Sulla  fine del regno borbonico  si è scritto nel tempo di tutto e di più, con teorie spesso contrastanti tra loro.
La storiogratia ufficiale riferisce di una travolgente avanzata di Giuseppe Garibaldi, contrastata da ufficiali borbonici che è  dir poco definire incapaci ed insipienti.

Ora , per quanto Garibaldi fosse dotato di doti eccezionali, per quanto la fortuna lo abbia voluto assecondare, per quanto l’incapacita e l’imperizia degli avversari fosse macroscopica, resta incomprensibile che un regno della vastità, della potenza, della ricchezza, delle tradizioni di quello napoletano, fosse potuto cadere per l’attacco di un pugno di uomini.
infedele e corrotta delle più alte cariche del regno.

Secondo teorie diffuse, suffragate da documenti e riscontri di vario genere, fu la corruzione delle alte cariche civili e militari ad avere gran parte della responsabilita. In contrasto con la storiografia ufficiale, infatti, è fiorita una nutrita messe di scritti che prospettano manovre sottobanco da parte della diplomazia piemontese ed inglese, interessata quest’ultima per vari motivi al crollo della dinastia. Il burattinaio era naturalmente il conte Camillo Benso di Cavour. che  tra l’altro, con estrema bravura sapeva che gli occorreva per l’occasione un avventuriero di grandissime capacità; e lo individuò in Giuseppe Garibaldi, un  personaggio di grande impatto, dotato di eccezionali doti quanto a coraggio, irruenza, capacità organizzativa e  decisionismo, che aveva trascorso la vita, fino all’età di cinquantatre anni, in maniera estremamente avventurosa, tanto da meritarsi l’appellativo di “eroe dei due mondi” per aver passato molti anni in Sud America, durante i quali non ebbe scrupoli di sorta e giunse fino a svolgere  attività fuorilegge e di pirateria

Un uomo che  era da tempo in contatto con Giuseppe Mazzini ed anche col re Vittorio Emanuele II.

Di fronte a questa statua di Francesco Jerace situata come ultima delle otto statue allogiate nelle nicchie sulla facciata pricipale della Reggia di Napoli,  ogni volta mi rendo sempre più conto che raccontare la storia della fine del regno di Napoli , diventa faticosa e difficile in quanto il percorso è accidentato e talvolta pericolosamente insidioso.

La figura del re Vittorio Emanuele  II , in questa statua  è lasciata compiere la mossa di tenere levata in alto la spada col braccio,  Il suo braccio sinistro  è  invece piegato si che la mano poggia sul petto mentre stringe una copia della Costituzione, mentre un mantello, ”largo e piegoso come un lenzuolo” avvolge per intero tutto il lato sinistro della statua de re 

CURIOSITA’: Questa  statua dI Vittorio Emanuele  II, alloggiata come ultima delle otto statue della facciata pricipale della Reggia di Napoli, è la statua più grande ma anche quella più discussa di tutte . Di fatto il titolare del trono Savoia non fu re di Napoli, data l’annessione del regno al neonato Regno d’Italia.

Resta il fatto che quest’uomo , dopo i famosi plebiscti il 17 marzo del 1861,venne proclamato dal primo Parlamento italiano re d’Italia .

Ora, al di la del fatto che questo re Vittorio Emanuele  II,  purtroppo certo non si comportò in maniera leale con suo cugino Francesco( erano purtroppo parenti : mai fidarsi!!) , a distanza di anni , lasciando da parte per qualche momento le varie suggestioni patriottiche ed esaminando la questione con animo distaccato, se è vero che prima della Unione dell’Italia  alla rassegna internazionale di Parigi del 1856 l’industria borbonica ottenne il premio per il terzo posto in europa come sviluppo industriale dopo Inghilterra e Francia., è altrettanto vero che all’epoca il  sistema economico ed industriale borbonico aveva comunque  Il difetto di avere un  lento sistema di trasporto delle sue materie prime di estrazione (zolfo) o di coltivazione (frumento ed agrumi), che favorito da un ampio sviluppo costiero e da un regime daziario protezionistico nei riguardi delle merci d’importazione, continuava ad avvenire, come nei secoli precedenti, per via marittima in quanto la  rete ferroviaria rimase per lungo tempo  circoscritta solo a quel primo tronco Napoli-Portici ,mentre  nel frattempo, il Nord si era dotato di una rete di duemila chilometri. Questo ovviamente favoriva piu di ogni altra cosa il commercio e la distrbuzione delle merci.

Certamente tutti sappiamo che  all’epoca, prima che avvenisse l’unione d’Italia, le industrie  tessili e siderurgico del regno erano comunque tutte  attive ed economicamente salde  e che Il regno impiegava nell’industria una forza lavoro pari al 51% di quella complessiva degli stati italiani , ma bisogna anche comunque riconoscere che le varie imposte erano spesso mal ripartite e le maggiori  spese del bilancio statale borbonico,  erano assorbite principalmente dalle forze armate ( esercito, marina,  polizia,)  mentre settori come istruzione, sanità, e opere pubbliche ricevevano pochissimi fondi . La spesa pubblica  destinava quindi il grosso del bilancio alle forze armate, che avevano come fine principale tutelare le loro persone e quelle dei loro fedeli, le loro proprietà ed i loro privilegiI  ( alla Real casa, ossia a sé stesso, alla sua famiglia, ai parenti,  agli amici, ed ai suoi piu stretti collaboratori ,era assegnata una cifra che superava largamente quella spesa per le opere pubbliche e le necessità sociali della popolazione dell’intero regno ) .

Come tutte le monarchie, quindi anche quella borbonica era costituita   da un  gruppo  di pochi governanti  che spesso si  mostrava essere  noncurante  della vita quotidiana della grande  massa di poveri o poverissimi, e  prelevava a proprio uso dal bilancio pubblico somme superiori a quelle spese per milioni di sudditi. 

Le condizioni del popolo , seppure in maggior parte quasi tutto schierato in favore della monarchia  erano certamente non delle migliori. L’alimentazione dei più poveri escludeva carne e pesce , e  la maggior parte delle persone del popolino erano analfabete  ( l’analfabetismo nel Sud colpiva l’87% della popolazione; a dispetto di quella nel Nord che era del  54%.)  , e solo il 18% dei bambini contro  Il 90% dei bambini del Nord andava alla scuola primaria .la nostra  città ,

Se   è vero che la nostra città nel periodo del gran Tour, a partire dal XVI secolo era meta di viaggi di gentiluomini ed intellettuali attirati dal ricchissimo patrimonio artistico e dall’alto livello culturale del paese,  è altrettanto vero che molti degli innumerevoli viaggiatori che giunsero nella Napoli settecentesca riportarono testimonianze abbastanza concordi sul contrasto fra la bellezza dei palazzi e delle chiese da una parte, e la moltitudine di miserabili,  e  lazzaroni, dall’altra. Non possiamo quindi non ricordare che  quasi tutti    gli stranieri che scendevano a Napoli nel loro tour de l’Italie erano colpiti negativamente dalla quantità di poverissimi che abitavano nella nostra grande capitale.  Le condizioni igieniche in cui viveva molta gente povera  erano infatti  assolutamente  disastrose.  La  plebe si ammassava in fondaci e bassi quasi tutti sprovvisti di acqua e luce . Le stette strade ed i vicoli , nel loro continuo rivolo di acqua sporca , oltre che contenere l’acqua piovana , spesso conteneva anche i resti dei miseri pasti , la lisciva del bucato ed anche a volte i propri residui organici . Gli effuluvi dei bassi erano della peggiore specie ,ed  i rifuiti si accumulavano negli angoli  per giorni e giorni , ma certamente tutto questo non è certamente  poi cambiato  quando il regno divenne parte di quell’unità d’Italia tanto propugnata da Mazzini ,Gioberti ed il furbo Cavour.

Il Sud borbonico era  costituito sopratutto di un pugno di latifondisti che possedevano quasi tutta la ricchezza del paese; un modesto nucleo di artigiani poveri , una grande quantità  di contadini miseri e affamati ed una  piccola borghesia, fatta soprattutto di piccoli proprietari, e di professionisti che  assuefatti per secoli a ritmi indolenti, erano abituati a  sdegnare la trafila burocratica per affidarsi a procedure che consentivano transiti obliqui e maniere affidate a scappatoie.

L’economia industriale e agricola del sud era comunque protetta da  barriere doganali con cui lo stato borbonico proteggeva i suoi prodotti da esportare , impedendo ad altri paesi l’importazion di  prodotti come frutta, vini, formaggi, solfo e seta . Essa risentì quindi moltississimo dell’ abolizione di queste  barriere doganali che consentivano nella reciprocità di trattamento , ai stranieri la sola importazione di prodotti  che il paese non era in grado di produrre.    .

Luigi Eunaidi a tal proposito scrisse : “Si è vero, noi settentrionali abbiamo contribuito qualcosa di meno ed abbiamo profittato qualcosa di più delle spese fatte dallo Stato italiano, peccammo di egoismo quando il settentrione riuscì a cingere di una forte barriera doganale il territorio ed ad assicurare così alle proprie industrie il monopolio del mercato meridionale . -LUIGI EINAUDI –

Da questo punto di vista il buon Einaudi aveva ragione…..in quanto prima dell’Unità d’Italia il rapporto tra lira e oro era 1 a 1 per il nostro regno   e 1 a 3 per il Piemonte ( questo  significava che una lira borbonica era garantita da una lira in oro, mentre per i piemontesi una lira d’oro garantiva tre lire), mnentre all’indomani dell’unità, l’erario italiano fu composto al 65% dal regno delle Due Sicilie (445,2 milioni di lire su un totale di 670,4 milioni di lire) 

Le industrie  tessili e siderurgico, seppur concentrate sopratutto  a Salerno e nella provincia di Napoli erano tutte comunque  attive ed economicamente salde prima che avvenisse l’unione d’Italia.

L’opificio Reale di Pietrarsa era al momento dell’unita’ la piu grande fabbrica d’Italia, l’unica in grado di fabbricare motrici navali e il regno delle due Sicilie era l’unico stato della penisola a non doversi avvalere di macchinisti inglesi per la loro costruzione (ciò dava molto fastidio all’Inghilterra) . Venivano costruiti vagoni e locomotive.

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N.B,Il gruppo Ansaldo aveva 480 operai contro i 1000 del gruppo Pietrarsa e la Fiat non esisteva ancora nascendo solo 57 anni dopo Esso era l’unico in Italia a costruire motrici navali con 44 anni di anticipo su Breda e 57 sulla Fiat,

A Pietrarsa  si costruivano caldaie a vapore per attrezzare locomotive e piroscafi che avevano potenziato la terza flotta mercantile (quella borbonica) più potente in Europa (dopo Inghilterra e Francia) per numero di navi e tonnellaggio.

Il   cantiere navale di Castellammare di Stabia con 1800 operai era il primo del Mediterraneo per grandezza e faceva invidia a parecchie regioni d’Europa (Nei due grandi cantieri arsenali- navali del golfo lavoravano 3400 operai su 6650 del ramo in tutta l’ Italia ), e non dobbiamo mai dimenticare che da  questo cantiere sono uscite numerose grandi navi compresa la Amerigo Vespucci, la quale ancora oggi desta stupore e meraviglia in tutto il mondo.

N.B.il cantiere di Castellammare di Stabia, con i suoi 1800 operai, era il più grande di tutto il Mediterraneo. In esso furono costruite navi per 43mila tonnellate. Da esso uscirono la Cristoforo Colombo (1928) e l’Amerigo Vespucci (1931);

Sul vicino ponte della Maddalena, fondata da un inglese (notate quanti interessi avevano sul regno gli inglesi) era inoltre presente un opificio metalmeccanico chiamato Guppy con 600 operai; Si producevano macchine pneumatiche, strumenti ottici, utensili chirurgici, orologi e armi. Questo gruppo tra l’altro fornì il supporto per la prima illuminazione a gas della capitale.

Napoli era inoltre specializzata nella produzione di guanti, 500.000 dozzine di guanti l’anno contro le 100.000 del nord e noti come “con lavorazione d’Aragona” ( il nome ad uno dei più’ popolari quartieri di Napoli) erano reputati i migliori d’Europa.

La Macry ed Henry aveva 600 operai e produceva strutture metalliche per le navi militari e per gli ingranaggi.

La Real Fonderia ubicata in Castel Nuovo fabbricava cannoni, fornaci ed altri utensili di tipo industriale e presero ad operare 150 addetti di alta specializzazione. Era inoltre presente una scuola per carpentieri, fonditori, ottonai e macchinisti.

Sul ponte della Maddalena, fondata da un inglese (notate quanti interessi avevano sul regno gli inglesi) era presente un opificio metalmeccanico chiamato Guppy con 600 operai; Si producevano macchine pneumatiche, strumenti ottici, utensili chirurgici, orologi e armi. Questo gruppo tra l’altro fornì il supporto per la prima illuminazione a gas della capitale.
Napoli era specializzata nella produzione di guanti, 500.000 dozzine di guanti l’anno contro le 100.000 del nord e noti come “con lavorazione d’Aragona” ( il nome ad uno dei più’ popolari quartieri di Napoli) erano reputati i migliori d’Europa.

Nel cuore della montagna calabra, attorno a Serra San Bruno, sorgeva lo stabilimento di Mongiana e più tardi venne costruita Ferdinandea. Oggi Mongiana è un piccolo borgo con pochi abitanti e Ferdinandea è spopolata. Queste fonderie furono smantellate nel post-unità poichè situate in posti poco accessibili e lontano dal mare, cioè dalla maggiore via di trasporto dell’epoca. Ovviamente una volta smontate vennero riaperte al Nord.

Immaginate solo per un momento  quanto è costato in termini occupazionale, sociale, territoriale, di sviluppo complessivo e di emigrazione massiccia).

Quando venne proclamato il Regno d’Italia nel 1861 gli addetti alla ferriera di Mongiana erano 762 unita’ e si produceva ferro e ghisa di ottima qualità. Da Mongiana usci’ il ferro forgiato per produrre le catena che pesavano 180 tonnellate, per i due magnifici ponti sul Garigliano e sul Calore. Sempre a Morgiana, accanto alla fabbrica, sorse anche una fabbrica di armi e altre ferriere sorsero a Bivonzi e Pazzano.

Nel settore della lavorazione del metallo si specializzarono aziende di Abruzzo e molti dei suio coltelli e rasoi  erano più costosi ma anche più belli di quelli francesi ed inglesi e fortemente ricercati.
La chimica industriale del’ 800 era quasi tutta basata sullo zolfo, specialmente l’industria degli esplodenti per le armi. Il sud disponeva dell’importantissima produzione dello zolfo siciliano che nella prima metà dell’800 copriva il 90% della produzione mondiale

Appare pertanto chiara l’enorme valore strategico di tale produzione ed il conseguente atteggiamento dell’Inghilterra nella questione degli zolfi siciliani.
Gli inglesi odiavano il progresso economico del regno delle due Sicilie ed erano molto interessati alle sue miniere di zolfo in Sicilia, pertanto furono ben lieti di aiutare con forti finanziamenti ( massonici ) la spedizione dei mille pur di promuovere la fine del regno Borbonico e liberarsi in questo modo  di un soggetto politico-economico divenuto scomodo concorrente.

Per meglio chiarire le cose da un punto di vista solo prettamente economico bisogna quindi subito ribadire che nel  1861,, al momento dell’unità d’Italia vi erano solo tre fabbriche in Italia in grado di produrre locomotive: Pietrarsa, Guppy ed Ansaldo e due di queste erano al sud e sopratutto meglio chiarire a tutti che all’indomani dell’unità, l’erario italiano era  composto al 65% dal regno delle Due Sicilie (445,2 milioni di lire su un totale di 670,4 milioni di lire). 

Quando insomma ad ereditare il Regno fu  Francesco II (chiamato comunemente dai napoletani Francischiello) figlio della prima moglie di Ferdinando, Maria Cristina di Savoia, le casse el regno erano ceratamente  attive ed economicamente salde .

Il rapporto tra lira e oro era 1 a 1 per il nostro regno   e 1 a 3 per il Piemonte ( questo  significava che una lira borbonica era garantita da una lira in oro, mentre per i piemontesi una lira d’oro garantiva tre lire) e sopratutto che Il regno impiegava nell’industria una forza lavoro pari al 51% di quella complessiva degli stati italiani , 

Francischiello, detto ” lasa” dal padre (da lasagna)  per la sua debolezza  a tavola era un personaggio caratterialmente schivo, apatico, privo di carattere, poco energico ed estremamente religioso (bigotto).

 

CURIOSITA’: Re Francesco II,  aveva un carattere malinconico e introverso. La madre Maria Cristina di Savoia era morta in concetto di santità a soli 24 anni, 15 giorni dopo averlo dato alla luce; Francesco aveva studiato diritto ecclesiastico e teologia. Amava più la teologia che la politica e dedicava più tempo alla preghiera che agli affari di Stato. La  timidezza di Francesco, che soffriva anche di fimosi, rese il matrimonio non consumato per molti anni. Solo in seguito ad un intervento chirurgico a cui si sottopone  egli potè consumare il matrimonio, e Maria Sofia rimanere  incinta . Il 24 dicembre 1869, dopo dieci anni di matrimonio, Maria Sofia dà alla luce una figlia, la principessa Maria Cristina Pia delle Due Sicilie. Purtroppo, la bambina vive solo tre mesi e muore il 28 marzo 1870. Maria Sofia e suo marito non avranno altri figli.

Il suo regno durò appena 18 mesi, travolto dal ciclone garibaldini che approfittò della sua inconsistenza sul trono. Il giovane re aveva infatti un carattere totalmente opposto a quello risoluto e determinato del padre e si trovò ad affrontare una realtà politica allora estremamente critica.

In quel periodo infatti l’Austria  aveva inviato un ultimatum al Piemonte di tre giorni per procedere al disarmo.

Il Piemonte allora non sapendo come uscire da quella britta storia,chiese nella persona di Vittorio Emanuele una sua alleanza nella guerra contro l’ Austria. Egli proponeva di unirsi contro l’Austria, e di stipulare un patto in cui si garantivano reciprocamente l’indipendenza territoriale dei due territori senza mai farsi guerra. A fine guerra proponeva inoltre la concessione della Costituzione.
Francesco rivevuto la proposta, volle rispettare il testamento politico del padre che gli raccomandava la neutralità delle dispute e quindi declinò cortesemente l’invito.

