Questo racconto è un viaggio nella Napoli del peccato, alla scoperta dei luoghi più importanti dove si svolgeva il mestiere più antico del mondo.
E per iniziare non possiamo che partire da quei scavi archeologi di Pompei dove la libertà sessuale era sicuramente maggiore rispetto alla maggior parte delle culture dei nostri temipi e i luoghi del piacere dove si svolgeva la prostituzione, non erano assolutamente ritenuti scabrosi. Erano infatti all’epoca numerose le osterie o le locande dove le meretrici svolgevano abbastanza liberamente la loro professione. Questi luoghi oltre a servire del buon cibo e dell’ ottimo vino, erano infatti quasi tutti ,attrezzati per accogliere numerosi forestieri ai quali offrire ogni tipo di attrazione … ovviamente a pagamento
Il numero dei Lupanari dove si praticava la prostituzione da entrambi i sessi a Pompei era altissimo ( tra i 25 ed i 35 ) ed il suo esercizio era autorizzato e legale. Essa veniva considerata nell’antica Roma un fatto del tutto normale. e a differenza dei giorni nostri, quindi, la società romana non giudicava negativamente chi decideva di recarsi in un bordello .Dunque, anche gli uomini romani di più alto status sociale erano liberi d’impegnarsi in incontri con persone che esercitavano la prostituzione, sia femmine che maschi, senza alcun pericolo d’incorrere nella disapprovazione morale. Era importante, però, mostrare moderazione e autocontrollo. L’omosessualità era accettata e non era raro trovare ragazzi che vendevano il loro corpo ( a Pompei tra le diverse testimonianze di prostituti, un graffito ci restituisce le scritte di un tale Menander che pubblicizzava le sue prestazioni, con relativo tariffario) Quello che non veniva accettato era che un uomo, un vir, si sottomettesse passivamente ad un altro uomo di ceto inferiore, essendo che la virilità, a Roma, si identificava con l’assunzione di un ruolo attivo nel rapporto sessuale.
CURIOSITA’: All’entrata dei lupanari, compreso quello di Pompei, si potevano acquistare dei preservativi. Costituiti con intestini essiccati di pecora, essi avevano soprattutto la funzione di evitare la trasmissione di malattie veneree. Facevano infatti parte della dotazione dei soldati romani impegnati nelle lontane e lunghe campagne militari, per evitare che questi contraessero malattie veneree capaci di decimare eserciti interi.
Normalmente per far sì che il lupanare fosse visibile ai visitatori, venivano poste insegne fuori dal locale molto esplicite e provocatorie. Ad esempio, veniva disegnato un fallo e scritto: “Hic habitat felicitas” ovvero “Qui abita la felicità”. Un’altra insegna invece era rappresentata da quattro falli e un bussolotto per il gioco dei dadi. Ulteriore stratagemma per attirare la clientela era quello di esporre qualche prostituta fuori il bordello, magari con vesti provocanti o direttamente seminude.
Le varie stanze dove praticare l’atto sessuale venivano spesso allestite con immagini suelle pareti destinati secondo alcuni solo ad aumentare il piacere e la tensione erotica nei visitatori e nei clienti maschi, mentre secondo altri , queste non erano eltro che una sorta di pubblicità sui servizi offerti dalle ragazze…una sorta di catalogo illustratico che spiegava con dovizia di particolari le varie abilità delle prostitute , fissando con puntualità il prezzo per quella prestazione offerta.
Alcuni di questi dipinti ed affreschi sono divenuti immediatamente molto famosi, dopo il loro ritrovamento, proprio perché rappresentano scene erotiche esplicite raffiguranti una varietà di posizione sessuali .
Ad indicare ad un viaggiatore la strada da seguire per qualche tenero amore , laddove fosse alla ricerca di ragazze assai gentili vi erano particolari segnaletiche ( I falli ) che li avvisavano circa la strada da seguire, per giungere in questi luoghi del sesso ( una sorta di antico navigatore ma molto più erotico ).
I luoghi del piacere , sono quindi stati sin da quando esistevano da noi gli antichi romani , espressione della tradizione partenopea, e se Pompei con i suoi lupanari rappresentava il luogo deputati al libero piacere sessuale mercenario.
La località di Baia con le sue terme e le lussose ville rappresentava invece la madre del vizio e della lussuria . Essa era il regno delle acque consacrate a Venere e le sue accoglienti acque ed i suoi bagni furono famosi per la loro promiscuità. Nei famosi bagni di Baia in atmosfere rarefatte di oli, profumi ed essenze naturali, i corpi si lasciavano andare alle gioie della vita in cerca della guarigione sia del corpo che dell’anima.
In un ambiente dove i luoghi del piacere erano presenti in maniera liberale sin dai lontani tempi degli antichi romani e la prostituzione non era assolutamente ritenuto un “MESTIERE” scabroso , mi sembra alquanto ovvio che sopratutto nel tessuto sociale della città più povero ed indigente dove condizioni di vita della plebe erano certamente più meschine , il fenomeno della prostituzione cominciò a svilupparsi in maniera notevole .
Chi si trovava in una condizione di assoluta miseria , poverta e fame , pur di sopravvivere spesso era costretto ad esercitare il mestiere piu antico del mondo.
Da allora tutti i regnanti che si sono succeduti a Napoli , dagli Angoini , agli Aragonesi ai viceré spagnoli fino allo Stato Italiano , bene o male hanno dovuto affrontare la piaga e la gestione della prostituzione in città che ad un certo punto era un fenomeno talmente esteso e incontrollabile che più sovrani , per cercare di risolvere il problema si videro costretto ad emanare continui bandi e prammatiche che purtroppo spesso non venivano osservati .
In periodo angioino. nel 1324 la seconda moglie di re Roberto d’Angiò, Sancia d’Aragona Majorca visto il diffondersi del problema fu la prima sovrana a fondare un primo istituto per l’accoglienza e la conversione di prostitute napoletane dedicandolo a S. Maria Maddalena, santa venerata dalla casa angiona e protettrice delle prostitute, secondo la tradizionale ma infondata identificazione della Maddalena con la anonima peccatrice .
Nell’arco di pochi anni il numero delle donne accolte arrivò a 340 tanto da indurre la sovrana ad aprire un altro ritiro che divenne poi il monastero di S. Maria Egiziaca.
Sancia era particolarmente impegnata nell’opera di conversione delle prostitute: le visitava di persona, le esortava a cambiare vita e le invitava a entrare nel ritiro di S. Maria Maddalena sostenuta dal suo confessore Filippo d’Aquerio, frate minore a S. Chiara dal 1331.
La comunità femminile fu sottoposta da Sancia alla regola agostiniana ma la cura spirituale delle monache venne affidata ai frati minori fin dal 1341. Intorno al 1487 le monache vennero trasferite per qualche anno nel vicino monastero di S. Caterina a Formello, per volere di Alfonso II d’Aragona che aveva intenzione di destinare l’edificio ad abitazione dei suoi cortigiani. Il complesso monastico, integralmente restaurato nel 1721 da Niccolò Falcone, e ampliato da Mario Gioffredo nel 1765, fu soppresso nel 1808 e demolito nel 1955 per far posto ad un palazzo per civili abitazioni.
