Il  Vesuvio dormiva tranquillo da 800 anni.
La mattina del 24 agosto dell’anno 79, faceva caldo, troppo caldo anche per un giorno di piena estate; era il segnale che il grande gigante dormiente si stava risvegliando.
Nelle prime ore del pomeriggio ad un tratto tutti furono scossi dal sinistro brontolio che rimbombava nel ventre del vulcano. Un brontolio che sembrava fatto di mille tuoni. Il rombo fece tremare la terra, ed infine  la grande montagna di fuoco esplose. La cima del vesuvio si squarciò con uno spaventoso boato, si innalzò una grande nube di cenere seguita da una fitta pioggia di fuoco mentre dalla bocca del vulcano un nero fiume di cenere e lapilli percorse le città seminando ovunque morte e distruzione.
Le città ai piedi del Vesuvio furono tutte investite da queste nubi ardenti di cenere e gas che correvano a 300 km all’ora e arrivavano a centinaia di gradi.
La colata di fango, di  pietre, e di lava colpì con tutta la sua violenza le città ed i suoi abitanti.   Migliaia di uomini, donne e bambini cercarono scampo verso il mare in tempesta per il maremoto; trovarono invece la morte soffocati dai gas tossici, prodottisi nell’eruzione.
La prima città ad essere investita dal disastro fu Ercolano a cui fece seguito Pompei.
Le città furono tutte sepolte e  immortalate  in un lungo sonno di secoli.

Ci sono  due lettere inviate da Plinio il Giovane (allora diciassettenne ) allo storico Publio Cornelio Tacito che descrivono in maniera precisa e suggestiva l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., nel corso della quale trovò la morte anche lo zio, Plinio il Vecchio.

Lo scrittore latino Plinio il Giovane era stato adottato dallo zio Plinio il Vecchio che abitava nel golfo di Napoli. Da qui assistette all’eruzione del Vesuvio e alla stessa morte dello zio.  In un secondo momento lo storico Tacito chiese a Plinio il Giovane di raccontargli della morte dello zio per aiutarlo a scrivere ai posteri di quell’incredibile eruzione. Conosciamo oggi con precisione la data dell’eruzione proprio grazie a queste lettere.

Quel pomeriggio del 24 agosto dell’anno 79, quando il Vesuvio decise di svegliarsi dal suo lungo sonno, Plinio “il vecchio”, capo e prefetto della flotta dell’Imperatore Tito, si trovava a Miseno ad esercitare il comando della sua flotta stanziata nel golfo.

Da lontano e da quel luogo lui ed i suoi uomini, sentirono un gran boato, ma sopratutto videro innalzarsi oltre il mare nella zona a nord-est del Golfo di Napoli, una grossa nube di straordinaria forma e grandezza ( simile ad un pino) che si estendeva sulle case di Ercolano, Pompei e Oplonti (attuale Torre Annunziata).

Plinio “il vecchio” era un uomo di grande cultura  e grande studioso dei  fenomeni naturali e da scienziato appassionato, attratto dallo straordinario fenomeno senza pensarci sù neanche un istante fece immediatamente preparare una nave veloce per poter meglio osservare da vicino la zona interessata.
Questi, attratto dallo straordinario fenomeno (degno di essere osservato più da vicino) decide di avvicinarsi, quanto più possibile, con una piccola imbarcazione, alla zona interessata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel mentre si preparava a partire riceve un messaggio con un invocazione di aiuto da parte di amici (Rectina, moglie di Casco) che si trovano nell’area vesuviana.

