” ……Il bel momento di quando apriamo il pacco di polistirolo per raccogliere la nostra mozzarella ( magari il pezzo grande e non il bocconcino ) richiusa nella sua busta ripiena di latte ( e non di acqua ) e’ unico e indimenticabile .Il colore bianco porcellanato , con crosta sottilissima e il suo sapore delicato sono vera delizia per la vista ed il palato.
Al taglio presenta una copiosa fuoriuscita di latticello dall’intenso profumo di fermenti lattici ed oltre alla forma classica tondeggiante può assumere diverse forme tipiche, quali ciliegine, bocconcini, nodini e trecce. “….
La mozzarella di bufala è uno dei più noti formaggi del mondo ed uno dei prodotti piu’ apprezzati sulle nostre tavole .
E’ inconfutabilmente un prodotto Campano, come tutti gli altri prodotti derivati del latte di bufala, o come la semplice mozzarella vaccina in passato chiamata solo “Fior di Latte”.
I primi documenti al mondo ad annoverare la produzione di questi latticini portano a Capua, Aversa, e tutta la zona della piana dei Mazzoni e del Sele.
Trattandosi di un prodotto fresco, una volta acquistata e portata a casa, sarebbe meglio consumarla subito per gustarne tutto il sapore ma, quando ciò non sia possibile, per conservarla al meglio seguire alcune facili accorgimenti: mantenerla sempre immersa nel suo liquido, fino al momento del consumo; conservarla in un luogo fresco (eventualmente, in estate, nel frigo a non meno di 12 °C, onde evitare che temperature più basse rompano la delicata superficie); conservare le buste integre ( per evitare di contaminare il liquido di governo e le stesse mozzarelle ivi contenute, sia con l’aria che con altri elementi ) a “bagnomaria” in acqua fresca (15 °C circa) d’estate e tiepida (18 – 20 °C circa) in inverno; se conservata in frigorifero a bassa temperatura, per gustarla meglio deve essere estratta dal frigo, tenuta a temperatura ambiente per circa 30 minuti e quindi immergerla in acqua calda (35-40°) per circa cinque minuti prima del consumo; per cucinarla, invece, va tolta dall’acqua e tenuta per alcune ore nel frigo, affinché possa separarsi dall’acqua in eccesso, guadagnando così la giusta consistenza.
Per consumarla nel migliore dei modi, una volta aperta la confezione, si rovescia tutto il contenuto (liquido di governo e mozzarelle) in una bacinella d’acciaio o ceramica, e ivi si lascia fino al momento della consumazione per evitare che la mozzarella, tolta in anticipo dal suo liquido di governo, si asciughi eccessivamente perdendo così la sua naturale morbidezza e lucentezza. Una volta messa nel piatto e tagliata per il consumo, la parte eventualmente restante non va mai rimessa nel liquido di governo per evitare il suo ammorbidimento e salatura eccessive.
Il sapore , la palatabilita’ e la particolare elasticita’ hanno finito nel dividere i consumatori tra i sostenitori della mozzarella dell’area casertana e di quelli dell’area salernitana ( Battipaglia e Paestum ).
La mozzarella aversana e’ piu corposa e salata mentre quella di Battipaglia e’ piu dolce e delicata
I nomi delle confezioni variano a seconda delle dimensioni : la mozzarella ( 200 grammi circa ) l’Aversana ( 500 grammi ) la treccia ( circa 1 chilo) .
I caseifici sono innumerevoli e la produzione varia da quella artigianale a quella industriale .
Le mozzarelle vengono anche divise in base alla loro zona di produzione .
Distinguiamo così’ la mozzarella “dei Mazzoni” il cui nome sta ad indicare la zona che va dal Volturno al Garigliano, ( Aversa, Mondragone, Carditello e tutta la provincia di Caserta e Napoli ,compreso il basso Lazio) e la mozzarella , della piana del Sele, ( provincia di Salerno, Paestum, Battipaglia fino a Foggia) .
Per mantenere più possibile la freschezza e la fragranza del prodotto, fino a qualche decennio fa si usava conservare le mozzarelle non nell’acqua di governo, ma in fogli di giunco e di mortella, disposte in cassette di vimini e di castagno. Oggi questa tradizione si è persa, ma resta vivo il ricordo: in Campania qualcuno richiede la mozzarella usando l’espressione “mazzo di mozzarelle”, come se esse fossero ancora chiuse in fasce di giunco.
