Castel Capuano , costruito in stile tipicamente medievale, costituiva in passato un baluardo imprendibile ed inespugnabile per qualsiasi esercito nemico . Nel tempo modificato e ampliato venne inizialmente utilizzato come residenza reale per poi essere abbandonato e sostituito in questa sua funzione da Castel Nuovo (meglio conosciuto come Maschio Angioino.).
Nel 1540 , non essendo piu’ funzionale come fortezza , per lo spostamento in avanti delle mura urbane, il castello fu adibito per volere di don Pedro Di Toledo a sede dei Tribunali .
Il vicere’ , lo fece ristrutturare per riunirvi tutti i tribunali fino ad allora sparsi in diversi luoghi della citta . Da quel momento sara’ chiamato ‘ il palazzo della vicaria ‘, perche’ era il Vicario del Regno a presiedere al governo del potere giudiziario ed i suoi sotterranei furono adibiti a soffocanti prigioni .
Le esecuzioni capitali avevano luogo nello spazio antistante la facciata settentrionale e le gabbie di ferro con dentro le teste recise dei giustiziati , oppure le mani o i piedi, troncati , dei condannati , venivano appese all’angolo del castello prospiciente via Carbonara, sulla facciata che dà su Piazza Capuana.
Nel largo davanti alla porta principale del Castello , a destra , sopra una base quadrata di pietra , esisteva una antica colonna romana di marmo bianco che veniva indicata come la << colonna infame della vicaria >> , oggi conservata al Museo di San Martino (nell’androne delle Carrozze della Certosa di San Martino ) come abbandonata al suo destino e priva finanche di una semplice didascalia.
Secondo vecchie leggi, quando un fallito dichiarava di non possedere più niente ,e quindi , di non poter pagare i suoi debiti, doveva salire sulla base di pietra della colonna, calare le brache, mostrare il deretano nudo ai suoi creditori e pronunciare le parole:< cedo bonis >
Le due parole latine volevano dire < sono morto per i beni di fortuna> ed il gesto significare< cosi’ sono ridotto>. Il debitore condannato doveva essere legato abbracciato, con i pantaloni completamente calati e cosi, tra gli squilli di tromba del banditore, doveva proclamare per una o più ore la frase.
Come potete osservare in questo famoso dipinto attribuito ad Ascanio Luciani dove viene rappresentato il largo antistante il Castello , in quegli anni , l’intera area intorno a Castel Capuano era la zona più frequentata e caotica della città .
Notate le molte carrozze e la gran folla di persone , mercanti e avventori vari che tgiravano tra improvvisate bancarelle. Ma notate sopratutto la colonna infame e la presenza di uomini in toga che si aggirava per la piazza
Alcuni divertenti personaggi del luogo mi hanno raccontato che , per sentito dire da anziane persone , i personaggi in questione venivano addirittura prima immersi con la loro parte bassa nell’acqua . I deretani nudi esposti erano pertanto completamente bagnati e questo secondo antichi racconti tramandati sarebbe all’origine del famoso detto napoletano ‘ stare ‘cu ‘e pacche dinto’a ll’acqua‘ , riferito a persone cadute in difficoltà o cadute in disgrazia .
In passato l’espressione stava ad indicare la stanchezza conseguente ad un eccessivo carico di lavoro ed era legato al mondo dei pescatori che con una grossa rete , chiamata “sciaveca “, erano solito pescare . Questo modo di pescare richiedeva un grande sforzo fisico ma sopratutto anche l’azione di calarsi in mare immersi fin sopra le ginocchia. Il loro lavoro era tutt’altro che riposante ed è per questo che stare ‘cu ‘e pacche dinto’a l’acqua‘ aveva all’inizio assunto il significato di una stanchezza dovuta all’eccessivo carico di fatica. All’epoca però i pescatori erano considerati persone molto povere ( il pesce non costava tanto come adesso ) e a svolgere questo mestiere erano coloro che non avevano proprio più nulla da perdere poiché ridotti sul lastrico. Quindi fare il pescatore e sopratutto farlo usando ‘ la sciaveca ‘ era in quel tempo in città una cosa tutt’altro che auspicabile per chiunque .
Ascoltare persone anziane a cui i propri nonni hanno tramandato vecchi racconti è una delle cose piu affascinanti che ti può capitare nell’antico centro della nostra città ed io avendo avuto la fortuna di conoscere alcuni di essi , sono rimasto rimasto per intere ore ad ascoltare incantato i loro racconti . Ho cosi potuto scoprire che lo scopo di denudare il debitore veniva messo in atto solo per dimostrare che lo stesso avrebbe fatto qualsiasi cosa per soddisfare i suoi creditori ed il pubblico atto di costrizione del debitore insolvente veniva solitamente accompagnato da fischi e urla di rumorosi e chiassosi scugnizzi .Il denudamento e l’esposizione dei glutei avevano il compito di rendere chiaro che il povero debitore sarebbe stato disposto a cedere tutto , ma proprio tutto ( avete capito ? ) quello che gli era rimasto per risarcire i creditori .
Il debitore non doveva solamente abbassarsi i pantaloni ma anche sbattere il sedere tre volte sulla colonna tra gli squilli di tromba del banditore pronunciando la frase ‘ vedo bonis ‘ cioè ” chi ha da avere si venga a pagare ”
La Vicaria dove si ergeva quel prezioso lascito della Napoli greco-romana, cioè una piccola colonna di marmo chiamata colonaa infame,rappresentavano all’epoca un vero e proprio incubo di ogni debitore della città.
L’umilazione pubblica subita dal debitore davanti alla colonna , dovette talmente far presa nel popolo napoletano che ancora oggi capita spesso di talvolta qualcuno per strada maledire una non meglio precisata “Colonna infame”, come se questa potesse in qualche modo mitigare ogni frustrazione e, al contempo, redimere la nostra coscienza agli occhi della torva schiera celeste, sempre pronta a indispettirsi qualora si sentissero indebitamente tirati in causa. Insomma, il ricco vernacolo partenopeo non finisce mai di stupirci, eppure, come sempre accade, dietro il detto comune, dietro l’apparentemente insensata imprecazione, quel “mannaggia ‘a culonna” a noi tanto caro, si cela una storia perduta nei meandri del passato.
N.B. Il significato dell ‘ espressione napoletana ‘”Managgia a colonna nfame ” pare nasca proprio da questa umiliante pratica . Essa viene infatti usata solitamente come imprecazione nei confronti di un episodio avverso .
Nel 1546 Don Pietro de Toledo aboli’ l’umiliante pena della colonna , sostituendola con un’altra più’ decorosa.
Il debitore che ricorreva al disonorevole beneficio doveva, dopo che il suo nome e la formula d’uso erano stati gridati dall’esecutore , restare ritto accanto alla colonna , a capo scoperto , per un’ora, davanti ai suoi creditori.
Tale usanza duro’ fino al 1736 , cioè fino a quando Carlo di Borbone l’aboli, facendo abbattere la colonna infame , oggi conservata nella Certosa di San Martino , nell’ atrio delle carrozze del Museo di San Martino.
Ben più’ a lungo duro’ l’altro uso che della base della colonna si faceva ; l’esposizione , cioe’ dei corpi senza vita delle persone morte tragicamente , onde permetterne il riconoscimento: una sala mortuaria all’aperto. Tale macabra esposizione ebbe , finalmente , fine nel 1857.
Ancora oggi il castello conserva la sua antica funzione di Tribunale . Una funzione che ha mantenuto sino ai nostri giorni , ospitando i protagonisti di quella che e’ passata alla storia come la scuola Giuridica napoletana ( un’eccellenza internazionale ).