Prima di parlarvi del classico pranzo della santa Pasqua è fondamentale dirvi che c’è un aspetto legato alla tradizione da cui non si può transigere . A Pasqua non si può iniziare a consumare il pranzo senza prima la preventiva benedizione della tavola imbandita da parte del capo famiglia che dopo aver recitato insieme a tutti i commensali la preghiera specifica , intinge poi il ramoscello di ulivo raccolto durante la precedente domenica delle palme insieme all’acqua santa, benedice la tavola con tutte le pietanze e, ovviamente, i commensali ( non dimenticando mai di dare un po di acqua santa a chi in quel momento ha più bisogno di un po di fortuna ).
Questo momento, molto sentito e denso di significato speciale ha un significato speciale per qualsiasi napoletano di fede cristiana e ad esso non sono ammesse deroghe . Pertanto anche i più affamati devono attendere prima di poter iniziare a consumare i piatti.
La fellata napoletana, essendo un antipasto, si chiama anche “piatto benedetto” perché in genere si trova sempre sulla tavola al momento della benedizione, e solo dopo questo passaggio si può iniziare a servirsi dai vassoi comuni.
Il pranzo di Pasqua a Napoli da antica tradizione nella sua versione classica inizia sempre con la FELLATA , un antipasto fatto a base di salumi taglati a fette (salame napoletano , sopressata, prosciutto crudo , capocollo , pancetta, ) a cui si accompagnano vari tipi di formaggio sempre tagliati a fette, come ad esempio ricotta salata, provolone fresco, caciocavallo o anche formaggi stagionati e mozzarella, e infine le uova sode tagliate generalmente a metà , che vengono tutti accompagnato dal buon pane “cafone” ed un ottimo vino rosso.
N.B Il piatto di antipasti viene chiamato fellata ( in dialetto significa “fetta”, ) , perchè tutti gli elementi sopra citati non vengono mai serviti nella loro interezza ma serviti già tagliati. ( i salumi sono serviti già affettati, così come le uova sode servite a spicchi e la ricotta salata, tagliata in fette sottili con un filo di cotone ). La fellata è quindi un piatto di affettati. e poichè è il primo piatto a tavola che viene servito nel pranzo di Pasqua, esso è anche un piatto benedetto perché in genere si trova sempre sulla tavola al momento della benedizione, e solo dopo questo passaggio si può iniziare a servirsi dai vassoi comuni.
Questo tipico antipasto insieme al famoso casatiello , al tortano e all’immancabile mozzarella di bufala quasi sempre presente , rappresentano una sorta di celebrazione alla nuova stagione da poco entrata. Esso riprende infatti tutti gli elementi tipici della primavera come i formaggi e le e uova che vanno serviti con un rito ben preciso ; quello di unirli in un solo piatto e tagliati a fette .
Una delle regole fondamentali della fellata è infatti quella di non essere mai servita in singole porzioni . Per creare un senso di comunione e familiarità tra i commensali è indispensabile che tutti possano prendere la propria parte di da un unico piatto comune. Ciò significa, quindi, che dobbiamo preparare un grande vassoio dove possiamo riunire tutti gli ingredienti, provando ad alternare i salumi a spicchi di formaggio o a formare una doppia raggiera (prima con i salumi e poi con i formaggi, posizionando le uova sode al centro) di impatto cromatico,
La fellata come avrete capito non è un piatto qualsiasi . Esso nella sua semplicità racchiude un forte significato , Gli ingredienti che compongono il piatto non sono infatti del tutto casuali ma sono prodotti semplici e contadini, e racchiudono un particolare significato simbolico religioso, che i napoletani continuano a ravvivare, Pasqua dopo Pasqua.
Se noi concentriamo l’attenzione sui tre ingredienti di base cioè gli immancabili salame , ricotta salata e uova ci accorgiamo che tutti e tre hanno un significato simbolico che va oltre il loro sapore .
Il salame è elemento simbolo della ricchezza e della fertilità del terreno contadino, appena tornato in vita grazie alla primavera, e quindi ha un valore propiziatorio e di buon augurio anche per il futuro.
La ricotta salata per la sua consistenza dura particolare dura che deriva dalla maggiore sapidità, ricorda e invoca l’unione e la compatezza della famiglia o della comunione religiosa, in senso più ampio.
