Ferdinando IV era molto appassionato di cucina ma sopratutto di quella napoletana e certo non amava quella sofisticata ed elaborata che la regina voleva imporre a corte su imput della sorella minore Maria Antonietta , moglie di Luigi XV re di Francia.

Molto legata in maniera ostinata alle tradizioni della sua nazione di origine ed ai buoni modi raffinati in cui era cresciuta Maria Carolina trovava infatti la cucina napoletana poco raffinata , estremamente pesante e dai sapori esageratamente forti e marcati . La nuova regina  mostrava quindi grande reticenza alla cucina napoletana che invece Ferdinando voleva  tra la diffidenza di  tutti   imporre continuamente a corte.

Assiduo frequentatore di ambienti popolari , Ferdinando  cercò infatti inutilmente di introdurre anche a corte abitudini e pietanze che con tanto gusto assaggiava nelle taverne , in particolar modo la pasta e la passata di pomodoro .

 

CURIOSITA’: I maccheroni  all’epoca si mangiavano  con le mani e con un abitudinario gesto : con la mano destra si sollevava la manciata di maccheroni sopra la testa e poi quindi li si faceva cadere nella bocca spalancata .  Re Ferdinando I  , che  spesso amava  mischiarsi con il popolo , adorava mangiare come loro i maccheroni con le mani tanto da essere chiamato dal popolo ” Tata Maccherone ” ed invece da coloro che criticavano tale suo comportamento ” Re Lazzarone “.

Gli effetti a corte di questo suo modo di mangiare i maccheroni non furono dei migliori e le polemiche fortissime ; vedere il re mangiare la pasta con le mani , ripetendo la tecnica buffa dei lazzari che portavano i maccheroni in alto e li facevano cadere in bocca , era motivo di scherno nei pranzi di corte e causa di continui litigi con la consorte .

La regina arrabbiatissima arrivò addirittura ul punto di far bandire i maccheroni completamente dal regno, ma non aveva fatto i conti col marito, amante sfegatato della pasta ed anche lui estimatore del gustarla con le mani. Così, per salvare matrimonio e regno, Carolina ordinò al suo monzù più fidato di creare un sistema per sostituire l’uso delle mani.

Accadde quindi che su invito di Maria Carolina , il maggiordomo maggiore ( Gennaro Spadaccino ) fu addirittura costretto per compiacere la regina , ad inventare una forchetta dotata di quattro corti rebbi ( sul genere di quella attuale ) per permettere al re di afferrare la pasta e portarla in bocca senza l’uso delle mani.

Il re ” lazzarone “come avete capito , doveva quindi scontrarsi con l’altezzosa Maria Carolina d’Austria e per non complicare ulteriormente il suo già difficile rapporto matrimoniale  (pe stà quiet ) incominciò lentamente a mollare la presa.

Ferdinando era  cresciuto come uno scugnizzo fra i vicoli di Napoli, predisposto più alla caccia ed allo sport che ai lustri nobiliari ed era sicuramente incline a scherzi e giochi poco consoni ad un sovrano, amava parlare napoletano , ma sopratutto non amava la raffinata vita di corte a cui invece la raffinatissima  fiera esponente della casata asburgica era  abituata  sin da piccola tra lussi ed onori di ogni genere.

Nonostante l’abissale differenza, i due sovrani avevano comunque nel corso del tempo trovato tra di loro  un giusto compromesso coniugale: Ferdinando continuava a comportarsi da lazzarone, mentre Carolina cercava inutilmente di inculcargli la sua classe.

Ferdinando per stare tranquillo spesso abbozzava e lasciava fare…… i sapori tanto marcati e schietti della cucina napoletana non piacevano alla regina ?  … lui faceva spallucce ….e tirava a campare …

E così mentre Ferdinando continuava a deliziarsi il palato nelle varie taverne napoletane ,  Maria Carolina  intanto chiedeva   aiuto alla  sorella Maria Antonietta, nota buongustaia  e  Regina di Francia fino alla Rivoluzione  ma altezzosa quanto lei  e talmente ben voluta dal popolo da essere poi  ghigliottinata.

La nuova cucina d’elite era quella francese e la regina certo non voleva sottrarsi ad essere al passo con i tempi, sopratutto se questi erano considerati segni di raffinatezza , eleganza e classe aristocratica..

