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Piazza 7 settembre già un tempo chiamata Largo dello Spirito Santo per la presenza dell’omonima Chiesa, è quello slargo che si trova nella nostra città, sulla famosa Via Toledo , subito dopo Piazza Dante.

Essa è oggi è oggi  chiamata ” sette settembre ” in onore alla data in cui il generale Giuseppe Garibaldi ( il 7 settembre 1860 )   fece il suo ingresso nella città partenopea .

L’eroe dei due mondi arrivò a Napoli a bordo di un treno accompagnato da tutte le personalità che erano andate a Salerno per accoglierlo. In testa al corteo Liborio Romano, Ministro di Polizia e Salvatore De Crescenzo, capo della camorra dell’epoca, detto “Tore ‘e Criscienzo”, i cui uomini mantennero l’ordine pubblico.
Garibaldi quel giorno dopo aver percorso via Marina, essere passato dinanzi il Maschio Angioino ed essersi fermato al Duomo per ascoltare il “Te Deum “e a Largo di Palazzo, ( attuale piazza del Plebiscito) si diresse a Palazzo Doria D’Angri, ( che affaccia su Largo dello Spirito Santo ) , dal cui balcone proclamò l’annessione delle province meridionali al Regno sabaudo ( dando origine così ‘ alla questione meridionale ).
Questa data segnò l’inizio della fine. La fine del Regno delle due Sicilie e l’inizio del patto tra Stato e Camorra a Napoli. A sostegno di quest’ultima tesi le carte che dimostrano che il 26 ottobre 1860 Garibaldi pagò una pensione vitalizia di 12 ducati mensili a nome di Antonietta Pace, Carmela Faucitano, Costanza Leipnecher, Pasquarella Proto e Marianna De Crescenzo, le principali esponenti femminili della Camorra napoletana. Quest’ultima era sorella proprio di quel De Crescenzo che aveva camminato accanto a Garibaldi al suo ingresso a Napoli. Il losco personaggio aveva acquistato il ruolo di intermediario tra politica e camorra quando Liborio Romano per contrastare le sommosse nate sulla scia di quella siciliana del 1848 lo chiamò per chiedergli di radunare tutti i capi-quartieri della città e stipulare un patto di aiuto reciproco.
Liborio Romano non reclutò solo “Tore”, già nel luglio 1860 altri camorristi furono nominati funzionari di polizia.

N.B. Liborio Romano era il corrispondente di Camillo Benso di Cavour e ovviamente appena Garibaldi entro’ a Napoli, formò immediatamente un governo con a capo proprio Liberio Romano che come primo atto ufficiale cedette al Piemonte la potente flotta da guerra borbonica.

Ora fermo restando il ruolo della camorra , sempre sottovalutato nella congiuntura di unificazione del regno borbonico a quello sabaudo piemontese, quello che mi ha sempre incuriosito è del  perché Garibaldi scelse una piccola piazza, poco più di un bivio su via Toledo,per dichiarare ad un intero enorme popolo un evento cosi importante che aavrebbe poi cambiato il corso della storia . Il luogo ideale avrebbe dovuto essere  Largo e Palazzo (subito dopo chiamata   Piazza Plebiscito), ma lì avrebbe rischiato il flop. Il luogo era troppo grande e poco controllabile dai camorristi , i quali consigliarono appunto lo slargo dello Spirito Santo. Meglio una piccola piazza straboccante che una immensa piazza semivuota!

Largo di Palazzo così chiamata perche si trovava  antistante prorio al palazzo reale,era ( e lo è ancora oggi  ) l ‘area pubblica più grande di tutta la città. nonchè il luogo privilegiato per lo svolgimento di feste , cavalcate, parate militari, e celebrazioni.

Nella piazza si organizzavano non solo  gare di destrezza e giostre d’armi ma anche delle famose feste popolari e molto desiderate dal popolo che terminavano con la famosa ” cuccagna “.

Essa occupa uno spazio complessivamente di quasi 25 mila metri quadrati e rappresenta la   piazza più grande della nostra città , ma sopratutto  è considerata da molti , una delle più belle del mondo.

Ancora oggi per organizzare  grandi eventi ,  grandi manifestazioni e molti concerti in città viene scelta questa piazza .

Quale luogo migliore quindi per Garibaldi per comunicare ad un regno interno l’Unione d’Italia ?

 

 

 

 

Tutto questo dovremmo chiederlo ovviamente sopratutto al ministro di Polizia  Liborio Romano , il Generale Giuseppe Garibaldi ma sopratutto al capo della Camorra dell’epoca  Salvatore De Crescenzo, , detto “Tore ‘e Criscienzo”, i cui uomini mantennero in quel momento storico  l’ordine pubblico in città.

Ma purtroppo i maggiori protagonisti del patto Stato Camorra avvenuto nella nostra città hanno portato via questo segreto con la loro morte ed i libri poi scritti dai vincitori ovviamente mai accennano a questo episodio .

Noi possiamo solo dirvi con certezza che Salvatore De Crescenzo era ben noto ai piemontesi ed al capo della polizia per i suoi  loschi affari in città e la sua presenza su quel balcone rappresentava solo una minaccia per chi volutamente non inneggiava a Garibaldi e alla sua dichiarata  annessione del regno borbonico a quello piemontese.

Il noto camorrista faveva parte di una famiglia molto nota alle forze di polizia nella seconda metà del secolo per alcuni suoi componenti emergenti in attività di camorra nei quartieri e in carcere, correntemente detti Sangiovannari della Pignasecca. Essi esercitavano la loro losca attività sopratutto nel quartiere Montecalvario ed erano soprannominati ” Sangiovannari ” perche originari di San Giovanni a Teduccio, dove inizialmente si dedicavano come attivita lavorativa  al tradizionale facchinaggio.Costoro trasportavano i pesi attraverso una spranga che appoggiavano su una sola spalla, ed essendo quasi tutti di San Giovanni a Teduccio venivano chiamati appunto Sangiovannari.

CURIOSITA’: I Sangiovannari erano dei facchini napoletani dell’Ottocento originari di San Giovanni a Teduccio. Tra questi si distinsero i Sangiovannari della Pignasecca, una famiglia di cognome de Crescenzo che si dedicava ad attività camorristiche. Tra questi individui figurava anche il più famoso camorrista del periodo: Salvatore De Crescenzo, detto “Tore ’e Crescienzo”.

Con il tempo molti di loro si trasferirono in città e lentamente incominciarono a differenziare la loro originale attivita lavoratore di facchino per dedicarsi ad attività sempre più illegali a tal punto che il commissario di zona Tomlinson nei suoi rapporti di polizia  del quartiere Pendino rilevava come «la classe de’ così detti Camorristi che infestano specialmente la contrada nominata Pietra del Pesce e  dispose quindi una retata dei più famigerati tra loro allo scopo di «scuotere tal classe che giornalmente va crescendo», ammonendoli successivamente in commissariato «a lasciare l’odioso mestiere de’ camorristi alla Pietra del Pesce» per vivere tranquilli e lavorare onestamente, senza molestare le persone nella compravendita del pesce (ivi, obbligo sottoscritto il 22 marzo 1858).

N.B. Nel quartiere Montecalvario una famiglia di cognome De Crescenzo nell’800 era nota alle forze di polizia, poiché alcuni suoi componenti si dedicavano ad attività di camorra nei quartieri ed in carcere. Questi individui erano chiamati Sangiovannari della Pignasecca e possiamo ipotizzare quindi che una famiglia originaria di San Giovanni a Teduccio, a Napoli, si dedicasse ad altre attività rispetto al facchinaggio. In certi documenti dell’ epoca dell’epoca nei registri della polizia compare spesso la frase : il facchino è il tipo ché primeggia sugli altri.

Salvatore De Crescenzo detto”Tore ‘e Crescienzo”, nato a Napoli approssitivamente intorno al 1823 , era paradossalmente figlio di una guardia di polizia e si dichiarò calzolaio quando nell’ottobre del 1840 venne arrestato e scontà due mesi di carcere per rissa con impugnazione d’arma bianca in una bettola dell’Arenella. Egli venne tuttavia definito come un giovane di buona codotta ed applicato alla sua arte di calzolaio , grazie  sopratutto al fatto di essere figlio di una guardia di polizia.

Rilasciato a dicembre, alcuni anni dopo , nel marzo del 1844, ricevette la nomina a guardia di polizia straordinario con patentiglia firmata dall’allora prefetto in carica Scipione Sarlo. De Crescenzo sembrava dunque avviato alla medesima carriera del padre Giacomo nell’istituzione di polizia, ma  appena due anni dopo venne allontanato dal servizio per aver aggredito con uno stocco un gendarme durante una rissa originata da futili motivi”. Condotto per questo nel carcere di S. Maria ad Agnone, fu rimesso in libertà grazie all’indulto nel febbraio del 1848, «rimanendo comunque dimesso da Guardia di Polizia .