La ricotta è inoltre considerata un simbolo di abbondanza legato alla Pasqua, ma più in generale alla stagione primaverile, quando il latte ovino e caprino raggiunge l’apice della qualità .
Le uova , infine, sono un classico simbolo di vita e rinascita , a maggior ragione in riferimento alla Resurrezione di Cristo. Esse rappresentano da antichi tempi la rinascita e la protezione e sono quindi da sempre state uno dei doni più utilizzati dai popoli antichi.
CURIOSITA’ : I persiani consideravano le uova un segno di benvenuto alla Primavera, celebrata con riti per la fecondità.
La Fellata può essere considerata quindi uno dei più particolari, amati e ricchi antipasti napoletani, contendendo lo scettro pasquale a l casatiello e al tortano. Visto il suo alto significato simbolico se qualcuno esagera nelle dosi nel mangiarla non viene mai visto come un segno di maleducazione . Esagerare con le dosi di questo antipasto viene considerato infatti solo come auspicio di abbondanza.
Accanto alla classica ” fellata ” sono sempre presenti sia il Casatiello che il Tortano , due diversi ma apparentemente uguali dolci rustici tipicamente napoletani , Essi infatti sembrano uguali in quanto hanno lo stesso impasto esterno fatto di farina , lievito ,sale , pepe e tanta sugna , ma se ben osservate e poi li assaggiate hanno delle sostanziali differenze,
La vera differenza di queste due torte salate come sapete è legata , almeno da un punto morfologico sulla diversa disposizione delle uova, che vengono inserite sode e a pezzettini nel ripieno del tortano , ed invece sulla sommita della superficie esterna del casatiello ( quattro uova sode disposte a raggiera ben fissate con una croce di impasto ).
NB. E’ Indispensabile in entrambe le torte per dare un certo sapore e consistenza la presenza della sugna che ultimamente per ovvi motivi di dieta molti hanno preso la cattica abitudine di sostituire con olio , brurro e margarina . Ovviamente siete liberi di farlo ma dovete sapere che state certamente alterando quellio che è la vera essenza del classico casatiello o tortano napoletano.
Oltre all’aspetto esterno di cui vi abbiamo accennato , la loro pricipale differenza consiste nella diversa farcitura . Mentre infatti nel casatiello , il cui termine deriva dal latino caseum ( formaggio ),essendo sempre stata una torta essenzialmente povera , l’ingrediente principale , come lo stesso nome suggerisce è il formaggio con la sola l’aggiunti di qualche cicolo , il tortano mostra invece una farcitura siuramente molto più ricca . In esso oltre al formaggio tagliato a cubetti , sono normalemte infatti presenti salame e\o mortadella , delle uova sode tagliate a spicco ed alcuni ciccioli di maiale . Il tutto con su stesa e arrotolata una pettola di impasto che viene prima farcita di ogni ben di Dio.
NB. Le quattro uove sode disposte sulla sommità del casatiello , ben fissate con una croce di impasto ,vogliono simboleggiare la rinascita e la resurrezione di Cristo, mentre il tortano nella sua forma circolare con al centro un buco vuole simboleggiare la corona di spine che fu imposta a Gesù durante la passione.
E’ interessante notare che l’impasto del tortano quando viene allestito nel ruoto , subisce ad opere del cuoco una sorta di torsione che dài l nome alla torta rustica ; tortano deriva infatti dal latino ” torto “che significa ” ritorto “,
CURIOSITA’ : A Napoli , una persona insopportabile ed in genere poco attivo , si è soliti definirlo con il termine ” è nu casatiello “. In questo caso il riferimento non è legato al casatiello rustico di cui vi abbiamo raccontato prima ma è legato ad un tipo di casatiello orami quasi estinto : il casatiello dolce , una sorta di rustco che si preparava in genere prima di Pasqua e accompagnava poi i fine pasto , ma esso era così duro che non si ammollava e spugnavaneanche nella più bollente delle zuppe di latte.
NB. Se ben coperto in un luogo fresco e asciutto, il casatiello si mantiene anche per qualche giorno, assicurando così gustoso alimento non solo per il giorno di Pasqua ,ma sopratutto per l’immancabile scampagnata del lunedì di Pasquetta.