N.B. Non ascoltò nemmeno il consiglio del suo anziano ministro Carlo Filangieri, principe di Satriano che invece, invano tentò di convincerlo ad accettare le proposte del Piemonte. Egli  in seguito a questo rifiuto poi si dimise dalla carica.

A questo punto il machiavellico Cavour chiese ed ottenne protezione dalla Francia, cedendo in cambio i territori di Nizza e Savoia ( a tal proposito mi piace ricordarvi che Cavour aveva una conoscenza molto imperfetta dell’italiano e preferiva scrivere e parlare in francese).
La Francia a questo punto fece presente all’Austria che un’eventuale invasione del Piemonte sarebbe stata considerata un atto contro la propria sovranità.
Cosi Francia e Austria si riappacificarono mentre il perfido e diabolico Cavour trattava segretamente con gli inglesi progettando la spedizione dei mille con i soldi della massoneria presente nei circoli politici inglesi e scozzesi  anti papista.

CURIOSITA’: A tal proposito ricordiamo che nel ‘68, Giulio Di Vita, studioso massone, presentò un rapporto al Collegio Maestri Venerabili del Piemonte. Titolo: ‘Finanziamento della spedizione dei Mille’. Di Vita scopre negli archivi londinesi che i britannici versarono a Garibaldi 3 milioni di franchi francesi in ‘piastre’ oro turche. Una cifra enorme per convertire molti dignitari borbonici alla democrazia liberale (in poche parole a corrompere i comandanti dell’esercito Borbonico).

Sfruttando il crescente numero di adepti che i due mazziniani Rosolino Pilo e Francesco Crispi raccoglievano nella sempre irrequieta Sicilia, Cavour manifestò al governo britannico un piano per liberarsi del”  fastidioso ” regno Borbonico.
La Sicilia per l’ennesima volta ripropose la sua eterna velleità di indipendenza facendo appello proprio al Piemonte e questi subito ne approfittò.
Francesco era preoccupato ma fu ben presto rassicurato dall’inviato piemontese marchese di Villamarina  il quale aveva avuto incarico da Vittorio Emanuele di informare subito il Borbone che egli non avrebbe mai turbato la pace e l’indipendenza del Regno.
L’ipocrita cugino ( erano purtroppo parenti : mai fidarsi!!)  aveva però già manifestato al governo inglese le sue reali intenzioni di annettere al Piemonte il Regno delle due Sicilie.
Infatti nel mentre Cavour già stava progettando insieme a Garibaldi la spedizione dei mille e la conquista dell’isola siciliana.
La scelta di sbarcare in Sicilia per l’invasione non fu casuale poiché  insurrezioni di masse popolari reclamavano da sempre ed ultimamente sempre di più l’indipendenza dell’isola da Napoli.
Francesco informato delle reali intenzione del suo parente ( serpente) fece in maniera che ben 14 navi presiedessero  le acque siciliane per impedire ogni tentativo di sbarco ad appena 1000 uomini peraltro improvvisati e mal addestrati.
Il governo di Sicilia era infatti ben informato non solo dello sbarco ma anche che  sarebbe avvenuto a Marsala, noto feudo britannico con la protezione di due navi da guerra di sua maestà che circolavano nel porto.
Quando Garibaldi sbarcò a Marsala stranamente non vi erano truppe di guerra o navi borboniche. Ad accoglierlo e solo a sbarco avvenuto arrivarono due navi che non avendo truppe da sbarco si limitarono a tirare alcune cannonate senza alcun danno per gli sbarcati oramai al sicuro.
Una volta sbarcato Garibaldi, Francesco Crispi proclamò la caduta del Regno Borbonico e in nome e per conto di Vittorio Emanuele, offre la Sicilia a Garibaldi.

Francesco Crispi

Da questo momento in poi prendono maggiormente corpo l’incapacità, l’incompetenza, la codardia e sopratutto l’infedeltà dei più stretti collaboratori di Francesco che favorirono la fine del Regno Borbonico.
A Calatafimi vi fu la battaglia decisiva che ancora oggi resta per molti un inspiegabile enigma. Il generale borbonico Francesco Landi comandava ben 4000 soldati ed era dotato di una possente artiglieria mentre l’esercito garibaldino era formato da appena 1000 uomini male armati e poco formati alla guerra.
Dopo un’intera giornata di fuoco, quando oramai i garibaldini erano esausti e quasi senza più munizioni, inspiegabilmente il generale Landi, tra lo stupore dei suoi uomini ordinò la ritirata e lasciò la via libera per Palermo.


Nel campo avverso dei garibaldini Nino Bixio resosi conto che difficilmente avrebbero potuto resistere ad un ulteriore attacco aveva già dato ordine di apprestarsi alla ritirata. Sotto lo sguardo incredulo dei Garibaldini l’esercito borbonico incominciò invece a ritirarsi e questo fatto apparve talmente strano e illogico ai garibaldini che temendo una trappola per una buona ora non seppero cosa fare e si limitarono ad osservare le manovre di ripiego dei reparti nemici senza sferrare un contrattacco.
Si è tanto parlato nel tempo di questa ingiustificata ritirata dei Napoletani dal campo di battaglia ed è oramai chiaro attraverso vari documenti recuperati, che si trattò di una grossa opera di corruzione operata da emissari del Regno di Sardegna a vantaggio del generale Landi. Oggi sappiamo che egli tentò successivamente a questo episodio di scambiare una fede di credito del valore di 14.000 Ducati datagli da Garibaldi in cambio del tradimento.

La sola verità quindi sulle  vittorie dei volontari garibaldini, è quella che esse  non sono state conquistate sui campi di battaglia, a prezzo di sangue, ma preparate dagli inglesi e dai massoni ma sopratutto  realizzate con l’appoggio della mafia e comprate con l’oro che ha corrotto i comandanti e ministri borbonici.

La stessa famosa frase detta da Garibaldi nei confronti di Bixio avvenuta dopo il suo ordine di ritirarsi è oggi oggetto di rivalutazione ” Nino, qui si fa l’Italia o si muore!“.
Pare che egli già sapesse circa la corruzione dei nemici ed il suo gesto di lanciarsi all’attacco come ultimo tentativo di fermare l’attacco borbonico ad armi bianche fosse ben meditato e certamente meno eroico.

La capitolazione di Palermo, si dice, avvenne con l’oro dato al generale Lanza ed ancora oggi appare poco chiaro il fatto che 20000 soldati borbonici , padroni dei forti e protetti dal mare dai cannoni delle navi schierate in rada accettassero la capitolazione e si ritirassero lasciando Palermo in potere di Garibaldi.


Tutto quello che avvenne dopo fu la conseguenza di questo primo scontro perché alla notizia della ritirata di Landi, Palermo insorse e agevolò l’entrata di Garibaldi mentre schiere di volontari andarono ad ingrossare le file dei mille.
Venivano arruolati con il facile soldo centinaia di nuovi combattenti, molti dei quali passavano in cambio di raddoppiato stipendio dall’esercito borbonico a quello sabaudo, basti pensare che un’armata di appena 1.085 uomini  sbarcata a Marsala, in  Sicilia, in breve tempo ( un mese )  era divenuta di 43 mila uomini.
La cassa e l’amministrazione di questo tesoro con cui erano sbarcati i mille (si parlava di un  finanziamento di 10 mila piastre turche paragonabili a circa 15 milioni di euro attuali) che era arrivato a Garibaldi dalla massoneria inglese, era tenuta dal preciso contabile garibaldino Ippolito Nievo che non mancava di annotare tutto quanto speso e per conto di chi.


Egli conservava tutto quanto in una  cassa, da cui non si separava mai. Nel suo interno erano contenuti soldi, ricevute, fatture, lettere e tutto quello che riguardava la gestione dell’ingente patrimonio garibaldino e di quello poi  “trovato” nelle casse delle banche siciliane.
La resa dell’isola fu firmata a Palermo su una nave di bandiera britannica ( ??) e una volta ottenuto  l’armistizio con l’esercito Borbonico si passò alla requisizione del Banco di Sicilia e ai suoi soldi ( 5 milioni di Ducati cioe’ circa 200 milioni di euro di oggi ).
I corrotti generali borbonici si arresero in cambio di parte del danaro prelevato dalle casse del Banco di Sicilia  ( il prezzo dell’armistizio pare sia costato circa 60.000 Ducati ).
Sentirete dire che  l’evacuazione dell’esercito borbonico da Palermo finì il 19 giugno 1860, quando la Banca di Sicilia era ancora chiusa al pubblico. Al pubblico sì, ma non ai direttori, ai presidenti e ai tesorieri del Banco. Furono essi responsabili, insieme a Crispi, del pagamento ai generali borbonici, perché lasciassero Palermo senza più combattere. Il pagamento avvenne con soldi prelevati dai conti correnti dei palermitani. Il Banco fu poi successivamente rimborsato, per la Legge del 1867 sul ripianamento dei debiti contratti da Garibaldi sul Banco di Sicilia e di Napoli nel 1860. Ma alcune partite non furono rimborsate, perché non furono presentate pezze d’appoggio valide.
Quindi la liberazione di Palermo avvenne addirittura con i denari dei siciliani e non solo  degli inglesi e se di alcune partite non si ebbe il rimborso fu perché non si poteva dire come i denari erano stati usati.
Dopo solo un anno dallo sbarco dei mille, la Sicilia era stata completamente annessa al territorio sabaudo, grazie sopratutto ai soldi usati per corrompere alte cariche ufficiali e civili ed un piccolo manipolo di appena 1000 uomini sbarcati a Marsala aveva messo in fuga paradossalmente 100mila uomini al prezzo di soli 78 caduti ( un vero miracolo !!).
Il danaro provenienti da fondi internazionali serviva per  foraggiare e stipendiare tutti; corrotti appalti, false commesse militari, sprechi, promozioni facili, aumento di stipendi spesso raddoppiati e rendite elargite ai potenti del posto.
I Garibaldini facevano una carriera molto rapida e su 24.000 combattenti vi erano 6 mila ufficiali ben pagati ( in un normale esercito dell’epoca vi era un  solo ufficiale ogni 30.000 soldati).

Il Vice Intendente idealista Ippolito Nievo  era rimasto nauseato da ciò che aveva visto, da come veniva trattato il popolo siciliano e di come le cose erano andate contro le sue aspirazioni.

Egli aveva minuziosamente annotato nei suoi registri tutte le entrate e le uscite dei soldi finanziati per la spedizione dei mille ivi compresi le ingenti somme usate  per corrompere l’esercito borbonico ( aveva annotato nomi , cifre , somme e  tanti segreti ) e trascrisse tutte le irregolarità in maniera rigorosa nei suoi libri contabili.
Nel suo rendiconto, Ippolito Nevio,  dimostrava, con meticolosa precisione, l’operato di tutta l’Intendenza delle finanze garibaldine. Nel fascicolo erano contenute notizie riservate, che non sarebbe stato opportuno rivelare perché avrebbero acclarato il coinvolgimento dell’Inghilterra nel finanziare la spedizione dei mille.

La cosa interessante fu che successivamente alla conquista del Regno da parte piemontese ed esattamente tredici giorni prima della proclamazione dell’Unità d’Italia, sparì nel nulla, in mare aperto, tra Palermo e Napoli, un piroscafo di nome “Ercole” tra i cui passeggeri era presente proprio Ippolito Nievo con il compito di portare a Torino la documentazione economica relativa alla spedizione militare dei Mille custodita  gelosamente in una cassa.

 


Ippolito era stato invitato a presentarsi con urgenza a Torino, dal suo diretto superiore, il generale Acerbi, insieme alla sua cassa (con le piastre turche  e i preziosi libri contabili) dopo che l’ala conservatrice aveva sollevato una questione sulla dubbia amministrazione della spedizione.

L’intendente generale Acerbi, il 16 marzo, aveva infatti inviato a Ippolito Nievo,  un telegramma imponendogli di lasciare Palermo al più presto con incarico  di riportare nella capitale piemontese nel più breve tempo possibile la  scottante documentazione. Era cosa molto urgente, in quanto il governo si trovava in forte imbarazzo e il fatidico giorno della proclamazione dell’unità d’Italia era oramai troppo vicino  ( non si poteva certo mostrare che l’Italia si fondava sulla corruzione ……) .
Era in atto da qualche settimana una campagna di stampa e discussione sui beni economici e  sulla gestione dei fondi dissipati in malo modo dai Garibaldini e se quelle carte fossero arrivate nelle mani di un tribunale ma anche se il solo Nevio avesse potuto parlare  davanti ad un giudice molte persone avrebbero potuto subire conseguenze abbastanza imbarazzanti in Italia e all’estero.
Nevio era stato convocato a Torino perchè doveva dare conto della gestione e amministrazione finanziaria dei mille ma il rendiconto non arrivò mai a Torino.
Il piroscafo Ercole con il suo prezioso carico sparì nel nulla e nessuno si premurò di cercarlo. Le sue carte non sarebbero dovute arrivare a Torino e all’estero dove c’era qualcuno che temeva clamorose rivelazioni.
A Napoli nessuno si accorse del mancato arrivo e trascorsero  parecchi giorni  senza che nessuno si desse da fare per cercare l’Ercole.
Lo stesso giornale ufficiale di Palermo non dà nessuna notizia del mancato arrivo di questo battello  che faceva servizio normalmente tra Palermo e Napoli.
Tutti fanno finta di niente e nessuno lo cerca;  mancano pochi giorni (12) alla proclamazione del regno d’Italia e Ippolito e la sua documentazione rappresentano un pericolo per il futuro regno d’Italia.
Solo i portuali si resero conto che il vapore non aveva gettato le cime in banchina. Oramai erano trascorsi troppi giorni: undici. Nessuno si mosse, neppure il ministero della Guerra, né la compagnia marittima, né le autorità portuali. I giornali tacquero, le famiglie rimasero ignare.
Solo dopo 2 settimane  si ha qualche sporadica e generica notizia della barca sparita nel nulla;  un qualsiasi naufragio lascia sempre dei resti della imbarcazione evidenti in superficie, sopratutto se il relitto è fatto di legno e invece nulla, proprio nulla si ritrova della nave .

Dopo la capitolazione di Palermo e la perdita dell’intera Sicilia, Francesco dopo aver indetto un consiglio di stato decide di concedere la Costituzione, ma oramai era troppo tardi e qualche mese dopo la sanguinosa giornata di Milazzo, Garibaldi mise piede sul continente ed entrava in Reggio.

Ora prima di continuare vorrei soffermarmi su tre   piccole considerazioni :

La prima riguarda proprio Giuseppe Garibaldi che come avete potuto notare   non conquistò un bel nulla, tantomeno non sconfisse il potente es ercito borbonico. Gli alti ufficiali si misero d’accordo con Cavour tradendo il loro re per soldi e promozioni ( prime prove di corruzione su cui poi hanno amministrato l’Italia negli anni ). L.’impresa di Garibaldi infatti stupi l’intera Europa perché la riuscita era ritenuta impossibile, basta considerare che il goverbo borbonico era ben informato non solo dello sbarco dei mille che doveva avvenire ma anche dove presumibilmente doveva avvenire ed in quale giorno a tal punto che una flotta di 14 navi incrociava, fin dalla metà di aprile, nelle acque siciliane per impedire ogni tentativo di sbarco.
Sta di fatto che Marsala si trovò sguarnita di truppe e di navi al momento dell’arrivo della spedizione garibaldina e solo a sbarco avvenuto arrivarono due navi regie che non avendo truppe da sbarco, come non le avevano tutte le altre navi della crociera, si limitarono a tirare alcune cannonate senza nessun danno per gli sbarcati ormai al sicuro.
A Calatafimi il settantenne generale Francesco Landi, con quattromila soldati e l’artiglieria, si limitò a tenersi sulla difensiva di fronte a mille uomini male armati e dopo un’intera giornata di fuoco, quando ormai i garibaldini erano esausti e quasi senza più munizioni, ordinò la ritirata e lasciò la via libera per Palermo. Tutto quello che seguì poi fu la conseguenza del risultato di questo primo scontro perché alla notizia della ritirata di Landi da Calatafimi, Palermo insorse e agevolò l’entrata di Garibaldi mentre schiere di volontari andavano ad ingrossare le file dei Mille.
Da questa storia resta a noi poco chiaro il fatto che 20 mila soldati borbonici, padroni dei forti e protetti dal mare dai cannoni delle navi schierate in rada, accettassero la capitolazione e si ritirassero lasciando Palermo in mano a soli mille uomini mal addestrati alla guerra.

La seconda riguarda la  scelta della Sicilia per lo sbarco d’inizio idell’invasione che certamente non tu casuale. Esso fu infatti fu frutto di una sopraffina intuizione politica di Cavour che scelse questo posto in maniera ben calcolata .
Molteplici ed antiche erano infatti le tensioni nell’isola avverso la dipendenza da Napoli.
Senza riandare alle vecchie guerre degli angioini contro gli aragonesi per il possesso napoletano dell’isola ed ai secoli di mal sopportata sudditanza, si rammentino infatti i moti del 1820, con insurrezioni di Vaste masse popolari che reclamavano I’ndipendenza da Napoli.
Altra grossa tensione venne poi generata quando un  governo  guidato dal principe Paternò Castello e da Giuseppe Alliata di Villafranca, istituito a Palermo,aveva ripristinato la Costituzione del 1812 con l’appoggio degli inglesi, ma fu spazzato via da un esercito che riconquistò la Sicilia con cruente e sanguinose battaglie, ristabilendo la monarchia assoluta e ripristinando l’autorità del governo di Napoli.
Un altro ennesimo e moto rivoluzionario scoppiato  a Palermo nel gennaio 1848 con una rivolta popolare guidata da Rosolino Pilo e Giuseppe La Masa,fu quello che forse più do ogni altro creò nei siciliani un atteggiamento rancoroso nei confronti dei Borbone. Esso sostenuta dalla massoneria liberale che combatté l’asso-lutismo monarchico e gli interessi britannici che miravano ad avere un protettorato siciliano.fu capace di ricostituire  il parlamento siciliano e proclamare  la nascita dello Stato di Sicilia. Il re Ferdinando per ripristinare l’ordine monarchico borbonico in quell’occasione bombardò nel settembre la città di Messina e nel maggio del 1849 si riappropriò dell’intera isola con varie lotte e spargimenti di sangue, che gli valsero l’appellativo di “re Bomba”.
Altre rivolte, sempre represse con l’uso della forza, avvennero nel 1853 e 1856, sotto la guida di Francesco Bentivegna e Salvatore Spinuzza, che furono giustiziati. Nell’aprile 1860, la ribellione era ripresa sotto la guida di Francesco Riso nella rivolta della Gancia, fino a che nello stesso anno si pervenne alla spedizione dei mille ed all’avanzata folgorante di Garibaldi.

