VINCENZO GEMITO fu uno degli artisti più rappresentativi della Napoli dell’epoca.

Personaggio particolare, ebbe una vita difficile, che lo portarono anche alla follia, che divenne una fonte incredibile della sua arte meravigliosa.

Vincenzo Gemito nacque a Napoli il 16 luglio del 1852 da ignoti che lo lasciarono nella ruota dell’Annunziata presso la Pia Casa dell’Annunziata (ruota degli esposti) ricovero per i trovatelli della città .

Aveva l’orecchio destro bucato da un cerchietto d’oro, e fu registrato all’anagrafe come Vincenzo Genito, che divenne poi Gemito per un errore di trascrizione.
Il 30 luglio fu adottato da una giovane napoletana, Giuseppina Baratta, cui era appena morto il figlio neonato e con lei visse gli anni dell’adolescenza adattandosi ai mestieri più umili: come apprendista di un fabbro, di un muratore e di un sarto e come garzone di un bar.
La madre adottiva sposò poi in seconde nozze il falegname Francesco Jadiciccio, un brav’uomo che lui affettuosamente chiamò “masto Ciccio” .

Lo ricorderà come un padre e un amico conservando tra le sue cose più care un ritratto che gli aveva fatto un giorno che erano rimasti soli .

Dimostrò precocissimo talento per la scultura e nel 1864 si iscrisse all’Istituto di Belle Arti dove conobbe i più importanti artisti dell’epoca; all’età di nove anni si presentò allo scultore Emmanuele Caggiano che lo prese a lavorare e vivere con sè.
A dodici anni lavorò poi presso lo studio di Stanislao Lista, e infine impianto’ il suo primo studio in uno stanzone abbandonato di S.Andrea delle Dame, diviso con l’amico Antonio Mancini .

La sua formazione fu comunque in buona parte quella dell’autodidatta.
La sua prima produzione furono bozzetti, per lo più terracotte, raffiguranti scugnizzi di Napoli e scene popolaresche: l’acquisto di una sua terracotta da parte del re d’Italia lo sbalzò alla notorietà a soli sedici anni.
Egli poté così iniziare a vendere una vasta serie di terracotte, bronzi e bronzetti “veristi” raffiguranti in buona parte bambini e adolescenti spesso nudi o seminudi.
Era una produzione erotica derivante in parte indubbiamente dai gusti dello scultore, ma anche al tempo stesso legata ad una grossa e sempre più continua committenza omosessuale borghese proveniente da tutta Italia ed in particolare dal Nord.

A questo periodo comunque risalgono le sue prime importanti opere, tra cui Il Giocatore, acquistata da Vittorio Emanuele II, il Malatiello e il famoso busto di Giuseppe Verdi.

Nel suo studio sulla collina del Mojarello, e poi da quello nei pressi del Museo Archeologico, produsse numerosissimi ritratti in bronzo e le famose sculture del Pescaturiello e del Pescatore, che divennero un soggetto classico della scultura napoletana dell’800 e del ‘900. Il Pescaturiello ottenne un grandioso successo al Salon del 1877.

In questo periodo si unì all’affascinante Matilde Duffaud, amica di un antiquario francese, suo vicino di casa e dipinse i ritratti di Fortuny, di Morelli, e di Michetti.

Nel 1877 Gemito si trasferì insieme all’amico Mancini e a Matilde a Parigi dove partecipò con successo a numerosissime esposizioni, e ritrasse i più noti personaggi parigini, tra cui il pittore Meisonnier e l’oculista Landolt.
Alla morte di Matilde, finita tra le sue braccia, decise di tornare nelle sua citta’ natale .

Tornato a Napoli nel 1880 vi impiantò una propria fonderia ( grazie al mecenate de Mesnil ) in via Mergellina 200 che rimase attiva per tre anni. L’artista riceve anche commissioni dal re Umberto I.