Il fenomeno nonostante tutto questo non accenneva comunque a diminuire …
Pensate che il solo numero di prostitute registrate era pari a circa tremila ragazze ( spesso tra i 12 ed i 16 anni ).Le clandestine invece sembra che erano circa il doppio..
Tutto però sembrava una battaglia persa dall’inizio.
In una lotta continua alla prostituzione furono disposte anche nuove, rigide disposizioni per combattere il moltiplicarsi di particolari «osterie» (dette «Casini«) che favorivano gli incontri, sopratutto nei famosi quartieri spagnoli dove gli “ uomini ammogliati amavano andare di notte per case di cortigiane”
Tutto inutile!
Per carcare di risolvere il problema il duca di Ossuna nel 1616 , pensò addirittura di chiudere tutte le case delle cosidette ” cortigiane dei quartieri spagnoli”ma dopo aver fatto personalmente un giro per quelle strade arrivò alla sconsolante conclusione di non poter attuare questa sua decisione in quanto bisognava altrimenti dover chiudere più della metà della città.
Successivamente nel 1737 a combattere il fenomeno della prostituzione dovette intervenire drasticamente anche re Carlo di Borbone, nel 1737. Egli per frenare gli eccessi di libertinaggio a cui serano giunte le meretrici di Napoli, cercò di relegare i traffici sessuali solo in alcune zone circoscritte della città : a Porta Medina, all’Olivella (dietro Montesanto), a Porta Nolana, alle Fontanelle (nella zona di Santa Maria della Vita) e soprattutto al Borgo Sant’Antonio Abate.
Si faceva divieto allo stesso modo alle meretrici di frequentare le zone di Chiaia (piuttosto affollata di lucciole e clienti) e di Capodimonte (dove c’era l’altra Reggia). L’editto diffidava i proprietari di case di affittare o semplicemente rinnovare la locazione a meretrici e protettori. Dure le sanzioni: perdita dei canoni non corrisposti, confisca dell’abitazione e addirittura il carcere. Ma il fenomeno era talmente esteso e incontrollabile che il sovrano fu costretto ad emanare nuove, rigide disposizioni negli anni seguenti, in particolare per combattere il moltiplicarsi di particolari «osterie» (dette «Casini«) che favorivano gli incontri e per evitare che dai Quartieri Spagnoli (un postribolo già dal Cinquecento) continuassero a riversarsi decine e decine di fanciulle sulla nobile strada di Toledo.
Tutto inutile.
Poiche il fenomeno a quanto pare coinvolgeva molte dame napoletane. Era la fine del Settecento e il quadro generale a tal riguardo non appariva dei migliori, sia nei palazzi dell’aristocrazia sia nei vicoli e nelle strade della capitale dove invece si assisteva alla proliferazione dei commerci carnali come in poche altre città.
Non restava altro da fare quindi che confinare il fenomeno della prostituzione in alcune aree specifiche della città ed in un editto emanato nel 1781, la zona dell’Imbrecciata, che si trovava nei pressi di Porta Capuana, vicino al borgo di Sant’Antonio Abate, fu riconosciuta come l’unico quartiere dove era ammesso il meretricio.
N.B. In passato, come apprendiamo dalla Storia della prostituzione di Salvatore Di Giacomo, vi erano luoghi, stabiliti dall’Autorità, dove travestiti e prostitute potevano liberamente esercitare…
Nel 1855, per evitare sconfinamenti, la zona fu delimitata da un alto muro di cinta con un solo cancello d’accesso, presidiato dalla polizia, che faceva cessare ogni attività poco prima della mezzanotte. L’intento delle autorità borboniche era quello di impedire alle signorine di girovagare di notte per la città e che l’attività stessa trasbordasse in altri luoghi. Lungo i vicoli sulle porte delle case delle prostitute vennero appese delle lanterne ovviamente con la luce rossa. Nell’ambito di questo rione off limits , per evitare confusioni, vi era una strada frequentata solo dai travestiti, che si chiamava per l’appunto vico Femminelle, toponimo che tramutò prima in via Lorenzo Giustiniani ed oggi via Pietro Antonio Lettieri. Questa segregazione durò fino al 1876, quando fu consentita la prostituzione anche in altri quartieri.
Le meretrici che esercitavano in questo confinato quartiere ,provenivano quasi sempre dai vicoli più malfamati della citta , con situazioni familiari disagiate e ambienti malsani . Per talune ragazze sedotte ed abbandonate poichè disonorate fare il mestiere della prostituta era per loro l’unica possibilità di vita. pur sapendo dall’inizio che quella scelta della prostituzione era di fatto una strada senza ritorno .
CURIOSITA ‘ : Ad esercitare il mestiere più antico del mondo in questo tratto di strade vi finì anche Bernardina Pisa, la moglie di Masaniello dopo la morte del marito e la fine della rivolta. Lei dopo aver vissuto nove inebrianti giorni all’ombra del Capitano Generale del Fedelissimo Popolo. Dopo essere stata invidiata dalle femmine del Lavinaio qundo ebbe in dono dalla viceregina “una collana d’oro con cannacca di diamanti e orecchini anch’essi di diamanti del valore di circa diecimila scudi . Dopo essere stata ricevuta a Palazzo Reale dalla duchessa d’Arcos con parole di circostanza “Sea Vostra Signoria Illustrissima muy bien venida” , alla quale rispose rispose con grande candore “E sia Lei la ben trovata! Vostra Eccellenza è la viceregina delle Signore e io son la viceregina delle popolane” . Dopo aver concluso quel discorso con due sonori baci sulle guance della algida nobildonna spagnola, a soli ventitre anni, dopo l’assassinio del marito, per sopravvivere e poter campare finì per essere costretta a prostituirsi in uno squallido bordello nel Borgo Sant’Antonio derisa da molti spagnoli. Solo la L morte per peste misericordiosamente pose fine alle sue sofferenze otto anni dopo.
In citta , visto l’aumentare del fenomeno , cominciarono a sorgere alcuni istituti e monasteri per cercare di aiutare qualche ragazza che pentita voleva abbandonare questo lavoro . Una di queste struture che aveva la funzione di ospitare e dare assistenza alle cosiddette “donne traviate” pronte a redimersi, era il monastero di Santa Maria Egiziaca all’Olmo , fatto costruire nel 1342, per volere della moglie di re Roberto d’Angiò, la Regina Sancia di Maiorca.
N.B. Santa Maria Egiziaca è protettrice delle “prostitute pentite”ed il monastero assunse tale denominazione secondo quella che fu l’esperienza di vita della Santa da da giovane prima di pentirsi e poi divenire santa si guadagnava da vivere facendo la prostituta.
Altra loro possibilta per chi voleva dirimersi era quello di venire ospitata come novizia nella Chiesa degli Incurabili nell’Ognissanti . Abbigliate e ingioiellate per l’occasione , esse scendevano dal Noviziato al portone della pia casa ove davanti a un altare pregavano, deponevano vesti e gioielli, indossavano il velo e il soggolo, si facevano tagliare i capelli e si seppellivano per sempre nella Clausura.