Le bufale con le quali si ottiene il latte destinato alla produzione della mozzarella sono esclusivamente quelle della “razza mediterranea”, razza bufalina riconosciuta nel 2000 proprio grazie al millenario isolamento nel mezzogiorno d’Italia. I bufali si crede vennero introdotti dall’India dai Normanni, o dagli Arabi, anche se alcune fonti portano all’epoca Romana, e dove grazie al clima ed alle tante zone paludose presenti trovarono il loro habitat ideale.
Le bufale se allevate correttamente producono dagli 8 a 15 litri di latte al giorno .
Da un quintale di latte si ricavano 24 kg di mozzarelle .
Una volta raccolto il latte di due mungiture , lo si riscalda o lo si pastorizza e poi si aggiunge il caglio per la coagulazione . Si aspetta che la cagliata raggiunga l’acidità necessaria e la si trita . Si aggiunge acqua bollente , si mescola e cosi’ la pasta comincia a ‘filare ‘.
La filatura è la proprietà in virtù della quale una piccola quantità di cagliata, portata ad elevata temperatura, diventa plastica e può essere tirata in filamenti continui di lunghezza superiore al metro”.
Una parte della pasta filata viene staccata e immersa in acqua tiepida per essere amalgamata con un coccio di legno . Le mani esperte del casaro ne mozzano poi con destrezza al momento giusto una porzione ( da cui il nome mozzarella ) che forgiano a forma di palla e tuffano in una salamoia tiepida per alcune ore .
Sull’etimologia della parola mozzarella, quindi non sembrano esserci dubbi: come già accennato, essa è il diminutivo di mozza, (da “mozzare”) che altro non e’ se non la provatura , ovvero la provola ; infatti nei documenti più antichi molto spesso viene definita mozza, o provatura e solo così si chiarifica l’espressione del 1570 dello Scappi “mozzarelle fresche” (incomprensibile perché per noi la mozzarella è solamente fresca!).
Il piu’ antico documento sul quale appare il termine completo “mozzarella” viene per la prima volta citato in un libro di cucina pubblicato nel 1570 da un tal Bartolomeo Scappi, cuoco presso la corte papale che cita: “…capo di latte, butirro fresco, ricotte fiorite, mozzarelle fresche et neve di latte…”.
Se inizialmente il consumo di mozzarella era limitato alla zona di produzione, dalla seconda metà del ‘700 essa comincia ad essere sempre più presente sui mercati di Napoli, forse per la benefica influenza dell’impianto della Tenuta Reali di Carditello, in provincia di Caserta, dove la famiglia reale dei Borboni creò un allevamento di bufali e insediò anche un caseificio. Dopo la realizzazione di questo impianto, la mozzarella cominciò ad essere sempre più presente sui mercati di Napoli. Con l’unificazione d’Italia si venne a creare ad Aversa, fra Napoli e Caserta, la famosa “Taverna”: una specie di mercato all’ingrosso delle mozzarelle e delle ricotte di bufala che stabiliva quotidianamente le quotazioni in rapporto alla produzione e alla richiesta.
In Campania, solo a seguito dell’importazione del bufalo nel XIII secolo, s‘iniziò a trasformare il latte di questo bovino. Tale pratica si sviluppò su più vasta scala nel Seicento, fino ad arrivare all’attuale grande produzione .
In Campania , la mozzarella e’ sempre rigorosamente fatta con latte di bufala e non di vacca che invece e’ di pertinenza del Molise .
Va ricordato a tal proposito la tradizionale “scamorza molisana” : vero patrimonio di questa regione ( tale parola, deriva da “sca-mozza-re”, che significa appunto “privare di una parte “).
Al Sud già dal medioevo si consumavano tutti i prodotti caseari che oggi sono di largo consumo. La produzione casearia in queste zone era già conosciuta in passato grazie all’introduzione del bufalo nel territorio . Numerose sono le ipotesi sull’epoca di arrivo di questo animale, originario dell’India orientale. Secondo alcuni autori la bufala è stata introdotta in seguito all’invasione dei Longobardi, altri ancora sostengono che furono i Re Normanni intorno all’anno 1000 a portare il bufalo nel continente dalla Sicilia, dove era stato introdotto dagli Arabi.
