Esiste nel nostro centro storico un antico monastero con annessa chiesa che con le sue alte mura di tufo giallo sembra voler separare due mondi: fuori, il caos della città; dentro, una clausura secolare dove il tempo si è fermato.
Fuori il mondo caotico del vociare della ” strada dei pastori “dove si affacciano le famose botteghe dove si fabbricano statuine per il presepe di ogni tipo e foggia e dentro, protetto da massiccie severe mura un luogo di intensi silenzi e poteri : il monastero delle Benedettine di San Gregorio Armeno,uno spazio tutto femminile blindato dal mondo, dove tempo fa , le rivalità, le gelosie e il potere si facevano taglienti.
A Napoli, come in molte città d’Italia, le famiglie nobili erano costrette a spartire il proprio patrimonio tra più eredi. Per evitare la dispersione del titolo o dell’eredità, le figlie femmine — se non si sposavano con doti ingenti — venivano spinte verso la vita monastica. Era un modo per preservare i beni di famiglia, ma anche per mantenere lo status sociale. In particolare, essere accolte in un luogo come San Gregorio Armeno dava prestigio e potere.
Molte giovani non avevano alcuna vocazione religiosa, ma dovevano fingersi devote. Una “recita” di fede, imposta più dal sangue blu che dalla voce dell’anima. I parenti delle religiose spesso infatti influenzavano le nomine delle badesse o delle custodi per il solo fatto di donare prestigio al loro casato nabiliare . Divenire addirittura badessa , non significava infatti per le varie famiglie nobiliari avere una figlia dedita ad una vita di clausura spirituale, ma un microcosmo politico, dove ogni gesto aveva un significato e ogni parola poteva diventare scandalo.
In questo contesto fu inserita Enrichetta: non come suora per scelta, ma come sacrificio familiare. Una pedina femminile messa al sicuro in un luogo rispettabile, per non dover spartire il patrimonio, per non doversi preoccupare di una dote. Lei però non accettò mai il silenzio imposto. Era nata per parlare, per scrivere, per denunciare. Il monastero voleva piegarla. Lei, invece, ne avrebbe svelato i misteri al mondo.
con C’è in questa strada anche una vecchia chiesa con annesso monastero del 930, rifatto poi verso la fine del Cinquecento, che fu, in tanta parte, teatro delle drammatiche vicende di una monaca; un caso che destò profonda impressione in tutta Italia. È la storia di una donna a cui fu imposto il rigore della più ignobile disciplina claustrale; vessata, perseguitata e torturata, lottò per vent’anni con eroica determinazione per la conquista della propria liberta.
Il monastero, luogo di potere e silenzi
Il monastero di San Gregorio Armeno, dove Enrichetta fu rinchiusa, non era un semplice convento. Era un’istituzione antica, prestigiosa, potente. I suoi chiostri ospitavano da secoli le figlie dell’aristocrazia napoletana. Non per vocazione religiosa, ma per strategia familiare.
A Napoli, come in molte città d’Italia, neanche molto tempo fa, le famiglie nobili erano costrette a spartire il proprio patrimonio tra più eredi. Per evitare la dispersione del titolo o dell’eredità, le figlie femmine — se non si sposavano con doti ingenti — venivano spinte verso la vita monastica. Era un modo per preservare i beni di famiglia, ma anche per mantenere lo status sociale. In particolare, essere accolte in un luogo come San Gregorio Armeno dava prestigio e potere.
Molte giovani non avevano alcuna vocazione religiosa, ma dovevano fingersi devote. Una “recita” di fede, imposta più dal sangue blu che dalla voce dell’anima.
Il monastero era anche uno spazio blindato dal mondo, un mondo tutto femminile dove però le rivalità, le gelosie e il potere si facevano taglienti. I parenti delle religiose spesso influenzavano le nomine delle badesse o delle custodi. Non era solo una clausura spirituale, ma un microcosmo politico, dove ogni gesto aveva un significato e ogni parola poteva diventare scandalo.
In questo contesto fu inserita Enrichetta: non come suora per scelta, ma come sacrificio familiare. Una pedina femminile messa al sicuro in un luogo rispettabile, per non dover spartire il patrimonio, per non doversi preoccupare di una dote. Lei però non accettò mai il silenzio imposto. Era nata per parlare, per scrivere, per denunciare. Il monastero voleva piegarla. Lei, invece, ne avrebbe svelato i misteri al mondo.
Dietro il muro di San Gregorio Armeno
Nel cuore di Napoli, dove le vie brulicano di voci, profumi e venditori ambulanti, c’è una strada che sembra trattenere il fiato. Lì, incastrato tra il vociare dei pastori e il frastuono dei mercati, si alza il monastero delle Benedettine di San Gregorio Armeno. Massiccio, severo, il suo muro di tufo giallo sembra voler separare due mondi: fuori, il caos della città; dentro, una clausura secolare dove il tempo si è fermato.
Dietro quelle grate, per oltre vent’anni, visse Enrichetta Caracciolo, figlia di nobili, colta, sensibile, intelligente. Fu costretta a varcarne la soglia senza vocazione, senza reato, senza appello. Vittima della povertà della sua famiglia e della volontà inflessibile di una madre che, dopo la morte del marito, vide nel chiostro l’unica soluzione per non dover mantenere una figlia scomoda.