Nel corso del 1849 si rese protagonista di ulteriori risse e aggressioni, culminate a luglio nell’uccisione del camorrista Luigi Salvatore detto “Luigiello de’ Zappari” nel carcere di S. Maria Apparente, dove l’ispettore responsabile Mariano Giovanni Cioffi aveva peraltro disposto nei giorni precedenti una più assidua vigilanza per la crescente presenza di gruppi camorristici contrapposti negli afflussi in carcere seguiti al Quarantotto”.

La sera dell’11 luglio era appunto sorta un’animata discussione per un malinteso tra i camorristi Raffaele Migliaccio e Luigi Salvatore detto “Luigiello de’Zappari” .Intervenne allora l’altro camorrista Giuseppe Scola (con ogni probabilità nel ruolo di capo riconosciuto), che  riuniti i litiganti li aveva apparentemente riappacificati.

Salvatore De Crescenzo però, volendo spalleggiare il «suo amico Migliaccio, iniziò ad inveire contro Salvatore , il quale allontanandosi ritornò poco dopo sul posto armato di coltello per sfidarlo a duello.

Luigi Salvatore riportò nello scontro due ferite gravi al petto e all’addome che gli furono inferte da De Crescenzo e che lo condussero alla morte nell’Ospedale di San Francesco mantenendo il più stretto silenzio su ciò che era avvenuto e sul nome del suo feritore.

Questo episodio , ovviamente, segnò una tappa importante nell’affermazione del prestigio criminale di ” Tore e Crescienzo “all’interno del carcere e della vita malavitosa in città.

N.B. L’anno dopo il delegato delle prigioni Casigli, lo descriveva come un pessimo detenuto sotto tutti i rapporti ma sopratutto lo additava di essere riconosciuto da tutti i detenuti come un capo camorrista, Venne pertanto trasferito nel carcere succursale di Aversa per ordine del procuratore generale e  poi trasferito nel carcere di Avellino dopo essere stato condannato ad ulteriori cinque anni di prigionia per l’omicidio di Luigi Salvatore e  vari abusi ed estorsioni verso altri detenuti, Scontata la pena , fu rilasciato nel luglio del 1853, diventando un famoso contabbandiere e noto uomo di malaffare  della citta, tanto da essere incluso in un elenco di 26 soggetti considerati tra i più nocivi  individui di tale categoria.

Capite ora chi era quell’uomo che si affacciava al balcone del bel  Palazzo Doria D’Angri , accanto a Garibaldi ?

Avete ben inteso a chi si erano rivolti i piemontesi per controllare la citta e dichiarare l’Unita d’Italia, cioè la conquista del sud da parte dei sabaudi ?

Loro scelsero Salvatore De Crescenzo da un elenco che era stato compilato da una commisione istituita dal ministero delle Finanze in accordo con quello della Polizia .Erano persone considerate pericolose per la città e per  loro fu proposto l’invio a domicilio forzato nei comuni più interni della Basilicata e del Molise ,

Tore e Crescienzo, il futuro prediletto di Garbaldi e del regno sabaudo, venne addirittura spedito nel gennaio del 1856 a Frosolone in Molise , da dove alcuni mesi dopo ovviamente scomparve entrando in latitanza .

Su di lui si intensificarono a quel punto le ricerche , sopratutto perchè correva voce che egli grazie a quello scontro omicida avuto con Luigi Salvatore , aveva rapidamente scalato molte posizioni all’interno della camorra , diventanone  capo camorrista di ben tre quartieri contigui:
Montecalvario, S. Ferdinando e S. Giuseppe.

Il furbo delinquente , oramai famoso in città per il suo proficuo tornaconto economico nel contrabbando che esercitava spesso con l’uso della violenza, venne quindi accusato nell’estate del   1857  di essere a capo di un ingente carico di tessuti di contrabbando*, scoperto nella zona di S. Lucia. Ma lui senza molto scomporsi decise di presentarsi il 23 luglio spontaneamente alla polizia sostenendo di essere innocente di qualunque reato, in particolare riguardo all’accusa mossagli di contrabbando.

E qui avvenne qualcosa di strano … quell’uomo che  era incluso con il suo nome nei due elenchi dei camorristi compilati nel 1855 e nel 1858, e durante l’inchiesta sul fenomeno svolta nel corso di quell’anno venne anche indicato come capo dei camorristi di ben tre quartieri , i cui tratti   caratteristici per la polizia erano: «ostinato contrabbandiere, pericoloso alla società, ed incapace di emenda, venne invece nel gennaio del 1859 , completamente scagionato dal prefetto .

Questi infatti  considerando la lunga prigionia subita e le recenti indulgenze sovrane riconosciute anche ad altri famosi contrabbandieri, propose al direttore Bianchini di rilasciarlo dietro garanzia con obbligo di desistere dal proseguire sulla strada del contrabbando, non senza sottoporlo a una rigorosa sorveglianza. Bianchini, evidentemente dopo lunga riflessione, acconsentì a questa proposta” e De Crescenzo fu rimesso in libertà il primo aprile.

Ad ottobre però fini immischiato anche lui nella stretta repressiva guidata dall’ex intendente di Salerno Luigi Ajossa. Ajossa, e anche questa volta, sfuggito alla cattura, si costituì alla polizia dopo diversi giorni di latitanza”, proclamandosi innocente. In un’interessante supplica al prefetto dichiarò di essere stato camorrista in passato, mentre da tempo viveva onestamente lavorando come mastro calzolaio e titolare  di ben tre botteghe (due certamente aperte sull’ampia e centrale via Medina”‘, poco distante da casa sua). Questa fu una versione che chiaramente non convinse le autorità di polizia, che lo avevano infatti già spedito sull’isola di Ventotene a raggiungere i suoi compagni.

Come vedete la storia in questa città è sempre stata la stessa !

Tutto finito ?

Salvatore De Crescenzo , aveva  seriamente abbandonato la sua vita da contrabbandiere e capo della camorra ?

Assolutamente NO !

Nell’aprile del 1856 il sorvegliato per reati comuni Salvatore De Crescenzo aveva infatti cambiato residenza  passando dall’originario quartiere Montecalvario verso il più ricco quartiere S. Giuseppe in via Incoronata,  segno evidente, insieme all’apertura delle botteghe su via Medina, di una considerevole ascesa sociale in corso, che faceva naturalmente il paio con quella criminale, con un progressivo aumento nella disponibilità di risorse economiche, di dipendenti e di relazioni da muovere nei comunicanti ambiti legali e illegali. Egli era oramai diventato grazie all ‘uso della violenza,che gli permise di emergere all’interno del gruppo criminale,  il capo dei capi di quella che allora si chiamava La Bella Società Riformata, e forse è  stato  il primo grande camorrista dell’era moderna. Eletto a testa dell’organizzazione camorristica nel 1849, per diversi anni è stato un protagonista rilevante della storia di Napoli e d’Italia. Oltre a essere il capo della malavita organizzata dell’epoca, Tore ’e Crescienzo ebbe infatti  un ruolo fondamentale durante il passaggio dei poteri dai Borbone ai Savoia.

Prima di continuare questa storia dovete saper che nel1860 Liborio Romano, ministro della Polizia di Francesco II prima e del nuovo governo unitario poi, scelse di promuovere Salvatore De Crescenzo , da capo della camorra a commissario di polizia col compito di mantenere l’ordine pubblico; funzione che svolse egregiamente, insieme ai suoi camorristi diventati all’improvviso poliziotti, soprattutto a vantaggio degli affari della camorra.

Il ministro della polizia Liborio Romano fedele ( e traditore borbonico ) mentra ancora era al servizio del re borbonico Francesco II , segretamente grazie all’apparecchiatura telegrafica che si era fatta istallare nel proprio gabinetto, era in diretta  corrispondenza con Camillo Benso di Cavour e tramite questi,  iniziava  a mettersi in rapporti con l’eroe dei due mondi.

CURIOSITA’: In una lettera il conte addirittura lodava e riconosceva “l’illuminato e forte patriottismo e la devozione alla causa” che contraddistinguevano il ministro. Ovviamente per “causa” intendeva la creazione del Regno d’Italia. Entrato a Napoli, Garibaldi formò immediatamente un governo con a capo proprio Romano e come primo atto ufficiale cedette al Piemonte la potente flotta da guerra borbonica. Così come scriveva il condottiero arrivato in carrozza “cadeva l’abborrita dinastia che un grande statista inglese avea chiamato ‘Maledizione di Dio’! e sorgeva sulle sue rovine  la sovranità del popolo”, o forse no.