Dei poco più di mille garibaldini sbarcati a Marsala , le file delle truppe di Garibaldi si accrebbero da parte dei siciliani che odiavano i Borbone, con una rapidità incredibile, un numero enorme di combattenti (fino a raggiungere il  numero di 20.000 unità )

N.B. Non va sottovalutata peraltro nemmeno la propaganda effettuata da Garibaldi e dai suoi partners quanto a promesse di distribuzione delle terre ai contadini,  che ampliò notevolmente i consensi, fino ad entusiastiche adesioni e quella situazione da un punto di vista economico che in quegli anni vedeva la Sicilia non avere  lo stesso sviluppo della Campania.

Molteplici dunque erano i motivi per giustificare la notevole spinta all’indipendenza siciliana..

La terza  riguarda invece l’incosistenza e l’inefficienza politica di re Francischiello  che purtroppo aveva soli  23 anni quando successe al padre .Forse se al suo posto ci fosse stato un umo piu forte,  deciso , risoluto e determinato le cose avrebbero potuto prendere una piega diversa .  Egli avrebbe potuto  dare una diversa svolta alla storia ma volle rispettare il testamento politico di suo padre che gli raccomandava la neutralità.
Pertanto rifiutò l’offerta di Cavour che proponeva: l’alleanza offensiva e difensiva del regno delle Due Sicilie e del Piemonte nella guerra contro l’Austria per l’indipendenza d’Italia, la reciproca guarentigia dell’integrità territoriale dei due paesi e la concessione della Costituzione a guerra ultimata.

Francesco II non fu neanche fortunato ad avere con se alla testa del governo e al comando delle truppe, uomini decisi , fedeli  e competenti capaci di controbilanciare un uomo debole ed incerto come lui . Se invece di  uomini  incapaci  di qualsiasi azione seria e dignitosa  e comandanti imbelli e traditori che  hanno dato  prova di viltà e impotenza morale, ci fossero stati uomini diversi e di chiara fedelta e rigida moralità ,  forse il regno non sarebbe stato perduto. L’unico ad avere un buon senso politico e la chiara visione della situazione fu il generale Carlo Filangieri, principe di Satriano, in quel tempo presidente del Consiglio dei ministri e ministro della guerra, che, invano, tentò di convincere il re ad accettare le proposte del Piemonte o, per lo meno, a conceder lo Statuto. Risultati vani i suoi sforzi , egli si dimise dalle cariche e in seguito non volle accettare nessun altro incarico, nemmeno nel periodo susseguente lo sbarco di Garibaldi a Marsala quando, forse, il suo intervento sarebbe stato determinante per la salvezza del regno, ma non bisogna dimenticare che aveva già 76 anni.

Francischiello era troppo giovane , inesperto ed incerto per affrontare quella realta’ politica che si era creata . Egli  cresciuto quasi in solitudine, sotto la rigida sorveglianza di precettori che gli avevano impartita un’istruzione non consona ad un erede al trono,  era privo d’esperienza,aveva  un temperamento mite e dera sopratutto dotato di una religiosita tale che poteva anche essere chiamata bigotteria.
Per dare un’idea del suo carattere basta dire che la prima notte di matrimonio la trascorse quasi tutta nella camera antistante quella nuziale, recitando preghiere, in attesa che la sposa si fosse addormentata per poter, a sua volta, scivolare nel letto senza svegliarla.
Questa scena si ripeté per tutto il tempo che gli sposi rimasero a Bari e per quasi un mese dopo il loro ritorno a Caserta, si può, quindi facilmente immaginare la delusione di Maria Sofia che non si vedeva mai al fianco il marito in quanto il principe, oltre ad andare a letto quando la moglie si era addormentata, si alzava prestissimo la mattina e silenziosamente per non destarla.
Il malumore della principessa si manifestava in ogni occasione per cui la dama di camera, che aveva tutto notato, decise di far cessare quell’assurda situazione e confidò ogni cosa al padre scolopio Borrelli che aveva un grande ascendente sul principe.
Il religioso ebbe un lungo colloquio con Francesco, ne vinse i pudici timori e il matrimonio, finalmente, venne consumato.
Maria Sofia ritrovò la serenità e il sorriso le rifiori sulle labbra.
Questo era il nuovo re dei napoletani destinato ad affrontare la bufera del 1860.

Quando capitolò per mano di Garibaldi la città di Palermo  e con essa avvenne la perdita dell’intera Sicilia , Francesco II fu informato dei fatti con un telegramma dalla Sicilia dell’impresa garibaldina il giorno stesso dello sbarco, 11 maggio, e tre giorni dopo riuni il Consiglio di Stato per decidere le misure da prendere.
Il generale Filangieri, che per la sua esperienza era stato invitato alla riunione, rifiutò la carica di luogotenente generale del re in Sicilia e la scelta cadde sul generale Ferdinando Lanza.
Scelta non felice perché il Lanza non fu mai all’altezza del com-pito, eppure il suo nome era stato suggerito dal Filangieri che, d’al-tronde, non aveva molto da scegliere avendo gli altri papabili minori qualità del Lanza. Francesco II, in seguito, rimproverò al Filangieri

Quanto esposto può bastare per far comprendere di quale levatura fossero gli uomini, responsabili della difesa del regno, che circondavano il re.

Bisogna ancora dire, ad onore della verità, che il primo consiglio del Filangieri fu quello di concentrare un esercito a Messina al comando dello stesso re per rialzare il morale delle truppe e, solo in quella circostanza, egli stesso, il Filangieri, benché di età avanzata, avrebbe accettato la carica di capo di stato maggiore dell’esercito.
Francesco II, spalleggiato dai suoi consiglieri, scartò questa logica soluzione come scarto il consiglio, sempre del Filangieri, di concedere subito la Costituzione.
Una enormità di errori, dunque, che avrebbero potuto facilmente essere evitati.

Fu infatti  solo dopo la perdita di Palermo che il re cominciò a prendere in considerazione il consiglio del Filangieri di concedere la Costituzione pero, sempre titubante, come un uomo brancolante nel buio chiese lumi a Napoleone III e a Pio IX.
L’imperatore dei francesi approvò la decisione di concedere la Costituzione ma non s’impegnò per la guarentigia del regno per la quale consigliò Francesco di rivolgersi al Piemonte; il Papa, che in un primo momento aveva dato parere sfavorevole, informato meglio della situazione approvò ugualmente.

N.B. Francesco II, da uomo molto ma molto cattolico , come potete  notare anche di fronte alla stessa possibile perdita del regno si preoccupava prima di concedere la costituzione a garantire delle leggi che in qualche modio tutelavano rendite , privilegi e immunità della chiesa. Con la legge delle guarentigie, in effetti all’epoca si cercava di dare una regolamentazione ai rapporti tra lo stato e la santa fede .Regolamentazione poi definitivamente stabilizzata nel 1929 , quando furono conclusi i Patti Lateranensi.

Avuto anche il consenso del sommo Pontefice ,Francesco II firmò finalmente la concessione della Costituzione e contemporaneamente anche l’atto di morte della dinastia borbonica.

Ma ormai era troppo tardi!

Mentre infatti l 25 giugno,  il Giornale Ufficiale pubblicava  l’atto sovrano che concedeva lo Statuto,  in  città oramai regnava la paura  Pochi giorni dopo  infatti si aprirono le porte delle prigioni per i detenuti politici e cominciò il ritorno degli esuli, ma cominciarono anche i disordini provati dalle vendette dei patrioti fino allora perseguitati, contro i « feroci » (com’erano chiamati gli agenti di polizia) e le spie borboniche.

Molte persone che avevano qualche cosa da temere si affrettavano ad abbandonare la città  non ultima la regina madre, Maria Teresa, che ai primi giorni di luglio partì per Gaeta con tutti i suoi figli.

La situazione in città non era per nulla tranquilla . Messuno era sicuro del domani… tra i liberali, c’erano diverse fazioni: i costituzionali, i liberali cavurriani, i garibaldini e i mazziniani che, temendo ognuna un colpo di mano di un’altra, stavano sempre in guardia.

Il nuovo prefetto di polizia, Liborio Romano, fu costretto a sciogliere il vecchio corpo e formare una nuova guardia cittadina con i « guappi» e i « camorristi» per ottenere il ristabilimento dell’ordine pubblico anche se tale provvedimento inquinò, per sempre, il corpo di polizia.

Il 1º luglio Francesco II, con un decreto, rimise in vigore la Costituzione del 1848, sospesa ma mai abolita, in virtù della quale le elezioni vennero fissate per il 19 agosto e l’apertura del parlamento il 10 settembre.

 

LA BATTAGLIA DI MILAZZO

Ma ritorniamo per un momento all’eroe dei due mondi che certamente ha forse mostrato la sua vera indole di combattente e stratega nella famosa battaglia di Milazzo  combattuta fra il 17 e il 24 luglio 1860 , In questa battaglia, contrariamente alle altre infatti Garibaldi, per la prima volta con il suo esercito non piu costituito da soli mille uomini ma da circa seimila uomini per l’aggiunta all’iniziale esercito di altri numerosi volontari aggiunti provenienti da ogni regione d’Italia. Veterani, volontari dell’ultima ora, giovani e non, così diversi eppure tutti accomunati dallo stesso ideale nazionalistico si misurava finalmente con una formazione borbonica guidata da un comandante fermamente intenzionato a battersi.

Le forze impiegate nello scontro ammontavano a circa 10.000 uomini, dei quali oltre 6.000 erano i garibaldini, mentre i soldati napoletani che affrontarono la battaglia erano 3400;

Le forze borboniche, inviate da  Messina a difendere la  fortezza di Messina  e la sua piccola guarnigione, erano composte da tre battaglioni di Cacciatori a piedi, uno squadrone di Cacciatori a cavallo ed una batteria di artiglieria da montagna, per un totale di 3.400 uomini, guidati dall’abile colonnello  Ferdinando Beneventano del Bosco.

In questa occasione, però, anche lo schieramento garibaldino era più consistente, forte delle 8.000  carabine a canna rigata e delle 400.000 cartucce arrivate dal Piemonte. Le caratteristiche di gittata fino a 300 metri dei nuovi fucili non potevano però essere sfruttate, perché i garibaldini non avevano la preparazione necessaria al pieno utilizzo di tali armi Inoltre, i garibaldini potevano contare sulla supremazia numerica, pur lamentando l’assenza di reparti di cavalleria ed una iniziale inferiorità di artiglieria.

Garibaldi decise di attaccare lo schieramento borbonico, disposto su due linee, con una massiccia colonna centrale, preceduto da due attacchi laterali contemporanei, in modo da creare un utile diversivo. L’organizzazione e la sincronia dei movimenti fu piuttosto scoordinata e questo primo tentativo si tramutò in un vero disastro, nel quale i garibaldini furono respinti e riuscirono a stento nel contenere il contrattacco borbonico, subendo gravissime perdite.

Ma non erano certo gli uomini che mancavano a Garibaldi e, dopo una rapida riorganizzazione dei quadri, gli attacchi garibaldini si susseguirono per oltre sei ore, nelle quali gli schieramenti contrapposti dimostrarono una combattività eccezionale, galvanizzati dai due comandanti in capo che guidavano personalmente le azioni, entrambi continuamente presenti nella prima linea.

I due contigenti armati erano talmente vicini alla linea di combattimento che, in una celebre occasione, l’improvviso attacco di un drappello della cavalleria borbonica guidata dal capitano Giuliani, rischiò di travolgere lo stesso Garibaldi ferito da un proiettile sotto il piede, che aveva strappato la suola e la staffa, dovendo abbandonare il cavallo ferito e con il revolver rimasto nella sacca della sella.

Accortosi dell’episodio subito  Bosco aveva spedito un drappello di cavalieri con la missione di recuperarlo. Era allora che i volontari siciliani si posizionavano lungo gli argini della strada, aprendo il fuoco contro i soldati borbonici costretti a indietreggiare . Due  garibaldini , Missori e Statella, subito si lanciarono  senza indugio al centtro della strada per difendere  con coraggio Garibaldi trovatosi appiedato e circondato dalla cavalleria nemica.

Garibaldi  insieme ai suoi due uomini, che gli facevano da scudo ,rimasti soli al centro della strada , in fretta, erano divenuti i bersagli della cavalleria borbonica, che si era gettata con foga su di loro. Pur se armati solo di sciabole, e a piedi, i due riuscivasno  lo stesso a respingere abilmente l’attacco, quando l’eroe dei due mondi si ritrovò ad affrontare una temibile carica, guidata dallo stesso  capitano Giulian che  forte del suo destriero, affrontò Garibaldi, tentando di colpirlo con una sciabolata.  L’eroe di Nizza riuscì però a  scansarsi  e con la punta della sua lama tagliò la gola al nemico.

Garibaldi salvato da Missori

Questo episodio contribui ad alimentare quel MITO di Garibaldi tra le truppe militari e la paura di chiunque era costretto ad affrontare il suo esercito .

Dopo un primo violento impatto tra gli schieramenti, Garibaldi si rese conto che la situazione stava diventando difficile, con gli avversari che ben resistevano ai tentativi di sfondamento. Decise quindi di concentrare gli sforzi nella parte destra del fronte, nei pressi della costa orientale del promontorio. Qui l’avanzata dei volontari si fermò ai Mulini, dove una postazione di cannoni bloccava ogni tentativo di proseguire. Quattro di queste armi pesanti, terrore della fanteria, erano infatti ottimamente mimetizzate dietro alcuni muri a secco, dai quali sparavano attraverso delle feritoie.

Alle quattro del pomeriggio, dopo 8 ore di lotta ininterrotta, tutte le forze regie in attesa di rinforzi si ritiravano nel castello. La battaglia e fino a quel momento ra costata circa 150 morti ai napoletani e ben 800 a ai garibaldini.

Bosco entrato nel frattempo , anche in contraso con Pironti , il quale si rifiutava di ricevere ordini data la maggiore anzianità di servizio, attendeva che le altre truppe borboniche provenienti da Napoli , giungessero  a liberare la fortezza, ma al momento di stilare un piano definitivo, gli orientamenti si erano ribaltati: persino l’ordine di invio di 3 battaglioni, che promanava direttamente dal  generale Clary , era stato revocato in fretta e furia dal suo stesso ideatore. A Napoli, Pianell aveva deliberato di spedire un nutrito corpo di spedizione alla volta di  Milazzo  ma la flotta si era opposta al loro imbarco, pressando affinché fossero mandate nella Cittadella le sole navi necessarie a prelevare il Bosco con i suoi uomini, e un ufficiale incaricato di stipulare la resa delle truppe.

La stessa moderna veloce pirocorvetta Tukory , giunta in quel frangente  nei pressi della costa occidentale. che inizialmente doveve servire per aiutare l’esercito borbonico non batteva piu bandiera reale ma garibaldina visto che pochi giorni prima era stata consegnata alla marina sarda dal capitano Amilcare Aguissola, contattato e convinto al tradimento dall’ammiraglio Carlo Pellion di Persano  , Un comportamento dell’ufficiale borbonico che successivamente sarà seguito anche da parecchi altri ufficiali che abbracceranno la causa unitaria: quando infatti  Francesco II a bordo del Messaggero salpò da Napoli per Gaeta, solo tre navi lo seguirono, mentre la quasi totalità della flotta rimase ancorata senza rispondere alla chiamata.

La corvetta, subito ceduta alle forze garibaldine e rinominata “Tukory”, era armata con 10 potenti cannoni che, diretti personalmente da Garibaldi, presero a martellare incessantemente l’ala sinistra delle forze borboniche, impedendo ogni tentativo di contrattacco e costringendole a ritirarsi nella cittadella fortificata.

Arroccate nella fortezza, la guarnigione borbonica con i suoi  1.400 uomini  avrebbe potuto resistere ancora a lungo, anche grazie alla protezione di 40 cannoni e di mura solide e spesse. Tuttavia, nessuno aveva pensato a rifornire il castello di viveri ed acqua, e la truppa, devastata dal combattimento di quel giorno, rischiava un tracollo fisico e psicologico.

Il 21 luglio, in seguito alla convenzione voluta dal ministro della guerra napoletano Giuseppe Salvatore Pianell,  il maresciallo  Tommaso de Clary ed il generale  Giacomo Medici firmarono il patto per l’evacuazione delle truppe borboniche dalla  Sicilia ed il 25 luglio anche i reparti guidati dai colonnelli  Pironti e del Bosco si imbarcarono per Napoli  lasciando Milazzo in mano garibaldina.

Un mese dopo la sanguinosa giornata di Milazzo, costata alle forze garibakdine intorno alle  800 vittime  tra morti e feriti ( quelle borboniche invece contavano circa 150  vittime tra morti e feriti) , nella notte tra 1l 19 e il 20 agosto, Garibaldi metteva piede a Melito di Porto Salvo, sul continente, e il 21 entrava a Reggio che occupava completamente il giorno seguente dopo aver sostenuto un breve combattimento.

Le forze borboniche in Calabria ammontavano quasi a 12 mila uomini ma nessun generale si mosse per contrastare la marcia dei garibaldini tanto che durante la ritirata su Monteleone un generale, Briganti, venne ucciso dai soldati, indignati di dover fuggire davanti ad un nemico inferiore per uomini e per mezzi.