Aveva diciannove anni Enrichetta, e credeva ancora nell’amore. Amava un uomo che le aveva promesso il matrimonio, Domenico, ma quell’amore fu sepolto dalle convenienze e dai rancori. Quando capì che nulla si sarebbe interposto fra lei e il portone del convento, fu troppo tardi.
La accolsero con ipocrisie zuccherose, con vassoi di dolci, con carezze finte e promesse di ritorni che non sarebbero mai avvenuti. Fu presentata alle suore come una «fortunata» ammessa a condividere il privilegio della clausura. Lei capì subito che si trattava di una prigione. Ma la consapevolezza, in quel luogo, era un lusso doloroso.
⸻
San Gregorio Armeno era un mondo a sé. Cinquantotto monache, molte delle quali mai uscite di casa prima di prendere il velo, figlie cadette sacrificate sull’altare delle eredità di famiglia. Donne intelligenti, forti, educate… eppure rimosse da ogni contesto sociale, private della possibilità di scegliere, cresciute nel mito della rinuncia e nell’analfabetismo emotivo.
Là dentro, si viveva di superstizioni e confessioni eterne, si combatteva contro il tempo e la carne, si amavano confessori, si odiavano sorelle, si impazziva lentamente. La fede era spesso mascherata da costrizione, la devozione da necessità. Enrichetta osservava tutto, annotava, rifletteva. Fin da subito decise che non sarebbe stata una di loro.
La prima notte la passò accanto ad Angela Maria, una conversa dal volto butterato e gli occhi fissi. Una figura grottesca che si aggirava di notte tra le celle, tormentata da passioni morbose. Una delle tante anime spezzate tra quelle mura.
Nei primi mesi, Enrichetta fu vittima di vessazioni e tentativi di indottrinamento. La trattavano come una ribelle, e lo era. Il suo spirito non si piegava. Cercava conforto nella musica, ma il pianoforte era proibito. Si rifugiava nei libri, ma le tolsero anche quelli. Scriveva appunti, ma le confiscarono penna e carta.
La pressione psicologica era continua. Le monache la osservavano, la controllavano, la giudicavano. Ogni gesto era un rischio, ogni parola poteva essere fraintesa. Eppure, in quel microcosmo asfissiante, lei resisteva. La sua forza stava nella lucidità. Capiva ciò che le altre si erano rassegnate ad accettare: la clausura non era santità, ma segregazione travestita da virtù.
⸻
Le storie si intrecciavano. Amori malati per confessori, gelosie, drammi silenziosi. Una suora si gettò dalle scale, un’altra impazzì per amore. Una giovane educanda, Chiarina, morì sotto le torture inflitte per «raddrizzare» il suo corpo malformato. Enrichetta la vegliò, la pianse, ne fece simbolo della violenza che si consumava nel silenzio.
Quando domandò di uscire per motivi di salute, il cardinale Riario Sforza la derise. Le sue istanze venivano sistematicamente bloccate. Ogni tentativo di liberazione si scontrava con il muro della Chiesa. Le fu detto che non aveva l’aria di un’ammalata. Che le donne sono isteriche. Che i medici sono ciarlatani.
Ma Enrichetta non si arrese.
Continuò a scrivere, in segreto, le sue Memorie. Raccolse episodi, parole, volti, nomi. Conservò tutto. Quel diario sarebbe divenuto la sua arma più potente.
⸻
Dopo otto anni di clausura, l’isolamento si fece insopportabile. Cercò la secolarizzazione, tentò l’impossibile, si appellò a ogni autorità. Subì persecuzioni, privazioni, fu ridotta a pane e acqua, rinchiusa in istituti sotto sorveglianza, arrestata, minacciata. Visse reclusa per vent’anni. Vent’anni di abusi, soprusi, bugie, manipolazioni.
Eppure resistette.
Resistette alla fame, al dolore, ai rifiuti. Resistette ai preti molesti, alle monache vendicative, alle madri ingiuste. Resistette all’umiliazione e alla solitudine.
Quando finalmente, nel 1854, le fu concessa la libertà, Enrichetta uscì con la dignità di chi ha saputo difendere sé stessa contro ogni potere.
⸻
La clausura non le aveva tolto tutto. Le aveva lasciato la forza della testimonianza.
E fu così che la monaca di San Gregorio Armeno si trasformò in scrittrice, conferenziera, giornalista. Raccontò la verità, la sua e quella di tante altre donne. Scrisse, denunciò, partecipò attivamente al risorgimento civile e politico della sua epoca.
Enrichetta Caracciolo non uscì da quel monastero come una vittima. Ne uscì come una testimone.
Come una donna libera.
C’è un angolo nascosto nel cuore di Napoli, tra i vicoli antichi che profumano di pietra e silenzio, dove si respira ancora l’eco di una vita negata. È lì, tra le mura del Monastero di San Gregorio Armeno, che si consumò una delle storie più drammatiche – e dimenticate – dell’Ottocento napoletano: quella di Enrichetta Caracciolo.
Nata nel 1821 in una delle famiglie nobili più in vista del Regno delle Due Sicilie, Enrichetta aveva davanti a sé un destino che sembrava già scritto. Ma non da lei. Alla morte del padre, la madre – rimasta sola con figli da sistemare – prese una decisione che era fin troppo comune all’epoca: destinare la figlia femmina al convento.