Liborio Romano cercava con questa tecnica di arginare quell’ ultima mossa che il re borbonico  Francischiello,  aveva posto in atto dopo  l’avanzata e i successi dei garibaldini in Sicilia e le pressioni di Francia ed Inghilterra. Il re delle Due Sicilie, Francesco II, il 25 giugno 1860,  decise finalmente di  mettere  in vigore quello  statuto.per il quale appena qualche decennio prima i liberali si erano tanto accanitamente battuti, ma che ora non appagava più nessuno: si voleva, adesso, l’Italia unitae libera.

Con questa mossa il re sperava di dare un contentino ai liberali e contemporaneamente di arginare le simpatie che Garibaldi andava conquistandosi nella popolazione, e di bloccare l’opera di sgretolamento dell’esercito borbonico che andavano compiendo gli emissari del conte di Cavour.

Nello stesso tempo, Francesco sperando di salvare il salvabile, promulgò un’amnistia che riportò in libertà, con i patrioti, una enorme quantità di camorristi schedati come liberali; le strade di Napoli a quel punto incominciarono ad essere percorse da turbe di scalmanati che però condizionati dalle direttive del capo della camorra ,  con la scusa di inneggiare a Garibaldi provocavano disordini.

Il re visti i gravi tumulti decise allora  il 27 giugno, di formare  un nuovo ministero a capo del quale mise il duca Antonio Spinelli e di cui chiamò a far parte, prima come prefetto e poi come ministro di polizia, l’avvocato Liborio Romano, uno strano e ambiguo tipo di liberale con precedenti sovversivi.

Liborio Romano, ben presto  scavalcò  il duca Spinelli, Liborio diventando lui  il vero arbitro della situazione, e il re vista la siuazione lo assecondò, convinto che il ministro fosse l’unico a poter sorreggere, tirando dalla sua parte i liberali, l’ormai traballante dinastia borbonica.

Da abilissimo mestatore politico, l’avvocato Romano faceva credere ai liberali di star preparando il terreno per l’avvento di Garibaldi, e lasciava intendere ai borbonici di essere l’ultimo strenuo difensore della monarchia: in realtà il ministro, resosi conto che, data la fluidità della situazione internazionale, le due Parti in lotta avevano eguali probabilità di prevalere, agiva in maniera da poter, in ogni caso, mantenere se stesso a galla.

Liberio Romano , come avete capito non era quindi una bella persona e come tale era pressochè  inviso a tutti, tranne che ai camorristi dche invece lo  idolatravano . Pensate che  perfino la sua personale guardia del corpo era un affiliato della Bella Società Riformata.

E fu proprio ai camorristi che Liborio Romano si rivolse per costituire la Guardia Cittadina. La sera del 27 giugno, segretamente, l’uomo politico convocò il celebre capintesta Salvatore De Crescenzo detto «Tore ‘e Criscienzo» e gli domandò se fosse disposto ad assumere il comando della costituenda nuova polizia, che doveva prendere il posto di quella borbonica. Ottenuta una risposta affermativa, ricevette altri esponenti della camorra, fra i quali Ferdinando Mele, Luigi Cozzolino detto «il Perzianaro», il «Chiazziere» e lo «Schiavetto» e concertò con essi un piano d’azione per il prossimo arrivo del Garibaldi.

Il ministro iniziava quindi a preparare l’accoglienza di Garibaldi dotando inoltre coloro che appoggiavano la sua causa di coccarda tricolore.

N.B. La camorra fu quindi sfruttata da Garibaldi con l’aiuto dell’ultimo Ministro dell’Interno Liborio Romano, il quale affidò ai camorristi la patente di “tutori dell’ordine pubblico”. Costoro approfittarono della situazione senza alcuno scrupolo e, di fatto, furono i collaborazionisti più determinanti degli invasori. La bella società riformata, come veniva chiamata all’epoca la camorra, fece, così, un deciso salto di qualità, mentre durante il governo duosiciliano era stata tenuta ai margini del vivere civile.

CURIOSITA’ :  Gli appartenenti alla camorra, però, avevano cominciato ad accostarsi alla politica già dal 1840, quando iniziarono le congiure dei liberali contro il Re Ferdinando II. Nel 1844, dopo il fallimento dell’impresa dei fratelli Bandiera, nelle carceri, i camorristi rispettavano moltissimo i detenuti politici, onorati di poter dividere le celle con presunti rivoluzionari e si atteggiavano a loro protettori. Nel 1847, alcuni congiurati liberali fra cui Carlo Poerio, Michele Persico, Mariano d’Ayala, Domenico Mauro e Francesco Trinchera, nel carcere di Castelcapuano furono accolti con riverenza dal “capintrito” della camorra Giuseppe D’Alessandro. Addirittura il D’Alessandro offrì un coltello a testa a Poerio e Persico dicendo loro: “Eccellence vi autorizziamo a portare queste armi”. Nel carcere di Santa Maria Apparente, Salvatore De Crescenzo, detto “Tore ‘e Crescienzo”, da poco eletto capintesta, fece un favore a Luigi Settembrini mettendolo in contatto scritto con la moglie di cui non aveva notizie da mesi, dal momento dell’arresto. Questi ed altri fecero sì che iniziasse una collaborazione tra i cospiratori liberali e la camorra.

Tutto sta che da  allora fino a dopo l’arrivo di Garibaldi, l’ordine pubblico venne diretto ed esercitato, a Napoli, esclusivamente dai camorristi. Contraddistinti da una coccarda tricolore sul cappello e armati apparentemente solo di un bastone, i membri della Bella Società Riformata arrestarono ladri e malfattori e impedirono quei saccheggi che sono tipici dei periodi di transizione politica. Salvarono insomma la città dal caos come hanno riconosciuto tutti gli storiografi tranne, naturalmente, quelli di osservanza borbonica.
Lo stesso Liborio Romano, in un suo volume di memorie, non poté evitare di rievocare quell’evento, sia pure minimizzandolo o comunque cercando di presentarlo nella migliore luce possibile.
Si tratta di una testimonianza storica di eccezionale valore che è indispensabile riportare, qui, per intera ma di cui una parte potrete leggere se volete alla fine di questo articolo in una nota a parte .

In realtà gli affiliati alla setta, per decidere sulla proposta del ministro di polizia, si riunirono in un’assemblea che fu movimentatissima: si pronunciarono immediatamente favorevoli i camorristi di rione Montecalvario e Pignasecca, mentre quelli di Santa Lucia furono molto più titubanti.
Infine la Bella Società Riformata, una volta accettata la proposta di Liborio Romano, deliberò che, anche nei ranghi della polizia, il grado più alto ( cioè il questore ) dovesse essere conferito al capintesta «Tore ‘e Criscienzo».
Furono nominati commissari, fra gli altri, i camorristi Cozzolongo, cameriere di una locanda, Ferdinando Mele, il garzone di un parrucchiere di via Chiaia, un barbiere della zona del Vasto, un parrucchiere del «Teatro Nuovo» e un ex spazzino; al taverniere Callicchio toccò la carica di ispettore. Tali nomine vennero regolarmente ratificate da Liborio Romano.
Non si può dire che, almeno nei primi giorni del loro mandato, gli ex camorristi diventati poliziotti si fossero comportati molto bene. Incominciarono col pugnalare il loro collega Peppe Aversano, quindi passarono a compiere molte vendette private.
In piazza San Nicola alla Carità aggredirono il giovane ispettore della polizia borbonica Perrelli, che nel passato li aveva perseguitati; ferito gravemente, l’ispettore venne adagiato su una carrozzella e avviato all’ospedale, senonché Ferdinando Mele lo raggiunse e gli inferse il colpo di grazia, uccidendolo.

Un altro ex commissario di Pubblica Sicurezza, Cioffi, fu picchiato a sangue e si salvò per miracolo. Istigati da patrioti del comitato «Ordine», il 28 giugno i camorristi incominciarono a dare l’assalto a tutti i commissariati di Pubblica Sicurezza, distruggendo gli archivi e poi sedendosi pomposamente dietro le scrivanie, forti della loro nuova condizione.
Al commissariato del rione Stella, dal quale i poliziotti borbonici non avevano voluto sloggiare, vi fu una sparatoria nutritissima.

Dopo aver compiuto simili bravate, i membri della setta si toglievano dal capo il berretto con la coccarda tricolore, simbolo della loro qualifica di tutori dell’ordine, e si abbandonavano a pubbliche questue. Chi rifiutava di dare qualche soldo, veniva accusato di essere nemico della patria italiana e riceveva bastonate.
Per fortuna, sfogatisi abbondantemente nei primi giorni, i camorristi- poliziotti si rivelarono, successivamente, integerrimi paladini della legge e furono proprio essi a tutelare il passaggio dei poteri dopo la partenza di Francesco. Il re Borbone lasciò Napoli, ove già erano entrati alcuni bersaglieri sbarcati dalle navi inviate da Cavour.