Lo stacelo dell’esercito regio era ormai completo, le notizie che venivano da Napoli in merito alla concessione dello Statuto demoralizzavano gli ufficiali che non sentivano più il senso del dovere mentre i soldati s’intimorivano al solo nome di Garibaldi, soggiogati, com’erano,
dalle leggendarie vittorie del condottiero delle camicie rosse.
Da Reggio a Napoli non vi furono più combattimenti; procedendo nella sua marcia Garibaldi incontrava corpi d’esercito che si arrendevano senza sparare un colpo, come a Severia Mannelli dove deposero le armi 10 mila uomini.
A Napoli intanto mentre un consiglio di generali discuteva un piano per la difesa. della Calabria , alla fine di agosto, si seppe della resa completa delle truppe che vi operavano; si ripiegò allora su di un altro piano che prevedeva una linea di difesa tra Eboli e Salerno oppure tra Salerno e Napoli.
Il re era presente ad ogni riunione ma non interveniva mai nella discussione, rimaneva calmo, quasi assente, come se considerasse gli avvenimenti che decidevano del futuro del suo regno una forza inelluttabile, guidata dal destino, alla quale niente si poteva opporre.
Nei giorni che dovevano essere gli ultimi del regno la confusione era enorme, i « fedeli » scomparivano dopo aver consegnato nelle mani del re le cariche che ricoprivano, come topi che abbandonano la nave che sta per affondare; lo stesso governo rassegnò le dimissioni e quelli incaricati per i vari ministeri.di formarne un altro non riuscirono a trovare uomini disponibili.

N.B. Dopo le dimissioni di Pianell il Re offrì l’incarico di capo del governo al generale Ischitella, ma questi dopo vari tentativi, rimise l’incarico sostenendo che «ognuno si rifiutava di essere ministro in quel momento, in cui si vedeva la dissoluzione del Regno, e nessuno voleva compromettersi.

Triste e deluso dai ministri,  Francesco II , incoraggiato dalla moglie Maria Sofia , e mosso dalla volontà di risparmiare la città dalle distruzioni dei bombardamenti ,decise di lasciare Napoli per andare a difendere il suo trono a Gaeta, considerata da lui una località strategicamente preziosa, per giocarsi in una partita senza possibilità di replica, la sopravvivenza del suo Stato, minacciato da un’invasione insensata ed illegittima.

La mattina del 5 settembre,  il re annunciò quindi al dimissionario presidente del consiglio, Spinelli (rimasto in carica in attesa di essere sostituito), la sua decisione di lasciare Napoli, per risparmiare alla città gli orrori e le rovine della guerra, e tentare con l’esercito l’ultima difesa del regno tra il Volturno e il Garigliano.
Il giorno dopo sui muri della città apparvero dei manifesti del re rivolto ai cittadini dove giustificava il suo allontanarsi dalla città  al fine di proteggerla dalle rovine della  guerra che essa può comportare  e  salvare tutti  suoi abitanti con  le loro proprietà,

 

Proclama reale di Francesco II alla cittadinanza:
Fra i doveri prescritti ai re, quelli dei giorni di sventura sono i « più grandiosi e solenni, ed io intendo di compierli con rassegnazione scevra di debolezza, con animo sereno e fiducioso, quale si addice al discendente di tanti monarchi.
A tale uopo rivolgo ancora una volta la mia voce al popolo di  questa metropoli, da cui debbo ora allontanarmi con dolore.
Una guerra ingiusta e contro la ragione delle genti ha invaso i miei stati, nonostante ch’io fossi in pace con tutte le potenze europee.
I mutati ordini governativi, la mia adesione ai grandi principii  nazionali e italiani non valsero ad allontanarla, che anzi la necessità « di difendere l’integrità dello Stato trascino seco avvenimenti che ho sempre deplorati.
Onde io protesto solennemente contro queste inqualificabili ostilità, sulle quali pronunzierà il suo severo giudizio l’età presente e  futura.
Il corpo diplomatico residente presso la mia persona seppe, fin dal principio di questa inaudita invasione, da quali sentimenti era,compreso l’animo mio per tutti i miei popoli, e per questa illustre « citta, cioè garentirla dalle rovine e dalla guerra, salvare i suoi abitanti « e le loro proprietà, i sacri templi, i monumenti, gli stabilimenti pubblici, le collezioni d’arte, e tutto quello che forma il patrimonio della « sua civiltà e della sua grandezza, e che appartenendo alle generazioni future è superiore alle passioni di un tempo. Questa parola è giunta ormai l’ora di compierla.
La guerra si avvicina alle mura della città, e con dolore ineffabile « io mi allontano con una parte dell’esercito ,trasportandomi là dove la difesa dei miei diritti mi chiama.
L’altra parte di esso resta per contribuire ,in concorso con l’onorevole Guardia Nazionale, alla inviolabilità ed all’incolumità della « capitale, che come un palladio sacro raccomando allo zelo del ministero.
E chieggo all’onore e al civismo del sindaco di Napoli e del co mandante della stessa guardia cittadina di risparmiare a questa Patria carissima gli orrori dei disordini interni e i disastri della guerra civile; al quale uopo concedo a questi ultimi tutte le necessarie e più estese facoltà.
Discendente di una dinastia che per ben 126 anni regno in queste « contrade continentali, dopo averlo salvato dagli orrori di un lungo governo viceregnale, i miei affetti sono qui.
Io sono napoletano, né potrei senza grave rammarico dirigere parole di addio ai miei amatissimi popoli, ai miei compatrioti. Qualunque sarà il mio destino, prospero o avverso, serberò sempre per essi forti e amorevoli rimembranze.
Raccomando loro la concordia, la pace, la santità dei doveri cittadini turbolenze.
Sia che per le sorti della presente guerra io ritorni in breve fra voi, o in ogni altro tempo in cui piacerà alla giustizia di Dio restituirmi « al trono dei miei maggiori, fatto più splendido dalle libere istituzioni di cui l’ho irrevocabilmente circondato, quello che imploro da ora
è di rivedere i miei popoli concordi, forti e felici.
Firmato: FRANCESCO »

Questo proclama destò profonda impressione perché nessun cittadino, a qualsiasi fazione appartenesse, non poteva non riconoscere le verità in esso contenute e non ammettere che con la sua volontaria, partenza il re, « Francischiello », come comunemente lo chiamavano i napoletani, si comportava nobilmente evitando alla città lutti e rovine.
Nel pomeriggio i ministri si recarono alla reggia per salutare il re che si dimostrò calmo, cortese e perfino sorridente, rivolgendo ad ognuno qualche parola, e fu in tale occasione che, in dialetto, disse a Liborio Romano: « Don Libò guardateve ‘o cuollo». Volendo fargli capire che era a conoscenza degli intrighi e della tortuosa politica condotta.
Ad un altro ministro, del quale conosceva la tendenza unionista, disse: « Voi sognate l’Italia e Vittorio Emanuele ma, purtroppo, sarete infelici ».

Il 6 settembre del 1860 il sovrano lasciò Napoli. Non vi avrebbe fatto più ritorno.

Alle 18 dello stesso giorno, 6 settembre, il re, la regina e il loro seguito, s’imbarcarono sul « Messaggero» che salpò subito per Gaeta, una città fortificata situata su un promontorio del suo  Golfo che per la posizione strategica e le sue fortificazioni la rendevano un punto difensivo ideale. La fortezza era  infatti rinomata per la sua imponenza e per la sua capacità di resistere a lunghi assedi. e fu quindi scelta per, l’esercito borbonico uno degli ultimi baluardi rimasti del Regno delle Due Sicilie.

Il mattino dopo il sindaco e il comandante della Guardia Nazionale, incaricati da Liborio Romano, che con la carica di ministro della polizia aveva ora anche quella di ministro degli interni, si recarono a Salerno, dov’era giunto Garibaldi, per prendere accordi sulla presa di possesso della capitale.
Il generale delle camicie rosse apprendendo la carente situazione governativa esistente volle partire subito e seguito da un gruppo di suoi fedeli raggiunse in carrozza Vietri, punto terminale della ferrovia, e con il treno proseguì per Napoli.
Nella strada che porta oggi il suo nome  Garibaldi arrivò alla stazione che ivi sorgeva alle 13,30 e in carrozza, tra una folla immensa e plaudente, percorse Via Marina, Via Piliero (oggi Cristoforo Colombo) e raggiunse il palazzo della Foresteria dal cui balcone centrale parlò brevemente alla folla che lo chiamava.
Poco dopo si recò al Duomo, dove venne cantato il Te Deum, visitò la Cappella di S. Gennaro e poi raggiunse l’alloggio assegnatogli al palazzo d’Angrie egli prese soggiorno durante la sua permanenza a Napoli ,

N.B. La piazzetta dove ancora oggi sorge il bel palazzo Doria D’Angri,era un tempo chiamata, Largo dello Spirito Santo per la presenza dell’omonima Chiesa, mentre oggi èchiamata ” sette settembre ” in onore alla data in cui il generale Giuseppe Garibaldi ( il 7 settembre 1860 )   fece il suo ingresso nella città partenopea ,

Nella stessa giornata , l’eroe dei mille , dal balcone di Palazzo Doria D’Angri, che affaccia sulla piazza , in compagnia del Ministro di Polizia Liborio Romano e del capo della camorra dell’epoca, detto “Tore ‘e Criscienzo”,(  i cui uomini in quel periodo mantennero l’ordine pubblico ) proclamò l’annessione delle province meridionali al Regno sabaudo .

Qui, forse, ha avuto origine il frutto di un’altra pesante eredita’ lasciataci dagli spagnoli e poi avvallata dallo stesso regno sabaudo: la camorra.
Per gestire infatti la criminalità. Piccole bande criminali che  giravano tra i vicoli della città commettendo furti e ogni genere di soprusi ai danni della popolazione. e  odiose  risse che spesso finivano nel sangue, il nuovo governo si accorse che era veramente difficile mantenere un vero ordine in città e tutto questo fini’ per favorire i “camorristi” i quali con i loro sistemi se non altro mantenevano una sorta di controllo sul territorio e arrivavano dove il governo non riusciva ad arrivare (un po’ come oggi).
I camorristi furono quindi tollerati prima  spagnoli (e successivamente dai piemontesi) in quanto si servivano di essi, quasi come di poliziotti, per mantenere l’ordine tra il popolo.
I loro sistemi per mantenere ordine erano la violenza, le armi, l’estorsione e la paura.
La parola ‘camorra’ infatti, etimologicamente, significa rissa, prepotenza e sta ad indicate anche una cortissima giacca di tela che i loschi figuri indossavano.
Questo incredibile patto tra stato e camorra a Napoli e’ sempre stato appannaggio di chi ha governato questa città. La camorra ha sempre fatto comodo a tutti questi governi perché’ era la via più’ semplice per governare una difficile situazione locale venutasi a creare per inefficienza e superficialità di chi ha dovuto gestire il potere governativo nel corso degli anni.
L’ unificazione d’Italia possiamo con certezza affermare cheè avvenuta circa 150 anni fa anche  grazie ad un patto avvenuto tra piemontesi e camorra.
A sostegno di quest’ultima tesi le carte che dimostrano che il 26 ottobre 1860, Garibaldi pagò una pensione vitalizia di 12 ducati mensili a nome di Antonietta Pace, Carmela Faucitano, Costanza Leipnecher, Pasquarella Proto e Marianna De Crescenzo, le principali esponenti femminili della Camorra napoletana. Quest’ultima era sorella proprio di quel Salvatore De Crescenzo che aveva camminato accanto a Garibaldi al suo ingresso a Napoli.
Il losco personaggio aveva acquistato il ruolo di intermediario tra politica e camorra quando Liborio Romano per contrastare le sommosse nate sulla scia di quella siciliana del 1848 lo chiamò per chiedergli di radunare tutti i capi-quartieri della città e stipulare un patto di aiuto reciproco.
Lo stesso signor Garibaldi quando fece il suo ingresso nella città partenopea aveva al suo fianco, in testa al corteo di persone che l’accompagnava, sia Liborio Romano Ministro di Polizia che Salvatore De Crescenzo, capo della camorra dell’epoca, detto “Tore ‘e Criscienzo”, i cui uomini mantennero l’ordine pubblico.
Liborio Romano non reclutò solo “Tore”, ma tanti altri camorristi che furono poi tutti nominati funzionari di polizia.
Liborio Romano era il corrispondente di Camillo Benso di Cavour e ovviamente appena Garibaldi entro’ a Napoli, formò immediatamente un governo con a capo proprio Liberio Romano che come primo atto ufficiale cedette al Piemonte la potente flotta da guerra borbonica.

CURIOSITA’:Quel tal Tore ‘e Criscienzo , fu incaricato dallo stesso capo della polizia , per contrastare in città eventuali sommosse e  di radunare tutti i capi-quartieri della città al fine  stipulare così un  ” piacevole” ruolo di intermediario tra politica e camorra .In cambio  furono cancellatti tutti i loro reati e tutti  nominati funzionari di polizia .

N.B. Il giorno seguente di Giuseppe Garibaldi al suo  suo ingresso in città , Vittorio Emanuele II, ponendosi a capo del suo esercito, iniziò la discesa nella penisola italiana,

Intanto sul Volturno si schierava l’esercito borbonico che facendo perno su Capua poteva puntare su Caserta e su Napoli perché, una volta tanto, il piano non era difensivo ma di attacco.
Il morale delle truppe era alto perché la presenza del re venuto da Gaeta aveva suscitato un entusiasmo fino allora sconosciuto che aveva  molto rincuorato Francesco il quale comprendeva che una vittoria conseguita in quel momento avrebbe ridimensionato Garibaldi, svalutata la rivoluzione e rimesso tutto in discussione.
Questo lo sapeva pure Garibaldi che per la prima volta, dall’inizio della campagna, si trovava ad affrontare un esercito bene organizzato in una vera e propria battaglia campale.
Marsala, Calatafimi, Palermo, Milazzo, Messina, Reggio, Napoli, tutte queste tappe sarebbero state percorse invano ed i successi resi inutili se la battaglia del Volturno sarebbe stata perduta.

Fin dagli albori lo scontro apparve comunque imapri  tra le due compagini militari . Il grosso dell’esercito borbonico era sulla linea del Volturno guidato da generali che, in buona sostanza, avevano già deciso di sposare la causa piemontese. I soldati di Vittorio Emanuele II, oltre a godere dell’ovvia posizione di vantaggio della quale godono gli assedianti, potevano fare affidamento sui cannoni rigati che garantivano una maggiore e più devastante potenza di fuoco.

Il corpo d’assedio dell’esercito piemontese era composto da: 18.000 soldati, 1.600 cavalli, 66 cannoni a canna rigata e 180 cannoni a lunga gittata. I bombardamenti furono, da subito, copiosi ed incessanti ed avevano come obiettivo primario le 8 batterie sulle quali erano distribuiti i 300 cannoni borbonici.

L’assedio iniziò nel novembre del 1860 e si protrasse per oltre tre mesi.

Le  forze piemontesi-sarde, guidate dal generale Enrico Cialdini, circondarono la città, avviando un assedio che si caratterizzò per l’intensità dei combattimenti e per le dure condizioni a cui furono sottoposte sia le truppe che la popolazione civile.
Il comando delle operazioni di difesa fu affidato al generale Francesco Stocco, supportato da figure di spicco come  il generale Giuseppe ParisiParisi era noto per le sue tattiche innovative e la sua abilità nel saper adattare le strategie alle circostanze. La sua comprensione del campo di battaglia e la sua capacità di anticipare le mosse nemiche furono cruciali in molte delle sue vittorie.

La difesa borbonica fu caratterizzata da un grande coraggio e da una determinazione ferrea. Nonostante la superiorità numerica e logistica delle forze sabaude, i 28 mila difensori borbonici tennero testa ai nemici, battendosi con valore e dimostrando notevole abilità tattica e un profondo spirito di resistenza. Ma senza tiuscire comunque  a sfondare né ad avvolgere le linee garibaldine.Le condizioni all’interno della fortezza divennero sempre più difficili con il passare del tempo. La scarsità di cibo, l’esaurimento delle munizioni e le dure condizioni meteorologiche invernali misero a dura prova la resistenza dei difensori. Nonostante ciò, l’esercito borbonico e la popolazione civile mostrarono una notevole resilienza.

CURIOSITA’: Durante l’assedio, Gaeta divenne de facto la capitale del Regno delle Due Sicilie. Il re Francesco II e la regina Maria Sofia si rifugiarono nella fortezza, diventando simboli della resistenza borbonica. La regina Maria Sofia in particolare divenne nota per il suo spirito combattivo, partecipando attivamente alla vita militare e al sostegno delle truppe.

Ed è proprio in questo contesto che Maria Sofia , moglie di Francesco II, guadagno’ la sua fama di eroina . La regina infatti decise di seguire il marito a Gaeta e fin dal giorno del suo arrivo a Gaeta incominciò ad  esplicare una grande, inconsueta attività di sostegno ai soldati per incoraggiarli . Sprezzante del pericolo ed incurante di svolgere delle mansioni non consone al suo rango di regina , essa fece costante visita ai reparti delle caserme, sopralluoghi sui lavori di rafforzamento, assistenza  per le cure ai feriti ed agli ammalati, contatti e sostegno con la popolazione, tra la quale la giovane Sovrana non tardò a diventare popolarissima .Essa si mise particolarmente in mostra  proprio durante l’assedio della piazzaforte di Gaeta, dove la corte si era rifugiata il 6 settembre 1860 per tentare un’ultima resistenza alle truppe piemontesi. Cercò in tutti i modi di incoraggiare i soldati borbonici distribuendo loro medaglie con coccarde colorate da lei stessa confezionate, prese ad indossare un costume calabrese di taglio maschile affinché pure la popolazione civile la sentisse più vicina, come una di loro, partecipò personalmente ai combattimenti incitando alla lotta i soldati e recandosi in visita dei feriti negli ospedali.

CURIOSITA’ : Quando i reali lasciano il palazzo Maria Sofia dichiarà di non voler vedere i ministri per il commiato. «Torneremo presto» ripeteva ai servitori che la salutavano.

La difesa di Gaeta, ultimo baluardo delle Due Sicilie, fu eroica ed i fedelissimi di Francesco II non esitarono a sacrificare le loro stesse vite sull’ara della patria e della libertà. Memorabile anche l’atteggiamento dei reali verso il loro popolo, ed in particolar modo della Regina Maria Sofia di Baviera, che mossa dall’amore per la sua gente e sprezzante del pericolo, non esitò ad accantonare corona e cerimoniali per vestire i panni di una crocerossina  al sostegno di feriti ed ammalati.