A quel tempo, non era raro che le famiglie aristoc…
Ancora oggi San Gregorio Armeno, la via più misteriosa di Napoli, nel periodo di Natale diventa impraticabile, tanta è l’affluenza dei visitatori provenienti da ogni parte del mondo per vedere “la strada dei pastori” Qui, infatti, si affacciano le famose botteghe dove si fabbricano statuine per il presepe di ogni tipo e foggia. C’è in questa strada anche una vecchia chiesa con annesso monastero del 930, rifatto poi verso la fine del Cinquecento, che fu, in tanta parte, teatro delle drammatiche vicende di una monaca; un caso che destò profonda impressione in tutta Italia. È la storia di una donna a cui fu imposto il rigore della più ignobile disciplina claustrale; vessata, perseguitata e torturata, lottò per vent’anni con eroica determinazione per la conquista della propria liberta.
Si chiamava Enrichetta Caracciolo dei principi di Forino, era nata a Napoli il 17 febbraio del 1821, quinta di cinque femmine. Il padre Gennaro, principe di Forino, era un ufficiale superiore dell’esercito borbonico; la madre, Teresa Cutelli, aveva appena quattordici anni quando andò in sposa al principe di Forino.
Enrichetta cresceva nel tenero affetto del padre e in quello, più austero, della madre. Si dedicava con passione agli studi e andava ben oltre le prescrizioni dei suoi maestri.
A quattordici anni il suo cuore si destò alla stagione degli amori. Tra la folla dei vagheggini che le ronzavano intorno scorse un giovane di grande fascino, di nome Carlo. Da quel giorno, le incantevoli sofferenze d’amore iniziarono a turbare il suo giovane animo. Ella amava quel giovane con «poesia limpida, pura, cristallina, una poesia che ella sentiva infusa in tutto il suo essere»’. Il giovane sembrava ricambiare quell’amore fatto di sguardi, di saluti, di sospiri. Enrichetta già pensava al matrimonio, quando apprese che il suo Carlo stava per sposare un’altra donna; seppe poi che il romantico gentiluomo aveva preferito un partito più facoltoso.
Fu questa la prima grande delusione della sua vita.
La giovane, superato il trauma dell’inganno, riacquistò la naturale spensieratezza. A Reggio nella Calabria, dove viveva perché il padre era di stanza, riprese a frequentare la buona società e ad essere al centro dell’ammirazione sia per la sua intelligenza, sia per la sua bellezza.
Una sera il padre ricevette la visita di un funzionario civile, accompagnato dal figlio Domenico. Questi pose lo sguardo sulla dolce Enrichetta, che notò in quegli occhi «un fascino ammaliatore».
Le premure del giovane le infiammarono il cuore, che prese a palpitare senza freni quando Domenico le fece recapitare un biglietto con struggenti parole d’amore.
Qualche giorno dopo, per formalizzare la richiesta di matrimonio, si presentò a casa dei principi di Forino l’avo di Domenico. La signto poca simpatia per Domenico, domandò perché a chiedere la mano della figlia fosse il nonno e non il padre. Le fu risposto che questi non condivideva la scelta del figlio. Da quel momento fu proibito al giovane di frequentare la casa della promessa sposa.
In quella circostanza Enrichetta aveva trovato nella madre un’ ostilità determinata, nel padre invece conforto e comprensione. Una comprensione che venne presto a mancare. Infatti il padre morì improvvisamente una sera di settembre del 1839 e le sue ultime parole profetiche furono per l’amata Enrichetta: «Solo una cosa mi fa morire scontento ed è il tuo avvenire… Cosa ne sarà di te, povera figlia?».
Alla morte del padre la famiglia Caracciolo restò in condizioni economiche del tutto precarie e donna Teresa, avendo fatto richiesta di una pensione a re Ferdinando iI, decise di trasferirsi a Napoli per sollecitarne la concessione. Prese alloggio in un appartamento ammobiliato di via Toledo e fu qui che Domenico ripropose la sua richiesta di matrimonio.
Donna Teresa si mostrò irremovibile, anche perché aveva in mente altro per quella figlia verso la quale non aveva avuto mai particolare predile-zione. Il giovane, da parte sua, non faceva nulla per rendere le cose più semplici, anzi la sua morbosa gelosia innervosiva la sua futura suocera e lo allontanava sempre più dalla meta. Enrichetta amava quell’uomo, gli aveva promesso di amarlo per sempre e attendeva fiduciosa.
Vivevano a Napoli tre zie monache di Enrichetta, una nel monastero di Santa Patrizia e le altre due in quello di San Gregorio Armeno; qui una delle due era badessa e fu con la complicità di questa che donna Teresa riuscì a mettere in atto il suo piano di rinchiudere la figlia nel monastero
delle benedettine di San Gregorio.
Un giorno Enrichetta si vide recapitare da una serva della badessa un vassoio di dolci, con la notizia che il Capitolo all’unanimità l’aveva ammessa al monastero. Prima incredula, poi stupita e infine disperata, la povera donna scoppiò in un pianto convulso; pronunciava frasi frenetiche, spezzettate, interrotte dai singhiozzi, supplicava la madre di rivedere quella infame decisione. Ne ricevette come risposta tiepide carezze, ipocriti conforti: «Le tue zie ti vogliono bene, sono ricche, consegnandoti a loro fino a tanto io cominci a percepire la mia pensione… Solo due mesi, e poi potrai ritornare».