CURIOSITA’ : La parola zoccola , a Napoli data alle donne dai cattivi costumi , sembrerebbe derivare dal topo , ( dalla Zoccola ) , ma invece stranamente essa non ha nulla a che vedere con questo piccolo animale sebbene il topo ha una sua grande prolificità e questo potrebbe spiegarne in parte l’associazione .L’alta prolificità potrebbe infatti lasciar immaginare ad una una sfrenata attività sessuale della femmina del topo magari fatta con tutti i topi che le capitano a tiro. Ma la ‘topa’ in quanto animale in questo caso non c’entra proprio nulla . La parola ‘Zoccola’ con cui si definiscono a Napoli le donne di cattivi costumi , deriva invece dagli alti zoccoletti che le nobildonne del settecento erano solito indossare lungo la via Toledo quando non volevano che i loro lunghi vestiti che indossavano si sporcassero della fanghiglia della strada . Accadde quindi che le prostitute dei quartieri spagnoli che si agghindavano sempre in maniera molto appariscente per attirare i clienti , ad imitazione delle nobildonne del 700 incominciarono anche esse ad indossare questi altissimi zoccoletti sempre più alti al tal punto che furono soprannominato le “ zoccolelle “. Ecco perché poi avvenne il facile passaggio semantico tra zoccole , zoccolelle zoccolette e donne di cattivi costumi da parte dei napoletani .La loro associazione fu immediata e da allora le donne che si dedicavano al mestiere più antico del mondo vengono dette dai napoletani “ e Zoccole “.La pesantezza e l’offensività di questo termine riferito ad una donna fa comunque rifermento al classico topo che come zoccola vive nelle fogne e si nutre di rifiuti . Si tratta quindi di un essere spregevole .
Ma al posto di ” zoccola ” talvolta per offendere o insultare una donna ( spesso una madre o sorella altrui ) viene usata anche la parola ” tofa ” che all’incirca esprima lo stesso concetto ed ha lo stesso significato . Tufaiola era infatti il modo con cui in passato veniva chiamata una donna di poco conto ed il termine proviene da un vicolo di Napoli dove probabilmente un tempo si esercitava il più antico dei mestieri .
Questo Conservatorio ( attualmente utilizzato dalla Facoltà di Architettura) , venne eretto nello slargo formato dalla confluenza dell’attuale via Toledo con S. Anna dei Lombardi, ( attualmente utilizzato dalla Facoltà di Architettura) per interessamento del predicatore domenicano Ambrogio Salvio di Bagnoli e di alcuni notabili napoletani affiliati alla Confraternita degli Illuminati dallo Spirito Santo,
Nella sezione femminile entravano ragazze tra i 7 ed i 14 anni di età, figlie di prostitute (sottratte spesso alle madri anche contro la loro volontà) o provenienti da famiglie molto povere. Nel giro di pochi anni si arrivò a un alto numero di ragazze arrivando addirittura a 400-500 fanciulle ospitate. Di queste, una sessantina, secondo una usanza ormai consolidata, vestiva l’abito monacale e aiutava la badessa nella conduzione del Conservatorio e nella guida personale delle ragazze. Analogamente ad altre situazioni simili, all’espletamento di tutte le funzioni liturgiche veniva affiancato il lavoro manuale al fine di consentire una maggiore autonomia economica all’Istituto.
Il regolamento di ammissione era molto severo. Requisito fondamentale ed imprescindibile era che le fanciulle da ammettere fossero vergini; quelle che non si trovavano più in questa condizione venivano inviate a un altro Conservatorio, appositamente eretto dall’oratoriano Alessandro Borla, chiamato S. Maria del Rifugio. La verginità delle fanciulle era appurata da «donne esperte et degne di fede».
Per sostenere le spese del Conservatorio e della chiesa, la confraternita ottenne nel novembre del 1590 la facoltà di aprire il Banco di Santo Spirito, grazie al quale fu anche possibile continuare a garantire una dote a quelle ragazze del Conservatorio che intendevano sposarsi.
Nel 1644 la struttura incominciò a non ospitare più orfane e vedove di confratelli, ma solo figlie di meretrici e ragazze pericolanti, che venivano istruite nei soliti lavori femminili e contribuivano a sostenere le rilevanti spese dell’istituto con il loro lavoro. In questo modo, il Conservatorio godette per lungo tempo in città, sempre di buona fama sia per l’istruzione impartita alle ragazze, sia nel campo dei lavori manuali dove le ragazze eccellevano nel ricamo in oro e merletto.
Il conservatorio chiamato S. Maria del Rifugio dove venivano inviate le ragzze non più vergini dal Conservatorio dello Spirito Santo, divenne ben presto uno dei più importanti a Napoli in quanto non solo permettevano di soccorrere chi era in pericolo di perdere l’onore, ma cosa più importante impedivano alle madri prostitute di continuare ad utilizzare le figlie già deflorate come fonte di guadagno, di impedire loro di vendere quelle ancora vergini ed evitare che le madri, pur di riavere con di sé le proprie figlie rinchiuse nello Spirito Santo, togliessero loro stesse, raggirando segretamente i deputati dello Spirito Santo, la verginità a quelle più giovani: un terzo importante obbiettivo era anche quello di salvare la vita alle donne che erano in pericolo di essere assassinate alloro ritorno in famiglia perchè avevano perso la loro verginità.
Pensate solo che in questo conservatorio entratono anche bambine di un’età ben al di sotto di quella stabilita: dalla visita dell’arcivescovo Gesualdo infatti sappiamo che almeno otto bambine erano state rinchiuse prima del loro quindicesimo compleanno, quando avevano anche solo nove anni. Anche le altre erano comunque molto giovani, mediamente avevano sedici o diciassette anni al momento del loro ingresso. Vennero accolte anche malmaritate: durante la medesima visita risultarono essercene nel luogo pio almeno cinque. Lo scopo ultimo sarebbe dovuto essere quello di dimettere e maritare le ragazze qui rinchiuse, sempre con l’ossessione però che le madri delle ragazze tramassero per combinare finti matrimoni allo scopo di riprendersi le figlie : tuttavia molte di queste donne furono molto spesso obbligate a rimanere nel conservatorio e a prendere i voti, come dimostra ancora una volta la visita del luogo pio e l’interrogatorio alle recluse, le quali dichiararono nella maggior parte di essere lì rinchiuse contro la loro volontà, di essere state obbligate a prendere il velo senza volerlo e di essere quindi “disperate”.
N.B. Il conservatorio del Rifugio si trovava nelle stanze inferiori del palazzo della nobildonna Costanza del Carretto Doria, dentro la casa degli Incurabili. Nel 1585 venne da lei acquistato il palazzo Orsini, su invito del Borla e di Felice Barrile, appartenente quest’ultimo ai Chierici regolari dei Signori di Sant’Arcangelo e suo confessore. Le cento convertite vennero quindi qui trasferite e fu loro imposto di indossare l’abito cappuccino. Una delle più antiche istituzioni di età moderna per ex meretrici.
Questo conservatorio fortunatamente non fu l’unico in citta ad occuparsi di arginare il fenomeno della prostituzione , Alla fine del XVII secolo esistevano infatti almeno nove conservatori in città specificatamente sorti per donne convertite e fondati nella maggior parte da nobildonne.
Un altro conservatorio deputato a questo ruolo fu per esempio quello di santa Maria del Buon Cammino, patrocinato della famiglia Venuti, nobile del Sedile di Porto, che dopo un iniziale progetto di erigere un conservatorio per orfane, divenne nel 1650 un luogo pio per donne pentite in alcune stanze sovrapposte all’omonima chiesa dove aveva sede una confraternita.