Nel messaggio Rectina, spaventata dall’imminente pericolo (la sua villa stava proprio sotto la nube) resasi conto che l’unica via di fuga per scampare il pericolo non era altri che montare su una nave, lo supplicava di liberarla da una situazione così tremenda.
Plinio allora cambia idea e lasciato per un istante da parte il suo animo studioso, animato da altrettanto spirito eroico,  fece subito mettere in mare alcuni quadriremi e si imbarcò per recare soccorso non solo a Rectina ma a tutti coloro che potevano essere salvati.
Non venendo meno al suo dovere di capo della flotta, armato di solo eroico coraggio e di curioso entusiasmo di studioso ricercatore, puntò dritto il timone verso il pericolo, contrariamente a quello che facevano tutti gli altri che andavano nel verso opposto scappando e allontanandosi dalla nube nell’intento di scampare il pericolo che li minacciava.
Nel suo viaggio prese appunti e annotò tutti i momenti e tutti i fenomeni di quel disastro, ma purtroppo i suoi appunti non son stati mai letti da nessuno.
Già sulle navi la cenere cadeva più calda e più fitta man mano che si avvicinavano; già cadevano anche i pezzi di pomice e pietre annerite ed arse e spezzettate dal fuoco.

Plinio non puntò verso le città alle pendici del vulcano in fiamme ma inizialmente verso Torre del Greco; ma un inatteso bassofondo gli impedisce di sbarcare.

Si trovarono in acque basse e il lido per i massi rotolati giù dal monte era divenuto inaccessibile. Egli rimase un momento incerto se dovesse tornare indietro. Poi, al pilota che lo consigliava di tornare indietro disse: ‘La fortuna aiuta gli audaci; drizza la prora verso la villa di Pomponiano a Stabiae!’.
Decise quindi  di far rotta su Stabia che si trovava ad un passo da Pompei ed Ercolano, dove si trova la villa dell’amico Pomponiano.
Lì, Pomponiano aveva fatto caricare su navi il bagaglio ed era determinato a fuggire, se il vento contrario si fosse placato. Per Plinio invece, il vento soffia molto propizio ed egli riesce a sbarcare. Trovò l’amico terrorizzato e abbracciandolo lo consolò e gli fece coraggio.
Plinio, pur sapendo di mentire, per liberare gli animi dalla paura, andava dicendo che quelli che ardevano erano fuochi lasciati accesi dai contadini nella loro fuga precipitosa, e ville abbandonate che bruciavano nella solitudine.
Intanto su più parti del Vesuvio risplendevano larghe strisce di fuoco e alti incendi, il cui bagliore e la cui luce venivano aumentati dall’oscurità della notte.

Quella notte Plinio, ospitato nella villa dell’amico, si ritirò nel suo appartamento e si addormentò. Ma il cortile da cui si accedeva all’appartamento, per cumulo di cenere e lapilli, aveva tanto accresciuto il suo livello che egli, se avesse ancora indugiato nella stanza, non sarebbe potuto uscirne più. Perciò fu svegliato. Venne fuori e si ricongiunse a Pomponiano e gli altri che avevano trascorso tutta la notte senza chiudere occhio.
Discutono tra loro se sia interesse comune rimanere dentro l’abitazione o uscire all’aperto. La casa, infatti, vacillava per frequenti e violente scosse di terremoto e quasi divelta dalle sue fondamenta, pareva ondeggiare ora qui ora là, e poi ricomporsi di nuovo in quiete.
D’altronde, all’aperto si temeva la caduta di lapilli, e pietre pomici anche se leggeri e porose Tuttavia si confrontarono i rischi e si scelse di uscire all’aperto. Fuggirono affrontando i lapilli infuocati che cadevano dal cielo sempre più insistenti con l’unico scudo che trovarono: cuscini legati sul capo.
Deliberarono di raggiungere la spiaggia e di vedere dal punto più vicino possibile se ormai il mare consentisse un tentativo di fuga. Ma il mare ancora grosso continuava ad essere contrario.
La cenere oscurò il sole e le fiamme si facevano sempre più vicine. Dove in altre parti era giorno lì era notte: una notte più fitta e più nera di tutte le notti rischiarata solo di tanto in tanto dalle molte colonne di fuoco e dagli stesi focolai di fiamme. L’odore di zolfo diveniva sempre più forte mentre ceneri e gas dominavano la scena.