A quel punto al povero Francischiello non restava altro che andar via , Era il 6 settembre e qualche ora  prima di uscire per l’ultima volta dalla reggia, il sovrano si rivolse al ministro di polizia e, per fargli capire che, se fosse ritornato sul trono, l’avrebbe fatto impiccare, gli disse:“Don Libò guardatev’ ‘o cuollo”,  (Guardatevi la testa ) , ma Liborio Romano, che si apprestava a spedire il telegramma di benvenuto a Garibaldi, rispose “Maestà la mai testa rimarrà a lungo sul mio collo”. All’arrivo del Garibaldi l’ordine pubblico fu diretto ed esercitato a Napoli esclusivamente da camorristi.

L’eroe dei due mondi entrò in Napoli all’una del pomeriggio del 7 settembre, e furono ancora i camorristi a badare, durante quei drammatici momenti, al mantenimento dell’ordine pubblico.
Anzi, in testa al corteo che seguiva la carrozza di Garibaldi, si erano messi i camorristi Jossa, Capuano, Mele, lo stesso «Tore ‘e Criscienzo» .Subito dopo c’era la tavernaia Marianna De Crescenzo, detta la “Sangiovannara” ingioiellata e agghindata come un albero di Natale, accompagnata dalle prostitute “Rosa ‘a pazza”, “Luisella ‘a lum a ‘ggiorno” e “Nannarella ‘e quatt’rane”.

N.B. Marianna De Crescenzo, secondo gli storiografi di parte borbonica Giacinto De Sivo e Giuseppe Buttà, aveva fama di esser camorrista e come tale si comportava contraddicendo una regola e una tradizione che negava alle donne la possibilità di appartenere  alla Bella Società Riformata. Essa divenne talmente famosa che venne addirittura effigiata dal celebre pittore. Saverio Altamura.

Garibaldi nominò un governo provvisorio con a capo Liborio Romano, e quando il  7 novembre 1860 entrava in Napoli  il re savoiardo, egli  nominò a capo del nuovo ministero e luogotenente Generale dei territori napoletani Luigi Carlo Farini .

I camorristi continuarono quindi a fare i tutori dell’ordine e, nello stesso tempo, a delinquere. Il “capintesta” De Crescendo costituì una squadra per tutte le tangenti sul contrabbando di mare, mentre il “capintrito” Pasquale Merolle si riservò le tangenti al contrabbando di terra. Ogni volta che arrivavano casse di merci esse se ne appropriavano dicendo che era “robba ‘e Zi’ Peppe” (roba di Garibaldi. Altri varchi cittadini erano piantonati dai gregari del capintrito Antonio Lubrano, detto “Totonno ‘a porta ‘e massa”.. Il 7 gennaio 1861, fu nominato luogotenente Eugenio di Savoia Carignano, affiancato dal diplomatico Costantino Nigro.

CURIOSITA’ :Marianna De Crescenzo detta la “Sangiovannara”, cugina di Salvatore De Crescenzo,  gestiva una taverna frequentata da patrioti Era dunque amica anche  di Carlo Poerio e  nell’ottobre del Sessanta, «al fianco del cugino Salvatore, guidò un corteo festante e tricolore che conduse  gli esuli Silvio Spaventa e Filippo Cappelli verso il padiglione elettorale», dove le viene concesso straordinariamente il privilegio di votare per il plebiscito. La sua immagineè spesso rappresentata  con i capelli neri e corti, la corporatura robusta, lo scialle sgargiante a fiori, una rivoltella in mano e l’altra appesa alla cintura insieme al pugnale»: atteggiamento virile adeguato all’attiva presenza nella piazza garibaldina del Sessanta

La sua fede patriottica e la lunga collaborazione con i liberali dell’intera famiglia verrà sfruttata  da Francesco De Crescenzo, biscugino di Salvatore e facinoroso camorrista .Egli con la rinomanza di essere il nipote della nota Sangiovannara dettava legge su carni porcine e frutta al mercato della Pignasecca (dove il padre – fratello di Marianna – svolgeva «rilevanti negozi»), gestendo  comitive di ladri,con i quali faceva il mediatore a pagamento delle liti popolari.

Nel nuovo ministero formato da Garibaldi, i camorristi, coccarda tricolore sul cappello, serbarono saldamente i gradi di commissari di polizia e con il  pieno assenso di Garibaldi,incominciarono a fare i tutori dell’ordine e, nello stesso tempo, a delinquere. . Del resto in Sicilia il «Dittatore» era stato ben lieto di accogliere fra i suoi volontari, tramite il barone Giuseppe Sant’Anna, moltissimi picciotti reclutati nelle file della mafia.
Nelle prime settimane successive all’ingresso di Garibaldi, Napoli poté far esplodere tutta la sua pittoresca esuberanza che, come sempre, presentava in molti casi aspetti anche ridicoli e patetici.
Usciti dalle fortezze in cui si erano asserragliati, gli ultimi soldati borbonici in procinto di raggiungere il grosso delle truppe a Capua, circolavano ancora, in perfetta uniforme, per le strade della città, e si scambiavano saluti d’ordinanza con i bersaglieri piemontesi, con i garibaldini e con i componenti della Guardia Nazionale e della Guardia Cittadina.
Chi governava?
Ufficialmente il ministero insediato da Garibaldi, ma vi era poi un consiglio di dittatura e vi erano comitati vari. In tale guazzabuglio i camorristi, ancora con la coccarda tricolore sul cappello, erano forse i soli a non aver perso completamente la testa.
Era però assurdo pretendere che i membri della Bella Società Riformata, per il solo fatto di essere stati inquadrati in un corpo di polizia e di essere stati nominati chi commissario e chi ispettore, potessero comportarsi eternamente da galantuomini.
Dopo i primi momenti di euforia, infatti, i camorristi si accorsero che la loro nuova condizione di tutori dell’ordine, poteva favorirli nell’esercitare più agevolmente i tradizionali soprusi.
Il capintesta Salvatore De Crescenzo decise di avocare alla sua squadra tutte le tangenti sul contrabbando di mare, mentre il capintrito Pasquale Merolle si riservò le tangenti sul contrabbando di terra. Alla testa dei loro fidi, i due camorristi sorvegliavano tutti i varchi della città, ogni volta che arrivavano casse di merci, essis e ne appropriavano dicendo che era “robba ‘e Zi’ Peppe” (roba di Garibaldi ).  Altri varchi cittadini erano piantonati dai gregari del capintrito Antonio Lubrano, detto “Totonno ‘a porta ‘e massa”.. Il 7 gennaio 1861, fu nominato luogotenente Eugenio di Savoia Carignano, affiancato dal diplomatico Costantino Nigro.

Gli importatori furono esonerati  così dal versare il dazio all’erario, ma non dal consegnare ai poliziotti- camorristi grosse somme che finivano nei forzieri della Bella Società Riformata.
Altri varchi cittadini erano piantonati dai gregari del capintrito Antonio Lubrano detto «Totonno ‘a Porta ‘e Massa». «E roba di zio Peppe», ripetevano anche loro ai doganieri, e pure il dazio sui bovini veniva dirottato verso le casse della criminale setta.
Gli introiti della dogana, che normalmente, malgrado la secolare presenza della camorra, si aggiravano sui 40.000 ducati al giorno, scesero rapidamente a 1.000 ducati; e vi fu anche un giorno in cui, in tutta Napoli, i gabellieri riscossero appena venticinque soldi. Nel mese di dicembre, in una sola notte, vennero arrestati, dai militari, novanta poliziotti-camorristi: già l’indomani la dogana riuscì a incamerare 800 ducati.
Nella confusione politica e amministrativa della città, comparve una schiarita il 3 gennaio 1861, quando il principe Eugenio di Carignano sostituì nella luogotenenza Luigi Carlo Farini, dimostratosi troppo debole. Il nuovo ministro era affiancato dal giovane diplomatico Costantino Nigra, il quale aveva il compito di inviare dettagliate relazioni a Cavour sulla situazione napoletana.

CURIOSITA’: Di De Crescenzo si racconta che avesse fatto sgozzare da una banda di camorristi Totonno ‘a Port’ ‘e Massa, il famoso contrabbandiere e capo del quartiere di Porto, quando si trovava all’interno delle carceri dell’antico castello della Vicaria.