Enrichetta passò la notte in lacrime e il mattino il pianto continuò inin-terrotto. La madre, insensibile ad ogni supplica, tra un rimprovero e un incoraggiamento la spinse sulla carrozza e le disse: «Sta’ pure certa che fra due mesi verrò a riprenderti».
Giunta al monastero, la badessa le andò incontro, l’abbracciò e le sussurrò: «Ringrazia le suore del favore che ti hanno concesso accettandoti
come loro compagna».
Tutto grondava d’ipocrisia: dai dolci che nascondevano una notizia così devastante, ai ringraziamenti per una immeritata pena, ai sorrisi disgustosi, alle esortazioni di ringraziare Iddio di averla condotta in un luogo di salute.
Dopo questo primo contatto, la giovane ritornò a casa per rientrare in convento dopo le nozze della sorella, avvenute il 2 gennaio del 1840.
La prima notte in San Gregorio Armeno dovette dormire nella camera di sua zia badessa, in una branda accanto a quella di una conversa. Si chiamava Angela Maria, una megera con il viso butterato dal vaiolo, con una bocca larghissima dalla quale spuntavano denti neri; dalle orbite ri-gonfie, due occhi stralunati roteavano senza posa. Occhi che si accendevano di soddisfazione quando poteva procurare del male.
Non ci volle molto ad Enrichetta per capire che si trovava prigioniera tra gente meschina, litigiosa, ignorante, che già parlava di lei come di una donna destinata al monachesimo. Fin dai primi giorni ella comprese che le condizioni intellettuali e morali delle cinquantotto monache professe, che affollavano il monastero, non corrispondevano all’elevatezza dei loro natali. In proposito Enrichetta scriverà:
Dall’egoismo di snaturati genitori e di fratelli, destinate fin dalle fasce a seppellire e mente e cuore e bellezza nella solitudine, ad immolare, meno alla religione che alla avidità dei congiunti, ogni loro affetto, perfino il filiale, a fare solenne e irrevocabile rinunzia dei doveri e dei diritti che vincolano l’individuo alla famiglia, alla na-zione, all’umanità, senza riguardo alcuno all’indole socievole, all’ignea tempera, alla nobiltà del loro carattere ereditario; allevate per tale motivo nell’allontanamento da ogni dottrina, atta a dilatare la sfera delle loro idee, a disciplinare e fecondare i loro sentimenti, ad ingentilirne i costumi; non d’altra cosa al mondo informate, che di leggende, di miracoli, di visioni, di ascetiche fantasmagorie, attinte nelle letture di scarsi libri agiografici, che loro ha consentito l’indice della famiglia; né, sia dentro e fuori di casa, trovatesi una al contatto di altra persona che non fosse uno stretto consanguineo od il proprio confessore. […] Lo storico ed il filosofo che nelle pallide pagine dei cronisti […] non rinvenisse materiali, capaci di ricostruire al naturale quell’era reproba che inaugura e chiude in Italia la dominazione straniera, entri, se potrà, in un convento di donne! Vivi e palpitanti vi troverà tuttora, a dispetto della riforma tridentina, i costumi del secolo dei Borgia, dei Medici, dei Farnesi, le tradizioni delle corti del Colonna e di Pietro di Toledo, 1 pregiudizi del feudalesimo normanno ed aragonese, la crassa ignoranza e le superstizioni del volgo all’epoca degli auto-da-fé. […] Il funebre manto della clausura salvò incolume questa necropoli, come lo strato lapillare del Vesuvio conservò i papiri d’Ercolano, e le mummie di Pompei.
Enrichetta, donna intelligente e colta, andava osservando tutto quanto accadeva intorno a sé. Fu meravigliata nel vedere che le monache si confessavano sedute. Domandò spiegazioni e le fu risposto che la confessione durava ore e quindi sarebbe stato ben faticoso rimanere in ginocchio com’era di uso. Perché tutto quel tempo? Le fecero osservare che il confessore insegnava loro il modo di vivere e che a lui si confidano tutti i pensieri, le aspirazioni, i desideri, «essendo egli l’unico amico, l’unico sfogo, l’unico intermediario, fra il Cielo, il mondo, il chiostro L…..
Smembrate dalla famiglia, noi ritroviamo in lui l’amore paterno, la materna tenerezza, l’affetto dei fratelli e delle sorelle, mentre dal mondo se-parate, nell’intimità che cordialmente a lui ci congiunge rinveniamo la personificazione dell’universo, in compenso della nostra solitudine».
Enrichetta trovò questa consuetudine di trattenersi così a lungo di pessimo gusto: ella avrebbe preferito eseguire un duetto di Rossini sul suo pia-no. Un’altra delle cose che la fatalità le toglieva e di cui ella sentiva la mancanza era «l’uso diletto della musica».
In quell’angusta prigione era assediata dalle monache, che «dal più barbaro vernacolo e dalla più zotica superstizione» traevano argomenti per esorcizzare lo spirito maligno, catechizzarla e convertirla. Ci si mise anche un ignorante confessore di circa quarant’anni che, dando inizio al soli-conisal, Nel incontie di prete ebbe là pegio, trovandosi di trone una donna intelligente e preparata; presto fu a corto di argomenti, prese cappello e si ritirò dicendo: «A questi quesiti darò risposta la prossima volta».