Plinio il Vecchio, probabilmente intossicato dai gas, viene colpito da un malore.

Allora fu steso un lenzuolo per terra e adagiato sullo stesso chiese più volte acqua fresca da bere. In seguito le fiamme e un odor di zolfo annunciatore del fuoco costrinse gli altri a fuggire e a lui di alzarsi. Si tirò su appoggiandosi a due schiavi, ma ricadde presto a terra.
Non potendo continuare la fuga, venne abbandonato dai compagni. Il suo corpo sarà ritrovato solo tre giorni più tardi  intatto e illeso, morto solo per soffocamento provocato dai gas tossici prodottisi nell’eruzione.
Racconta il nipote Plinio il giovane in  una delle lettere scritte  a Tacito …. “Quando il giorno dopo tornò a risplendere (era il terzo da quello che egli aveva visto per l’ultima volta), il suo corpo fu trovato intatto, illeso, coperto dalle medesime vesti che aveva indosso al momento della partenza; l’aspetto era quello di un uomo addormentato, piuttosto che d’un morto”….

Plinio il Giovane scrisse la seconda lettera, riportando la descrizione dei fenomeni che si sarebbero verificati anche nell’area flegrea in occasione dell’eruzione del 79 d.C.

Plinio, sua madre e molti altri abitanti di Miseno abbandonarono le abitazioni per cercare riparo nelle campagne circostanti.

Egli scrive:

…..Precedentemente, per la durata di molti giorni, la terra aveva tremato senza però che ci spaventassimo troppo, perché i terremoti sono un fenomeno consueto in Campania. Ma quella notte, la terra tremò con particolare violenza e si ebbe l’impressione che ogni cosa veniva non scossa, ma rivoltata sottosopra.
….Già il giorno era nato da un’ora e la luce era ancora incerta e quasi languiva. Già le case intorno erano sconquassate. L’ambiente in cui ci trovavamo, pur all’aperto, era tuttavia angusto e la paura di un crollo era forte, anzi certa.
Solo allora decidemmo di abbandonare la città di Miseno.
….Una volta fuori del centro abitato, sostiamo. Molti spettacoli prodigiosi vediamo, molte angosce patiamo. I carri che ci facemmo portare con noi, anche se erano su un terreno assolutamente piano, sobbalzavano ora in una, ora in un’altra direzione e, pur puntellati con sassi, non rimanevano fermi nel medesimo punto.
Inoltre vedevamo il mare ritirarsi, quasi ricacciato dal terremoto. Senza dubbio, il litorale si era allungato e sulle aride sabbie era rimasto al secco un gran numero di pesci.
….Dalla parte orientale, un nembo nero e orrendo, squarciato da guizzi sinuosi e balenanti di vapore infuocato, si apriva in lunghe figure di fiamme: queste fiamme erano simili a folgori, anzi maggiori delle folgori.
….Non molto tempo dopo quel nembo discende sulle terre, copre la distesa del mare. Avvolse Capri e la nascose, sottrasse al nostro sguardo il promontorio di Miseno.
….Rischiarò un poco: non riappariva la luce del giorno, ma era un indizio che il fuoco stava per avventarsi sopra di noi. Ma il fuoco, a dire il vero, si fermò abbastanza lontano. Fu tenebra di nuovo: fu cenere di nuovo, fitta e pesante. Noi ci alzavamo ripetutamente e ci scrollavamo di dosso la cenere. Altrimenti ne saremmo stati coperti e il suo peso ci avrebbe anche soffocato.
…..Alla fine quella tenebra diventò quasi fumo o nebbia e subito ritornò la luce del giorno, rifulse anche il sole: un sole livido come suole essere quando si eclissa. Dinanzi ai miei occhi spauriti tutto appariva mutato: c’era un manto di cenere alta come di neve.

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