Il più importante e grande conservatorio napoletano per “donne cadute” fu certamente comnque quello delle Convertite degli Incurabili, fondato tra dopo il 1519 (la bolla di fondazione di Gregorio XIII è del 1583) dalla duchessa di Termoli Maria Ayerba, con l’approvazione di Maria Lorenza Longo, fondatrice del monumentale e famoso Ospedale degli Incurabili.
E poichè in quest’ultimo conservatorio per una propria regola non venivano accettate donne in discordia de’mariti e dei parenti” o pentite “di mala vita e senso ribelle” fu fondato, nel 1613, il conservatorio di santa Maria Succurre Miseris a Vergini da Ettore Caracciolo, Marchese di Barisciano, e da sua moglie la principessa di Stigliano, da Maria Caracciolo, Dorotea del Tufo e altre nobildonne. In questo luogo tutte quelle escluse del Pio luogo delle Covertite degli Incurabili potevano tenersi lontane dal peccato e dopo un noviziato ottenere i voti di religiose
Spesso a provocare il pentimento erano fenomeni naturali come le eruzioni del Vesuvio .In quella del 1631 molte prostitute“indurite et invecchiate nel peccato si convertirono abbandonando le lascivie e i lussi, alcune maritandosi, altre ritirandosi fra chiostri per mutar vita e cercar perdono dei passati errori”.
Fu una eruzione di particolare imponenza, il Giannone parla di “orribili eruttazioni, orride nubi”, che provocò gran terrore nella città che veniva fatta risalire al solito divin castigo contro la rilassatezza dei costumi e la corruzione pubblica. Dovettero scendere in campo il busto d’argento di San Gennaro e le Sacre Reliquie, seguiti dal Viceré, dalle autorità civile ed ecclesiastiche e da gran folla caduta “per eccesso di pentimento in eccesso di penitenza”. Per tre giorni consecutivi il Santo uscì dalla sua cappella nel Duomo ; fu portato al Carmine,a Porta Capuana e infine a Santa Maria di Costantinopoli. Finalmente quando il cardinale arcivescovo di Napoli Francesco Buoncompagno “col Sangue di San Gennaro liquefatto in mano ebbe fatto il segno della Croce verso il Monte, si videro le fiamme ed il fiume di lava scostarsi dalla città indietro, ed a voce di molti che fu visto S.Gennaro in habito pontificale benedicendo la città”.
Sarà Micco Spadaro ad immortalare la scena in uno dei suoi più famosi quadri.
I cronisti narrano altri episodi toccanti come quello di una prostituta che, talmentesconvolta e ravveduta dalla predica di un Gesuita “si spogliò tutta, e il spettacolo fu tale che commosse tutta l’udienza e il Predicatore steso (va inteso come stesso) afarle compagnia con abbondantissime lacrime di tenerezza …”.
In quel periodo l’idea che la grande eruzione del Vesuvio a Napoli e altre catastrofi come il terremoto fossero la prova del castigo divino per tutti i peccati commessi si diffuse molto in cittò . Sotto la pressione moralizzatrice e disciplinante della Controriforma, si condannarono la corruzione e la sregolatezza dei costumi sessuali e furono prese di mira in particolare le donne “pericolose” e le prostitute.
Alcuni conservatori nacquero infatti proprio sulla scia delle opere di predicazione che, in un momento così difficile e grave, erano più diffuse e numerose e avevano maggiore presa tra il popolo. Si pensava infatti che, moralizzando la società, Dio avrebbe perdonato i peccati degli uomini e avrebbe fatto cessare le calamità.
Fu per risposta a questa idea comune che nacque alla Pignasecca il conservatorio di Santa Maria del Presidio alla Pignatesca o santa Maria del Presidio delle pentite di san Giorgio
Quando infatti nel 1631 il Vesuvio eruttò, terrorizzando la popolazione partenopea, anche l’attività di predicazione dei “Pii operai di s. Giorgio”, fondati da Carlo Carafa, si intensificò. In particolare questa confraternita, insieme a Carlo Carafa stesso e Francesco Celentano, si recava nei postriboli pubblici per convincere le meretrici ad abbandonare il ‘mestiereʼ. Nacque allora, in seno a questo gruppo di uomini, l’idea di fondare un nuovo conservatorio: attraverso larghe elemosine fu loro possibile acquistare una casa vicino alla chiesa di san Giorgio maggiore, dove vi rinchiusero le prostitute che vennero vestite con l’abito del Terz’Ordine di san Francesco. La casa venne poi mantenuta economicamente da benefattori privati e soprattutto dal cardinale Buoncompagni, il quale assegnò all’opera la rendita di 40 scudi mensili. I primi benefattori erano artigiani, che ricoprivano nel conservatorio anche l’incarico di deputati. Con l’accrescersi progressivo del numero delle ospitate, i locali si rivelarono ben presto troppo esigui; si decise perciò di trasferirle nel maggio 1634 in un’altro edificio acquistato con l’aiuto dei benefattori al prezzo di 2700 ducati. In questa casa le donne restarono fino al 1638, quando Andrea Pironti donò all’opera un comprensorio di case alla Pignasecca, rilevate dal conservatorio di santa Maria Visitapoveri. Verso il 1652, a seguito delle discordie tra i governatori e i padri pii Operai, il capitolo laicale si sciolse e l’opera, già volta al monachesimo, fu governata anche nell’amministrazione temporale dai padri piiOperai. Il sacerdote Andrea Pironti, fratello di uno dei primi governatori, nel 1657 spese 5000 ducati per acquistare un nuovo immobile alla Pignasecca dove le pentite e l’anno successivo le convertite, dopo l’autorizzazione del vescovo, vi si trasferirono. Vi risiedevano tra le 40 e le 80 donne recluse. A partire dalla fine del XVIII secolo tuttavia anche questo conservatorio si trasformò in ricovero di oblate e riceveva solo educande.
Nel 1631, anno dell’eruzione del Vesuvio un’altra confraternita istituita nell’antico tesoro di s. Gennaro dall’arcivescovo Buoncompagno, fondò un altro conservatorio femminile, indirizzato però ad accogliere le vagabonde, le mendicanti e le giovani vergini senza mezzi di sostentamento: la casa situata nel quartiere di Capuana venne chiamata conservatorio di San Gennaro a Materdei, dall’omonima confraternita artefice della sua erezione.
Esistevano a Napoli poi altri due conservatori, l’uno che ospitava insieme a monache anche malmaritate, il conservatorio della Vergine delle Grazie a Mondragone, e l’altro malmaritate e vedove, insieme ad altre categorie di percolanti, che era quello delle Ritornate dell’Annunziata.
Nel Settecento fu infine fondato (nel 1703) da alcuni religiosi anche il conservatorio di santa Maria dei Sette dolori per rinchiudervi le prostitute e, molto probabilmente anche le donne che avevano contratto matrimonio clandestino ed erano in attesa della loro regolamentazione civile.
N.B. Vi era anche un conservatorio per sole vedove, quello di san Benedetto e santa Margherita.