Ad aprire le danze del pranzo vero e proprio è la famosa minestra maritata il cui nome lo si deve all’unione tra carne e verdure, che in questo piatto si “maritano”, ovvero si sposano e mescolano insieme creando un piatto unico ricco e saporito. È una ricetta antica, che richiede una lunga preparazione : per prepararla in casa occorrono cicoria, scarola, verza, borragine e tutte le parti del maiale meno pregiate, compresi i tagli di scarto. Un piatto di recupero da gustare con il pane tostato, un tempo sostituito dagli scagliuozzi, delle frittelle di farina di mais tipiche della tradizione napoletana.
NB. In sua sostituzione a chi potesse non piacere la minestra maritata viene in genere riservato un primo piatto fatto di pasta al forno o tagliolini in brodo
Dopo questo matrimonio di sapori, si arriva ad un secondo a base di agnello che c’è chi lo prepara in padella con i piselli e chi invece lo prepara arrosto con contorno di patate nel cosiddetto famoso “ ruoto o furno “: in qualsiasi modo esso venga preparato e consumato dovete comunque sapere che mangiare Agnello a Pasqua è un importante simbolo della Pasqua cristiana.
La tradizione di consumare l’agnello deriva dalla Pesach (o Pasqua ebraica ) . Nella tradizione cristiana questo animale simboleggia infatti il sacrificio di Gesù. “. Egli èinfatti l’Agnus Dei, l’agnello di Dio della liturgia che per il Cristianesimo rappresenta il figlio di Gesù, pronto a sacrificarsi per la redenzione dei peccati dell’umanità.
CURIOSITA’: Il legame dell’agnello legame con la festività della Pasqua è descritto nella Bibbia, ed esattamente nel racconto della liberazione degli ebrei dalla schiavitù egizia. In questo episodio è descritto che prima di mettersi in viaggio per la Terra Promessa, ogni famiglia dovette sacrificare un agnello e segnare le imposte della propria casa con il sangue dell’animale, così che l’Angelo del Signore, giunto nella notte per fare giustizia uccidendo i primogeniti degli egizi, potesse riconoscere le loro abitazioni e risparmiare i figli degli innocenti. E sono proprio le sacre scritture a dare indicazioni circa la cottura: “Non lo mangerete crudo, né bollito nell’acqua, ma solo arrostito al fuoco con la testa, le gambe e le viscere”.
Prima di continuare credo sia necessario , vista la grande confusione che molti fanno , distinguere la differenza tra agnello e capretto.
Premesso che in questo caso la carne dell’animale che ha già brucato erba si presenta scura , grassa e con un sapore intenso che sa di selvatico ,bisogna subito dire che ovviamente la migliore carne ovina è quella del capretto o agnello che quando arriva al nostro tavolo , è stato fino a quel momento , nutrito esclusivamente con latte materno . In questo caso la carne si presenta rosa chiaro, appare tenera , ha un sapore più delicato , ed un bassissimo contenuto calorico .
Va da se quindi che il migliore agnello a tavola è quello comunemente conosciuto in alcune regioni italiane (in special modo Lazio) come abbacchio, che viene nutrito solo ed esclusivamente con latte materno ( quindi non ha mai brucato ) e viene abbattuto entro e non oltre le prime 4 settimane di vita . Esso è certamente il più costoso perchè in un certo senso più pregiato .
Il termine abbacchio deriva dal latino “baculus” che significa bastone ed indica il pezzo di legno al quale l’animale veniva legato durante il pascolo e con cui veniva poi ucciso. Ecco perché quando una persona è abbattuta, affranta o particolarmente giù di morale si dice “abbacchiata“.
Il corrispondente dell’agnello da latte ( abbacchio ) è la carne di capretto che quando viene servito a tavola , non aveva in vita ,raggiunto ancora il primo anno con un peso oscillante tra un minimo di 6 kg ad un massimo di 12 kg . La sua carne ,molto pregiata ha un colore bianco ed è caratterizzate da una grana finissima , un sapore intenso ed un tipico odore di latte. Anche questa carne come avete potuto capire è di ottima qualità ed ha un costo maggiore.