CURIOSITA’La regina Maria Sofia Amalia, nata  il 4 ottobre 1841 nel castello di Possenhofen, in Baviera,  era la terza figlia del duca Massimiliano Giuseppe in Baviera e della principessa Ludovica di Baden, nonchè sorella minore della ben più nota e bella imperatrice Elisabetta d’Austria, nota come principessa Sissi, che visse infelice fino a quando fu assassinata a Ginevra il 10 settembre 1898 dall’anarchico italiano Luigi Lucheni.

Con il passare dei giorni  l’assedio di Gaeta divenne sempre più soffocante per gli assediati e quando la situazione divenne sempre più tragica a causa dell’epidemia del tifo, del terribile freddo di quell’anno, e della scarsità di cibo, la Regina risponderà sempre no all’invito del marito di lasciare la roccaforte. La regina fu irremovibile nella sua decisione di restare accanto al popolo. e non da meno si dimostrò il Re che divide ogni disagio e privazione con i suoi soldati e la popolazione, mentre diminuivano le speranze di un intervento militare da parte di qualche potenza europea (Austria, Spagna, Russia).

CURIOSITA’: Durante la sua vita, Maria Sofia  ha generato un’aria di ammirazione anche tra i suoi nemici politici. Gabriele D’Annunzio la soprannominò severa piccola aquila bavarese e Marcel Proust ha parlato di lei come della regina soldato sui bastioni di Gaeta.

Nonostante la posizione di svantaggio, gli assediati riuscirono a contenere a lungo l’assedio e delle squadre del Battaglione Cacciatori riportarono alcuni successi militari, in degli scontri a terra, che risollevarono il morale; inoltre la presenza di diverse navi straniere, soprattutto francesi nella rada di Gaeta, garantì l’approvvigionamento di viveri e munizioni. La fortuna però decise di voltare le spalle agli assediati, che oltre ai cannoneggiamenti, dovettero fare i conti anche con un’epidemia di tifo petecchiale.

L’accordo, poi, tra Cavour e Napoleone III fece il resto. In cambio dei comuni di Mentone e Roccabruna, l’imperatore dei Francesi s’impegnò a richiamare le sue navi, fu così che oltre a dover fronteggiare i cannoni, si aggiunse il dramma del blocco navale. I Piemontesi accerchiarono, via mare e via terra, la città intensificando i bombardamenti che coinvolsero anche obbiettivi civili come case, chiese ed ospedali. L’idea era quella di mettere la popolazione e l’esercito borbonico nelle condizioni di non avere più cibo e rifornimenti : se Gaeta non fosse stata presa per i meriti dell’esercito sabaudo, sarebbe caduta per fame. Gaeta si trovò quindi  stretta in una morsa micidiale, bombardata da mare e da terra e senza rifornimenti di nessun genere, abbandonata al suo destino, proprio come gli alleati europei di Francesco II che lasciarono solo l’ultimo Borbone di Napoli.

Questa operazione ebbe un doppio fine: abbattere il morale degli assediati e trafiggere il buon cuore di re Francesco II che mai avrebbe permesso spargimento di sangue civile ad oltranza. Nel complesso l’assedio durò 102 giorni, 75 dei quali trascorsi sotto il fuoco sabaudo. Le cifre ufficiali parlano di 826 morti, 569 feriti e 200 dispersi tra le file borboniche e di 46 morti e 321 feriti tra i Piemontesi, anche se, ancora oggi, manca un conteggio ufficiale per constatare con esattezza quanti civili persero la vita.

Il 5 febbraio venne colpito il magazzino delle munizioni della batteria S. Antonio, l’esplosione fu tale che causò una breccia all’interno delle mura. L’occasione per i Piemontesi sembrò irripetibile, ma ancora una volta la valorosa difesa di ciò che restava dell’esercito borbonico, decimato dai tradimenti e dai corrotti, e dei civili procrastinò il colpo di grazia che, però, sopraggiunse dopo sei giorni durante i quali, se possibile, le cannonate risuonarono con intensità maggiore.

Cupo in volto Francesco II assisteva al loro rientro consapevole di non poter più riconquistare il regno.

Dopo 12 ore di battaglia che vedeva sempre piu vicina la capitolazione delle forze borboniche,il comandante della piazzaforte di Gaeta, alla luce di questi eventi , per evitare altre sofferenze ai civili ed ai soldati, decise di firmare la capitolazione. Essa prevedeva: per i militari, l’onore delle armi, per i reali e per il piccolo gruppo di aristocratici al seguito l’esilio a Roma. Anche quando la decisione di firmare la capitolazione venne resa nota, Cialdini continuò a bombardare l’ultima roccaforte borbonica, fino al momento effettivo della firma dove finalmente , entrò in vigore il “cessate il fuoco”.

La caduta di Gaeta segnò sostanzialmente la fine del Regno delle Due Sicilie e aprì la strada all’annessione del regno al nascente Regno d’Italia.

Il giorno 11 febbraio il Consiglio Supremo dello Stato, convocato da Re Francesco, riconosce la necessità di una onorevole capitolazione. Ormai rassegnati a quella sorte iniqua, i reali napoletani Francesco II e Maria Sofia la mattina del 14 febbraio, si imbarcano sulla motonave Mouette che li avrebbe condotti nello Stato Pontificio e quando  Francesco II decise di firmare l’armistizio e di accettare un triste esilio, i soldati in cambio stabilirono che non avrebbero servito più nessun re. Essi strappate le spalline delle uniformi e spezzate le spade piansero tutte le loro lacrime e salutarono, insieme alla cittadinanza, l’ultimo esponente di una dinastia che avevano amato di un amore viscerale e corrisposto. I reali, col cuore infranto, a stento riuscirono a farsi largo tra la folla che non voleva lasciarli andare.

Con la caduta di Gaeta e del Regno delle Due Sicilie, Maria Sofia e il marito si recarono  a Roma in esilio, la capitale di quello che era stato lo Stato Pontificio. Re Francesco istituisce un governo in esilio a Roma, che gode del riconoscimento diplomatico da parte degli stati europei .Compito primario di questo governo era innanzi tutto quello di organizzare la resistenza contro i piemontesi nel Regno.

Al suo arrivo a Roma, Maria Sofia, era determinata a continuare la lotta con tutti i mezzi a sua disposizione . Essa era convinta che non tutto era ancora perduto e che bisognava organizzare una controffensiva per restaurare Francesco II. Divenne ben presto la “vera ispiratrice di una nuova  resistenza” che vide volontari provenire da tutta Europa  a Roma a sostegno della causa borbonica .

Ovviamente ben presto  Maria Sofia divenne invisa a tutti coloro che furono i veri protagonisti della invasione sabauda e fu il bersaglio di una vera e propria campagna denigratoria fatta di vere e proprie calunnie .Durante tutto  il suo soggiorno romano la regina viene resa vittima  di una campagna scandalistica per screditarla. Nel febbraio del 1862 appaiono alcune foto oscene che la ritraggono nuda e che fanno il giro di tutte le corti d’Europa. Le foto si riveleranno poi essere degli abili montaggi nei quali la testa della regina è stata montata sul corpo di una giovane prostituta ritratta in pose lascive. Le indagini portano la polizia pontificia all’arresto di Antonio Diotallevi e di sua moglie Costanza Vaccari autori del misfatto ma il sospetto è che i mandanti appartengano al partito piemontese.

Come se non bastasse il destino fu ancora più duro con gli ultimi sovrani . Dopo solo tre mesi di vita, infatti, il 28 marzo 1869 morì la loro unica figlia, Maria Cristina Pia. Dopo un breve peregrinare tra le corti d’Europa, la coppia reale vivrà quasi sempre separata . Francesco si stabilisce in un piccolo castello sul lago di Starnberg ad Arco di Trento dove morì il 31 dicembre 1894 sotto  il nome di Conte di Castro.

Maria Sofia invece continuando a ribadire i diritti della monarchia napoletana trascorre molto tempo a Monaco in una costante attività in favore degli Imperi Centrali contro il regno sabaudo per  poi si trasferirsi a Parigi dove viveva in una villetta acquistata da Francesco II nel sobborgo di Saint Mandé. Dopo un pò di tempo ,però  grazie alla sua attività anarchica fu   costretta a andare via dalla Francia e rifugiarsi a Monaco da dove ovviamente continuò imperterrita , come sempre, la sua battaglia contro  gli usurpatori Savoia.  Infine raggiunge a Vienna la sorella Elisabetta.

Maria Sofia continuò per il resto della sua vita a ribadire i diritti della monarchia napoletana e a continuare la sua personalissima battaglia contro gli usurpatori Savoia. Essa più del marito forse continuò a sperare di riconquistare il regno perduto, arrivando ad avere contatti col mondo anarchico ed insurrezionale, tanto da essere soprannominata da Proust “ la Regina degli anarchici”.

CURIOSITA’ :  Alcune voci la volevano coinvolta in atti di sabotaggio e di spionaggio contro l’Italia, nella speranza che una sconfitta italiana avrebbe disintegrato la nazione e che il Regno delle Due Sicilie sarebbe stato ripristinato.

Si racconta che quando nel 1922 riceve la visita della principessa Maria Josè, figlia diciottenne di sua nipote Elisabetta Regina del Belgio, Maria Sofia le impone di giurare che non avrebbe mai sposato uno di quei barbari Savoia. La morte avvenuta a Monaco  di Baviera nel 1925 la colse  prima delle celebrazione del matrimonio.

Dal 1984 le sue spoglie insieme a quelle del marito Francesco II e di sua figlia sono sepolte presso la Basilica di Santa Chiara a Napoli, dove riposano i sovrani di casa Borbone.

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Intanto a Napoli in ” Largo di Palazzo “si andava organizzandouna grande FARSA che cambiò in maniera definitiva il nome alla grande Piazza.

Garibaldi a cui pare fosse arrivata una petizione firmata da migliaia di cittadini  decise di mettere al voto la decisione del popolo napoletano per l’annessione immediata dell’ormai ex Regno delle Due Sicilie al Regno di Sardegna

.« Se è questo che vogliono i napoletani bisogna accontentarli ».
Sembra che dicesse, ma Francesco Crispi che propugnava l’elezione di un’assemblea perché discutesse le modalità dell’annessione , in totale disaccordo con Garibaldi ,si dimise dalla carica di presidente della segreteria garibaldina, che affiancava il ministero,

 Garibaldi ugualmente non cambiò la sua decisione e il plebiscito venne fissato nella granda piazza  per il 21 ottobre.

Il voto doveva essere dato “tramite un bullettino stampato o scritto portante la scritta SI o No”. Una volta contrassegnato la scelta indicante il SI o il NO , la   scheda, una volta piegata, doveva essere consegnata nelle mani del presidente del comitato elettorale che deponeva il tutto in una delle due urne che si trovavano ben distanti tra loro ma  chiuse per dare una parvenza di legalità  alla presenza dell’elettore.

Sul bollettino stampato si doveva  votare  sì o no alla seguente domanda: “Il popolo vuole l’Italia Una e indivisibile con Vittorio Emanuele Re costituzionale e i suoi legittimi discendenti?“.

N.B. Questa dicitura della formula venne molto discussa e criticata dagli oppositori del plebiscito perché era ritenuta subdola in quanto si domandava ai votanti solo se volevano l’Italia una e indivisibile,

Le due urne  ben distinte in  ogni seggio di votazione erano sorvegliate per evitare imbrogli da persone addette al controllo : peccato solo che quella dei  No era coperta dai nazionali e camorristi». (N. C. D’Amelio, Quel lontano 1860) e la distanza ben evidente delle due urne con il Si o il No rendeva manifesto il voto”

A peggiorare le cose  oltre a non accertare l’identità delle persone che votavano , venne anche permesso ai stessi soldati di andare al voto. 

Era chiaramente un voto come vedete non segreto che lasciava anche  poche possibilità a chi voleva votare per il No. Basti pensare che a Napoli in quei giorni  prima che si facesse il plebiscito furono affissi, alle mura delle città , dei grandi cartelli, in cui si dichiarava nemico della Patria chi si fosse astenuto o avesse dato il voto contrario all’annessione».

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Come se non bastasse , sempre nei gironi precedenti al ” referendum ” molti garibaldini , accompagnati con le armi dai scagnozzi  dei noti camorristi di allora noti col nome di Liborio Romano e “zii Tore”, giravano sparpagliati , continuamente per tutta la città cercando di convincere in tutte le maniere e con i modi più sbrigativi ,  in un clima intimidatorio come si doveva votare. Chiunque anche se lontanamente manifestava  il desiderio di votare per il mantenimento dei Borbone, veniva  arrestato  e rinviato  a giudizio per rispondere di attentato a distruggere la forma di Governo..

 Insomma bastava  un semplice sospetto, perché si procedava immediatamente  al fermo preventivo per impedire a questi   di partecipare alle operazioni di voto. 

Tra un’esibizione di bandiere tricolori con stemma sabaudo e l’occhiuta vigilanza di addetti, guardie, e curiosi accalcati in entrata, ogni segretezza del voto.

Il risultato del referendum come avrete capito fu  più una forzatura che un atto democratico.

Quel giorno infatti , tra un’esibizione di bandiere tricolori con stemma sabaudo e l’occhiuta vigilanza di addetti, guardie accalcate  in entrata, il 79% degli aventi diritto al voto ( ? )  si espressero per il Sì.

Quei pochi che ebbero il coraggio di votare contro subirono minacce fisiche e violenze, fatti che fecero persino dire all’inglese Mundy: «Un plebiscito a suffragio universale svolto in tali condizioni non può essere ritenuto veridica manifestazione dei sentimenti del paese». Sulla stessa linea furono le affermazioni di Lucien Murat: «Le urne stavano tra la corruzione e la violenza. Non più attendibili apparvero gli scrutini. Specialmente i garibaldini si erano diverti ad andare a votare più volte, e certamente nessuno pensò di impedirlo ai galantuomini delle città  che affermavano in tal modo la loro importanza». Insomma, «si fece ricorso a ogni trucco, nel voto e negli scrutini, per ottenere il risultato plebiscitario desiderato». (P. G. Jaeger, Francesco II di Borbone l’ultimo re di Napoli).

Il «plebiscito-burletta fu quindi la causa dell’ ‘attuale nome dal plebiscito popolare del 1860  dichiarato da molti come falso, con cui Napoli diceva sì all’annessione al Regno dei Savoia. 

Il  21 ottobre 1860 il Mezzogiorno sanzionò, quindi almeno ufficialmente con il suo voto plebiscitario, la propria annessione all’Italia,ma  in effetto l’unione, intesa nel senso morale, non avvenne né allora, né mai!
Troppo dissimili erano i costumi, le tradizioni, i dialetti, le leggi, tra il nord e il sud, e non si fece nessuno storzo, mai, per ovviarvi.
Si parlò solo d’incomprensione, d’incapacità, di pigrizia e, qualche volta, anche di sabotaggio.
Si dimenticava che Napoli aveva volontariamente rinunciato al suo ruolo di capitale per permettere l’unità italiana, quel ruolo che orgogliosamente aveva tenuto per secoli e che le aveva permesso di poter vivere di rendita perché sostenuta dall’attività di tutto un regno.
Nonostante questo la città non aveva avuto esitazioni a pronunciarsi per l’unità che voleva dire il bene comune (almeno così si credeva) mentre, più tardi, ben diversi furono gli atteggiamenti di Torino e di Firenze quando si rese necessario il trasferimento della capitale
dalla prima alla seconda e da questa a Roma.

Da allora , dopo quel famoso voto plebiscitario ,questa grande Piazza che si ergeva dinanzi alla dimora del borbone ( Palazzo Reale ) si chiama PIAZZA DEL PLEBISCITO.

Ora mentre l’ex-regno borbonico aveva votato, quasi all’unanimità, per l’unità d’Italia. il furbo  Cavour, volendo scongiurare il pericolo di una marcia di Garibaldi su Roma, aveva per prevenzione ordinato all’esercito piemontese di varcare la frontiera dello
Stato Pontificio e dirigersi al sud.

Egli infatti  in un primo momento  non aveva creduto che l’impresa garibaldina riuscisse ma presto aveva dovuto cambiare parere e quando ebbe la certezza che Garibaldi sarebbe passato sul continente e raggiunto Napoli non gli restarono che due soluzioni: fermarlo o prevenirlo.

Fermarlo era dannoso e controproducente per la causa dell’unità italiana, era solo possibile prevenirlo facendo prendere il potere a Napoli, con un atto di forza, agli esponenti democratici e moderati; ma ciò era difficile, ed infatti non avvenne, anche perché Garibaldi con istintivo senso politico, senza attendere le truppe, venne sul posto per prendere in mano la situazione.

Dunque non si poteva più attendere, era però necessario impedire al condottiero garibaldino di marciare su Roma, perchè questo  avrebbe provocato, inevitalmente, l’intervento francese e compromessa l’unità italiana.

CURIOSITA’: Cavour in un complesso incontro segreto avvenuto a più riprese con Napoleone III , aveva stipulato con la Francia un patto di alleanza  oer allontanare( con interessi diversi ) gli austriaci dal territorio lombardo- veneto . I termini di questo accordo prevedevano inizialmente  la nascita di un nuovo regno dell’Alta Italia con l’annessione del Lombardo-Veneto ai Savoia, ed un Regno dell’Italia centrale per il cugino di Napoleone III comprendente il Granducato di Toscana e gli stati pontifici eccetto il Lazio, di cui rimane salva la sovranità del  Pontefice Pio IX,

Cavour quindi non voleva in alcu modo vedre compromesso i risultati della sua fitta rete diplomatica  sardo- francese utili a questo punto anche per la sua  causa di indipendenza italiana,

I contatti diplomatici tra la Francia ed il Regno di Sardegna portarono la Francia ad impegnarsi  ad entrare in guerra contro l’Impero asburgico nel Nord Italia a fianco del Piemonte, a condizione che l’Austria risultasse  l’aggressore ed il Regno dei Savoia l’aggredito.

L’esercito sardo iniziò quindi  provocatorie operazioni di addestramento lungo il confine del Ticino, causando la reazione asburgica: il governo imperiale di Vienna inviò a questo punto  a Torino un ultimatum in termini perentori, che comportava il disarmo immediato dell’esercito sardo ed il congedo dei volontari.