Avendo il prete mostrato interesse per Enrichetta, un’altra monaca si in-gelosì: ne nacque un dramma, di difficile comprensione per la povera donna.
Era il 21 marzo, il giorno di san Benedetto, quando prese l’abito da edu-canda. A celebrare il rito c’era il prete confessore che, terminata la funzione, volle congratularsi con lei e rinnovarle l’invito a non lasciare il convento. Quelle espressioni, lungi da ispirarle affetto per la vita monastica, ne esaltarono la naturale ripugnanza.
Intanto il tempo della sua liberazione si avvicinava e due giorni prima di quello stabilito per l’uscita Enrichetta ricevette una lettera che iniziava con la frase: «Leggetela ai piedi del Crocifisso!».
La lettera, in pessimo italiano, metteva sull’avviso l’educanda che al di fuori del convento sarebbe stata preda degli artigli del demonio. Scopri poi che la lettera era stata scritta da un pretino desideroso di fare la sua intima conoscenza.
Venuto il giorno della liberazione, Enrichetta uscì dal monastero e prese alloggio presso una sorella; seppe che la madre era in procinto di risposarsi e che Domenico si era dimenticato di lei. Secondo il programma avrebbe dovuto raggiungere la madre a Messina, ma questa non le parve la soluzione migliore. Decise di restare a Napoli ospite della sorella.
Quando la madre fu a conoscenza della decisione, interessò le autorità di polizia perché la costringessero a sottostare al suo volere. Si trovò a scegliere «tra un carcere a destra e un altro a sinistra» e con molta riluttanza
decise di rientrare in convento.
La zia badessa l’accolse esultante: «Siete dunque determinata a dare i voti?». Rispose: «Sì». Era questa la condizione per poter usufruire di un temporaneo rifugio, ma restava in lei l’insuperabile ripugnanza per quello stato ed era ferma nel volere un definitivo riscatto.
Il giorno della vestizione fu uno dei più tristi della sua vita. Con gli occhi tumefatti dal lungo pianto si abbandonò alle mille mani che armeggiavano su di lei: le tolsero gli abiti secolari e le misero la veste di lana nera; poi, con la chioma scarmigliata, la spinsero verso la balaustra. Indossò lo scapolare che le porse il vicario, quindi si prosternò davanti alla badessa che alzò sul suo capo la mano armata di grandi forbici. Una voce dal fondo della chiesa si levò tuonante: «Non tagliate i capelli a quella ragazza». Era la voce di un cavaliere che aveva intuito il dramma che in quel momento si stava consumando. Il vicario impose di far silenzio, poi rivolto alla badessa esclamò: «Tagliate, è un eretico». La chioma cadde.
Dopo alcuni mesi Enrichetta pronunciò anche i voti e con essi la sua definitiva sentenza.
Episodi di follia non erano cosa rara tra quelle mura. Angela Maria, la conversa della badessa, fu uno di questi casi. Alla base del suo tragico stato mentale c’era l’insana passione che nutriva per il suo confessore. La gelosia la tormentava. La notte vagava seminuda per il convento per poi approdare nella stanza di Enrichetta. Qui si sedeva e dava inizio alle sue folli declamatorie. Dopo varie manifestazioni di pazzia fu rinchiusa in manicomio. Era appena uscita dal monastero una pazza, che un’altra monaca cominciò a dare segni di squilibrio. Si chiamava Concetta; la si trovava spesso in luoghi appartati a piangere, quando non vagava con gli occhi stralunati. All’alba di una domenica, mentre le suore erano nella cappella, si lanciò dalle scale. La trovarono in terra tutta grondante di sangue. Morì dopo venti giorni tra strazianti dolori e la disperazione delle allucinazioni
Erano ormai trascorsi otto anni da quando Enrichetta era entrata in quel monastero. Aveva ventisette anni, ne aveva viste tante: preti, pretini e confessori con il loro fare ipocrita, quel voler ostentare candore e virtù che non avevano, quel mettere gli occhi su questa o quella monaca, quell’approfittare di ogni circostanza per proporsi nel nome del Signore, quelle interminabili confessioni… Le monacelle con i loro comportamenti equivoci, peraltro incoraggiati: «Io pure ho fatto così! Scapricciatevi, povere ragazze!
In fede mia, si è fatto sempre così», esclamava la nuova badessa, non si sa se si riferendosi ai banchetti, che i preti offrivano, o ad altri convivi.
Anche Enrichetta si innamorò, ma non di un prete, bensì di un medico di cui divenne l’assistente quando faceva l’infermiera. Lo seguiva con gli occhi umiliati a terra senza far trapelare i suoi sentimenti. Un amore soffocato, che non sbocciò mai anche perché quell’uomo aveva dato il suo cuore ad un’altra donna.
Da infermiera, Enrichetta passò a sagrestana. Un ruolo molto ambito perché quell’incarico più degli altri metteva a contatto le monache con i preti. Biglietti falsi furono fatti recapitare a uno dei pretini. Questi si infiammò d’amore per Enrichetta, che gli rivelò l’inganno. Nulla da fare.