Ferdinando , assiduo frequentatore di ambienti popolari , cercava  invece di imporre a corte quelle pietanze che con tanto gusto assaggiava nelle taverne … e alla fine ovviamente vinse la regina e alla corte borbonica , inviati direttamente dalla sorella regina di Francia , si trasferirono alcuni tra i più valenti cuochi francesi con l’obiettivo di ravvivare la cucina di corte sostituendola con quella francese che godeva di grande celebrità in tutta Europa.

Essi avevano il difficile compito di educare i colleghi nostrani ai gusti più in voga del tempo. Dovevano scardinare quella tradizione culinaria napoletana dell’epoca che risentiva già di tantissime culture dove i vari  ingredienti poveri , grazie anche all’influenza che essa aveva recepito dalla ricercata cucina del mondo arabo, ma anche spagnolo , avevano sapori forti e genuini ,  grazie sopratutto all’utilizzo di spezie ed accostamenti già inimmaginabili nell’Europa del tempo.

Ma le nuove idee illuministiche che stavano cambiando l’Europa stavano comportando anche una vera rivoluzione nel gusto e nella preparazione dei cibi e la regina , in continua benevola competizione con la sorella regina francese , voleva anche lei portare a corte una nuova cucina in cui le porzioni erano semplificate ,  rimpicciolite , alleggerite e rese più digeribili per esaltarne in cottura le freschezze ed il sapore degli alimenti . Ai vecchi piatti tradizionali si andavano affermando in quel periodo in Europa , spezie e salse che davano un nuovo sapore a nuove preparazioni elaborate di vecchi ed abitudinarie ricette.che trovavano uno sponsor eccezionale nella nuova regina dal gran bel caratterino e dai gusti assai difficili.

N.B. La cucina francese del ‘700 rivendicava in quegli anni orgogliosamente la sua specificità, iniziata già nel ‘600 alla corte del Re Sole. Essa era divenuta una vera e propria forma di  cultura  che  venne esportata con successo e imitata in tutto il  mondo.

I cuochi chiamati a Napoli dalla Francia per preparare le loro rinomate pietanze venivano non solo ben pagati dai nobili che li assumevano , ma anche circondati di particolare rispetto e trattati con molto ossequio e reverenza talchè ad essi  si dava del  monsier (( signore in francese ) , un  titolo equivalente all’attuale chef  .

Il nome monsier  venne poi trasformato nel linguaggio comune popolare in monzù che presto divenne nella cultura popolare sinonimo di cuoco di alta classe e di alta scuola .

Preceduti da una fama di indiscussa superiorità tecnica , questi nuovi cuochi , con la ” puzza sotto il naso ” e un po ” atteggiati ” , all’inizio facevano addirittura arrivare direttamente dalla Francia la gran parte degli ingredienti , ma una volta conosciuto meglio il territorio , iniziarono ad apprezzare i prodotti locali impiegandoli sempre più frequentemente nelle loro preparazioni  e le importazioni di materie prime vennero solo limitate a quei prodotti non altrimenti reperibili in zona come alcuni formaggi , spezie,confetture , tisane, e sopratutto vini pregiati..

Con il passare del tempo ben presto  ogni aristocratico dell’epoca, per ben figurare con le passioni della regina , abbandonò la tradizionale cucina napoletana e finì  per apprezzare quella francese che era  molto alla moda .

Tutti gli aristocratici napoletani iniziarono così a seguire la moda della famiglia reale e ben presto ogni famiglia altolocata teneva al  proprio servizio nella propria dimore un cuoco francese venuto a dar lezioni culinarie .

Avere un proprio monsù rappresentava un segno dsitintivo del proprio casato . Ad egli era affidata la reputazione gastronomica dell’aristocratica famiglia che lo aveva al proprio servizio.  Infatti al titolo di monsù seguì nel tempo  il nome di battesimo accompagnato dal nome della famiglia aristocratica in cui prestava  servizio: troviamo quindi monsù Pietro di Cammarata o monsù Alfonso di Sirignano per citarne alcuni di famosi.

Il monsu divenne addirittura lentamente un elemento distintivo della propria casata e rappresentava  un titolo di tutto rispetto.

Chi insomma comandava nelle cucine di palazzo,  era riverito, ben retribuito e comandava intere brigate in cucina. Egli veniva considerato al pari di un artista se non meglio . Il monsù infatti non  solo riproduceva ricette ma creava , dava libero sfogo all’inventiva per stupire signorie ospiti elaborando le materie prime delle ricche dispense del palazzo nobiliare . 