CURIOSITA’: Molti reclusori per meretrici pentite si trasformarono nel tempo in monasteri i un ordine religioso femminile che richiedeva una consistente dote d’ingresso e che non prevedeva più l’accoglienza di “convertite. Un aspetto significativo di questa trasformazione delle finalità dei conservatori è rappresentato dalla diffusione a Napoli dell’oblatismo. Le oblate prendevano una sorta di voti non perpetui con una dote più modesta di quella monacale, e spesso erano le stesse recluse che permanevano tutta la vita nel conservatorio. Altre volte gli istituti si trasformarono, nel XVIII secolo, in collegi, dove si impartiva un’educazione religiosa per figlie dell’elite borghese o di commercianti e artigiani benestanti.
Il fenomeno della prostituzione , come avete avuto modo di capire era quindi era un problema molto sentito in città, ma la cosa più curiosa ed incredibile è quella che mentre qualche nobildonna cercava di arginare il fenomeno e qualcun’altro invece disgustato da tale scenario ostegiava la presenza delle meretrici e dei loro sfruttatori avanzando continue petizioni alle autorità chiedendone l’espulsione di queste dalla città, i governanti locali pensarono addirittura ad un certo punto di guadagnare sulla prostituzione in città .
Dal 1401 le meretrici furono quindi addirittura tassate con una gabella e dal 1530 per combattere questa forma di degrado, le autorità decisero di schedare tutte le prostitute in attività, ed incredibilmente tassarle con una nuova gabella che variò nel tempo e che sarà abolita solo nel 1640.
Chi esercitava la prostituzione venne obbligate dal 1532 addirittura ad iscriversi in un apposito albo con sanzione di una pena pecuniaria da devolversi a “…chi l’accuserà guadagnerà la quarta parte della pena e sarà tenuto secreto“. Chi voleva sottrarsi alla gabella “have da vivere con un homo solo e non più“…
CURIOSITA’ :Nel 1750 , la Torre del Mascho Angioino più vicina al mare denominate “la Torre del Beverello “venne quasi completamente ristrutturatacon i proventi dela gabella applicata alle prostitute ed ancora oggi se guardate bene sopra parti delle pietre vi si vede intagliata la figura delle parti vergognose delle donne. In quel periodo dove il popolo napoletano aveva già subito pesanti tasse e vessazioni, il Viceré Pedro Alvarez de Toledo .per raccogliere i fondi necessari all’interento di riqualificazione della Torre , pensò bene di risolvere il problema finanziario in modo molto inusuale, applicando una tassa straordinaria a tutte quelle prostitute che all’epoca si riunivano al Largo Baracche. Le prostitute che si associavano ai soldati spagnoli erano tenute a cedere ben tre quarti del loro compenso a questa nuova tassa. Il Viceré, con questa mossa inusuale ma efficace, riuscì a raccogliere i fondi necessari per completare la ristrutturazione della Torre del Beverello , ma da quel giorno in poi, la Torre del Beverello divenne nota come “Torre dellu Maluguadagno. Le prostitute infatti , date le elevate tasse pagate, iniziarono a considerare l’area sottostante il bastione come di loro proprietà per esercitare il loro mestiere.
Periodicamente, anche per il diffondersi delle malattie,veneree tra cui la sifilide, definita “mal francese” le Autorità procedevano alle retate. Le prostitute venivano arrestate e condannate a pene crudeli e umilianti tra cui il taglio dei capelli, la fustigazione, il marchio a fuoco e il cavalcare un asino per i vicoli affollati.
Dal 1600 fu istituito per loro presso il carcere della Vicaria la Casa della Penitenza, “alle quali si taglino i capelli per mortificazione; e si faccia vestire una veste di lana; non permettendo a quelle parlare con niuno, detenendole con molta strettezza e riconoscimento, e con ubbidienza a chi le governa, senza perdersi il rispetto; acciocchè vengano in conoscimento di Dio, e cerchino misericordia e perdono delle loro colpe, …”.
I bandi riguardano non solo le meretrici ma anche i loro sfruttatori :
“Si ordina e comanda a tutti i Ruffiani, che tengono donne da partito di qualsivoglia Nazione si siano, che fra il termine di dieci dì dopo l’emissione e pubblicazione del presente Bando in avanti computando si debbano partire ed uscire da questa città di Napoli e questo Regno, ed in quello non tornare senza espressa licenza di Sua Maestà seu di detto Illustre signor viceré, alla pena di essere posti in galea ed in quella stare ad arbitrio di detta Maestà ovvero di detto Illustre viceré. E le dette i meretrici seu donne da partito non osino ne presumano per qualsivoglia modo publico né secreto tenere Ruffiani, né a quei sovvenire né sostentare sub poena di esser vituperosamente frustate per Napoli o altro luogo di questo Regno dove si troveranno e d’esser perpetuamente scacciate da detto Regno e bollate in fronte. Datum Neap: In Castronuovo die 29 Junii 1507”.
Nel 1671 a far parlare di se tra le varie meretrici spiccava la bellissima Giulia de Caro da Viesti sul Gargano, detta Ciulla. I contemporanei raccontano del suo fascino provocante e sensuale che la portò nel 1671, dopo burrascosi trascorsi, a primeggiare nei teatri napoletani.
Dai documenti ufficiali risultava “Comediante Cantarinola Armonica Puttana”. Migliorando nella sua carriera passò dal duca di Maddaloni a don Antonio Minutolo, acquistò col denaro di un suo amante, il marchese di Caggiano, il teatro di San Bartolommeo e, mirando sempre più in alto, divenne amante del viceré marchese d’Astorga ma, commettendo un errore di valutazione, si diede anche al nipote Pietro Guzman il che le costò l’esilio nel casale di Capodimonte . Morì nel 1695, dopo avere lasciato il mestiere da venti anni, il ricordo era così vivo che Domenico Confuorti ne lasciò un crudele epitaffio funebre. “E’ morta … la famosa un tempo puttana e canterina Giulia de Caro che pria di maritarsi fu il sostegno del Bordello di Napoli … è stata seppellita miseramente, … solo con quattro preti, una che al tempo del suo puttanesimo dominava Napoli et sic transit gloria mundi!“.
La presenza delle meretrici e dei loro sfruttatori in quel periodo non accennava a dminuire … le proteste dei cittadini continuavano ad aumentare anche per il diffondersi della sifilide che si contraeva con estrema facilità: a Napoli lo chiamavano ” lo male francese” , a Parigi ” mal de Naples” ( , o “mal napolitano”) in un reciproco scambio di accuse senza senso.
La verità è che la malattia era sempre esistita in forme attenuate ed ebbe una forte recrudescenza anche per la licenziosità dei costumi dell’epoca.
La sifilide , chiamata all’epoca anche peste venerea , esplose in forma epidemica in città nel 1496 mietendo numerose vittime , dopo la venuta a Napoli dell’esercito francese di re Carlo VIII costituito per buona parte da mercenari provenienti da ogni dove ( fiamminghi , svizzeri , spagnoli , italiani ) e sopratutto con il seguito di alcune centinaia di prostitute destinate al sollazzo dei soldati ( fu per questo chiamata a Napoli ” lu male francese”).
La tremenda malattia che si trasmetteva con i rapporti sessuali ,veniva vista come il simbolo del peccato ,ed agli orgogliosi francesi non faceva certo piacere essere considerato il popolo che per primo aveva trasmesso una micidiale malattia poi diffusasi in tutta Europa e visto che la malattia ad esplodere per prima in forma endemica fu nella citta’ di Napoli , la chiamarono ” mal napolitano “.