E’ il casus belli che Cavour e Napoleone III attendevano no: il 23 aprile 1859 l’Austria dichiarava guerra al Regno Sardo e a norma degli accordi franco-piemontesi, Napoleone III a sua volta dichiara guerra agli austriaci e varcava le Alpi assumendo il comando supremo delle forze alleate. In linea con le previsioni dei due statisti, iniziava così la Guerra franco-asburgica del 1859, più nota a noi italiani come Seconda guerra d’Indipendenza.

Quando, nel corso della vittoriosa guerra, Napoleone III capisce che il suo progetto non è più sostenibile e che un’egemonia francese in Italia non si può più realizzare per via delle insurrezioni nei Ducati emiliani, nelle legazioni pontificie e nel Granducato di Toscana, egli toglie il sostegno alle truppe piemontesi firmando il Trattato di Villafranca con cui si pone fine alla guerra contro l’Impero austriaco.

Questo tuttavua non compromise il rapporto tra ll regno sardo e quello francese e quando Cavour diede ordine  all’esercito piemontese di varcare la frontiera dello Stato Pontificio e dirigersi al sud, verso Gaeta e Napoli, quest’ultimo si assicurò bene dapprima il consenso di Napoleone III, prima di ivdere lo stato della chiesa ,promettendo di rispettare la città papale,

Papa Pio IX, preoccupato della discesa dell’esercito sabaudo  , con l’obiettivo di respingerel ‘invasione, affidò a quel punto la guida del suo esercito pontificio al generale Christophe Louis Léon Juchault de Lamoricière ,un legittimista ostile a Napoleone III in quanto  arrestato il 2 dicembre 1851 in quanto oppositore del colpo di Stato di Luigi-Napoleone Bonaparte e poi ostretto all’esilio,dove  vi rimase per 5 anni, prevalentemente in Belgio. 

N.B. S iracconta che fu proprio la presenza a capo delle forse militari papali che verosimilmente fece convincere Napoleone III a dare  il suo assenso all’azione di Cavour.

CURIOSITA’: L’ Austria si stupi per la mossa audace, che era quasi una sfida, ma non reagi. Non reagi anche perché aveva i suoi problemi da risolvere (l’Ungheria) mentre gli altri Stati non ritennero opportuno intervenire per il  timore che Garibaldi  con il suo valore e le sue idee, ispirava. In Italia insomma era meglio il re costituzionale Vittorio Emanuele che il repubblicano rivoluzionario Giuseppe Garibaldi.

La campagna fu breve in quanto l’esercito piemontese, oltre ad una migliore preparazione, poteva disporre di oltre 30 mila uomini contro i 15 mila del generale Lamoricière.Il generale francese Lamoricière fu quindi sconfitto a Castelfidardo, in una sanguinosa battaglia, dal generale Cialdini.

Con Pesaro, Perugia, Spoleto e Ancona conquistate, dopo la rotta dei pontifici, le truppe piemontesi si diressero qpertanto al sud per congiungersi con i garibaldini ma non in tempo per prendere parte alla battaglia del Volturno.

Garibaldi seppe della vittoria di Castelfidardo il 27 settembre e diresse un proclama alle sue truppe esaltando il valore dell’esercito piemontese.

Per Cavour ora invece l’ultima cosa che restava da fare era quella  di agire per non fare accrescere la fama, già notevole, del generale perché allora c’era il pericolo che l’Italia non sarebbe stata di Vittorio Emanuele ma di Garibaldi.

Il 26 ottobre avvenne  quindi lo storico incontro di Teano e il 7 novembre
Vittorio Emanuele II fece il suo ingresso a Napoli, con Garibaldi che gli sedeva accanto nella carrozza.
Malgrado la pioggia c’era una folla notevole e plaudente ma le acclamazioni erano qusi tutte dirette a Garibaldi nonostante che, con il gesto, questi indicasse il re.
Per tutto il percorso la scena fu sempre uguale e Vittorio Emanuele, anche se seccato, non lasciava niente trasparire ma constatava personalmente come fosse amato e di quanta popolarità godeva colui che gli aveva conquistato un regno.
Eppure il giorno prima gli aveva fatto uno sgarbo non andando, come aveva promesso, a passare in rassegna i garibaldini per manifestare loro, come aveva detto, « la propria riconoscenza ».
Quella mattina a Caserta, nel parco della Reggia, 1 12 mila volontari avevano atteso per tre ore, dopo l’orario stabilito, l’arrivo di Vittorio Emanuele II, desiderosi di mostrarsi in ordine, disciplinati, per niente inferiori ai soldati dell’esercito regolare

Avevano atteso schierati in ordine di parata, con le divise logore, dietro le gloriose bandiere ridotte a brandelli.
Finalmente squillarono le trombe: eccolo!
Ogni garibaldino si raddrizzò e restò immobile con il suo fucile al piede. Ma il re non apparve.
Venne avanti il loro generale, cupo in viso, accigliato, seguito dallo stato maggiore.
Venne avanti a cavallo, percorse lentamente il fronte dello schiera-mento, poi tornò indietro e si mise all’entrata del palazzo per presenziare alla sfilata.
I garibaldini cominciarono a passare fissando con gli occhi luccicanti di lacrime il loro generale che immobile sul cavallo, teso, con la spada davanti a sé, fissava a sua volta quegli occhi che mutamente lo interrogavano ed ai quali non sapeva cosa rispondere.
Tre giorni dopo, il mattino del 9 novembre, Garibaldi s’imbarcò sulla nave da trasporto « Washington» per far ritorno a Caprera.
Portava con sé un rotolo di merluzzo secco, un sacco di grano da semina e poche centinaia di lire.

Garibaldi che rimase nella nostra città solo per pochi mesi che si rilevarono troppo pochi per far sentire il suo peso , riuscì comunque a compiere poche ma significative leggi tutte a vantaggio delle classi più deboli e povere .Egli istituì dodici asili infantili gratuiti ed un collegio anc’esso gratuito in cui si insegnavano le materie fondamentali come le arti ed i mestieri ; dispose la chiusura del gioco del lotto interpretato come come strumento borbonico per lucrare a spese dell’ignoranza della povera gente , decretò l’apertura di Via Duomo , la creazione di un nuovo quartiere a Chiaia e la costruzione di nuovi alloggi popolari .

Il meridione da monarchico stato autonomo divenne da quel momento parte di un’altro stato monarchico. Fu solo il passaggio da una tirannia assolutistica ad una occupante costituzionale,  la quale avrebbe dovuto impegnarsi a fondo per garantirne la vita, ma quest’impegno con il tempo, mancò in pieno e procurò gravi disagi.

L’Italia meridionale si era messa con fiducia nelle mani del governo piemontese ma alla lunga dovette ammettere a se stessa che quella tanto propinata unità d’Italia  non fu per lei una liberazione ma solo la fine di un regno autonomo e l’avvento di un colonialismo vero e proprio.

CURIOSITA’: A tal proposito vi allego parte di una lettera scritta da Garibaldi ed inviata  ad Adelaide Cairoli nel 1868 : ” Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio.”  La lettera è firmata da Giuseppe Garibaldi

Compiuta  l’Unità si fece cassa comune tra due regni , uno conquistato ed uno vincitore  ( uno con casse piene e l’altro con casse  vuote ) e con i soldi del sud si pagarono i debiti del nord.

Le ricchezze dei Borbone vennero infatti tutte incamerate dalle scarne risorse finanziarie del nuovo stato Italiano ( i piemontesi erano certamente amente prima della guerra in difficoltà finanziarie ).

L’unità italiana, a parte il senso politico, era stata intesa dagli intellettuali come partecipazione alla vita pubblica, e dalla borghesia come l’acquisto di maggiore potere mentre  dal popolo era stata intesa sopratutto  come un miglioramento di vita.
L’unione, invece, apportò a Napoli la perdita dell’autonomia e Il dissesto economico che si propagò a tutto il mezzogiorno. Il popolo sopratutto venne vessato con le tasse e l’illusione di benessere e rivincita sociale delle classi più umili fu presto infranta. La tanta promessa e agognata riforma agraria che doveva destinare la terra ai contadini fu dimenticata e mai fatta, mentre  sentimenti dei settentrionali nei confronti dei meridionali furono astiosi. Essi dimostrarono ben presto di odiare i meridionali che consideravano fannulloni, perdigiorno e incapaci di qualsiasi cosa

.Da allora una parte dell’Italia fu depredata e condannata a regredire nel tempo , mentre un’ altra parte dell’Italia , quella che era piena di debiti , sulla soglia della bancarotta , con la sua guerra ed il conseguente bottino finanzio’ la propria crescita e prese un vantaggio , poi difeso nel tempo , con ogni mezzo incluse le leggi .

Appena dopo il passaggio di Garibaldi, il governo centrale assunse la direzione di tutti i poteri e la tiepida voce dei deputati meridionali, quasi tutti filogovernativi, non impedì che gli ordinamenti napoletani, validi a tutti gli effetti, fossero sostituiti dalle leggi del regno sardo o su quelle modellate

I comitati liberali composti dai ricchi borghesi e dai massoni, ferventi “unitaristi”, s’impossessarono delle amministrazioni comunali e delle relative casse, misero mano ai documenti relativi alle assegnazioni degli usi civici, ne delinearono la consistenza e li misero all’asta; fu così che il patrimonio rurale passò velocemente nelle loro tasche; ai contadini rimasero due possibilità, come disse Giustino Fortunato, “o brigante o emigrante”.

Le strutture economiche e sociali rimasero immutate e molti ordinamenti provinciali e comunali passarono sotto la diretta dipendenza di Torino.
Il governo centrale di Torino, lontano da Napoli e dai suoi problemi impose le sue leggi cancellando quelle funzionanti del Regno Borbonico.

Ne furono colpiti: La Corte dei Conti,  la Scuola, le Poste, la Stampa, la Zecca,  E persino l’Ordinamento Giudiziario che con l’adozione dei codici sardi suscitò un vivo malcontento nell’ambiente forense, gli Ordinamenti Provinciali e Comunali che pose l’Amministrazione alle dirette dipendenze di Torino e le tariffe doganali che vennero parificate a quelle del regno sardo.
Questo trasferimento di poteri portò allo smantellamento degli uffici ormai suprflui, con il conseguente licenziamento o la messa in riposo degli impiegati che dopo anni di lavoro si videro messi sulla strada ed andarono ad aumentare il numero dei disoccupati che già in
precedenza erano stati licenziati in tutti i settori pubblici,perchà  persone di fede borbonica o ritenuti tali.

Con l’unità Napoli, oltre alla perdita dell’autonomia,si  ebbe anche un calo nel campo economico. Molte delle industrie vennero trasferite al nord e le poche che rimasero furono costrette a chiudere per la concorrenza delle stesse fabbriche settentrionali che potevano contare su una più facile ( maggiore sviluppo della rete viaria ) e vicina importazione di materie prime. Ma sopratutto potevano contare su un minor costo della manodopera grazie al largo uso delle donne e dei ragazzi che percepivano una paga inferiore a quella degli uomini.

Le industrie, quelle poche che c’erano, vennero paralizzate dalla concorrenza delle  industrie settentrionali che avvantaggiate dal minor costo dei prodotti finiti invasero i mercati riforniti, fino allora, dalle ditte napoletane.
Il minor costo dei prodotti finiti era reso possibile alle fabbriche del nord per la più facile importazione delle materie prime, dato il maggior sviluppo della rete viaria e la vicinanza dei paesi esportatori e importatori, ma quel che piu contava come vi abbiamo accenneato, era il minor costo della mano d’opera per il largo impiego delle donne e dei fanciulli che percepivano una paga inferiore a quella degli uomini.

CURIOSITA’ :  Da una statistica del tempo si rilevava che nell’Italia settentrionale erano addetti alle industrie: 65 mila uomini. 146 mila donne e 76 mila fanciulli.
Mentre nell’Italia meridionale si riscontravano: 18 mila uomini,  14 mila donne e 5 mila fanciulli.
Tenendo conto delle proporzioni le donne impiegate nelle industrie del nord erano in maggior numero, rispetto agli uomini, del 125 % e i fanciulli del 17 % mentre al sud le donne erano numericamente inferiori, sempre in confronto agli uomini, del 23 % e i fanciulli del 72 %

Un divario sensibile, dunque, che si ripercuoteva sui costi dei prodotti a danno delle industrie napoletane costrette a limitare o a cessare l’attività e venendo a diminuire la produttività veniva a scemare anche il commercio già danneggiato per altre cause.
Una di queste cause, forse la più notevole, era l’abolizione della Casa Reale che convogliava a Corte i nobili della provincia con tutti i loro seguiti e che ora erano ritirati nei propri possedimenti e quella  lconfisca delle terre appartenenti al clero che portò via al meridione e sopratutto ai contadini un’enorme quantità di capitale relativi al raccolto ed ai pagamenti immediati che esso comportava.

La politica accentratice  di un governo lontano e poco attento verso le reali esigenze del sud in quel momento, i diversi investimenti economici post-unitari fatti quasi tutti prevalenttemente al nord  (fatti tra l’altro con le ex casse borboniche )  e la soppressione post unitaria  di barriere doganali di matrice borbonica che favorivano  le industrie meridionali  permettendo  loro il monopolio del mercato indusriale e agricolo , contribuì certamente ad una flessione del commercio e ad aggravare il ritardo del Sud.  Se inoltre consideriamo che quelli che erano prima comunque i soldi   delle casse borboniche , una volta passati nelle mani sabaude , venivano impiegati sopratutto per ammodernare e favorire le strutture agricole ed industrili del nord, si può subito comprendere come la gente del Meridione mal sopportava di essere amministrata da funzionari piemontesi. Questi, non comprendendo il linguaggio e riluttanti a comunicare, non sapevano cogliere le esigenze di comunità bisognose di rinnovamento e, soprattutto, erano mal guidati da una amministrazione centrale lontana, imbarazzata ed incapace di fornire suggerimenti idonei ad affrontare, con gli scarsi mezzi a disposizione, le pressanti problematiche locali

A dimostrazione di tutto questo  basta vedere il triste destino a cui fu sottoposta la  fabbrica del Reale Opificio di Pietrarsa cioè una grande  industria siderurgica voluto da Ferdinando di Borbone nel 1840  che  suddivisa in quattro padiglioni , grazie ad efficaci fucine e forni, era deputato alla costruzione di locomotive a vapore. La  fabbrica , capace di dare lavoro a circa 700 operai , era  al momento dell’unita’ la piu grande fabbrica d’Italia,  e l’unica in grado di fabbricare motrici navali in tutta la  penisola senza doversi avvalere di macchinisti inglesi per la loro costruzione e che possiamo considerare il primo e più importante nucleo industriale italiano presente nella nostra penisola oltre mezzo secolo prima che nascesse la Fiat . La fabbrica era famosa e conosciuta in tutta Europa con grande gelosia del solo governo inglese e nel suo periodo di maggiore attività fu visitato da noti ed importanti  personaggi come lo zar di Russia Nicola I  che manifestò l’intenzione di prendere Pietrarsa a modello per il complesso ferroviario di  Kronstad e anche dal papa Pio IX. .

Gli oltre 700 operai ,  oltre ad essere ben pagati , avevano diritto alla pensione e sopratutto ricevevano puntualmente ogni mese la loro paga .Cosa diversa a quello che avvenne poi con l’ instaurarsi della monarchia sabauda che non solo abbasso’ le paghe ma grazie ad una serie di licenziamenti ridusse anche il personale . L’intera Europa  guardava con ammirazione   questa nostra grande industria , la sua perfetta organizzazione ed il suo  modello gestionale , ma non Il nuovo governo piemontese , che  subito dopo l’annessione di Napoli al Regno d’Italia  , anziché essere fiero di questo piccolo gioiello che tutta l’Europa ci invidiava , penso’ invece solamente di smantellarlo inviando a Napoli il generale Alfonso La Marmora affinché ne visitasse le officine e studiasse la possibilità di impiantarne una analoga a Torino . Nel 1861, l’Opificio . colpevole del solo fatto di essere presente nel sud Italia , fu considerato dal governo piemontese come una fabbrica  poco utile con una attività  peraltro poco redditiva e una volta dichiarato antieconomico da una relazione fatta da un loro ingegnere emerse addirittura la volontà da parte delle istituzioni piemontesi di venderlo o addirittura demolirlo .

Ora se solo per un attimo volessimo dar ragione a questa fantomatica relazione piemontese ci risulta però altrettanto  difficile poi capire perchè mai invece , lo zar di Russia Nicola I , ordinò addirittura di prenderla a modello per la realizzazione del complesso ferroviario di Kronstad  .

Con l’unità d’Italia,  l’Opificio fu quindi subito considerato antieconomico e  successivamente adibirlo solo alla rimessa in sesto di  rotte locomotive. La fabbrica di conseguenza attraversò un periodo di grande difficoltà, che portò  a licenziamenti e ad una serie di proteste e scioperi da parte dei  lavoratori sedate spesso con violenza come dimostrano antichi documenti ritrovati non  molti anni fa nel fondo della Questura dell’Archivio di Stato. I documenti  raccontano di un eccidio verificatosi nei confronti degli operai in sciopero nel 1863 da parte della nuova subentrata “ Italia “ . Le forze armate italiane,  agli ordini della monarchia sabauda  , il 6 agosto di quell’anno , intervennero sparando sulla folla che scioperando manifestava i suoi diritti contro impropri licenziamenti e abbassamento della paga di lavoro . Il bilancio delle povere vittime operaie fu quello di sei feriti e quattro morti.