Il ruolo del monsù era così ambito che l’arte veniva tramandata per asse ereditaria, cosa che troviamo ancora oggi nelle famiglie di cuochi del sud.   Alle dipendenze delle più importanti famiglie nobiliari del tempo, punte di diamante indiscusse in ogni corte, i monzù arrivarono a formare con il tempo addirittura delle vere e proprie dinastie  nelle quali la sublime arte culinaria ed il rango veniva tramandata di padre in figlio e perfezionata dopo ogni generazione come quella dei Ruggiani o dei “Pallino”, che in realtà si chiamavano Micera.

CURIOSITA’ :  Alcuni di essi sono entrati nella leggenda con le loro creazioni, come monsù Terramoto con il suo Framasson, soffice dorata brioche ripiena di risotto e di una salsa vellutata con gamberi vongole cozze e aragosta. O monsù Starace on il suo Timpano di maccheroni alla Maria Sofia dedicato all’ultima regina di Napoli: un timballo di mezzanelli di pasta che ancora oggi viene chiamata maccheroni della regina rivestito di formaggio e farcito con fegatini, cuori di fagiano, creste di gallo, tartufi irpini. O ancora monsù Francesco di casa Barracco che ideò un provolone parzialmente svuotato e riempito con funghi, polpette, pasta condita con sugo di carne che veniva infornato fino ad ammorbidirsi.

Le nuove pietanze erano servite con orgoglio nei pranzi importanti , che venivano preparati in ambienti ben arredati e ben presto i momenti conviviali a tavola per la loro importanza che assunsero rappresentarono sempre di più il posto dove si esercitava il potere e dove si decidevano strategie e gerarchie .

Le tavole ben imbandite rappresentavano un simbolo di ricchezza ed un importante elemento distintivo di chi organizzava le cene e del suo potere ed immaginate quindi quale grande valore doveva avere una buona cene ed un buon … monsù.  Essi introdussero piatti di eccellente qualità che ebbero ad eccezione di Ferdinando , un impatto estremamente favorevole sul gusto dell’aristocrazia partenpea ed in seguito anche su quella popolare .

La  cucina napoletana, era però troppo particolare per essere assorbita totalmente da quella d’oltralpe, e con il passare del tempo , ponendo assidua resistenza , si prese la sua rivincita.   I vari monsier , infatti , incuriositi anche dalla originalità della vecchia e antica cucina tradizionale napoletana ,  iniziarono  lentamente ad apprezzare la varietà e quantità dei prodotti locali impiegandoli sempre di più nelle loro preparazioni , dando luogo in questo modo ad uno straordinario connubio di cucina partenopea -transalpina  frutto dell’unione di tecniche straniere e prodotti locali.

… e così dopo qualche tempo , avvenne l’esatto opposto: la nuova generazione di chef partenopei riaffermò la propria cucina tradizionale e quella francese servì solo per arricchirla con creme e nuove preparazioni .L’intelligenza e l’inventiva dei cuochi napoletani, di strada intimamente legati agli ingredienti del sud, subirono così anche loro all’epoca un prezioso rinnovamento che ha poi dato come risultato una cucina diversa e più elaborata  fatta di timballi, pasticci, arrotolati di carne,e  impasti lievitati farciti di ogni ben di Dio, degna delle tavole dell’aristocrazia e dei regnanti ma di origini popolane. Rifiorì così lentamente anche la vecchia cucina napoletana , anche se rivista ed aggiornata , e con essa le antiche taverne frequentate da popolani ma anche da intellettuali dove si poteva bere del buon vino.

L’espressione più completa dell’unione della cucina napoletana con quella della cucina del monzù fu sicuramente il timballo di maccheroni a tre strati farcito con tanto formaggio grattuggiato ,cannella, provola fresca e burro che aveva la forma di una cupola in quanto preparato in uno stampo di foema semisferica ( questo stampo era simile ad un tamburo turco , il timpano ed è questo il motivo perchè questo piatto si chiamò ” o timbano ‘e maccarune “).

Essa era il simolo della cucina francese che si sposava con la pasta napoletana  ed il  timballo a cupola più famoso si chiamava ” timballo Flammand . Si trattava di un timballo di bucatini a forma di cupola ricchissimo di carni ,funghi e tartufo e veniva servito a tavola con una fiamma al centro che doveva scenograficamente e simbolicamente ricordare le eruzioni del Vesuvio.

Nelle varie taverne venne ribattezzato  ” timballo cerino” per la candela che andava a sostituire  la fiamma  .