La pacchia dei camorristi-poliziotti si concluse agli inizi del 1861, quando la carica di direttore della polizia andò a  Silvio Spaventa che, immediatamente, sciolse il corpo delle Guardie Cittadine e lo rimpiazzò con quello delle guardie di Pubblica Sicurezza, licenziando insomma i camorristi.

N.B. A Liborio Romano venne dato  il dicastero dell’agricoltura.

Naturalmente questo fermo atteggiamento gli procurò innumerevoli inimicizie; per poco, anzi ‘ non gli costò la vita.

La Bella Società, che fino a quel momento era stata alleata fedele e ben retribuita del partito liberale, considerò gli atti di Spaventa come un vero e proprio tradimento.

Il 19 gennaio vi fu una prima dimostrazione contro il nuovo funzionario. Gruppi di camorristi, chiedendo di essere reintegrati nei ruoli della polizia, percorsero le strade di Napoli e provocarono tumulti gravissimi al grido di – Morte allo Spaventa!

Ma la manifestazione più massiccia, i camorristi l’organizzarono tre mesi dopo, il 26 aprile, quando Spaventa, d’accordo col generale Tappeti, emanò un’ordinanza che faceva divieto ai componenti della Guardia Nazionale, anch’essa inquinata, di indossare l’uniforme fuori dalle ore di servizio.

I vari  camorristi non gradrirono  affatto questa decisione e, appoggiati dalla Guardia Nazionale e da reduci garibaldeschi, tutti insieme, ufficiali e militi coi soliti tumultuanti ,organizzarono  una grande manifestazione di protesta in Napoli, nella quale provocando tumulti gravissimi si chiedeva la testa dello Spaventa.

Una fiumana di ex Guardie Cittadine, di Guardie Nazionali e di garibaldini, guidati dai capi della Bella Società Riformata invasero il ministero chiedendo la testa di Silvio Spaventa.

Gli impiegati preoccupati ed impauriti , serrano le porte; ma queste vendono forzate ed aperta dalla folla in tumulto , Lo Spaventa s’acquatta in uno stipo dal quale viene salvato grazie ai  segretari Giuseppe Colucci ed Emilio Vaglio i quali riuscirono a farlo fuggire da una scala segreta del real palazzo.

Delusi, ma decisi a non darsi vinti, i camorristi si avviarono verso il palazzo Latilla, dove Silvio Spaventa, ospite di Onorato Croce, aveva preso dimora e, trovatolo deserto, lo devastarono.
Un camorrista, per bravata, si affacciò da una finestra e, mostrando alla folla un coltello , gridò: «Ho ucciso Silvio Spaventa! L’ho ucciso con questo!».

La folla applaudì a lungo.

La stessa folla poi imperversando, per via Toledo incontrano in carrozza Don Antonio Spinelli il già presidente e collega di Don Liborio, e présolo per lo Spaventa bastonano lui e il cocchiere; e l’ammazzavano, quando, avendolo riconosciuto, gli chiedono scusa.

Poi, corsi a casa dello Spaventa (ch’era dello zio, consigliere Croce, borboniano) l’assalgono, la rovistano, vi fanno bottino, e rompono vetri e porte. Indarno il generale Tupputi e altri metteano pace; la folla, per plebe cresciuta a ventimila, ripresi i gessi del Garibaldi e di Masaniello, strilla per via: Viva chi?  Rispondono: – Garibaldi! E mora chi? Rispondono: – Cavour, Cialdini, e talora anche Vittorio!  …  Fini sull’ imbrunire per istanchezza”

 Informato, nel suo rifugio, di questi drammatici avvenimenti, Silvio Spaventa si rese conto che gli rimaneva un sol sistema per recuperare il suo prestigio di direttore della polizia: dimostrare, ai camorristi, di non temerli affatto.
Volle dunque uscire a piedi e, accompagnato da Costantino Nigra, da Federico Quercia e da Tommaso Arabia, andò a cenare al Caffè d’Europa che allora era diventato, appunto, il quartiere generale della polizia camorristica.
Quindi, assolutamente solo, si recò al teatro San Carlo, entrò in un palco di seconda fila, di cui erano titolari i suoi amici Petroni, assisté tranquillamente allo spettacolo, e andò infine a farsi una passeggiata notturna per via Toledo.
Ammirati e sorpresi per il suo coraggio, i camorristi non osarono molestarlo. Purtroppo, quella di sgominare la setta rimase un’illusione per Silvio Spaventa. Alla fine dopo varie minacce egli si dimise . Ma la  lotta iniziata da Silvio Spaventa fu comunque proseguita, nel 1862, dal questore Carlo Aveta.

La situazione era più che mai disastrosa. Le notizie incredibili per i fatti che si verificavano in quel tempo a Napoli suscitarono molto scalpore e scandalo in tutta Europa.

Ufficialmente estromessi dalle forze di polizia, gli affiliati alla setta avevano tuttavia guadagnato altre innumerevoli leve di potere: ogni volta che faceva arrestare un camorrista, Carlo Aveta riceveva almeno venti lettere di deputati i quali lo pregavano di annullare il provvedimento.
La verità è che i camorristi, sebbene analfabeti, erano già in grado di manovrare le masse elettorali, per cui quei napoletani i quali ambivano ad occupare un seggio nel parlamento di Torino, dovevano ricorrere al loro appoggio.

Il nuovo Questore di Napoli, il liberale Carlo Aveta, approfittando di quello stato d’assedio che era stato proclamato nelle province meridionali dal generale Alfonso Lamarmora,per comattere il brigantaggio .  il 16 ottobre 1861, decise di condurre un’azione massiccia contro la camorra.

Egli  tuttavia non trovò niente di meglio da fare che seguire, mutatis mutandis, l’esempio di Liborio Romano. Considerato che a Napoli, oltre ai camorristi imperversavano i guappi, quegli individui che, pur comportandosi da sopraffattori non erano affiliati alla Bella Società Riformata, Carlo Aveta pensò di chiedere il loro aiuto.
Volle mettere, insomma, guappi contro camorristi.

Contattò quindi i  guappi Nicola Jossa e Nicola Capuano, i quali già, sebbene per poco, avevano già ricoperto incarichi nella Guardia Cittadina . Essi accettato l’incarico proposto dal questore Aveta vennero seduta stante nominati delegati di Pubblica Sicurezza.

Il provvedimento, per la verità, si rivelò quanto mai efficace. Fu soprattutto Nicola Jossa a rendere grossi servigi all’ordine pubblico. Il delegato ex guappo, che conosceva i camorristi di Napoli uno per uno, era perfettamente a conoscenza dei nasconndigli dei camorristi e li andava quindi a scovare nei posti più impensati, perfino nel bosco di Capodimonte, li fissava con occhi sprezzanti, li colpiva a scudisciate sulle mani, e: «Avanti! Dirigiti verso il carcere di Castelcapuano. Io ti seguo a due passi di distanza!», urlava.

Ogni giorno, scovati da Jossa. decine di camorristi, diventati improvvisamente docili e arrendevoli, entravano nelle prigioni.

Spronato dal questore, Nicola Jossa volle poi compiere un’azione di bonifica al Ponte della Maddalena dove, ritto sull’uscio dell’ufficio doganale, il celebre capintesta Salvatore De Crescenzo imperava indisturbato.
Andò lì tutto solo, Nicola Jossa. Si avvicinò al capintesta, il quale, come sappiamo, nel periodo di transizione aveva ricoperto il grado di caposquadra della Guardia Cittadina, e gli disse: «Da oggi in avanti, tu qua non comandi più. Il ponte della Maddalena appartiene alla legge» .
Una lunga e pacata discussione indusse i due a decidere di sfidarsi a una zumpata: se avesse vinto «Tore ‘e Criscienzo», il ponte della Maddalena sarebbe rimasto nelle mani della camorra; in caso contrario sarebbe passato allo Stato.
L’indomani mattina Nicola Jossa e «Tore ‘e Criscienzo» si incontrarono al Campo di Marte. Entrambi a torso nudo, ciascuno armato di un affilato coltello, essi disputarono una drammatica zumpata. Nicola Jossa ebbe il sopravvento ma, generosamente, anziché uccidere il suo avversario, si limitò a ferirlo al braccio. «Il ponte della Maddalena appartiene alla legge. Accompagnami al carcere», disse Salvatore De Crescenzo. E Nicola Jossa facendolo arrestare lo richiuse nel carcere di Castelcapuano,

Il Questore Aveta, però, irriconoscente, dopo qualche tempo fece arrestare anche Nicola Jossa, che morirà poi di tubercolosi in carcere.

