconoscibile della Napoli di inizio Novecento: elegante, gioviale, i baffetti arricciati, il cappello di sghimbescio, il bastoncino sulla spalla, la sigaretta appena posata sul labbro. Era stimato, cercato, amato. Musicò i versi dei più grandi poeti napoletani e firmò canzoni destinate a restare: ’A canzona ’e Napule, Autunno, Canta pe’ mme!, Tu ca nun chiagne, Voce ’e notte. Brani che ancora oggi sembrano respirare.

Dal sodalizio con Giambattista nacquero alcune delle pagine più alte della canzone napoletana. Torna a Surriento! è forse l’esempio più emblematico. La melodia del ritornello non arrivava. Ernesto ci pensava, ci ripensava, quasi deciso a rinunciare. Poi, una sera, durante una passeggiata tra Sant’Agnello e Sorrento, sentì il canto di un usignolo tra gli aranceti. Bastarono cinque note. Ma nun me lassà. Il resto venne da sé. Era il 1902. Due anni dopo, la canzone avrebbe conquistato il mondo.

Negli anni della Prima guerra mondiale, Ernesto De Curtis portò la musica italiana oltre oceano, guidando concerti di beneficenza nelle grandi città americane. Scrisse brani patriottici come ’A guerra e Sentinella, ma non abbandonò mai la dimensione più intima della romanza. Compose oltre trecento canzoni, anche in inglese e francese. Tra queste, Luntananza, scritta a New York nel 1923, mentre era immobilizzato a letto per una grave ferita. La chiamava “la canzone del dolore”. E forse lo era davvero.

La sua vita incrociò anche quella di Totò, giovane e ancora lontano dalla leggenda. Ernesto gli negò una raccomandazione nel mondo del varietà. Un rifiuto che il futuro Principe della risata non dimenticò mai. Ma De Curtis non amava scorciatoie. Preferiva la musica.

L’incontro con Beniamino Gigli cambiò il corso degli ultimi anni. Divennero amici, compagni di tournée, testimoni di un’arte che sapeva commuovere anche dentro il carcere di Sing Sing. Insieme portarono Napoli a Parigi, Londra, New York, Buenos Aires. Sempre con la stessa dignità.

Rientrato definitivamente a Napoli nel 1934, Ernesto si stabilì al Vomero, in una piccola casa. La malattia lo costrinse tra letto e poltrona, ma non gli tolse la voglia di creare. In quegli ultimi anni nacquero Non ti scordar di me! e Ti voglio tanto bene!. Canzoni che sembrano già addii.

La sera del 31 dicembre 1937, mentre la città si preparava a festeggiare, Ernesto De Curtis chiese di ascoltare un’Ave Maria da lui composta e dedicata a Gigli. Poi si spense.
Napoli perse una voce. Ma non la sua musica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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