N.B. : In Campania e in Sicilia nei secoli XVIII e XIX con il termine: Monzù veinvano  chiamati molti  capocuochi delle case aristocratiche  ai quali veniva riconosciuta la loro bravura ma tale denominazione era solo un titolo onorifico francesizzato che voleva premiare la loro eccellenza nel campo gastronomico , poichè spesso loro non erano francesi ma validi cuochi locali.a cui lo stesso re concedeva il titolo. 

I nomi delle nuove pietanze furono ovviamente italianizzate , ma lasciando sempre in ben evidenza l’etimologia francese : gattò ( gateau ),purè ( puree ) besciamella ( bechamel ) , crocchè ( croquettes ),

Del resto usare termini francesi era diventato di gran moda in quel periodo e non era raro trovare nelle varie taverne annunci tipo ” Osteria con piatti francesi ” specie se queste erano poi gestite dagli stessi monsù che non tornati più in Francia , una volte terminato il loro servizio presso le nobili famiglie , pensarono bene di mettersi in conto proprio ed aprire rinomate trattorie .
Molti di loro , vendendosi come dei veri artisti pensarono invece di lavorare in proprio ed in maniera occasionale intervendo come famosi scrittori o musicisti , nelle singole chiamate presso importanti cene che aristocratiche e facoltose famiglie volevano organizzare .
E quando poi queste vennero meno per evidenti difficoltà economiche , lavoorare al soldo di una classe emergente fatta di mercanti , artigiani, piccoli imprenditori e professionisti che iniziavano ad occupare una posizione privilegiata nella società e nella ridistribuzione della ricchezza.

 

Uno straordinario successo alla corte borbonica, grazie ai monsù ebbero anche i gelati ed i  sorbetti che divennero  una presenza costante  e gradita a tavola .

Erano molto famosi sopratutto i  sorbetti a base di neve ottenuti aggiungendo liquidi dolcificati a neve o  ghiaccio . Essi venivano serviti sopratutto negli intervalli delle rappresentazioni teatrali e nei pranzi di corte tra un banchetto e l’altro.

Ma di sorbetti e gelati sopratutto mantecati dentro a recipienti a contatto con ghiaccio e sale la città era piena . Un gran numero di gelaterie vendevano infatti gelati e sorbetti dai gusti più disparati e al sapore di cedrato, candito,fragole,cannella,cioccolato, arance, cocomero, pera ,caffè, castagne , mele , gelsomini e il più caro e costoso ananas. Essi erano comunque classificati principallmente in tre tipi: alla frutta, aromatico ( alla cannella , cioccolato o caffè ) e lattiginoso ( a base di latte).

In città erano presenti per questo motivo anche un gran numero di magazzini che vendevano la neve e non erano pochi i cittadini che sbarcavano il lunario trasportando carri di neve dalle zone montuose fino in città . Per i napoletani era molto importante infatti che le bevande fossero ghiacciate . Questa era una cosa che loro reputavano imprenscindibile e per questo motivo in inverno erano soliti raccogliere la neve che veniva conservata in profonde fosse con pareti di mattone lisce e pulite chiamate neviere. di cui era particolarmte ricca monte Sant’Angelo .

Pressata e poi tagliata in blocchi di ghiaccio , veniva poi portata in città , tutte le mattine dal porto di Castellammare in grossi  bastimenti per fare sorbetti e gelati , mantenere fresca la frutta o rinfrescare vino e bevande .

Ma incredibilmente essa  serviva  sopratutto per rendere l’acqua da bere ” nevata “di cui il popolo napoletano andava pazzo. La passione per questa acqua nevata era infatti talmente forte che non vi era nessuno che oramai beveva più l’acqua al suo stato naturale e ovviamente a tenere il privilegio quasi esclusivo di fornire la neve in tutta la città erano i potenti Gesuiti.

I blocchi di neve ricoperti di fogliame e di frasche venivano poi trasportata da gente addetta nel grande magazzino dove i vari commercianti di neve , che si trovavano in ogni angolo della città se la dividevano. .

Le loro botteghe in cui veniva conservato il prezioso bottino restavano aperte tutta la notte per poter sempre servire e accontentare colui che voleva a tutti i costi l’acqua nevata . Guai per  i napoletani infatti restare senza acqua nevata , questo era peggio che restare senz’aria. Erano, infatti, previste delle consistenti multe in caso di disservizio di questo sistema di approvvigionamento.

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