Il famigerato capintesta Salvatore De Crescenzo, nonostante  tutte le nefandezze compiute in città , dopo il 1870 fu liberato e addirittura nominato  segretario prima di Ponza e poi alle Tramiti. Da quel momento , in segno di rispetto, i nuovi capintesta che gli successero, si recavano personalmente ogni settimana a casa sua, gli baciavano la mano e gli consegnavano parte delle loro tangenti. L’estromissione della camorra dalle istituzioni del nuovo regno italiano però non la escluse affatto da altre innumerevoli leve di potere. Infatti, poiché erano in grado di manovrare le masse elettorali, gli aspiranti parlamentari iniziarono a ricorrere al loro appoggio. Questo maligno cancro sociale generato dai savoiardi e dai garibaldeschi, ha ancora oggi salde radici a Napoli..

È da qui che inizia per Napoli una nuova storia, una storia che influenzerà anche quella dell’Italia intera.

Una storia che non dovete mai dimenticare quando vi capita di passeggiare in quella via che Stendhall  definì  all’epoca “La via piu’ popolosa e gaia dell’universo”e vi trovate a sostare in quella Piazzetta  chiamata ” sette settembre ” .

Ricordateve sempre … anche ai vostri figli !

Quella  Piazzetta  oggi  chiamata ” sette settembre ” ha questo nome solo in onore alla data in cui il generale Giuseppe Garibaldi ( il 7 settembre 1860 )   fece il suo ingresso nella città partenopea .
Nella stessa giornata egli, dal balcone di Palazzo Doria D’Angri, che affaccia sulla piazza , si trovava in compagnia del Ministro di polizia voltagabbana  Liborio Romano e del   capo dei capi della camorra dell’epoca, detto “Tore ‘e Criscienzo”,(  i cui uomini  in quel periodo mantennero l’ordine pubblico )insieme ai quali  proclamò l’annessione delle province meridionali al Regno sabaudo .

Unica magra consolazione resta il fatto che  il giorno seguente, quando in piena Festa, si recò a far visita alla Madonna di Piedigrotta attraversando in parata la Riviera di Chiaia, egli fu accolto da un tremendo temporale che inzuppò il corteo, nel quale marciavano anche quel fetente   Liborio Romano e tutti i “compagnoni” camorristi messi a protezione del Generale..

Insomma anche lì , nel cielo, qualcuno piangeva per quanto stava avvenendo nella nostra città.

Come se non bastasse , in quei giorni,molti garibaldini , accompagnati con le armi dai noti  camorristi  giravano sparpagliati , continuamente per tutta la città cercando di convincere in tutte le maniere e con i modi più sbrigativi ,  in un clima intimidatorio come si doveva votare al prossimo referendum che questa volta si teneva non in un piccolo slargo ma in un una grande piazza , quella di Largo di Palazzo . Quella piazza il 21 ottobre del 1860 , fu scelta come il luogo dove si doveva svolgere il voto per l’annessione dell’ormai ex Regno delle Due Sicilie al Regno di Sardegna.

N.B. La Piazza fino al  21 ottobre del 1860 si chiamava quindi con un nome consone alla Piazza.

Il voto doveva essere dato “tramite un bollettino stampato o scritto portante la scritta SI o No”. Una volta contrassegnato la scelta indicante il SI o il NO , la  scheda, una volta piegata, doveva essere consegnata nelle mani del presidente del comitato elettorale che deponeva il tutto in una delle due urne che si trovavano ben distanti tra loro ma  chiuse per dare una parvenza di legalità  alla presenza dell’elettore.

Sul bollettino stampato si doveva  votare  sì o no alla seguente domanda: “Il popolo vuole l’Italia Una e indivisibile con Vittorio Emanuele Re costituzionale e i suoi legittimi discendenti?“.

Le due urne  ben distinte in  ogni seggio di votazione erano sorvegliate per evitare imbrogli da persone addette al controllo : peccato solo che quella dei  No era coperta dai nazionali e camorristi». (N. C. D’Amelio, Quel lontano 1860) e la distanza ben evidente delle due urne con il Si o il No rendeva manifesto il voto”

A peggiorare le cose  oltre a non accertare l’identità delle persone che votavano , venne anche permesso ai stessi soldati di andare al voto. 

Era chiaramente un voto come vedete non segreto che lasciava anche  poche possibilità a chi voleva votare per il No. Basti pensare che a Napoli in quei giorni  prima che si facesse il plebiscito furono affissi, alle mura delle città , dei grandi cartelli, in cui si dichiarava nemico della Patria chi si fosse astenuto o avesse dato il voto contrario all’annessione». (C. Alianiello, La conquista del Sud).

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E chiunque in città , anche se lontanamente manifestava  il desiderio di votare per il mantenimento dei Borbone, veniva  arrestato  e rinviato  a giudizio per rispondere di attentato a distruggere la forma di Governo. Insomma bastava  un semplice sospetto, perché si procedava immediatamente  al fermo preventivo per impedire a questi   di partecipare alle operazioni di voto. 

Tra un’esibizione di bandiere tricolori con stemma sabaudo e l’occhiuta vigilanza di addetti camorristi appena nominati  guardie di polizia  accalcatie in entrata, ogni voto. fu  più una forzatura che un atto democratico.

Quel giorno infatti ben il 79% degli aventi diritto al voto ( ? )  si espressero per il Sì.

Quei pochi che ebbero il coraggio di votare contro subirono minacce fisiche e violenze, fatti che fecero persino dire all’inglese Mundy: «Un plebiscito a suffragio universale svolto in tali condizioni non può essere ritenuto veridica manifestazione dei sentimenti del paese». Sulla stessa linea furono le affermazioni di Lucien Murat: «Le urne stavano tra la corruzione e la violenza. Non più attendibili apparvero gli scrutini. Specialmente i garibaldini si erano diverti ad andare a votare più volte, e certamente nessuno pensò di impedirlo ai galantuomini delle città  che affermavano in tal modo la loro importanza». Insomma, «si fece ricorso a ogni trucco, nel voto e negli scrutini, per ottenere il risultato plebiscitario desiderato». (P. G. Jaeger, Francesco II di Borbone l’ultimo re di Napoli).

Il «plebiscito-burletta fu quindi la causa dell’ ‘attuale nome dal plebiscito popolare del 1860  dichiarato da molti come falso, con cui Napoli diceva sì all’annessione al Regno dei Savoia. 

Una strana ed anomala pioggia in quei giorni tormentava come avete notato Napoli e pioveva infatti a dirotto nella ” città del sole “anche il 7 novembre quando il nuove re Vittorio Emanuele entrò nella nostra città . Sotto una pioggia torrenziale costui tapino, sgradevole con la faccia scura , volto  spaurito ,  occhi gonfi, baffoni, tozzo,e sporco giunse in città conin carrozza, col Garibaldi a lato, e il Pallavicino e il Mordini, pro-dittatori di Napoli e Palermo, a fronte.

Gli facevano corteggio a piedi lazzaroni scamiciati, ed un minuto numero di persone  plaudente che si era ingenuamente lasciato convincere che lui portava tante belle promesse . A proteggerlo vi erano ovviamente i  camorristi, poi carabinieri armati, lo Stato maggiore, e un drappello di guide. Sullo sportello della carrozza fino  al  palazzo. Reale , lo proteggeva in maniera personale il camorrista  Antonio Lubrano,che aveva fama di  famigerato omicida,, il quale subito dopo andò alla Polizia a vantare tal servigio alla causa, reclamando il diritto  di non dover più esser carcerato, dopo avuto l’onore di stare ai fianchi di Sua Maestà.

Eppure i prepativi per la sua venuta in città erano iniziati già venti giorni prima . Ma mancando alle casse del nuovo stato  il danaro, essi per abbelire le strade rimediarono parecchi simulacri posticci, con vittorie garibaldine e ritratti di Fanti, Cialdini, Turr, Medici, Cosenz, e altri massoni. Quello di Garibaldi, già fatto sul posto ma con una iscrizione ridicola venne invece tolto in tutta fretta.

Disegnarono dodici archi trionfali e piramidi, un monumento a Napoleone III, quattro statue al Cavour e a tre generali sardi, ma tutto fatto carta, pali, tele e funi, con pitture trasparenti, lumi e ghirlande.

Dinanzi alla reggia, nascosero con panni le colossali statue di Carlo III e Ferdinando I; e v’alzarono sopra un enorme catafalco quadrato, vero mausoleo di carta, e stracci, con pitture.

Il bello furono cento statue di gesso simili, poste per Toledo su piedistalli, con una mano alta e una giù, quasi sonassero il contrabbasso; certe nude femminone, che dicevano essere le cento città d’Italia proclamanti l’unità. Ma tutti ne ridevano; e il garibaldino Rustow ha poi scritto che i napoletani avevano messe quelle bagasce in mostra, per allettare Vittorio a rimanere con noi. Pigliarono da 200 mila ducati, per tali baie.