L’agnello che abitualmente mangiamo è , diciamo il piccolo della pecora ( il capretto è invece il piccolo della capra ) che ha già iniziato a brucare e normalmente quando viene utilizzato per essere portato a tavola ha un’età di 4-10 mesi ed un peso di circa 10 kg. Le carni si presentano grasse scure e con un sapore molto intenso (più l’animale ha brucato erba e più sono scure e sanno di selvatico). E’ovviamente venduto ad un prezzo più economico.
Ma con un buon compromesso potete trovare anche un agnello maturo che è stato nutrito fino al sesto mese solo e sempre con erba . In questo caso la carne è bianca ma più dura rispetto all’agnello da latte ed è caratterizzata da un sapore molto forte e peculiare.
L’ importante è che non vi facciate rifilare un agnellone ( animale adulto , il cui peso può raggiungere anche i 60 Kg ) per agnello di latte . Questo tipo di carne è più dura e adatta per essere consumata sotto forma di stufato o in umido. Insomma vi hanno fregato!
Un’ultimo consiglio . Ricordatevi che a Napoli il miglior capretto per tradizione proviene da Sant’Anastasia, e non perchè il capretto sia nato e cresciuto nel paese vesuviano ma perchè i commercianti locali di carne sanno selezionare i migliori capi di agnello e capretto con una competenza maturata nei secoli scorsi quando vigeva la pratica della transumanza delle greggi dai pascoli erbosi dell’Abruzzo, Molise e Irpinia . I macellai della zona , anche dopo la fine della pratica della transumanza , hanno mantenuto la competenza nella selezione e nel commercio dei caprini , per cui dire capretto di Sant’Anastasia equivale oggi a Napoli , dire il miglior capretto possibile reperibile sul mercato.
NB Ovviamente no dimenticate mai secondo tradizione di cucinare le immancabili costolette di agnello, cotte al forno e non fritte e ancor meglio se fatte alla brace .
Ad accompagnare l’agnello come pasto vi sono le immancabili e buonissime, “carcioffole arrustute, “cioè dei carciofi, arrostiti che nel capoluogo campano ancora oggi vengono ralvolta cotti ‘ncopp ‘a furnacella, quindi arrostiti su una fornacella a carbone. Per condirli vanno usati ingredienti come sale, pepe, aglio, prezzemolo fresco e olio extravergine di oliva
NB, A fine primavera questi ortaggi scompariranno, quindi laddove li troviate particolarmente saporiti è meglio farne incetta ora.
CURIOSITA’: Il carciofo particolarmente ricercato a Pasqua è quello Violetto ( detto anche di Schito ) che viene prodotto a Castellammare di Stabia, nella frazione di Schito. Esso è un carciofo che si raccoglie proprio tra Marzo e Maggio e ha il colore delle foglie tra il verde e viola. Nei giorni di Pasque e pasquetta viene generalmente cotto per mezz’ora alla brace e poi ripulito delle foglie bruciate e condito con sale, pepe, prezzemolo, aglio fresco e olio.
In una sua variante esso viene anche mangiato ‘mbuttunato , cioè stufato, privato delle foglie esterne più dure e riempito di formaggi, salumi uova, sale, pepe, parmigiano grattugiato, prezzemolo e pane vecchio bagnato.
Sulla tavola pasquale sono comunque immancabili , sopratutto alla fine del pasto le fave del Vesuvio .
La tradizione vuole che ad essere consumate nel periodo pasquale siano proprio le fave del Vesuvio perché la coltivazione sul terreno vulcanico ricco di minerali e a pochi passi dal mare attribuisce alle stesse un sapore particolare
Dulcis in fundo… la pastiera napoletana
A finire il classico pranzo pasquale è infatti presente in ogni pasto pasquale ,la nota e apprezzata oramai in tutta Italia ,l’irresistibile torta di grano o di riso nella sua più classica variante che ha antiche origini.. Si tratta infatti di un dolce pagano fatto di farina di grano e ricotta che veniva in tempi antichi offerta alla Dea Cerere ( Demetra ) per inneggiare alla Primavera .