N.B. Solo successivamente fu prima chiamato ” lue” ( dal greco sciolgo ) e poi sifilide ( da un poemetto di Girolamo Fracastoro , il cui protagonista , il giovane pastore Siphilus , dopo avere offeso il Dio Apollo , venne punito dallo stesso con una terribile malattia deturpante sconosciuta a tutti e caratterizzata da immonde piaghe . Questa misteriosa malattia che ricordava nei sintomi il tremendo morbo che afflisse Siphlius fino alla morte diede allora il nome alla malattia .
La malattia si diffuse in città colpendo numerose numerose persone anche perchè favorita dal diffuso fenomeno della prostituzione ( femminile ma anche maschile) che in quel periodo raggiunse dimensioni preoccupanti in città. Pensate che il solo numero di prostitute registrate era pari a circa tremila ragazze ( spesso tra i 12 ed i 16 anni ).Le clandestine invece sembra che erano circa il doppio. Il quartiere a luci rosse della citta’ sorgeva in quella contrada fuori Porta Capuana , tra Poggioreale e il borgo di Sant’ Antonio Abate
Pensate per avere idea del fenomeno che nell”Ospedale di Santa Maria della Fede che si trovava vicino all’attuale Corso Garibaldi , era presente una struttura che arrivo’ ad ospitare e cercato di curare un numero di circa 450 giovane ragazze ricoverate contagiate e affette dalla sifilide . Esso per secoli è stato un importante un punto di riferimento per le donne affette da malattie a trasmissione sessuale (sorge oggi l’istituto tecnico Alessandro Volta).
Il fenomeno del Meretricio e delle sue complicanze assillo’ Napoli per molti anni in quel periodo raggiungendo livelli allarmanti . In città sorsero ben 60 istituti dedicati all’assistenza e alla cura dei tanti malati affetti dal morbo. La terapia piu’ a lungo usata fu quella a base di Mercurio somministrato sia in pomata che attraverso bevande o infusi vari associata a quella dei bagni sudatori, ma solo il 30 % delle persone riusciva a salvarsi ( e non certo per il mercurio ) .La malattia e la sua emergenza endemica rientrera’ ma non del tutto secoli dopo e solo con la scoperta degli antibiotici
Con l’aumentare dell diffusione della malattia nacque l’esigenza di costruire una nuova grande struttura per accogliere gli infermi più grande e sopratutto situato in un posto migliore .
Il luogo scelto dalla nobildonna Maria Longo fu la collina sacra di Caponapoli dove abitualmente ci si recava in religioso silenzio a pregare nella chiesa di Sant’Aniello e nei numerosi monasteri e conventi presenti . Per la sua sacralità questa collina che aveva visto i sepolcri di Sant’Aniello e Santa Patrizia , era infatti divenuta lentamente nel tempo un importante punto di riferimento per coloro che ammalati chiedevano miracoli e cure .Un luogo di preghiera e di accoglienza per la cura dei corpi e delle anime.
CURIOSITA’: La nobildonna Maria Longo aiutata dalla sua grande amica Maria Ayerba ( duchessa di Termoli ) e da altri generosi finanziatori , per fronteggiare il terribile male della sifilide che maggiormente affliggeva il popolo che all’epoca era ritenuta incurabile e mortale ,dopo lunghe fatiche nel 1510 riuscì finalmente a coronare il suo sogno ed a costruire un nosocomio per assistere gli infermi, motivo per cui l’ospedale venne chiamato degli ” incurabili “. Nella bella cappella dei Bianchi presso lo stesso cortile del complesso degli Incurabili ( piu’ nota come Santa Maria Succurrere Miseris ),è ancora oggi presente una particolare impressionante statua in cero plastica denominata ” la scandalosa”.
Essa serviva da monito per le tante ragazze che allora si dedicavano alla prostituzione e rischiavano , vittime della sifilide di essere ricoverate agli Incurabili . La scultura mostra infatti le devastazioni provocate dalla malattia sul corpo di una giovane donna .
Dopo l’Unità d’Italia si cercò di porre un argine al dilagare delle malattie veneree aprendo i famosi casini, tenuti dallo Stato, che ne regolava l’attività e fissava le tariffe, dando poi l’appalto, come un qualsiasi genere di monopolio, ad un privato, la famigerata maitresse. Era quindi lo Stato in regime di monopolio a organizzare e gestire l’attività aprendo i famosi bordelli o case di tolleranza e fissando le tariffe in tre diverse categorie: prima, seconda e terza. Le tariffe praticate andavano dalle 200 lire delle case di lusso alle 50 lire nei bordelli di paese. Erano comunque anche previste tariffe particolari a tempo e la famosa doppia.
Nel 1891 Giovanni Nicotera stabilì che dalle finestre non ci si potesse più mostrare, per cui le persiane chiuse divennero un contrassegno delle case chiuse. le quali avevano comunque fama di arredamenti sontuosi, dal velluto alla seta e trattamenti particolari che facevano da contraltare ai bassi malfamati dove si praticavano amplessi veloci e per poche lire.
In città prima del 1958 si contavano più di 900 case di tolleranza, e quasi tutti avevano fama di arredamenti sontuosi, dal velluto alla seta e trattamenti particolari a tal punto che ne parlano entusiasti, non solo i viaggiatori del Grand Tour, ma anche intellettuali famosi nell’Ottocento e nel Novecento
Tutte le ragazze che vi lavoravano erano schedate e in possesso di un libretto sanitario che consentiva loro di lavorare e cambiare casa ogni quindici giorni. Era quello il tempo della guerra e degli Americani che carichi di dollari fecero esplodere il mercato ed il funzionamento del bordello era pressappoco così: Al pianoterra c’era un vano dove si entrava e si pagava la “marchetta” da consegnare in camera alla ragazza per la prestazione. Al primo piano invece c’era un grande salone dove si vedevano sfilare le “signorine” più o meno vestite. Ai militari veniva applicato uno sconto del 50 per cento, e c’erano agevolazioni per i giovanotti di primo pelo. Scelta la ragazza si saliva in camera dove di solito alle pareti erano affissi dipinti sacri. Nei bordelli di lusso le ragazze erano quasi tutte belle e gentili, servite, riverite e rigorosamente lavate dalle cameriere della casa. Unica condizione: dovevano garantire un certo numero di rapporti quotidiani pena la sostituzione. La provenienza delle ragazze di piacere era per metà cittadina, dai vicoli più bui e malfamati e per metà dai paesi del contado, dove spesso una fanciulla disonorata non aveva altra scelta che il bordello. Per lavorare bisognava iscriversi nei ruoli, ricevere una libretta ed entrare poi nel giro, che prevedeva un via vai in numerosi postriboli su e giù per l’Italia, cambiando luogo ogni sette, massimo quindici giorni. La prestazione delle ragazze veniva compensata con la famosa marchetta, un gettone forato al centro acquistato dalla maitresse e consegnato in camera prima del rapporto.
CURIOSITA’: La parola bordello deriva da un episodio legato in Francia a Filippo il bello nel XIII secolo . Egli con la speranza che la disponibilità di acqua per lavarsi tra un rapporto e l’altro fosse un ostacolo al diffondersi delle infezioni,aveva disposto che le prostitute dovessero esercitare il loro mestiere su barconi posti sulle rive di un lago o di un fiume, La parola bordello deriva infatti dal francese au bord de l’eau,(sul bordo dell’acqua).