Qualcun altro invece afferma che era conosciuto già in epoca greca e allevato in Italia fin dal periodo romano. Infine c’è chi sostiene l’origine autoctona di questo animale, e a supporto di tale ipotesi, vi è il ritrovamento di relitti fossili nella campagna .
In particolare, la bufala si afferma in Calabria, Puglia, Lucania e in Campania, dove si diffonde con grande facilità nel basso Volturno, soprattutto a seguito del suo processo di impaludamento. Questo animale diventa il padrone incontrastato delle paludi a partire dal XIII secolo, quando all’impossibilità di destinare quei terreni si aggiunge il flagello della malaria, che provoca uno spopolamento progressivo di quelle zone. A quei tempi il bufalaro teneva gli animali sempre allo stato brado o semiselvatico e spesso li utilizzava, per la loro rustica costituzione, per arare i terreni più compatti, o come animali da soma nelle zone acquitrinose, dove i loro zoccoli lunghi e larghi non affondavano troppo. Ma, sopra ogni cosa, le bufale erano preziose per la produzione di latte: ogni mattina, infatti, dopo averle radunate presso i centri aziendali, detti “lestre” o “procoi” o, più genericamente “pagliare”, i bufalari, chiamandole per nome, le facevano avvicinare al recinto dei vitelli e le mungevano.
In principio, il latte di bufala veniva trasformato nello stesso locale in cui veniva munto. Solo a partire dal 600, si passò a lavorare nelle bufalare, caratteristiche costruzioni in muratura, dalla forma circolare con un cammino centrale, intorno al quale, sotto l’occhio esperto di un mastro casaro, il latte diventava formaggio, caciocavallo, burro, ricotta, e soprattutto provola.
Dalla sua professionalità, dipendeva la qualità della mozzarella.
Inizialmente sembra che venissero prodotte quasi esclusivamente ricotte e provole, queste ultime pure affumicate, perché si conservavano di più e potevano essere trasportate anche lontano.
La mozzarella, invece, per la sua deperibilità veniva prodotta in scarsa quantità e consumata localmente: Ancora intorno alla metà dell’800 nella piana del Sele “…le mozzarelle non erano destinate al commercio ma si confezionavano per uso familiare e il latte bufalino serviva per la lavorazione di provole affumicate per salvaguardarne la crosta dal deterioramento…”(Migliorini).
In definitiva la mozzarella si configura in origine come un sottoprodotto della preparazione della provatura/provola, caratterizzata da una scarsa considerazione per la difficoltà di conservazione e di commercializzazione, date le peculiari caratteristiche di freschezza, e perciò destinata ad un circuito ristretto di raffinati degustatori. Potrebbe forse essere questa una delle ragioni, come sottolinea il Guadano, dell’assenza di questo latticino, e non delle provole, negli antichi presepi napoletani, in cui invece gli elementi gastronomici sono messi in grande rilievo e rispecchiano le tradizioni del popolo partenopeo.
Con la provola , la mozzarella è strettamente collegata, non solo perché ugualmente fatta con latte di bufala, (la provola rispetto alla mozzarella rappresenta un’ulteriore fase della lavorazione) ma perché il nome della mozzarella deriva da quello della provola o, più precisamente, da un nome di questa caduto in desuetudine.
La provola è ottenuta dalla trasformazione di latte crudo di vacca e l’origine del suo nome deriva, per l’appunto, dal fatto che era la “prova” cioè il campione che veniva immerso nell’acqua bollente per stabilire se la cagliata era pronta per la filatura. A differenza della mozzarella, non deve necessariamente essere consumata fresca, ma può essere conservata per un tempo maggiore e puo’ essere affumicata :, al termine della lavorazione, che prevede una fase di filatura più lunga rispetto a quella della mozzarella, la provola viene posta in un ambiente chiuso a contatto con fumo derivante da paglia umida bruciata per alcuni minuti. In questo modo acquisisce un sapore, un colore e un aroma tipico del fumo.