Ma  a guastare il tutto fu il cielo,; la notte precedente, acque dirotte e venti e turbini:  le “città d’Italia”, divennero tutte fradicie e bagnate, colanti le pitture, sbrandellati i canavacci, bucherati i cartoni; tutto scollato, vedevi travi e funi, forche e non archi trionfali.

La gente per strada era veramente poca , gli applausi scarsi e rari i fiori . Tra questa atmosfera du squallore il nuovo re piemontese  salutava col guanto dove vedeva qualche balcone pieno, quasi voglioso di saluti protettori. Gli organizzatori sorpresi  incolparono la pioggia; venuto il sereno, il sindaco supplichevole più volte invitò la popolazione ad illuminare almeno Toledo e qualch’altra strada; la supplica ebbe solo un meschino effetto … perè ch il cielo, per niente adulatorio, fece cadere la pioggia quasi sempre … ed anche quelle poche luci, con rovesci d’acqua le spense ( secondo me era San Gennaro ).

Appena giunto alla reggia in Largo di Palazzo, il “re galantuomo” subito prudentemente vi si rinchiuse, né si fece più vedere.

Il giorno dopo, 8 novembre, in quella stessa sede, nella stanza del trono, ricevette ufficialmente i risultati del finto plebiscito con il quale i napoletani avevano “liberamente deciso” di volere lui e i suoi discendenti come re nella nuova Italia.

“L’Omnibus”, già favorito dai Borboni, stampò la venuta di Vittorio Emmanuele esserquella del Messia, la venuta di Dio!E questo Dio nero, la sera, al teatro S. Carlo, ebbe l’inno, scritto da Domenico Bolognese. Costui, inneggiato a libertà nel 1848, non solo scansò qualsiasi pena, ma ottenne da re Ferdinando due impieghi e due stipendi; eppure cantò Garibaldi precursore e angelo di Dio, ed Emmanuele d’Italia Dio. Pose il Petrella la musica, che riuscì misera.

Il re fortunatamente per lui niente n’udì; perché, cominciato lo spettacolo, certi garibaldini, volendo entrare nel teatro già pieno, trassero le pistole, e si fe’ rumore, e accorsero Carabinieri, di che turbato Vittorio poco stante si ritirò …

Il terzo giorno, 9 novembre, il Garibaldi, dispiaciuto e pieno di livore ma sopratutto senza alcuna ricchezza in suo possesso,l’alba del 9, lasciò la città,. Vittorio Emanuele gli aveva fatto capire che era venuto il momento di lasciare il campo ( e aggiungerei la gloria ) alle truppe piemontesi e freddamente lo ringraziò per la straordinaria impresa compiuta tutta a suo vantaggio.

Fu accompagnato a  far visita all’ ammiraglio inglese Mundye dove ricevette un militare nobile saluto e poi invitato a partire per la sua Caprera. Tre giorno dopo Garibaldi s’ imbarcò per far ritorno a Caprera portando con se un rotolo di merluzzo secco, un sacco di grano e poche centinaia  di lire.

Liquidato il Garibaldi, Vittorio rimase ancor poco in Napoli. Anche lui, infatti, il novello Messia, aveva i suoi problemi con i napoletani.Un giorno, “le donne di certi carcerati camorristi fermarono la sua carrozza, gridando grazia, e rinfacciandogli come i loro mariti avevano  fatto entrare  Garibaldi in città . Il re  sentì l’insulto, sferzò i cavalli, e le piantò strepitanti …dirigendosi a Capodimonte dove si rinchiuse .

Qualche girono dopo , il nuovo re resosi conto che Napoli ed il reame erano in piena anarchia e guerra civile con persone affamate e minaccianti pensò di appagare di sua persona il popolo, in pubblica udienza.

Nessuno che non aveva potuto votare ovviamente ci andò , ma quelli che avevano votato SI ci andarono tutti . Quel popolo entrò  a torme, tutti postulanti, in mille divise; camice rosse, sciabole, stili, e pistole, grida strane e confuse; lazzari, femmine, frati, tutti a sospingere e urtare. Il re spinto sotto una finestra, ebbe bisogno delle guardie per ritrarsi, pure in recondite stanze pressato. Sgombrate a forza le sale, si trovò quel popolo sovrano aver fatto parecchie promesse e concessioni .

Sgomentato, stanco di tanto gridìo, sentendosi a Napoli straniero e mal sopportato … partì a mo’ di fuggiasco, improvvisamente, la notte seguita al 26 dicembre; ed a furia, per le poste a Bologna, di là su vie ferrate, a Torino trionfante giunse la sera del 29”.

Lasciava in vece sua Luigi Carlo Farini già preventivamente nominato il 6 novembre da Sessa Aurunca che era e stato al suo fianco, come “Luogo-tenente generale” dei territori napoletani.

Ma l’opera del Farini venne ritenuta tanto poco soddisfacente, che già nel gennaio 1861 fu sostituito da un principe di casa reale, Eugenio di Savoia-Carignano affiancato dal diplomatico Costantino Nigra  che aveva essenzialmente il compito di inviare continui e dettagliati rapporti al Cavour.

Compiuta così l’Unità si fece cassa comune tra due regni , uno conquistato ed uno vincitore  ( uno con casse piene e l’altro con casse  vuote ) e con i soldi del sud si pagarono i debiti del nord Da allora una parte dell’Italia fu depredata e condannata a regredire nel tempo , mentre un’ altra parte dell’Italia , quella che era piena di debiti , sulla soglia della bancarotta , con la sua guerra ed il conseguente bottino finanzio’ la propria crescita e prese un vantaggio , poi difeso nel tempo , con ogni mezzo incluse le leggi .

In quel piccolo slargo oggi  chiamato ” sette settembre ” ed in quel grande slargo dinanzi al paplazzo Reale oggi tristemente chiamato ” piazza del Plebiscito “, grazie al generale Garibaldi , un ministro traditore come Liborio Romano e sopratutto la camorra napoletana ( non dimenticatelo MAI )  ha avuto origine il frutto di un’altra pesante eredita’ lasciataci dagli spagnoli e poi avvallata dallo stesso regno sabaudo: la camorra.

Per gestire infatti la criminalità, piccole bande criminali che  giravano tra i vicoli della città commettevano in epoca spagnola  furti , odiose risse che spesso finivano nel sangue e ogni genere di soprusi ai danni della popolazione.
Già in epoca  borbonica il nuovo governo si accorse che era veramente difficile mantenere un vero ordine in città e tutto questo fini’ per favorire i “camorristi” i quali con i loro sistemi se non altro mantenevano una sorta di controllo sul territorio e arrivavano dove il governo non riusciva ad arrivare (un po’ come oggi).
I camorristi furono quindi tollerati prima  spagnoli (e successivamente dai piemontesi) in quanto si servivano di essi, quasi come di poliziotti, per mantenere l’ordine tra il popolo.
I loro sistemi per mantenere ordine erano la violenza, le armi, l’estorsione e la paura.
La parola ‘camorra’ infatti, etimologicamente, significa rissa, prepotenza e sta ad indicate anche una cortissima giacca di tela che i loschi figuri indossavano.
Questo incredibile patto tra stato e camorra a Napoli e’ sempre stato appannaggio di chi ha governato questa città. La camorra ha sempre fatto comodo a tutti questi governi perché’ era la via più’ semplice per governare una difficile situazione locale venutasi a creare per inefficienza e superficialità di chi ha dovuto gestire il potere governativo nel corso degli anni.

L’ unificazione d’Italia possiamo con certezza affermare che è avvenuta circa 150 anni fa anche  grazie ad un patto avvenuto tra piemontesi e camorra.Il meridione da monarchico stato autonomo divenne da quel momento parte di un’altro stato monarchico. Fu solo il passaggio da una tirannia assolutistica ad una occupante costituzionale,  la quale avrebbe dovuto impegnarsi a fondo per garantirne la vita, ma quest’impegno con il tempo, mancò in pieno e procurò gravi disagi.

L’Italia meridionale si era messa con fiducia nelle mani del governo piemontese ma alla lunga dovette ammettere a se stessa che quella tanto propinata unità d’Italia  non fu per lei una liberazione ma solo la fine di un regno autonomo e l’avvento di un colonialismo vero e proprio.

CURIOSITA’: A tal proposito vi allego parte di una lettera scritta da Garibaldi ed inviata  ad Adelaide Cairoli nel 1868 : ” Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio.”  La lettera è firmata da Giuseppe Garibaldi.

E aveva ragione Garibaldi … oggi in questa città molti lo prenderebbero a sassate e vorrebero addirittura eliminare la sua statua presente nella piazza a lui dedicata .