Parliamo ovviamente della pastiera napoletana , uno dei simboli della cucina napoletana attorno alla quale ruotano moltissime leggende. Fra le più famose, quella della sirena Partenope, simbolo di Napoli , che secondo il racconto popolare, incantata dalla bellezza del golfo , emergeva ogni primavera dalle acque per offrire alla genti felici che abitavano il golfo , meravigliosi canti d’amore e gioia con la sua melodiosa e dolcissima voce . La leggenda narra che una volta la sua voce fu così melodiosa e soave che tutti gli abitanti ne rimasero affascinati e rapiti: accorsero verso il mare commossi dalla dolcezza del canto e delle parole d’amore che la sirena aveva loro dedicato.
A quel punto , la popolazione locale per ringraziarla di un così grande diletto, decise di offrirle quanto di più prezioso avessero. Sette fra le più belle fanciulle dei villaggi furono incaricate di consegnare sette ceste di doni alla bella Partenope: la farina, simbolo di forza e ricchezza della campagna; la ricotta, omaggio di pastori e pecorelle; e simbolo di abbondanza , le uova, che richiamando la fertlità rappresentavano il simbolo della vita che sempre si rinnova; il grano tenero ,e bollito nel latte come simbolo della fusione del regno animale e vegetale , l’acqua dei fiori d’arancio, e altri agrumi visto che la diffusione delle arance in quell’epoca era molto limitato in Europa: ( fatto, tra l’altro, che suscita non pochi dubbi sulla reale fondatezza storica della leggenda…), quale profumo della terra campana , le spezie, quale omaggio di tutti i popoli del mondo allora conosciuto ; ed infine lo zucchero, per celebrare la dolcezza del canto della sirena. Partenope gradì i tanti doni , e felice , si inabissò per fare ritorno alla sua dimora dove inebriata incominciò a mescolare tutti gli ingredienti al suono del suo soavissimo canto, finchè non creò questo unico e buonissimo dolce che superava in dolcezza il canto della stessa sirena.
Nel corso dei secoli , le sette fanciulle e le sette ceste offerte alla bella sirena con ricotta, farina, , uova, frutta candita, grano, , burro, e fiori d’arancio , hanno condizionato poi il modo di preparare la pastiera ..Le strisce sulla pastiera devono infatti , per un buon napoletano essere rigorosamente sette come gli ingredienti della pastiera mescolati insieme
La realtà storica sulle sette strisce è però un’altra, perchè non c’è nessun ricettario antico che indichi il numero preciso di strisce che vanno sulla pastiera e pare che le strisce di pasta frolla ha un ruolo ben preciso e non certo estetico: in forno la pastiera tende a gonfiarsi, il reticolato di frolla ne blocca la spinta, per questo motivo possiamo mettere tutte le strisce che vogliamo, una scelta che spesso dipende dalla grandezza della pastiera stessa.
Un altro racconto narra invece che la pastiera sia nata per caso, dopo che le mogli dei pescatori avevano lasciato durante la notte delle ceste con ricotta, frutta candita, grano, uova e fiori d’arancio come offerta per il Mare, affinché facesse tornare i loro mariti sani e salvi a casa.
C’è poi la storia della “Regina che non sorride mai”, soprannome di Maria Teresa d’Austria, moglie del re Ferdinando II di Borbone. goloso di natura, il re convinse la consorte ad assaggiare questa torta di primavera, che riuscì a strapparle il suo primo sorriso.
In città in epoca borbonica circolava per le strade una storia sulla pastiera che riguardava il re Ferdinando e sua moglie Maria Teresa d’Asburgo , una donna non si è distinta certo molto in quanto a simpatia in quegli anni. Pare infatti che Maria Teresa fosse molto viziata e abbastanza fredda, che odiasse la vita a corte del marito certamente non corrispondente alla buona etichetta di corte austriaca a cuii era stata abituata ed educata e sopratutto non sopportava il modo di fare del popolo napoletano , al punto che raramente pare si sia fatta vedere il pubblico. Essa seppur di nobile discendenza non sembrava appartenere alla classe nobile e non sopportava la vita di corte. Preferiva svolgere una vita chiusa nei suoi appartamenti, dedicandosi solo al cucito e ai numerosi figli. Era comunque una donna che non disdegnava però il potere e cercava di influenzare il marito, suggerendogli di agire sempre severamente e sopratutto usare il pugno di ferro con i suoi sudditi.
