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Entrare nel chiostro maiolicato di Santa Chiara è come varcare la soglia di una dimensione in cui la storia, l’architettura e la vita quotidiana si intrecciano con la stessa naturalezza con cui lo sguardo percorre i colori vividi delle ceramiche. Si giunge qui dal coro delle clarisse, attraverso la grande scala il cui accesso sulle pareti conserva ancora tracce degli affreschi di Belisario Corenzio, e ci si ritrova improvvisamente in uno spazio che, pur essendo parte del cuore antico di Napoli, sembra sottrarsi al ritmo concitato della città per offrire un luogo di raccoglimento, bellezza e riflessione.
Il chiostro che si apre dinanzi al visitatore è quello che oggi viene definito il chiostro grande, storicamente noto come chiostro delle clarisse e, per tradizione, dei frati minori: una superficie che si stende leggermente rettangolare, lunga poco più di 82 metri e larga oltre 78, scandita da una sequenza regolare di pilastri ottagonali rivestiti di maioliche e sormontati da archi a sesto acuto. Questo spazio non nasce dalla volontà di mostrare solo un esercizio di stile; piuttosto, costituisce la manifestazione di un profondo desiderio di armonia, di ordine e di accoglienza, voluto dalla badessa Ippolita di Carmignano nella prima metà del Settecento, quando affidò ad Antonio Domenico Vaccaro l’incarico di trasformare il chiostro rendendolo adatto alla vita delle monache, spesso provenienti da famiglie aristocratiche.
Percorrendo i porticati del chiostro si percepisce immediatamente il senso di questo progetto: non si tratta semplicemente di camminare, ma di essere accompagnati, passo dopo passo, da un linguaggio figurativo che parla di paesaggi campestri, scene mitologiche, festoni di fiori e frutti, tutti temi tipici della scuola napoletana della maiolica settecentesca. Le ceramiche di Donato Massa e di suo figlio Giuseppe che ricoprono le colonne, i sedili e i pannelli delle pareti interne narrano storie apparentemente semplici eppure profondamente legate alla sensibilità culturale di un’epoca in cui il rococò, nato altrove e qui interpretato con felice libertà, esplode in una ricchezza di forme e colori. Le fasce ornamentali non sono mai gratuite: accompagnano il ritmo dei portici, sottolineano le proporzioni mutevoli dello spazio e, insieme alla vegetazione del giardino, contribuiscono a creare un’atmosfera che invita alla pausa, alla contemplazione, alla riflessione.

Al centro del chiostro, il giardino rialzato, diviso in aiuole delimitate da bordi di piperno, è attraversato da quattro viali in croce, secondo un disegno che richiama l’idea di una croce cristiana e al tempo stesso organizza lo spazio in modo chiaro e leggibile. Attorno a queste aiuole si intrecciano anche pergolati — un tempo coperti da un lucernario pensato per riparare i passanti e le maioliche stesse — oggi segno della presenza e della storia del luogo, arricchiti da viti reali e da elementi di maiolica che sembrano animarsi alla luce del sole. Due antiche fontane, composte da pezzi di epoche precedenti, aggiungono un ulteriore elemento di memoria storica e di piacere sensoriale: un richiamo discreto all’acqua come elemento di vita e di purificazione.
Passeggiando lungo i porticati è impossibile non notare le allegorie dei quattro elementi naturali — acqua, terra, aria e fuoco — dipinte sui parapetti dei pilastri. Queste scene, lontane dal puro abbellimento, costruiscono un dialogo tra natura, architettura e cultura, quasi a invitare chi cammina qui a riflettere sul rapporto tra l’uomo e il mondo che lo circonda. È un chiostro che non si limita a offrire riparo, ma propone un’esperienza sensibile dello spazio: camminare, guardare, ascoltare, sostare.
Il ciclo di lavori che trasformò l’aspetto del chiostro tra il 1739 e il 1742 mantiene una continuità di linguaggio pur nella sua ricchezza decorativa. Vaccaro, intervenendo su un impianto già esistente, seppe combinare la chiarezza dei motivi architettonici con l’esuberanza temperata delle superfici decorate, in un rapporto che ancora oggi colpisce per intensità ed equilibrio.
All’interno del complesso di Santa Chiara si annidano altri spazi minori eppure altrettanto preziosi: il chiostro di San Francesco, detto anche chiostrino, dalle dimensioni più raccolte e dalla planimetria irregolare, rimasto intatto nel suo impianto trecentesco ma difficilmente visitabile per la rigida clausura delle clarisse; e un altro chiostro posto dietro il refettorio settecentesco, che conserva ancora le tracce della sua origine gotica. Questi spazi, pur meno noti del chiostro maiolicato, denunciano la complessità e la stratificazione di un luogo che è stato pensato, nel corso dei secoli, come comunità di vita religiosa, di ospitalità, di cultura e di introspezione.


Uscendo dal chiostro si prova la sensazione di aver attraversato un frammento di storia che parla di fede, di arte, di saperi tecnici e di sensibilità estetiche: un luogo in cui il passo di chi visita si fonde con i segni di chi ha abitato e trasformato questo spazio, rendendolo uno dei gioielli più amati e visitati di Napoli. Qui, in mezzo a maioliche scintillanti e ai viali ombrosi, la città rivela non solo la sua storia, ma anche la sua capacità di rendere vivibile e introspezionale ogni luogo di pietra e colore.