Di questo periodo napoletano sue opere famose sono la “Carmela”, la “Zingara Maria“, il “Narciso“, il famosissimo “Acquaiolo” ed il “Filosofo”, con il quale vinse il primo premio all’ Esposizione Internazionale di Parigi (il modello del celebre filosofo fu il patrigno Francesco Jadicicco, chiamato ‘Masto Ciccio’ ).
Agli anni di maggior successo e della migliore produzione di Gemito si verifica poi una crisi che è al tempo stesso artistica ed umana.

Egli nonostante continuava ad avere richiamo su una vasta clientela omosessuale, per la sua nuova acquisita posizione sociale non poteva ma sopratutto non voleva più lavorare con questo tipo di arte.

Precipitò lentamente in una profonda crisi personale coadiuvata anche dalla determinazione di costruirsi, sposando Anna Cutolo, quella vita e quella famiglia (eterosessuale) tradizionalmente “normali” che il trovatello Gemito non aveva mai avuto.
Egli non si sentiva più uno degli scugnizzi che lui dipingeva e incominciò lentamente a dare sempre più insistentemente segni di squilibrio mentale, che lo costrinsero per una ventina d’anni ad alternare periodi in manicomio a periodi di lavoro più o meno regolare.

La sua parabola è parallela a quella del coetaneo pittore Antonio Mancini , che condivise con Gemito lo studio e l’entusiasmo omoerotico per la ragazzaglia napoletana: anche lui fu internato in manicomio dai famigliari da dove ne usci’ annientato.

Escluso dal circolo degli artisti del tempo, detestava la moda e amava vivere in solitudine .

Quando nel 1886 gli viene commissionata la statua in marmo di Carlo V per la facciata del Palazzo Reale di Napoli i segni della follia erano già’ evidenti e l’ importante incarico gli causò non pochi problemi. L’ansia di adeguarsi ai modelli classici e un’ossessiva insoddisfazione lo segnarono profondamente, impedendogli di trasporre in marmo il modello bronzeo. Egli aveva da sempre una forte avversione per il marmo e non soddisfatto della propria opera iniziò pian piano a manifestare i primi segni di un esaurimento psichico e squilibrio mentale che lo portano addirittura in manicomio.

Gemito realizzo’ questo soggetto storico, grazie anche all’aiuto dell’amico Meissonier, in gesso, poi tradotto in marmo da un artigiano: il destino volle che il mediocre scultore cui fu affidata l’esecuzione fosse il fratello del Questore di Napoli, sicchè un gesto violento di Gemito contro la statua finita, che non gli parve degna (pare che non si attennero alle proporzioni) gli costo’ il ricovero in una casa di salute.

In manicomio rinchiuso tra le cancellate che imprigionavano il suo spirito rimase qui poi vittima di allucinazioni dalle quali guarisce solo nel 1909.

Fuggito dal manicomio si ritiro’ nella sua casa in Via Tasso dove vi rimase rinchiuso per circa venti anni in un lungo periodo di isolamento volontario, impegnandosi anche in un lavoro da cesellatore per un “Trionfo da tavola” in argento per il Re Umberto I, rimasto poi incompiuto.

Lontano dal mondo degli artisti dell’epoca , il suo genio , esaltato dalla follia andava producendo capolavori inimitabili.

Dopo il periodo di isolamento volontario inizio’ in seguito di nuovo a viaggiare e a lavorare .
Partecipo’ alle manifestazioni di maggior rilievo, quali le Biennali di Venezia o l’Esposizione di Roma del 1911 e, successivamente, ad esposizioni estere come quella di Monaco del 1913 e quella Universale di San Francisco del 1915.

Nell’ultimo periodo di attività Gemito si rimise al lavoro realizzando opere in oreficeria.

Del 1926 e’ l’ultima scultura: il ritratto dell’ attore Raffaele Viviani.
Trasferitosi da via Tasso al vicino Parco Grifeo, Gemito morì dopo breve malattia il primo marzo del 1929.

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