Ferdinando II, al contrario, amava stare tra la gente ed era famoso per le sue ghiottonerie e per i suoi svaghi. Secondo questa storia , in un raro evento, pare che Maria Teresa, si sia fatta convincere dal goloso marito ad assaggiare una fetta della mitica pastiera,. Nel concedersi questo assaggio la regina sembra che abbia per la prima volta in pubblico sorriso di fronte ad una pietanza popolare .
Ferdinando si accorse della gioia sul volto della consorte e pare che allo stesso tempo abbia esclamato davanti a tutti la seguente frase: “per far sorridere mia moglie ci voleva una pastiera, ora dovrò aspettare la prossima Pasqua per vederla sorridere di nuovo”. Sembra che proprio da qui nasca il termine “magnatell’na risata”, un tipico detto partenopeo che sollecita le genti all’ilarità.
L’origine della pastiera in città è comunque attribuita alle suore di clausure del Monastero di San Gregorio , in Piazza San Gaetano , nel centro dei Decumani .Quì , dove un tempo sorgeva un tempio dedicato a Demetra , le suore preparavano non solo la famosa pastiera , ma ogni anno a maggio , in onore del protettore , una famosa torta a base di rose e ricotta farcita con fragole, panna e cognac.
La pastiera è ancora oggi , un dolce molto legato alla tradizione pasquale, ed è una delle torte più apprezzate di Napoli rappresentando uno di quegli alimenti tipici della cucina casalinga. È infatti un dolce tipicamente realizzato a casa, più che in pasticceria e spesso con leggere differenze in ciascuna famiglia al punto che è spesso in senso bonario , pomo di discordia tra parenti ed amici ,rappresentando l’ oggetto di sfida nella preparazione e nel gusto ( ci si vanta spesso di fare la migliore pastiera ) . Essa è normalmente composta da una base di pasta frolla simile ad una crostata, farcita con grano, ricotta, zucchero, uova, frutta candita e aromi. Tra gli ingredienti come vedete vi è il grano, che a Napoli viene venduto già lessato e pronto per l’uso.
Beato in questa città da questo punto di vista chi ha ancora una mamma o una nonna che si cimentano con la preparazione o chi ha imparato a farla da sé, perché quella della pasticceria è buona, ma la pastiera fatta in casa che ricorda quella della nonna o della mamma è ancorapiù buona .
Accanto alla pastiera quella che spessa non manca è certamente anche la classica cassata siciliana nata originariamente per celebrare la Pasqua dopo i sacrifici quaresimali . I suoi decori barocchi, e sontuosi svelano comunque la sua vera derivazione che in realtà è di origine araba: il suo nome deriva infatti dal vocabolo arabo “Quas’at“, che significa bacinella , scodella grande e tonda, e la ricchezza dei suoi ingredienti rispecchia le caratteristiche della cucina saracena, che ama armonizzare sapori contrastanti, come il Pan di Spagna ripieno di ricotta impastata con zucchero e pezzetti di cioccolato. La presenza di dolce sulla nostra tavola è il risultato dei tanti scambi culinari che diventarono particolarmente intensi sotto il regno di re Ferdinando che a causa dell’arrivo dei francesi si trasferì per ben due volte in esilio in Sicilia , trattenendosi la seconda circa 10 anni.
Altro importante simbolo della Pasqua sulla nostra tavola è ovviamente anche il dolce che ricorda la colomba ,da sempre considerata simbolo di pace .
La colomba pasquale si ricollega, infatti, all’episodio della Genesi in cui si parla del diluvio universale:alla fine del diluvio fu proprio la colomba infatti a tornare da Noè, portando nel becco un ramoscello d’ulivo a testimonianza dell’avvenuta riconciliazione fra Dio e il suo popolo il che segnava la fine del castigo divino e l’inizio di una nuova epoca per tutta l’umanità. Ecco perché la colomba che vola in un cielo azzurro, con l’ulivo nel becco rappresenta in tutto il mondo il simbolo della pace.