L’uomo si era invaghito: piangeva, supplicava, si privava del cibo. Un giorno, durante una funzione, svenne. Fu denunciato al cardinale e obbligato a deporre l’abito clericale.
Questi avvenimenti consolidarono in Enrichetta la risoluzione di lasciare quel luogo «dove ribollivano le macchinazioni e traboccava il fiele dell’invidia». Un episodio emblematico fu quello di Chiarina, una educanda che venne affidata alle cure di Enrichetta.
L’educanda aveva sedici anni e ne mostrava dieci; orfana di genitori, era stata rinchiusa dai fratelli nel monastero. Aveva un volto angelico, sguardo mansueto, un corpo fragile e deforme. Enrichetta l’amava come una figlia, non altrettanto la conversa che le era stata data. Questa prese a tiranneggiarla: la rimproverava quando tossiva, la obbligava a ogni sorta di coazione; Chiarina soffriva in silenzio nel timore di ritorsioni. Colmo dei colmi, un giorno la conversa le impose un busto con stecche di ferro per raddrizzare quel corpo. La poveretta patì le pene dell’inferno. Il medico che la visitò, in occasione di una delle sue crisi, urlò d’indignazione:
«Gli omicidi non si commettono soltanto col pugnale o col veleno. Mettere un tal busto a questa malata è lo stesso che volerla uccidere: comprimendo il suo cuore, voi la mandate alla tomba».
Una mattina la povera Chiarina fu trovata morta.
Enrichetta, sempre oltremodo decisa a lasciare il convento, seppe che poteva continuare a rimanere monaca pur all’esterno del monastero, se ragioni di salute lo avessero richiesto. Era il suo caso. Ella da un po’ di tempo soffriva di un male oscuro: «Diventava sempre più pallida e smil-za, le gote si affossavano, gli occhi si spegnevano, i capelli cadevano a ciocche». Fece la domanda e la corredò di certificato medico.
Passò del tempo, intanto era stato nominato cardinale di Napoli Riario
Sforza, un uomo di ignoranza abissale; quando parlava si faceva fatica a capire cosa avesse voluto concludere e biascicava proverbi latini nella speranza di farsi credere latinista. Frequentava spesso quel monastero e durante le visite voleva conoscere una per una tutte le monache. Venne il giorno di Enrichetta; fu chiamata e ritenne che il cardinale le portasse la risposta della sua istanza. Dunque, con giustificata ansia, entrò nella sala dove sedeva il cardinale, che esordì: «Voi avete avanzato domanda alla Santa Sede per uscire dal chiostro?» «Sì». «E per quale motivo?» «Per ragioni di salute». «Ma voi non avete l’aria di ammalata», replicò il cardinale con un sorriso ironico. «Di che soffrite?» «Di mal di nervi, di convulsioni». «Eh, tutte le donne ne patiscono. Isterismi, isterismi e nient’altro! Voi altre monache vi andate più soggette delle altre femmine secolari». Enrichetta precisò che il suo male era stato certificato dal medico e lui rispose che i medici erano tutti ciarlatani e miscredenti. Poi soggiunse con un pertido ghigno: «Sappiate che tutte le petizioni mandate a Roma dalla mia diocesi sono dalla Santa Sede rimandate a me. La vostra domanda, dunque, si trova nelle mie mani, affinché io ne dia il mio voto.
Ora, per non permettervi che vi pasciate di vane speranze, debbo dichiararvi che il mio voto è contrario. Lasciate ogni speranza di uscire».
Enrichetta ebbe la sensazione che il mondo le cascasse addosso; tornata nella sua cella, si abbandonò alla disperazione. Poi scrisse alla madre la tragica situazione in cui si trovava e la pregò di trasmettere a Roma una nuova supplica.
Un minimo di conforto lo trovò nella lettura e nello scrivere appunti per le sue Memorie. Si dice che si scrive per non rassegnarsi alla solitudine.
Riempì di queste presenze le sue giornate, rifiutando quelle indesiderate delle altre ospiti del convento.
La superiora riferì al cardinale il misantropo comportamento della monaca e questi ebbe un burrascoso colloquio con Enrichetta, durante il quale ella spiegò che cercava nella lettura un conforto all’oppressione che l’abbrutiva e nello scrivere assecondava il bisogno di lasciare memoria di quell’ignobile stato di “captività”. Il prelato ordinò allora di ripulire la sua cella dai libri e da qualsiasi strumento atto alla scrittura. Poi la informò che l’ultima petizione era tornata a lui e che mai e poi mai avrebbe dato l’assenso. «Ed io, da parte mia», urlò Enrichetta, «non cesserò giammai di pretendere la mia liberazione!»
Da quel momento la povera donna decise di puntare al definitivo scioglimento dei voti. Si documentò e presentò dispensa dai voti, motivando la «violenza morale nell’atto della monacazione».
Il 1848 vide Enrichetta schierata dalla parte dei liberali. Ricordando quei giorni, scriverà: «Al clamoroso risvegliarsi dei popoli, al tremendo ruggito delle rivoluzioni, allo strepito delle barricate, al crollo dei troni,che tanto contrastava col sepolcrale silenzio del mio carcere, io provavo una soddisfazione, uno strano contento che mi rapiva».
Scrisse ancora una nuova istanza a Pio IX: il papa liberale avrebbe capito! Depose il tono supplichevole e fece uso di argomentazioni «robuste, come convenivano ai tempi».