A proposito … sapete come si chiamava la piazza fino a quando fu chiamata Piazza Garibaldi? Si chiamava piazza 3 ottobre 1839, ovvero anno mese e giorno di inaugurazione della prima ferrovia italiana.

Eppure Garibaldi nei pochi mesi che rimase nella nostra città , riuscì comunque a compiere poche ma significative leggi tutte a vantaggio delle classi più deboli e povere .Egli istituì dodici asili infantili gratuiti ed un collegio anc’esso gratuito in cui si insegnavano le materie fondamentali come le arti ed i mestieri ; dispose la chiusura del gioco del lotto interpretato come come strumento borbonico per lucrare a spese dell’ignoranza della povera gente , decretò l’apertura di Via Duomo , la creazione di un nuovo quartiere a Chiaia e la costruzione di nuovi alloggi popolari .

Nonostante  questo egli in città è stranamente più odiato della stessa camorra anche se la storia vede in egual misura entrambi colpevoli della triste annessione del regno borbonico a quello piemontese.

Addirittura nella nosta città gira da tempo una versione un tantono particolare di una famosa marcetta dei Bersaglieri che inneggiava l’eroe dei due mondi mentre  ferita ad una gamba continuava a spronare i suoi soldati.

L’ironia dei napoletani , visto il contenzioso ancora oggi in atto con Garibaldi ovviamente non si fece scappare la ghiotta occasione per vendicarsi .

Il testo tutto napoletano è probabilmente un po volgare ma probabilmente riporta la verità storica sulla ferita di Garibaldi: Garibarde è ghiuto a guerra / e ha avuto na palla nculo / garibaldi è ‘nu piglianculo / garibaldi è ‘nu pigliancù!

Eh SI ! Perchè nella sua autobiografia, Garibaldi èa tal proposito è molto generico: “ebbi in regalo due palle di carabina, una all’anca sinistra e l’altra al malleolo interno del piede destro”. Non dice quindi mai nella gamba come invece dice  la canzoncina dei Bersaglieri .

Già Garibaldi in persona come notate parla di anca e non di gamba!

Vediamo di capirci qualcosa …

Nel  1862 Garibaldi sull’Aspromonte fu veramente ferito ed ebbe due palle dí piombo: una nel malleolo (che gli stava costando l’amputazione della gamba) e l’altra nella natica.
I regnanti Savoia però valutarono inopportuno far trapelare la voce che l’eroe dei due mondi era stato ferito al sedere ,ed ecco perché per motivi politici la palla di piombo si spostò ufficialmente dalla natica alla gamba (ed è così che dice la canzoncina dei Bersaglieri).
Ma noi a Napoli sapevamo la verità.

Il medico personale di Garibaldi, infatti, si chiamava Ferdinando Palasciano, il più grande chirurgo dell’800, il medico grazie al quale Garibaldi si salvò dalla amputazione della gamba. Nessuno riusciva ad individuare la palla nel malleolo e la gamba stava andando in putrefazione. Ma Palasciano inventò un dispositivo con una punta di ceramica che si anneriva al contatto con il piombo e quindi riuscì a determinare la posizione della palla di piombo all’interno del malleolo di Garibaldi.
Ovviamente Garibaldi da allora in poi si fidò ciecamente del medico napoletano e ogni volta che veniva a Napoli si faceva immancabilmente visitare da Ferdinando.
Ed è forse per questo motivo che a Napoli sapemmo la verità; il Palasciano forse rivelò ai suoi collaboratori che una palla era nel malleolo  ma che l’altra palla era nella natica

E quindi questa è la prova che la versione napoletana, per quanto sicuramente più volgare, è aderente alla verità storica… e va bene anche come vendetta ….  Garibaldi ha avuto
‘na palla ‘nculo!

 

 

NOTA A PARTE.

Come promesso durante l’articolovi trascrivo quella tstimoninaza storica che  Liborio Romano, narra in un suo volume di memorie.

” La violenza popolare del 27 giugno, rimasta necessariamente impunita, perché nei tumulti si sperdono le pruove dei reati; le miti intenzioni mostrate dal governo; il tolto stadio d’assedio; e le tradizionali abitudini di una generazione di uomini, che la civiltà non ha per anco spenta nella popolosa Napoli; erano incitamento ed invito a rinnovare il saccheggio, e le tragiche scene del 1799 e del 1848.
Agognavano mettere a sacco e a ruba la città; ed in tale intendimento avevano già tolti a pigione in diversi quartieri di essa i magazzini in cui si proponevano riporre le vagheggiate depredazioni.
La polizia, per mezzo della vigile ed onesta cittadinanza, conobbe questi nefandi propositi; tutti ne erano grandemente preoccupati; ma non era facile ripararvi.
Imperrocché le antiche guardie  di polizia ed i gendarmi, fatti segno alla pubblica deprecazione, erano fuggiti per salvare la vita; sulla milizia regolare non potevasi fare affidamento; ché se pur taluni di essi non allettavano l’idea del saccheggio, erano avversi al novello reggimento, e cercavano per lo meno ogni occasione per iscreditarlo, e dirlo causa di tutti i disordini: né alcun a altra forza pubblica era efficace.
D’altra parte la reazione, comunque sgominata, serpeggiava latente, e faceva temer e che si collegasse con il partito sanfedista, a fin di seppellire nel saccheggio e nel sangue le libere istituzioni.
Anch’essi i camorristi, dubbiosi e incerti, aspettavano il momento di profittare d i qualsivoglia perturbazione avvenisse. Or, come salvare la città in mezzo a tanti elementi di disordine e d’imminenti pericoli.
Fra tutti gli espedienti che si offrivano alla mia mente agitata per la gravezza del caso, un solo parvemi, se non di certa, almeno di probabile riuscita, e lo tentai.
Salvatore De Crescenzo detto «Tore ‘e Criscienzo», il capo della camorra assurto nel 1860 a capo della Guardia Cittadina. Pensai di prevenire la triste opera dei camorristi, offrendo ai più influenti loro capi un mezzo per riabilitarsi; e così parvemi di toglierli al partito del disordine, o almeno paralizzarne le tristi tendenze, in quel momento in cui mancavami ogni forza, non solo che a reprimerle, a contenerle.
Laonde, fatto venire in casa mia il più rinomato fra essi, sotto le apparenze di commettergli il disbrigo di una mia privata faccenda; lo accolsi alla buona, e gli dissi che era venuto per esso e pe’ suoi amici il momento di riabilitarsi alla falsa
Posizione cui aveali sospinti, non già la loro buona indole popolana, ma l’imprevidenza del governo, la quale avea chiuse tutte le vie all’operosità priva di capitali. Che era mia intenzione tirare un velo sul loro passato, e chiamare i migliori fra essi e far parte della novella forza di polizia; la quale non sarebbe stata composta di tristi sgherri e di vili spie, ma di gente onesta, che, bene retribuita de’ suoi importanti servizii, avrebbe in breve ottenuto la stima de’ propri concittadini.
Quell’uomo, da prima dubbioso ed incerto, si mostrò tosto commosso dalle mie paroe, smise ogni diffidenza, volea baciarmi la mano; promise anche di più di quello che io chie deva; soggiunse che fra un’ora sarebbe tornato da me alla prefettura.
E prima che l’ora fosse trascorsa, venne con un suo compagno; mi assicurarono di aver dato le debite prevenzioni ai loro amici, e che io potea disporre della loro vita.
E mantennero le loro promesse; e per modo da convincermi, che se gli uomini purtroppo non sono interamente buoni, neppure sono interamente perversi, se tali non si costringono ad essere.
Improvvisai allora, ed armai, senza por tempo in mezzo, una specie di guardia di pubblica sicurezza, come meglio mi riuscì di raggranellarla fra la gente più fedele e devota ai nuovi princìpi e all’ordine; frammischiai fra questo l’elemento camorrista, in proporzione che, anche volendo, non potea nuocere; disposi che si organizzasse in compagnie; posi a capo di essi coloro che ispiravano maggior fiducia; ed ordinai che, divisi in pattuglie, scorressero immantinente tutti i quartieri della città.
Questo provvedimento istantaneo, ed istantaneamente attuato, sconcertò i disegni dei tristi, colpiti assai più dall’attitudine che dall’impotenza della forza; e così l’ordine, la città e le stesse libere istituzioni, furono salvi dal grave pericolo che li minacciava.
Si condanni ora il mezzo da me adoperato; mi si accusi di aver introdotto nella forza di polizia pochi uomini rotti ad ogni maniera di vizi e di arbitri. Io dirò a cotesti puritani, i quali misurano con la stregua dei tempi normali i momenti di supremo pericolo, che il mio compito era quello di salvare l’ordine; e lo salvai col plauso di tutto il paese “.

 

 

 

 

 

 

 

 

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