La Sicilia, inoltre, aveva un motivo aggiuntivo di risentimento in quanto si era vista negare la promessa di una forma di autonomia e l’abolizione della luogotenenza non fu intesa come una facilitazione all’integrazione ma piuttosto come una spinta alla centralizzazione.
I nuovi governanti, da Cavour in poi, si rifugiarono nell’opinione che il Meridione, pur naturalmente ricco, fosse condannato all’arretratezza scontando i danni del malgoverno borbonico, tralasciando il particolare che la Sardegna, da un secolo e mezzo governata dai Savoia, si trovava in condizioni di arretratezza ancor peggiori. Pertanto mai presero in considerazione, malgrado le sollecitazioni , la possibilità di recarsi in quei luoghi per assumere una conoscenza diretta delle problematiche che limitavano la crescita di quelle genti di cui si marcavano solitamente gli aspetti deteriori (delinquenza, corruzione, analfabetismo e superstizione) e verso cui da più parti si manifestava disprezzo (“un esercito di barbari accampato fra di noi”) fino a proporne l’abbandono al loro destino poiché le altre regioni non erano in grado di sopportare l’onere della loro emancipazione

Il famoso sbarramento dell’acqua santa di cui parlava Ferdinando II, nonostante fosse stato poi cancellato  non portò quindi certo ad una nuova distribuzione del benessere e  della ricchezza , e il continuo costante disinteresse del nuovo governo , verso le esigenze del Sud portò nuove forme di disuguaglianza che da 150 anni ad oggi non accennano purtroppo ancora a dimunuire.

Il cambio di staffetta e testimone , avvenuto con ll’Unificazione del Meridione, non died quindi  luogo a nessun beneficio all’intero  territorio meridionale ma diede solo avvio ad una lunga e sanguinosa occupazione militare volta a sedare la ribellione che, in opposizione al nuovo Stato era ufficialmente  sostenuta da finanziamenti borbonici ed in maniera occulta dal clero , e aveva coinvolto in maniera diretta o indiretta larghe fasce di popolazione fino a trasformarsi nella protesta sociale che aveva alimentato il brigantaggio. Questo, sintomo di un male profondo ed antico, con tutto il carattere disperato che lo sosteneva, aveva trovato alimento nell’imposizione di tutte quelle norme e leggi piemontesi, estranee al sentire della gente e tra cui ebbero un impatto dirompente la proscrizione obbligatoria di sette  anni  e la mancata risoluzione dei vincoli che opprimevano un’agricoltura involuta ed improduttiva. Nel Meridione in genere e, nella Sicilia in particolare, sopravvivevano residui feudali in cui i contadini, mal pagati e sfruttati, venivano ammucchiati in alloggi dove trovava spesso riparo l’animale di sostegno , Essi nonostante al governo non vi era più un sovrano borbonico ma questa volta uno sabaudo , continuavano a  vivere  una condizione disagiata

Il nuovo stato , in una guerra ad oltranza durata  quasi un decennio, combatté contro il brigantaggio con l’impiego di un esercito smisurato ed atrocità che coinvolsero indiscriminatamente comunità inermi, e marcarono così una profonda rottura tra le popolazioni meridionali ed il nuovo Stato, verso cui si manifestò una avversione maggiore di quella contro il precedente regime borbonico.

I Piemontesi in quessa circostanza commisero ineffabili stragi e cancellarono nel sangue 51 paesi. Per tutti si ricordano Casalduini e Pontelandolfo, nel Sannio.

Riporto, ancora una volta, ciò che la Basile e la Morea hanno detto del brigantaggio e sulle cause che lo determinarono: “prese le mosse dalle spontanee rivolte contadine contro l’appropriazione, da parte dei proprietari terrieri, del latifondo; contro i soprusi perpetrati da chi voleva in ogni modo spadroneggiare su terre faticosamente lavorate da braccia che spesso non riuscivano a percepire nessun provento del loro lavoro, se non quello stabilito dal padrone di turno.”

Con l’Unificazione, le imposte volte all’assestamento del deficitario bilancio del nuovo Stato che si trascinava dietro il debito pubblico più elevato d’Europa, accumulato dal Piemonte per la politica espansionistica di annessioni e per gli investimenti infrastrutturali, aumentarono vertiginosamente e si abbatterono sul contribuente meridionale oneri fino ad allora sconosciuti, Per reperire infatti maggiori risorse volte a riequilibrare il bilancio , venne adottata,   trascurando  le eventuali ripercussioni sociali , una severa ed impopolare stretta fiscale con l’imposizione di pesanti tributi , tra cui la più odiosa fu la tassa sul macinato  che, malgrado gli scarsi vantaggi apportati all’erario e le rivolte popolari causate per l’aumento del prezzo del pane, e delle la pasta, indispensabili al popolo per vivere, venne comunque conservata .

Il sistema fiscale quindi certo non migliorò e  le cose non andarone bene neanche con le industire autarchiche  come quelle siderurgiche  dell’Ansaldo  ed i cotonifici di Salerno  che sotto il regno borbonico godevano di un protezionismo industriale  fatto di rigide barriere doganali volte a favorire l’industria locale.  Essi furono presto soppiantate da quelle liguri e lombarde che producevano a minor costo ed avevano certamente a loro favore una migliore e piu organizzata rete di trasporto.che venne sempre più ampliata e meglio organizzata grazie ai nuovi introiti economici provenienti dalle casse borboniche. L’unificazione della nazione , realizzata all’insegna del centralismo, evidenziò maggiormente le diverse entità economiche che vedeva le regioni del Nord proiettate in un processo di modernizzazione volto a sviluppare il settore industriale attraverso la meccanizzazione dei processi produttivi ed investimenti nel settore delle infrastrutture (ferrovie, strade, canali).  Tutto questo fu possibile grazie alle nuove entrate economiche della ricche casse borbonico che all’epoca era la terza potenza economica europea , che rappresentò una vera e propia boccata di ossigeno per le magre finanze sabaude  che pur di adeguare le sue infrastrutture a più moderni sistemi di produzione, avevano portato ad un grosso debito pubblico  .

“Il Regno delle Due Sicilie aveva due volte più monete di tutti gli altri Stati della Penisola messi insieme –FRANCESCO SAVERIO NITTI – ”

L’agricoltura padana , grazie a questo indebitamento si era comunque giovata di nuove attrazzature e più moderni sistemi produttivi che portarono  nel tempo ad una  più evoluta gestione delle  aziende capaci di integrare le coltivazioni con allevamenti di bestiame e caseifici.  Nelle regioni meridionali invece  permaneva una diversa e più  equilibrata agricoltura che  si affidava a metodi tradizionali, corretti con procedimenti di coltivazione aggiornati ma sobri, e produceva  solo quanto necessario. Il settore agricolo nel sud , ad eccezione di pochi esempi , non viveva di moderni processi produttivi ma principalmente di un processo produttivo basato su una manodopera pricipalmente familiare in cui il figlio maschio rapprentava una enorme risorsa produttiva . Essa appariva quindi sostanzialmente più debole ed  arretrata di fronte a quella del nord e  come sempre avviene in questi casi , l’unificazione con una diversa economia molto più accentrata in un solo luogo diede vita ad una diseguagliata fase di sviluppo che in poco tempo  distrusse la sua produzione primitiva che non dimentichiamo era comunque , sopratutto per quanto riguarda la produzione dei prodotti bufalini , dalla metà del 1700 fino all’unità d’Italia,  uno dei primi esempi di industria casearia d’Europa, ed era in continua crescita .

Molti di questi I prodotti erano ignoti al resto d’Italia e tanta era l’ignoranza riguardo i prodotti di bufala nel resto d’Italia che riguardo il caciocavallo: “Il Gorani (Giuseppe Gorani, conte e scrittore Milanese, del 1740), alle favole del suo viaggio alle corti meridionali, associa errori ridicoli. Egli  dice che tal formaggio si fa dal latte di cavalla

Con l’unità d’Italia ormai avvenuta, il quadro cambiò notevolmente giacchè il numero dei capi fu ridotto a poco più di un terzo come conseguenza diretta ed immediata delle bonifiche che interessarono le piane intorno al Volturno, recuperando terre all’agricoltura, ma riducendo drasticamente quelle idonee all’habitat bufalino. Dal 1861 al 1871, come tutta l’industria meridionale dell’epoca, anche la produzione della mozzarella di bufala si fermò e molte pagliare vennero dismesse, ed abbandonate. In questo modo , Carditello, la Campania e l’Italia persero purtroppo uno dei primi esempi in Europa d’industrializzazione casearia, e la produzione ebbe un lento declino fino agli anni 50 e 60 del novecento, che portò l’industria bufalina quasi a scomparire.

Da quel momento , a parte alcune e limitate zone privilegiate coltivate ad agrumi, in agricoltura si evidenziarono quindi ancora di piu i contrasti tipici del sottosviluppo dove, accanto ad immensi latifondi prevalentemente sterili in cui l’agricoltura era incredibilmente misera, esisteva una piccola proprietà sminuzzata in inadeguati appezzamenti che utilizzavano solo concimi naturali, mezzi rudimentali (aratro a chiodo) e, non applicando la rotazione agraria, ottenevano raccolti insufficienti anche nelle annate normali.  Il contadino , ad eccezione di alcune zone come per esempio San Leucio , possedeva  una moneta e vendevano  animali , corrispondeva  esattamente gli affitti e  con poco alimentava la famiglia,  e tutti, in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato materiale.   Se  a tutto questo aggiungiamo poi il fenomeno dell’ immigrazione  delle popolazioni del Mezzogiorno  verso altri paesi esteri. e l’obbligo prolungato di leva militare a cui dovevano sottostare tutti i giovani , fate un po voi i calcoli ….

La realtà apparve quindi ben presto in tutte le sue sfaccettature negative per i napoletani e tutti i meridionali . Essi dopo qualche tempo capirono che oltre alla perdita dell’autonomia, dovevano fare i conti anche con una perdita della propria economia.

La ribellione del popolo meridionale si fece presto sentire  con il  cosidetto fenomeno del brigantaggio ( specie tra le classi dei contadini deluse dai nuovi rapporti di proprietà ) che portò ad una vera e propria ribellione armata.
L’accentramento amministrativo del regno che escludeva il meridione, la vendita all’asta dei beni demaniali ed ecclesiastici che acquistati da nuovi ricchi creo’ nuovi padroni più avari e tirannici dei nobili precedenti, le forti imposizioni fiscali, l’obbligo della ferma di leva militare per 7 anni che sottraeva le braccia dei figli al lavoro della terra ai contadini, ed il regime violento esercitato da carabinieri furono certamente gli elementi scatenanti di una vera e propria reazione popolare al nuovo governo.

La legge che più di tutte  fece insorgere le masse fu l’obbligo della leva militare nell’esercito sabaudo per lunghi sette anni. In una terra di contadini in cui i figli erano tutto sottrarre questi figli significava spesso abbandonare le campagne. Tanti ragazzi si rifiuteranno  e per questo verranno trattati da ” briganti “. E molti vista l’occasione briganti lo diverranno davvero.

Si calcola che le bande dei briganti arrivarono ad essere più di 350 che trovavano sempre più nuovi adepti nel grosso serbatoio delle masse contadine.


I briganti venivano visti come una sorta di moderno Robin Hood, una sorta di eroici paladini contro i soprusi dei ricchi e nuovi padroni, protetti ed armati talvolta dalla stessa chiesa inizialmente contraria al primo parlamento italiano sopratutto per le numerose espropriazioni di beni che dovette cedere.

Francesco appoggiato almeno inizialmente dalla chiesa tentò di reclutare interi settori di popolazioni disposti a portare avanti l’insurrezione tramite lo spagnolo Borjes che per mesi girò l’intero meridione.
Alle azioni talvolta anche violente delle numerose bande di Crocco, Ninco Nanco, Tortora, Schiavone, il nuovo governo rispose con una energica, feroce e sanguinosa azione di repressione guidata dal generale Cialdini che durò fino al 1865 e vide la soppressione per fucilazione o per combattimento di migliaia di ” cosiddetti Briganti ” .


Cialdini è stato uno degli uomini più cattivi, violenti e fetenti che la nostra storia ricordi  poiché fu autore di diverse stragi di popolazioni del Sud durante l’invasione e la conquista del Regno delle Due Sicilie. Egli è responsabile del massacro di Pontelandolfo e Casalduni, così come del bombardamento di Gaeta nonostante la roccaforte si fosse già arresa, provocando morti inutili e incredibilmente crudeli.


Ad un certo punto era  chiamato ” brigante ”  qualsiasi persona che non condivideva la politica piemontese o era dissenziente dalle loro idee o dalle loro leggi. Era brigante anche chi  solamente rifiutava di passare nell’esercito dei Savoia o che solamente mostrava fedeltà alla vecchia monarchia.

I piemontesi con sempre maggiore forza incominciarono ad imporre il loro modo di fare con il potere e la violenza  dei fucili. I meridionali piuttosto che sottostare ai nuovi padroni preferirono darsi alla macchia e agli stenti e ai sacrifici che essa comportava.
Ad un certo punto i comuni di Pontelandolfo, Casalduni e Campolattaro si ribellarono ed  abbatterono le insegne savoiarde issando  nuovamente le bandiere borboniche. Il generale piemontese Cialdini, da Napoli, diede ordini precisi di stroncare col sangue qualsiasi accenno o fermento di ribellione. I paesi furono completamente distrutti e saccheggiati. Si diede fuoco a tutte le case e operato un vero massacro a danno dei locali. I piemontesi spararono contro vecchi, donne e bambini, sorpresi nel sonno. I paesi divennero un immenso rogo. Uccisioni, stupri, fucilate, grida, urla e saccheggio si susseguirono per un’intera giornata e alla fine i morti che si potevano contare erano a migliaia.

“Entrammo nel paese, subito abbiamo incominciato a fucilare i preti e gli uomini, quanti capitava, indi il soldato saccheggiava ed infine abbiamo dato l’incendio al paese abitato da circa 4500 abitanti . quale desolazione, non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti e chi sotto le rovine delle case – CARLO MARGOLFO, bersagliere entrato a Pontelandoflo, 1861 -”

Per capire con quale spirito i piemontesi erano venuti nel Meridione, basta leggere il contenuto di un bando che un capitano dei bersaglieri piemontesi aveva fatto affiggere per le vie di un paese.
1) Chiunque tratterà o alloggerà briganti sarà fucilato.
2) Chiunque darà segno di tollerare o favorire il più piccolo tentativo di reazione sarà fucilato.
3) Chiunque verrà incontrato per le vie interne o per le campagne con provvigioni alimentari superiori ai propri bisogni, o con munizioni da fuoco per ingiustificato uso, sarà fucilato.
4) Chiunque, avendo notizie dei movimenti delle bande non sarà sollecito di avvisare il sottoscritto, verrà considerato nanutengolo o come tale fucilato.

Furono operate  deportazione in veri e propri campi di concentramento ( o di sterminio, nel quale confluivano i briganti o le truppe di Francesco II che si erano rifiutate di passare nell’esercito dei Savoia ( anch’essi dichiarati briganti).
Tra questi  veri e propri lager ricordiamo i campi di prigionia di San Maurizio nella zona nord di Torino detta delle Vaude. In questo posto  i soldati dell’esercito di “Franceschiello”  che rifiutando di riconoscere il nuovo goveno sabaudo, venivano rinchiusi  e ritenuti bisognosi di rieducazione morale e civile. Vi giungevano spesso dopo tre-quattro giorni di nave che li portava a Genova, stipati sottocoperta come facevano gli schiavisti nelle Americhe e poi a piedi, in marcia per almeno una settimana, con abiti sempre più rotti e con scarpe sempre più sfondate. Non arrivavano tutti, ma per chi aveva la fortuna (se di fortuna si può parlare) di resistere, cominciavano i tormenti. Stremati dalle fatiche solo colpevoli di essere ancora fedeli al loro re avevano diritto a “mezza razione di cattivo pane” e una ciotola d’acqua sporca che, secondo l’ufficiale di rancio, era minestra.

In una terra dove l’autunno è freddo e l’inverno freddissimo, dormivano in tende senza giaciglio e con ripari approssimativi. Morivano di fame e di freddo ma dei loro decessi nella maggior parte dei casi non esiste traccia, perché i cadaveri venivano ammassati in botole di calce viva che riuscì a liquefarne anche le ossa.
Cercarono di cancellare anche la memoria. Morti senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo.
I prigionieri arrivavano a frotte e alla fine furono quasi 40 mila i prigionieri.
Ma il vero inferno fu attrezzato a Fenestrelle, all’imbocco della Val Chisone, dove ancora oggi sorge una fortezza situata a quasi duemila metri di altezza .


In questo posto dove  l’inverno era tremendo,  all’arrivo dei prigionieri borbonici, i comandanti di Finestrelle, in pieno inverno fecero togliere i vetri dai locali dove alloggiavano affinché i cafoni deportati si civilizzassero!
Uomini nati e cresciuti in clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimare di fame e di stento per le ghiacciaie”.
Vivevano con un  camice di tela quando i montanari di la indossavano tre maglioni, uno sull’altro.
Quelli che dopo i primi mesi sopravvivevano erano poi costretti ai lavori forzati.
Per sbarazzarsi,  in maniera definitiva, di quella massa sempre più numerosa di meridionali che da anni, ormai, marcivano nei loro campi di prigionia tentarono addirittura di ottenere dal governo portoghese la concessione di un’isola disabitata nel bel mezzo dell’Oceano Atlantico dove “depositare” i prigionieri napoletani, togliendoseli, così, definitivamente di torno.
Questo fatti indignò talmente tanto l’opinione pubblica e la stampa locale che fortunatamente alla fine i portoghesi opposero un netto rifiuto e l’infame disegno non poté andare in porto.
Molti di questi prigionieri alla fine addirittura si suicidavano.  Nel corso delle deportazioni mediante nave, molti dei prigionieri erano stipati all’inverosimile sia sottocoperta che sopra. In quella situazione di particolare disagio, molti prigionieri ricorrevano al suicidio gettandosi in mare. In alcune occasioni, si verificarono suicidi in massa. Le autorità preposte, intervennero e risolsero il problema: le navi venivano accompagnate nel loro viaggio, da alcune piccole imbarcazioni che avevano lo scopo di raccogliere quelli che tentavano il suicidio. I prigionieri non avevano il diritto di suicidarsi; la loro vita apparteneva ai padroni, allo stato, al re Savoia.
Ma il maggior numero dei suicidi avveniva con la constatazione della realtà dei lager, nella quale erano portati a vivere. Era meglio morire!
Da questi campi andavano via solo quelli che accettavano di vestire altra divisa ma e’ anche vero che venivano esclusi coloro che non avevano le attitudini necessarie.
Gli altri per andare via dovevano solo morire di stenti o di malattia o per fucilazione poichè ribelli.