Con il famoso 15 maggio i sogni di libertà stavano per svanire. Enrichetta comprese, salì nella sua stanza e bruciò tutte le carte compromettenti; la sua posizione era nota, sapeva di essere tra le schedate nei registri di polizia e una perquisizione l’avrebbe definitivamente compromessa.
In questo frangente ebbe la visita di un cappuccino: era un messo papale che le portava una Breve. Il papa le aveva concesso di lasciare il monastero di San Gregorio per un altro conservatorio. Ella sperava di ricongiungersi con la madre, che intanto si era trasferita a Napoli e aveva dato segni di ravvedimento per tutto il male che aveva procurato alla figlia.
Riario, su tutte le furie, consultò i canonici per cercare un cavillo capace di ostacolare quel provvedimento. Non avendo trovato alcunché di effi-cace, ricorse all’espediente di far cercare all’interessata il conservatorio disposto ad ospitarla. Preceduta da pessime referenze, Enrichetta si sentì dare da tutti la stessa risposta: «Non c’è posto».
Scrisse allora al cardinale, avvertendo che avrebbe informato la Curia di quanto stava accadendo. Riario allora si decise a farle aprire le porte del conservatorio di Costantinopoli. Come ultima rappresaglia la spogliarono di tutti i suoi averi, compresa l’argenteria, e la obbligarono a versare 40 ducati.
La nuova residenza di Enrichetta sorgeva in uno dei quartieri più animati della città; la Breve le consentiva di uscire la mattina e rientrare la sera. Si sentiva così restituita al mondo dei vivi. Ma, ahimè, tornò alla carica Ria-rio, che prima le proibì di passeggiare a piedi, poi di uscire in carrozza anche se accompagnata dalla madre, costituendo questo uno scandalo per le altre monache. Con la stessa motivazione le furono tolti i libri e il pianoforte.
Per ottenere la libertà, Enrichetta pensò di farsi ammettere all’ordine delle canonichesse di Baviera, un ordine simile a quello di Malta che prevedeva il nubilato, ma consentiva alle donne che ne facevano parte di vivere in famiglia. Non fu facile, ma con l’intervento del generale Salluzzi, suo buon amico, riuscì ad essere ammessa.
Fu un espediente privo di successo. Tutto continuò come prima e peggio di prima. Sorvegliata a vista, anche perché ritenuta pericolosa liberale,non le veniva consentia la pur minima libertà
Il Cardinale continuava con ostinata costanza ad infliggergli i più raffinati supplizi .
Non trovando altro le dimezzò l’assegno mensile e poi glielo tolse del tutto e, per ultimo, la mise a pane e acqua.
Una sera, disperata, Enrichetta fuggì dal convento e riparò in casa della madre. Quando il cardinale seppe dell’accaduto, denunciò il fatto al direttore di polizia e si convenne per l’arresto della disgraziata.
Avendo ella saputo dell’imminenza dell’arresto, ricorse a un pio uomo, il cardinale di Capua, Capano Serra. Il buon uomo, ascoltata tutta la travagliata storia della monaca, decise di perorare la sua causa di secolarizzazione e intanto la fece ospitare nel ritiro dell’Annunziata che era sotto la sua giurisdizione. Il buon Capano aveva predisposto ogni cosa, ma non fece in tempo: la morte lo colse prima che potesse spedire il plico a Roma. Il successore di Capano era di tutt’altra pasta e, quindi, le circostanze consigliarono ad Enrichetta il rientro a Napoli. Andò ad abitare presso una delle sorelle in vico Canale a Toledo, ma non restò molto, perché una sera irruppe in quella casa un omaccione accompagnato da un prete di sinistro aspetto.
Il primo era il famoso commissario Morbillo, che le notificò l’ordine di ar-resto. Era con Enrichetta la fidata conversa Maria Giuseppa che, vedendo portar via la padrona, si lasciò andare in pianti e disperazioni. Fu una scena straziante quella della povera ragazza aggrappata alle vesti della padrona mentre gli sbirri, chiamati dal Morbillo, la trascinavano per la stanza.
Enrichetta fu portata nella casa di Santa Maria delle Grazie di Mondra-gone, un ricovero che Elena Aldobrandini nel 1653 istituì per le «donne che venute in basso stato volessero trovarvi vita tranquilla».
All’ingresso di quell’ospizio Enrichetta trovò il prete che si accompagnava a Morbillo. Egli le andò incontro e, con fare mellifluo, le fece capire che con la sua protezione avrebbe potuto ottenere parecchi vantaggi; in cambio ebbe la sfacciataggine di chiederle «di simpatizzare con lui». «Mostro ese-crando», gridò Enrichetta, «vattene in malora, e riferisci a chi ti manda che spero di vedere te e quelli che vi somigliano mandati in perdizione!».
Le fu comunicato che le era proibito di vedere chicchessia, di accostarsi a una finestra, di salire in terrazzo, di scendere in parlatorio, di… di… En-richetta sembrava rapita da un vortice: la testa le girava, cadde a terra. Si svegliò l’indomani con la mente confusa. Rifiutò il caffè e lo stesso fu per il pranzo. Il giorno appresso ricevette la sgradita visita del superiore ecclesiastico. Egli credeva di poter esercitare il suo arrogante potere su quella povera donna, ma trovò un essere al colmo dell’esasperazione che lo mise alla porta imprecando contro di lui e il suo mandante. Il priore si ritirò esterrefatto considerando la donna ormai fuori di senno.