Sembra inutile ricordare a questo punto che il “mestiere più antico del mondo” non fu mai estirpato per secoli nella nostra città . Tra le due guerre addirittura aumentò considerevolmente la frequentazione sia dei bordelli caserecci dei quartieri spagnoli, sia delle eleganti case di via dei mille e di Santa Lucia. L’ ultima guerra con l’arrivo degli Americani, carichi di dollari e sigarette, fece addirittura esplodere il mercato aumentando l’offerta con le signorine che si vendevano per contrastare i morsi della fame; è la triste epoca delle tammurriate nere e del meretricio praticato in centinaia di bassi, magistralmente descritto da Malaparte nella Pelle.
L’arrivo degli Alleati che poteva rappresentare la svolta, per una città in lotta per la sopravvvivenza si rivelò infatti presto un vero disastro. I famosi liberatori americani requisirono infatti sin dal primo momento quasi 15mila alloggi per ospitare i nuovi padroni della città. Stessa destinazione avvenne anche per edifici pubblici come il Teatro San Carlo, Palazzo reale o il Museo nazionale, che divennero sedi di uffici.
Gli angloamericani dietro la loro facciata di liberatoti , spesso si comportavano più da conquistatori che da alleati-liberatori. E il capitano americano John Burns, autore del romanzo storico La galleria, ammetterà poi: “Ricordo i delitti che commettemmo contro gli italiani come li vidi a Napoli. Promettemmo loro sicurezza e democrazia, ma li disilludemmo completamente“.
Con le sue famose quettro giornate la nsotra città , pagò un prezzo enorme per mostrare all’ intera Italia la strada da percorre. . La fine della guerra avvenuta nel maggio del 1945, mostrò un bilancio terribile : migliaia di famiglie napoletane in lutto , un terzo degli edifici in macerie, il porto distrutto, mancanza di gas, carenza d’acqua e di viveri, condizioni igieniche pessime e tifo petecchiale insorto per la promiscuità nelle affollate cavità sotterranee adibite a ricoveri pubblici.
Napoli alla fine del conflitto risultò essere stata la città più bombardata d’Italia (circa 200 raid di cui 120 a segno) e presto dovette subire nel dopoguerra un periodo pieno di angosce. Quando le truppe anglo-americane giunsero in città il 1 ottobre poterono entrare in Napoli senza sparare neanche un colpo e la nostra gente accolse il loro arrivo con esultanza tirando un sospiro di sollievo e sperando finalmente di voltar pagina .
Ma quello dell’occupazione anglo-americana fu un altro periodo caratterizzato da miseria , fame , macerie , assenza di ospedali , di nettezza urbana ed infinita tristezza Quell’atteggiamento diffidente e sprezzante degli Alleati , portò solo corruzione , contrabbando , prostituzione e ricerca di espedienti illeciti per sopravvivere che cancellarono ben presto come ogni occupazione il sogno che il nuovo venuto portasse benessere alla nostra città .
Per un lungo periodo i napoletani abbandonati dallo stato e come sempre lasciati a se stessi furono costretti a cavarsela da soli arrangiandosi alla meglio sotto il controverso controllo degli Alleati.
Così l’arte di arrangiarsi diventò la regola. I ragazzini si improvvisavano lustrascarpe dei militari americani e decine di loro, i cosiddetti “sciuscià”, si aggiravano tra via Roma e la galleria Umberto. “Non erano bambini, ma saggi“, li descrisse ancora Burns. “Vendevano sigarette, facevano i mezzani per le sorelle, rubavano tutto con destrezza. Erano decisi a non morire, possedendo la vitalità dei dannati. E ridevano di me. Noi conquistatori eravamo più sciocchi di loro”
La gente era alla fame e il mercato nero divenne una piaga. Esso era gestito da bande di piccoli camorristi in combutta con sottufficiali americani che cedevano merci altrimenti introvabili, sottratte ai depositi militari
A governare Napoli venne inviato il colonello americano Charles Poletti che a sua volta scelse come aiutante e interprete tale Don Vito Genovese , socio del famigerato Lucky Luciano noto boss di una delle cinque famiglie mafiose di New York, rifugiatosi in Italia per sfuggire a un processo per omicidio. Egli , passato opportunamente dalla parte degli antifascisti si era reso molto utile, grazie ai suoi particolari legami, per far sbarcare in Sicilia gli Alleati . Il boss ovviamente non si limitò al semplice esilio ma approfittando del razionamento dei viveri presente in città si adoperò per far instituire un commercio clandestino dei generi alimentari in città ( coperto dagli ufficiali americani che ne favorivano gli affari ). I loschi affari di Don Vito Genovese aprirono le porte ad un mercato clandestino enorme che fece fare un forte ulteriore salto ad una criminalità organizzata come la camorra , sopratutto quando ne divenne erede in seguito all’arresto di Don Vito e sua successiva estradizione negli Stati Uniti. Il boss fu sottoposto al processo che aveva cercato di evitare fuggendo in Italia,( durante il processo un testimone chiave morì avvelenato in circostanze “misteriose”) . Don Vito fu assolto dalle accuse per mancanza di prove partendo da quel momento alla conquista dei vertici della mala statunitense.
La camorra rinvigorita dal narcotraffico instaurato con le cosche statunitensi guadagnò sempre più potere e conseguente influenza sia nel tessuto sociale della plebe che negli ambienti politici decisivi dell’amministrazione. Lo stato italiano preso finalmente atto del potere acquistato dalla camorra pensò a quel punto di porvi rimedio nel 1956 attraverso una incomprensibile legge che mandava in esilio ( soggiorno obbligato ) al confine settentrionale tutti gli accertati delinquenti . Essa aveva l’intento di allontanare i malavitosi dalla sua terra di origine nella convinzione che al Nord non sarebbero riusciti a ricreare una rete criminale. E invece la stupida legge divenne un terribile boomerang . A Milano e nei centri limitrofi furono relegati circa 400 uomini delle cosche sopratutto calabresi che sfruttando le convenienti condizioni economiche del florido periodo postbellico e la maggiore autonomia d’azione rispetto alle lontane zone di origine, fecero di quei luoghi dei veri e propri quartieri generali del crimine organizzato.Nuovi rapporti nacquero tra mafiosi e imprenditori lombardi e ben presto il capoluogo lombardo divenne uno dei mercati più floridi ed importanti per il traffico ed il consumo di stupefacenti con rinnovata nuova possibilità per i clan di acquisire ingenti capitali e liquidità utile a creare importanti legami con l’imprenditoria e la politica del posto .La camorra allargò così il suo potere all’intera Italia. Il resto è storia .
Nei primi anni del dopoguerra erano ancora parecchi i Napoletani a vivere nei ricoveri (20000 circa, in compagnia d’insetti e pidocchi, senz’acqua e cure sanitarie), la distruzione , sopratutto nei quartieri popolari, era ancora lì a mostrarsi attraverso facciate scricchiolanti di palazzi svuotati da una bomba. In questo triste contesto caratterizzato da fame , poverta , distruzioni della guerra , malattie e ,permanenza dei militari stranieri . Napoli si trasformò ben preso in un immensa “casa aperta” .Le donne iniziarono a concedersi anche per un pezzo di pane, dato che il pasto precedente era stato a base di bucce di patate e da relazioni occasionali e temporanee incominciarono a nascere i figli della guerra, di cui solo pochi conosceranno i loro padri, che guarderanno sempre e solo in fotografia.