Intanto le campagne senza più braccia giovani e forti e senza moderni strumenti vennero progressivamente abbandonate dando luogo ad un primo grosso esodo immigratorio delle popolazioni del Mezzogiorno verso altri paesi esteri. In queste regioni in quel periodo si verificò un esodo di tale portata che la popolazione locale diminuì in valori assoluti mentre l’economia toccò bassi livelli mai visti prima di cui ancora oggi si sentono gli effetti.

Le terre , in assenza di forze di lavoro , furono quasi tutte abbandonate . I contadini  sottratti della forza produttiva dei propri figli che o partivano per la leva obbligatoria o si davano per sfuggire ad essa al ” brigantaggio ” , in assenza di nuovi sistemo agricoli di produzione , furono quasi tutti costretti ad emigrare .all’estero .

“Caro Presidente, ti salutano qui ottomila moliternesi: tremila sono emigrati in America; gli altri cinquemila si accingono a farlo – Lettera del sindaco di Moliterno (PZ) al primo ministro Giuseppe Zanardelli 1901 -”

“Nel secolo precedente, il Meridione d’Italia rappresentò un vero e proprio eden per tanti svizzeri, che vi emigrarono, spinti soprattutto da ragioni economiche, oltre che dalla bellezza dei luoghi e della qualità della vita. Luogo di principale attrazione Napoli, verso cui, ad ondate, tanti svizzeri, soprattutto svizzeri tedeschi di tutte le estrazioni sociali, emigrarono, con diversi obiettivi personali. Verso la metà dell’Ottocento, nella capitale del Regno delle Due Sicilie quella svizzera era tra le più numerose comunità estere – CLAUDE DUVOISIN, Console svizzero, 2006 -”

Elenchiamo a tal proposito  quanto scritto negli anni a seguire da qualcuno che ha voluto poi leggere la storia senza alcuna benda sugli occhi ed in maniera obiettiva :

“Gli scrittori italianissimi inventarono dunque i briganti, come avevano inventato i tiranni; ed oltraggiarono, con le loro menzogne, un popolo intero sollevato per la sua indipendenza, come avevano oltraggiato principi, re ed anche regine colle loro rozze e odiose calunnie. Inventarono la felicità di un popolo disceso all’ultimo gradino della miseria, come avevano inventato la sua servitù al tempo de’ sui legittimi sovrani. – HERCULE DE SAUCLIERES, 1863.

“Potete chiamarli briganti ma combattono sotto la loro bandiera nazionale. Potete chiamarli briganti ma i padri di quei briganti hanno riportato due volte i Borboni sul trono di Napoli. E’ possibile, come il mal governo vuol far credere, che 1500 uomini comandati da due o tre vagabondi tengano testa ad un esercito regolare di 120 mila uomini? Ho visto una città di 5 mila abitanti completamente rasa al suolo e non dai briganti. – GIUSEPPE FERRARI -”

“Il governo piemontese che si vede presto costretto ad abbandonare il suolo napoletano, si vendica mettendo tutto a ferro e fuoco. Raccolti incendiati, provvigioni annientate, case demolite, mandrie sgozzate in massa. I piemontesi adoperano tutti i mezzi più orribili per togliere ogni risorsa al nemico, e finalmente arrivarono le fucilazioni! Si fucilarono senza distinzione i pacifici abitatori delle campagne, le donne e fino i fanciulli. – L’ OSSERVATORE ROMANO, 1863 – ”

“In un solo mese nella provincia di Girgenti, le presenze dei detenuti nelle prigioni furono 32000. Non si turbino! Ho qui il certificato, la nota è officialissima, 32.000 presenze in carcere, solo nei trenta giorni del mese. Ed ora, codeste essendo le cifre, io domando all’onorevole ministro dell’Interno: ne avete ancora da arrestare? – FRANCESCO CRISPI – ”

“Non parliamo delle dimostrazioni brutali contro i giornali; non parliamo dell’esilio inflitto per via economica; non parliamo delle fucilazioni operate qua e là per isbaglio dalle autorità militari; ma degli arresti arbitrari di tanti miseri accatastati nelle prigioni senza essere mai interrogati. – IL NOMADE, giornale liberale 12 settembre 1861”

“Sorsero bande armate, che fan la guerra per la causa della legittimità; guerra di buon diritto perché si fa contro un oppressore che viene gratuitamente a metterci una catena di servaggio. I piemontesi incendiarono non una, non cento case, ma interi paesi, lasciando migliaia di famiglie nell’orrore e nella desolazione; fucilarono impunemente chiunque venne nelle loro mani, non risparmiando vecchi e fanciulli – GIACINTO DE SIVO – ”

“Aborre invero e rifugge l’animo per dolore e trepida nel rammentare più paesi del regno napoletano incendiati e rasi al suolo, e quasi innumerevoli integerrimi sacerdoti e religiosi e cittadini di ogni età, sesso e condizione, e gli stessi malati indegnissimamente ingiuriati, e poi eziando senza processo, o gettati nelle carceri o crudelissimamente uccisi. – PAPA PIO IX, 30 settembre 1861 – ”

“Posso assicurare alla Camera che specialmente in alcune province, quasi non vi è famiglia, la quale non tremi dell’onnipotenza dell’autorità di polizia, dei suoi errori ed abusi. Sotto la fallace apparenza della persecuzione del brigantaggio si vuole avere in mano la facoltà di arrestare o mandare al domicilio coatto ogni specie di persone al Governo sospette. – PASQUALE STANISLAO MANCINI, intervento alla Camera, 1864 – ”

“L’Italia, dove per sostenere quanto gli usurpatori hanno denominato ‘liberalismo’, si stanno barbicando dalla radice tutti i diritti, manomettendo quanto vi ha di più santo e sacro sulla terra. Italia, dove sono devastati i campi, incenerite le città, fucilati a centinaia i difensori della loro indipendenza – NOCEDAL deputato spagnolo, 1863 – ”

“Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti – ANTONIO GRAMSCI -”

“I Borboni non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno – NAPOLEONE III (lettera a Vittorio Emanuele II, 1861 ) ”

“Non vi può essere storia più iniqua di quella dei piemontesi nell’occupazione dell’Italia Meridionale. In quel luogo di pace, di prosperità, di contento generale che si erano promessi e proclamati come conseguenza certa dell’unità d’Italia, non si ha altro di effettivo che la stampa imbavagliata, le prigioni ripiene, le nazionalità schiacciate ed una sognata unione che in realtà è uno scherno, una burla, un impostura – MCGUIRE deputato scozzese, 1863 –

”“Pare non bastino sessanta battaglioni per tenere il Regno. Ma, si diranno, e il suffraggio universale? Io non so niente di suffraggio, so che al di qua del Tronto non ci vogliono sessanta battaglioni e di là si. Si deve dunque aver commesso qualche errore; si deve quindi o cambiar principi o cambiar atti e trovar modo di sapere dai napoletani, una buona volta, se ci vogliono si o no. Agli italiani che, rimanendo italiani, non vogliono unirsi a noi, non abbiamo diritto di dare archibugiate – MASSIMO D’AZELIO – ”

“Quelli che hanno chiamato i piemontesi e che hanno consegnato loro il Regno delle Due Sicilie sono un’impercettibile minoranza. I sintomi della reazione si vedono ovunque – JORNAL DE DEBATS, novembre 1860 – ”

“Sento il debito di protestare contro questo sistema. Ciò che è chiamata unità italiana deve principalmente la sua esistenza alla protezione e all’aiuto morale dell’Inghilterra, deve più a questa che a Garibaldi, che non agli eserciti stessi vittoriosi della Francia, e però, in nome dell’Inghilterra, denuncio tali barbarie atrocità, e protesto contro l’egidia della libera Inghilterra così prostituita – LORD LENNOX, parlamentare inglese, 1863 –

”“La guerra contro il brigantaggio, insorto contro lo Stato unitario, costò più morti di tutti quelli del Risorgimento. Abbiamo sempre vissuto si dei falsi: il falso del Risorgimento che assomiglia ben poco a quello che ci fanno studiare a scuola – INDRO MONTANELLI –

“Come ha potuto solo per un momento uno spirito fine come il tuo, credere che noi vogliamo che il Re di Napoli conceda la Costituzione. Quello che noi vogliamo e che faremo è impadronirsi dei suoi Stati – CAVOUR (all’ambasciatore Ruggero Gabaleone) – ”

“Napoli è da sette interi anni un paese invaso, i cui abitanti sono alla mercè dei loro padroni. L’immoralità dell’amministrazione ha distrutto tutto, la prosperità del passato, la ricchezza del presente e le risorse del futuro. Si è pagato la camorra come i plebisciti, le elezioni come i comitati e gli agenti rivoluzionari. – PIETRO CALA ULLOA – ”

“Intere famiglie veggonsi accattar l’elemosina; diminuito, anzi annullato il commercio; serrati i privati opifici. E frattanto tutto si fa venir dal Piemonte, persino le cassette della posta, la carta per gli uffici e le pubbliche amministrazioni. Non vi ha faccenda nella quale un onest’ uomo possa buscarsi alcun ducato che non si chiami un piemontese a sbrigarla. Ai mercanti del Piemonte si danno le forniture più lucrose: burocrati del Piemonte occupano tutti i pubblici uffizi, gente spesso ben più corrotta degli antichi burocrati napoletani. Anche a fabricar le ferrovie si mandano operai piemontesi i quali oltraggiosamente pagansi il doppio dei napoletani. A facchin della dogana, a camerieri a birri, vengono uomini del Piemonte. Questa è invasione non unione, non annessione! Questo è voler sfruttare la nostra terra di conquista. Il governo di Piemonte vuole trattare le province meridionali come il Cortez ed il Pizzarro facevano nel Perù e nel Messico, come gli inglesi nel regno del Bengala. –FRANCESCO PROTO CARAFA, Duca di Maddaloni – ”

“L’unità d’Italia è stata purtroppo la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico sano e profittevole. L’ unità ci ha perduti.  E come se questo non bastasse, è provato, contrariamente all’opinione di tutti, che lo stato italiano profonde i suoi benefici finanziari nelle province settentrionali in misura ben maggiore che in quelle meridionali – GIUSTINO FORTUNATO – ”

“Se dall’unità d’Italia, il Mezzogiorno è stato rovinato, Napoli è stata addirittura assassinata. E’ caduta in una crisi che ha tolto il pane a migliaia e migliaia di persone – GAETANO SALVEMINI -”

La città , infatti totalmente abbandonata  a se stesa da un governo centrale che si trovava  lontano e non poteva rendersi conto dei veri problemi del popolo  si ritrovò in uno stato di crisi e di miseria peggiore di quello precedenteavvenuto sotto i sovrani borbonici. 

Il cambio di staffetta da loro tanto desiderato e propugnato, non portà al popolo nessun cambiamento e sopratutto nessun giovamento visto l’aumentare della disocuppazione e il costretto abbandono delle terre da parte dei giovani. dando origine al brigantaggio e al il triste fenomeno della emigrazione.

Un vero fallimento .. visto che almeno prima dell’unione d’Italia,i Borbone permettevano ai contadini il  diritto di potere usufruire gratuitamente delle terre del demanio per coltivare, piantare, fare pascolare le greggi, e tagliare legna,consentendo quindi ai contadini di vivere in maniera decorosa.

L’unità d’italia e tuttete le chiacchiere che ruotavano intorno alla libertà ed i vantaggi economici si rivelarono presto per i meridionali solo una grossa burla per la loro qualità di vita causata dall’aumento del prezzo del pane, delle la pasta e degli ortaggi, indispensabili al popolo per vivere,

I problemi della città l’unità d’Italia con cominciaronopresto ad essere gravosi e la situazione intollerabile.
Anche strutturalmente Napoli aveva urgente bisogno di rinnovazione e di bonifica; la popolazione, che ormai superava il mezzo milione ,viveva in gran parte nei « bassi», nei fondaci, e nei vicoli stretti privi di aria e di luce.
La città era carente di fognature e di acquedotti, le strade avevano bisogno di essere allargate in quanto  intransitabili nei giorni di pioggia perché si trasformavano in torrenti.
A Via Toledo robusti popolani, i « passalava », trasportavano a « coscecavuoglio» (a cavalcioni) da un marciapiede all’altro coloro che dovevano attraversare la strada per il compenso di una grana, vale a dire poco più di 4 centesimi.

Si andavano praticamente costituendo le basi di quele epidemia di colera che poi successivamente si scatenò  in città .

N.B. Un altro grande ribelle al regno Sabaudo ( e quindi brigante ) possiamo definirlo San Gennaro che a modo suo si oppose ai nuovi CONQUISTATORI  visto che in alcuni anni il prodigio non si é mai verificato in presenza dei sovrani di Casa Savoia (nel 1861, 1870 e 1931).

A distanza di anni , comunque lasciando comunque da parte le varie suggestioni patriottiche ed esaminando la questione con animo distaccato non possiamo certo riconoscere l’importanza dell’essere oggi costituiti in un’ unica nazione , e comunque riconoscere  che la rovina del regno fu in gran parte conseguenza della lunga politica oscurantista e despota tenuta da Ferdinando I ( sopratutto dopo il rientro dal suo obbligato soggiorno decennale in Sicilia ) e Ferdinando II. Quest’ ultimo in particolare , dopo aver assecondato in gioventù una politica alquanto liberale , poi , terrorizzato dalla rivoluzione del 48 aveva adottato una politica assolutamente tiranna ed inacettabile e proprio quando nel resto dell’Europa prendevano piede ed il sopravvento  le idee liberali.

In quel periodo , arroccata su posizioni fuori dalle idee liberali che aleggiavano e soffiavano  in tutta Europa , la monarchia borbonica non appariva certamente ben difesa e facilmente sostenibile da nessun altro paese europeo che anche se a malincuore si apriva al ciclone liberale. Le condizioni del popolo , seppure in maggior parte quasi tutto schierato in favore della monarchia erano certamente non delle migliori. L’alimentazione dei più poveri escludeva carne e pesce , e  la maggior parte delle persone del popolino erano analfabete  ( l’analfabetismo nel Sud colpiva l’87% della popolazione; a dispetto di quella nel Nord che era del  54%.)  , e solo il 18% dei bambini contro  Il 90% dei bambini del Nord andava alla scuola primaria . Le varie imposte erano spesso mal ripartite e le maggiori  spese del bilancio statale borbonico,  erano assorbite principalmente dalle forze armate ( esercito, marina,  polizia,)  mentre settori come istruzione, sanità, e opere pubbliche ricevevano pochissimi fondi . La spesa pubblica  destinava quindi il grosso del bilancio alle forze armate, che avevano come fine principale tutelare le loro persone e quelle dei loro fedeli, le loro proprietà ed i loro privilegiI  ( alla Real casa, ossia a sé stesso, alla sua famiglia, ai parenti, agli amici,ed ai suoi piu stretti collaboratori ,era assegnata una cifra che superava largamente quella spesa per le opere pubbliche e le necessità sociali della popolazione dell’intero regno ) . Come tutte le monarchie , anche quella borbonica era costituita  quindi come potete osservare da un  gruppo  di pochi governanti  che spesso si  mostrava essere  noncurante  della vita quotidiana della grande  massa di poveri o poverissimi, e  prelevava a proprio uso dal bilancio pubblico somme superiori a quelle spese per milioni di sudditi. 

Il Sud borbonico era fatto di un pugno di latifondisti che possedevano quasi tutta la ricchezza del paese; un modesto nucleo di artigiani poveri , una grande quantità  di contadini miseri e affamati ed una  piccola borghesia, fatta soprattutto di piccoli proprietari, e di professionisti che  assuefatti per secoli a ritmi indolenti, erano abituati a  sdegnare la trafila burocratica per affidarsi a procedure che consentivano transiti obliqui e maniere affidate a scappatoie.

L’economia industriale e agricola del sud era comunque protetta da  barriere doganali con cui lo stato borbonico proteggeva i suoi prodotti da esportare , impedendo ad altri paesi l’importazion di  prodotti come frutta, vini, formaggi, solfo e seta . Essa risentì quindi moltississimo dell’ abolizione di queste  barriere doganali che consentivano nella reciprocità di trattamento , ai stranieri la sola importazione di prodotti  che il paese non era in grado di produrre.    .

A tutto questo bisogna aggiungere che Napoli venne presto anche abbandonata dopo qualche tempo di accertta crisi economica e agraria, da una gran parte dell’aristocrazia e dall’alta borghesia, Questo comportò ad una ulteriore diminuizione  del commercio,e della occupazione  l’occupazione, e quindi anche  la possibilità di vivere con benessere la propria città.

 

INSOMMA … DICIAMOCELO CON SERENITA’

Il  problema centrale dell’intera vicenda è che nel 1860 l’Italia si fece, ma si fece malissimo e la verità unica è quella che  al di là delle orribili stragi che l’unità apportò, le genti del Sud patiscono ancora ed in maniera evidentissima i guasti di un processo di unificazione politica dell’Italia che fu attuato senza tenere in minimo conto le diversità, le esigenze economiche e le aspirazioni delle popolazioni che venivano aggregate.

Molto in tanti anni è stato scritto sulla unificazione dell’Italia e nessuno vuole non ricoscere quanto sia stato importante unificare tutti noi in un’unica  grande nazione .Le  monarchie sono sempre state  per definizione contro le libertà e i bisogni dei popoli e la monarchi borbonica per molti versi non si è comportata diversamente dalle altre. se pensiamo solo per un momento al sistema repressivo con cui furono uccise tramite esecuzione  pubblica,  centinaia di giovani operai e intellettuali durante la repubblica napoletana, oppure le migliaia di persone uccise durante i  bombardamenti su Messina nel 48, ma questi fanno certamente il paio con la monarchia sabauda che la vide protagonista delle stragi di Pontelandolfo,di Casalduni,le fenestrelle, degli operai di Pietrarsa e il massacro di lavoratori del generale bava beccaris .

Io credo pertanto che nella  vecchia diatriba tra chi sia stato il buono o il cattivo , non vi siano buoni o cattivi ma solo cattivi e che tutto sommato da qualsiasi punto uno lo veda ,non sono altro che lo stesso  vero antagonismo ideologico di   sempre , cioe quello fra padroni e servi, capitale e lavoro, ricchi e poveri, e uomini liberi e oppressori.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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