Era il sesto giorno che non toccava cibo e le forze le mancavano; arrivò il medico che, preoccupato, le diagnosticò uno stato di “nervobilioso” febbre complicata con qualche sintomo di congestione cerebrale.
Era chiaro che la monaca puntava al suicidio. Il regio revisore ordinò che fossero tolti dalla cella tutti gli oggetti pericolosi e con essi i bauli.
Fortuna volle che sfuggì alla perquisizione il doppiofondo della cassa che conteneva carte rivoluzionarie, un pugnale e una pistola che le erano stati affidati dal cognato cospiratore Sciare lli .
Il medico, preoccupato per la salute della donna, ogni giorno si recava presso di lei, cercava d’indurla alla ragione e soprattutto a nutrirsi. II buon uomo voleva fare qualcosa per quella povera donna, ma non sapeva come muoversi. Poi si ricordò che tra i pazienti c’era il principe di Cel-lammare, governatore di quell’istituto. “Quale occasione migliore!”, si disse. “Ne parlerò al principe”
Senza porre tempo al tempo, espose il caso al suo paziente, che si mosse in favore della giovane.
Il medico portò la buona nuova ad Enrichetta e le chiese di rimettersi in forma essendo prossima la sua liberazione. La donna si sciolse in un pianto liberatore. Troppo presto per gioire! Le cose si complicarono, il re rispose che la faccenda era di competenza dell’autorità ecclesiastica.
Passarono due anni e mezzo in quel reclusorio. Unico rapporto con il mondo esterno, la corrispondenza con la madre nascosta nelle pieghe della biancheria sporca.
Per mezzo di questa corrispondenza clandestina, Enrichetta riuscì ad ottenere un incontro con il nunzio apostolico, monsignor Ferretti, che promise il suo interessamento.
Passò ancora del tempo e le aspettative di Enrichetta si affievolirono.
Tentò il suicidio, meditò la fuga e, infine, si rivolse a una zia affinché perorasse la sua causa direttamente presso il pontefice.
Nel frattempo la madre si aggravò. Chiese al cardinale il permesso di darle l’ultimo saluto. Un deciso diniego fu la risposta e la madre spirò con il dolore di non poter rivedere la figlia.
Una serie di circostanze, non ultima l’interessamento del nunzio, fecero capire a Riario che le cose stavano cambiando e buon per lui se avesse mitigato quell’atteggiamento persecutorio. Fu costretto a trasferirla a Ca-stellammare, sotto la giurisdizione di un altro vescovo. Così dopo tre anni e quattro mesi, il 4 novembre del 1854 Enrichetta rivide la luce. Nel paesino vesuviano trascorse undici mesi, poi chiese al vescovo di ritornare a Napoli. Gli amici liberali la reclamavano e lei era ansiosa di dare il suo contributo alla causa. Le fu concesso e, rientrata nella capitale, prese in incognito un quartierino in fitto in un palazzetto del Vasto. La persecuzione non era finita: si sentiva sorvegliata, braccata; cambiò casa più vol-te, fu rintracciata e sottoposta ad interrogatorio. Ma le cose ormai stavano cambiando: «La libertà è in piedi con le ali spiegate. L’Italia, grande de-
funta, si è ridestata», fu il grido che trascriverà nelle Memorie.
Il 7 settembre 1860 Napoli fu presa da una frenetica agitazione; Enri-mchetta fu tra le prime a scendere in piazza e ad andare incontro a Garibaldi. «Era salva due volte: dal dispotismo dei preti e dalla persecuzione delle spie». Gettò il velo e andò incontro alla libertà
Enrichetta sposò poi un uomo che amò profondamente e da cui fu ricambiata.con pari intensità .
Una serie di circostanze, non ultima l’interessamento del nunzio, fecero capire a Riario che le cose stavano cambiando e buon per lui se avesse mitigato quell’atteggiamento persecutorio. Fu costretto a trasferirla a Ca-stellammare, sotto la giurisdizione di un altro vescovo. Così dopo tre anni e quattro mesi, il 4 novembre del 1854 Enrichetta rivide la luce. Nel paesino vesuviano trascorse undici mesi, poi chiese al vescovo di ritornare a Napoli. Gli amici liberali la reclamavano e lei era ansiosa di dare il suo contributo alla causa. Le fu concesso e, rientrata nella capitale, prese in incognito un quartierino in fitto in un palazzetto del Vasto. La persecuzione non era finita: si sentiva sorvegliata, braccata; cambiò casa più vol-te, fu rintracciata e sottoposta ad interrogatorio. Ma le cose ormai stavano cambiando: «La libertà è in piedi con le ali spiegate. L’Italia, grande de-
funta, si è ridestata», fu il grido che trascriverà nelle Memorie.
Il 7 settembre 1860 Napoli fu presa da una frenetica agitazione; Enrichetta fu tra le prime a scendere in piazza e ad andare incontro a Garibaldi. «Era salva due volte: dal dispotismo dei preti e dalla persecuzione delle spie». Gettò il velo e andò incontro alla libertà
Enrichetta sposò poi un uomo che amò profondamente e da cui fu ricambiata con pari