Il dolce pasquale a forma di colomba, consumato al termine del pranzo di Pasqua, nasce come tradizione, verso la metà del VI secolo . La storia racconta che il re Alboino , sovrano dei Longobardi , sceso in Italia con le sue truppe, dopo un terribile assedio durato ben tre anni, riuscì infine finalmente ad entrare ed occupare la città di Pavia , proprio nel giorno della vigilia di Pasqua.
Il re Alboino, prima di trafiggere gli abitanti con la spada e appiccare il fuoco alla città,decise di ricevere dal popolo stesso di Pavia, molti regali, in segno di sottomissione . Tra i regali vi erano dodici bellissime fanciulle destinate ad allietare le notti del re e mentre egli, sovrano feroce, ma generoso al tempo stesso, stava decidendo sul destino della città, si presentò davanti a lui un vecchio artigiano con dei pani dolci . Il vecchio s’inchino solennemente davanti al trono, ubicato nel sagrato della basilica e rivolgendosi con rispetto all’invasore disse: “Sire, sono venuto a porgerti queste colombe quale tributo di pace nel giorno di Pasqua”.
Il re assaggiò così i pani, che gli piacquero così tanto da indurlo a sentenziare: “Pace sia ! Rispetterò sempre le colombe , simbolo della tua delizia.” Il dono fatto dal vecchio pasticcere altro non era che un’astuta idea per salvare la città e i suoi abitanti. Quando Alboino infatti interrogò le giovani ragazze chiedendo loro il nome, tutte risposero di chiamarsi Colomba . Il re allora capì il sottile inganno, ma decise comunque di rispettare la promessa fatta e non solo risparmiò la città ed i suoi abitanti, ma accantonò la sua bramosia sessuale e rispettò anche le giovinette a lui donate.
Secondo altri invece la creazione del dolce pasquale a forma di colomba pare sia legata ad un’altra leggenda, che risale al tempo della famosa battaglia di Legnano del 1176 , quando i comuni Lombardi sconfissero l’invasore Federico Barbarossa . Si dice, infatti, che, proprio durante la battaglia, tre colombe bianche si fossero posate sopra le insegne lombarde. Esse furono considerate un segno divino alla vittoria poi avvenuta e per questo motivo solo dopo la battaglia si decise di creare in loro omaggio un dolce a forma di colomba.
Un’ultima leggenda vede come protagonisti nel periodo dell’Alto Medioevo la regina longobarda Teodolinda e il santo abate irlandese San Colombano. Essa avvenne durante il periodo di Quaresima attorno al 612, quando il monaco giunto a Pavia., venne per l’occasione invitato dai sovrani a un sontuoso banchetto, ma ahimè a base di selvaggina. Il frate , futuro santo, per non offendere la regina, superò con diplomazia la situazione affermando di voler benedire le carni prima di mangiarle. Durante il rito la selvaggina si trasformò in colombe di pane bianco. Il “miracolo” colpì così tanto Teodolinda che decise di donare al monaco il territorio di Bobbio, dove nacque l’Abbazia di San Colombano.
Non manca da noi , sulle nostre tavole , ovviamente anche l’uovo di Pasqua , prodotto in modo partigianale da specializzati laboratori di cioccolato presenti in città.
L’uovo di Pasqua ,considerato insieme alla Colomba un simbolo della festività cristiana , simboleggia infatti anch’esso la vita e la risurrezione di Gesù . Esso nella sua versione in dolce cioccolato rapprenta solo l’evoluzione di una vecchia tradizione precedente presente addirittura nell’antica Persia dove in concomitanza con le celebrazioni per l’arrivo della primavera, si era soliti augurare salute ed energia tramite l’ abitudine di scambiarsi il prezioso alimento .
Simbolo universale della rinascita e del Cosmo, era anticamente ricollegato al mitico uccello Fenice che, secondo la leggenda, prima di morire, preparava un nido a forma d’uovo. Qui la Fenice si adagiava, lasciandosi incenerire dai raggi del sole. Sulle ceneri nasceva l’uovo dal quale l’Uccello di Fuoco riprendeva vita. Mentre nei Paesi celtici del nord Europa si usava far rotolare le uova dalla cima di una collina per la festa di Beltane per imitare il movimento del sole nel cielo. La Chiesa Cattolica rimodellò il rituale per simboleggiare la pietra che rotola via dalla tomba di Cristo risorto.