NB: Alcuni dettagli raccapriccianti,di questo triste fenomeno ci vengono raccontati da Curzio Malaparte nel suo bellissimo film “La pelle”.
Il cronista e scrittore Norma Lewis raccontò di cifre come quarantaduemila donne che esercitavano, occasionalmente o con regolarità, la prostituzione in città . Le ragazze carine finivano quasi tutte per fare l’entreneuse nei night e negli alberghi di via Medina, lavori ritenuti come tanti altri e mai sconvenienti.
Si iniziarono a vedere come racconta celebre,anche donne incinte che presto avrebbero partorito un bambino di un altro colore.
Certo … storia dei “figli della guerra” è una storia allegra e malinconica di una città che corrompe e si fa corrompere, storia di gente comune che lotta contro la fame, storia di una città che sfrutta i suoi liberatori, una storia di Napoli, una storia della vita, ma tutta l’Italia, dopola guerra divenne un puttanaio.
La nostra nazione appena uscita dalla crisi della guerra, si concedeva qualche “vizietto”.nella varie case di tolleranza. Non c’era vergogna e neppure reato a frequentare quei posti così ben curati. Non si faceva solo sesso, qualcuno richiedeva anche solo un bicchiere di vino in compagnia di una elegante signorina che con savoir faire concedeva momenti di puro piacere. Le stesse non lavoravano sempre nello stesso Casino, ogni quindici giorni cambiavano locale per evitare legami affettivi con gli avventori.
La città partenopea in quel periodo era florida di bordelli adatti a tutte le tasche, Si narra che le case di tolleranza (molte illegali e relegate fuori dalle mura)erano addiritturra più di 500 . Le tariffe praticate (le famose “marchette”) andavano dalle 200 lire delle case di lusso alle 50 lire nei bordelli di paese.
Nei vicoli di Napoli, tra sacro e profano, altarini votivi a santi e Madonne si alternavano alle case della maitresse e delle sue signorine. Nel centro storico il piacere abitava a via Chiaia, dove c’erano i bordelli di lusso frequentati dai nobili locali, e ai Quartieri Spagnoli presso gli acquartieramenti della truppa dove si offrivano servigi modesti.
N.B. In quegli anni era uso comune delle tenutarie delle case chiuse , ogni domenica mattina portare in giro a via Chiaia e via Toledo le proprie ‘ ragazze’ a bordo di grandi autovetture scoperte allo scopo di propagandarne la bellezza ed attirare clienti .
Insomma in città dai Quartieri Spagnoli a Via Chiaia sorgeva il quartiere a luci rosse più grande d’Europa. In vico Sergente Maggiore sorgeva uno tra i casini più frequentati“Il Monferrante”, dove la sua maitresse aveva spirito imprenditoriale (si dice che per attirare la clientela anticipava telefonicamente le attrazioni della casa).
Su vico Sant´Anna di Palazzo al n. 3 sorgeva lo storico casino “La Suprema”, (l´attuale Chiaja Hotel De Charme ) che era certamente la più rinomata casa di Tolleranza della città. Qui i i facoltosi clienti attendevano Nanninella a´spagnola, Mimì d´‘o Vesuvio, Anastasia ‘a friulana e Dorina da Sorrento. Sempre su vico Sant’Anna di Palazzo , dal nome dell’ omonima chiesa distrutta , ebbe sede un’altrettanto famosa casa di tolleranza chiamata ‘il dollaro ‘ anch’essa regolarmente funzionante fino all’entrata in vigore della legge Merlin.
Anche i famosi gradoni di Via Chiaia nonostante un tempo fossero noti come mercato dei fiori , dovettero condividere con il vicino vicoletto la fama di luogo deputato alla prostituzione grazie alla vicinanza del porto e alle caserme militari degli ‘adiacenti quartieri spagnoli
In Via Chiaia l’edificio di fronte al civico 175 ospito’ ben 5 di case chiuse ( tale da meritarsi il nome di palazzo dei 5 casini ) .
Gli squattrinati invece andavano a Montesanto nella “casa delle tre vecchiarelle”, signore molto mature che regalavano piacere per pochi soldi, oppure ai Quartieri Spagnoli dove per poche lire si otteneva un quarto d’ora d’amore. Insomma Napoli offriva piaceri per tutti i gusti e per tutte le tasche.
Nell’attuale piazzetta Matilde Serao invece, facevano tappa fissa numerosi giornalisti mentre a Parco Comola Ricci, all’Internazionale, si recavano principalmente i militari, qui anche le prostitute spesso erano straniere. Nei pressi del rione Carità c’era il richiestissimo Casino degli Specchi.
CURIOSITA’: Nel ricovero bellico che si cela ad una ventina di metri al di sotto di piazzetta Augusteo,nel labirinto sotterraneo che si snoda tra via Toledo ed i Quartieri Spagnoli fatto di caverne, cisterne, cunicoli e pozzi che vanno a costituire una città sotto la città, si trova una piccola grotta, preceduta da un’area più grande, che fungeva da sala d’attesa, delimitata da sedili in pietra addossati alla roccia, Qui durante la Seconda Guerra Mondiale, la napoletana Filomena esercitava il mestiere più antico del mondo, nonostante le bombe, gli allarmi, le sirene e le fughe nei ricoveri. Lei con caparbietà non si è fermò ad esercitare il suo lavoro neppure davanti alla bombe e per “invitare” i suoi clienti, aveva tracciato un percorso con tanto di frecce e il suo nome trascritto con una suggestiva incisione “La signorina Filomena riceve anche in questo ricovero” . Tutto intorno all’alcova, per la precisione in una stanza attigua alla caverna scavata nel tufo, sono anche presenti un fioccare di parole d’amore incise sul muro da chi aveva avuto la fortuna di poter godere delle grazie della signorina Filomena anche per una sola ora. «Il vostro volto resterà per sempre impresso nei miei occhi», «Signorina, il vostro mistero riempirà per sempre il mio cuore» sono solo due delle numerose dediche d’amore che ancora campeggiano nel ventre di Napoli. Sarà stata la guerra, ma, allora, nel capoluogo campano, ci si innamorava anche dopo aver versato la quota dovuta per i servigi ricevuti.
Poi nel febbraio del 1958 arrivò la legge Merlin e con essa l’esercizio del meretricio divenuto ubiquitario incominciò a svolgersi prevalentemente sulla pubblica strada. Le ragazze furono date in pasto a magnaccia e delinquenti che resero la prostituzione una giungla senza regole e senza igiene e ridusse le ragazze in una condizione di schiavitù. Con la sua entrava in vigore la legge Merlin seppur nata con la lodevole intenzione di liberare le prostitute da un giogo secolare, non faceva altro che gettarle in pasto ai lenoni, mentre gli Italiani, come sintetizzava magistralmente il film di Totò, erano costretti ad arrangiarsi. Per pochi bacchettoni , difensori della morale fu una conquista civile di portata storica, per molti una inutile ipocrisia che renderà la prostituzione una giungla feroce senza igiene, senza regole, senza pietà.
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