Curiosita’: Alcune culture pagane consideravano il cielo e la terra come due parti che unite formavano un uovo. Gli egiziani invece ritenevano che fosse il centro dei quattro elementi: terra, aria, fuoco e acqua.
La tradizione divenne poi molto diffusa sopratutto in Egitto e in Grecia, mentre i primi esemplari decorati risalirebbero all’antica Cina. Nei Paesi a Nord del mondo, come le attuali Russia e Scandinavia, all’uovo sembra fosse connesso un significato legato al Cosmo: l’alimento rappresentava la continua rinascita del ciclo di vita, quindi lo si celebrava con forte sacralità ( molte uova in terracotta da sempre si rilevano in sepolcri dalla storia antichissima ). Nei Paesi celtici per simboleggiare l’uovo ed il suo rapporto con il ciclo della vita , si usava far rotolare le uova dalla cima di una collina per la festa di Beltane per imitare il movimento del sole nel cielo.
NB. La Chiesa Cattolica ovviamente rimodellò il rituale per simboleggiare la pietra che rotola via dalla tomba di Cristo risorto . L’uovo infatti somiglia a un sasso e appare privo di vita, così come il sepolcro di pietra nel quale era stato sepolto Gesù. Dentro l’uovo c’è però una nuova vita pronta a sbocciare da ciò che sembrava morto. In questo modo, l’uovo diventa quindi un simbolo di risurrezione.
Fu però nel Medioevo che il dono delle uova di gallina decorate cominciò ad affermarsi come tradizione pasquale e addirittura abbellito con metalli preziosi come l’argento , divenire un oggetto di lusso . Edoardo I ne commissionò 450 esemplari proprio in occasione della Pasqua. L’attenzione al lusso e alla preziosità dei materiali rimase intatta fino al 1800, con il famoso uovo di Peter Carl Fabergè : un esemplare di platino smaltato, contenente un secondo uovo in oro e due doni.
CURIOSITA’: La ricca tradizione dell’uovo di Pasqua decorato è dovuta all’orafo Peter Carl Fabergé, che nel 1883 ricevette dallo zar il compito di preparare un dono speciale per la zarina Maria. L’orafo creò per l’occasione il primo uovo Fabergé, un uovo di platino smaltato di bianco contenente un ulteriore uovo, creato in oro, il quale conteneva a sua volta due doni: una riproduzione della corona imperiale ed un pulcino d’oro. La fama che ebbe il primo uovo di Fabergé contribuì anche a diffondere la tradizione del dono interno all’uovo.
L’usanza dell’uovo di Pasqua ricoperto completamente di cioccolato, è invece più recente e secondo molti essa avvenne alla corte di Luigi XIV per poi estendersi in Francia e Germania già dai primi decenni dell’800.
I primi esemplari di uovo di Pasqua sembrano non fossero vuoti come gli attuali, ma completamente ricolmi: il dolce vuoto, affinché potesse contenere una sopresa potrebbe essere proprio nato in concomitanza con i preziosissimi esemplari di Fabergé.
Questa aggiunta, al suo interno, di un regalo è stata probabilmente la molla che ha fatto incrementare la sua popolarità in ambito commerciale, in particolar modo tra i più piccoli. Di fatti, fino a pochi decenni fa, la preparazione delle uova di cioccolato era di pertinenza di esperti artigiani cioccolatai, ma in tempi più recenti l’incremento nella richiesta ha reso necessario un processo a livello industriale che si è affermato con una certa imponenza nel corso del 900, con un boom a partire dal secondo Dopoguerra, grazie al lavoro dei cioccolatai francesi e svizzeri
L’uovo di Pasqua da noi in città continua ancora oggi ad essere una tipica tradizione delle festività pasqualiche viene in genere ancora consumato dopo il pranzo del giorno di Pasqua anche se purtroppo anche qui , nelle nostra città , la forte influenza commerciale ha anticipato i tempi di diverse settimane.
CURIOSITA’ : Fino a qualche tempo fa , l’uovo veniva conservato durante la Quaresima, a causa del digiuno, per venire poi consumato successivamente.