Il cavallo napolitano ( e non napoletano ) e’ il risultato bellissimo di una selezione genetica naturale avvenuta nel corso dei secoli grazie all’accoppiamento di stupendi esemplari di varie razze equine portate a Napoli al seguito dei vari eserciti che hanno dominato la città.

La terra chiamata poi Campania Felix ( cioè fortunata ) dagli antichi greco-romani, era il luogo dove crescevano liberi e forti dei magnifici cavalli grazie ad un ambiente particolarmente favorevole.
I robusti cavalli locali in seguito allevati dai primi greci qui sbarcati sul finire del IX secolo, finirono per incrociarsi con quelli snelli ed eleganti portati dagli Etruschi. Infine, il risultato di questi finì per incrociarsi con quelli resistenti e possenti portati dai Romani ( berberi ).

Da questi vari incroci nacquero alla fine dei cavalli bellissimi, longilinei, snelli, ma anche poderosi e robusti. Se poi aggiungiamo un pizzico di immissione di sangue orientale da parte di Federico II ( cavalli leggeri e veloci importati dall’oriente utilizzati per la caccia al falcone) e un pizzico di sangue turco (dovuto all’importazione di cavalli con l’avvento della repubblica marinara di Amalfi) non possiamo non avere quello che per anni è stato considerato il più bel cavallo d’Europa. Questo, insieme con il cavallo spagnolo, con quello berbero e con quello turco servì per l’insanguamento delle razze di tutta Europa.cavallo-20

Le condizioni climatiche ambientali particolarmente favorevoli all’allevamento equino fecero della  Campania Felix  il luogo ideale ad ospitare il maggior numero di cavalli napoletani.
L’incredibile fertilità del luogo divenne il posto ideale dove poter far prosperare questi magnifici esemplari che con il passare del tempo diventavano sempre più forti e sinuosi.

I primi navigatori greci, sbarcando sulle nostre coste furono molto colpiti dalla bellezza dei cavalli locali e di quanto fossero robusti e al loro ritorno in patria raccontarono di averli visti camminare sulla lava ardente mentre costeggiavano lungo la riva dei Campi Flegrei all’epoca in piena attività vulcanica.

Il luogo misterioso e terrificante dei Campi Flegrei fatto di colonne di fumo, vulcani ardenti e lingue di fuoco alte nel cielo si prestava meglio di ogni altro posto per immaginare miti e leggende. I cavalli di questo territorio furono quindi ben presto identificati con quelli dei miti greci e come tali osannati, amati e ricercati.

Gli antichi greci una volta insediati e fondate le colonie di Cuma e di Parthenope non mancarono ovviamente di domare e allevare con gran rispetto questi mitizzati e bellissimi cavalli.

I robusti cavalli locali si incrociarono poi con quelli snelli ed eleganti portati dagli Etruschi che infine si incrociarono con quelli resistenti e possenti portati dai Romani che provvedevano ad allevare i migliori esemplari per la propria corte imperale.

Il bel cavallo napolitano, nel tempo, incominciò ad essere apprezzato e richiesto ovunque guadagnandosi fama e gloria per la sua leggiadria e bellezza.cavallo-25

La piana di Capua, in particolare, fertile e ben irrigata, divenne il territorio eletto dove le mandrie prosperavano e s’imbellivano e da cui in particolare venivano i famosi cavalli bianchi cavalcati dai consoli romani nei trionfi.
Capua divenne così ben presto un luogo molto ricercato dove trovare un “buon cavallo napoletano” e si dice addirittura che Annibale si fermò a Capua solo per procurarsi cavalcature di grande qualità.

Da Capua proveniva anche il famoso cavallo bianco con in groppa una ingente somma di denaro ( Chinea ) che Carlo I d’Angiò inviava ogni anno al papa Clemente IV in segno di sottomissione.
Il gravoso obbligo di inviare ogni anno un tributo da parte del re di Napoli al papa, chiamata ” la chinea” fu assunto dal re Angioino e tenuto fino ai tempi di Ferdinando IV .

Va detto che durante il regno Angioino e Aragonese la passione dei loro sovrani per i cavalli fu enorme e l’allevamento certamente incrementato. Si dice che il re Carlo d’Angiò, era particolarmente geloso dei preziosi cavalli del suo allevamento a cui teneva molto, che acconsentiva a venderli esclusivamente a nobili di alto rango, che dovevano, tra l’altro impegnarsi per iscritto a montare personalmente il cavallo acquistato.

Alcuni dei più prestigiosi Seggi di Napoli recavano sui loro stemmi il simbolo del cavallo: il cavallo nero sfrenato era il simbolo dello stemma di Sedile di Nilo mentre il cavallo d’oro, rappresentava lo stemma del Sedile di Porta.

La passione dei regnanti dell’epoca poi contò non poco nello sviluppo dell’equitazione napoletana ( famosa in tutto il mondo ) che finì per divenire una vera forma d’arte.

Nacquero così nel XVI secolo i balletti equestri, sontuosi spettacoli che richiedevano l’opera di cospicue maestranze specializzate, di compositori e coreografi.
Ogni grande occasione, festa religiosa o evento, offriva un buon pretesto per allestire tali grandiosi rappresentazioni. Alla fine del XVI secolo, Federico Grisone scrive il primo trattato di equitazione della storia dopo Senofonte, e i cavallerizzi napoletani conquistano una fama tale che tutte le corti d’Europa ne sollecitano gli insegnamenti.

Fin dall’epoca bizantina (e forse anche prima) a Napoli si cavalcava non solo per utilità ma anche per la ricerca e il culto del bello. E ciò fu possibile grazie alle doti eccezionali dei cavalli, senza i quali la bravura degli uomini che li montavano non sarebbe servita a molto.
Che a Napoli poi ci fossero i migliori stalloni d’Europa lo scrisse anche Boccaccio, che nel Decamerone raccontò le disavventure del mercante di cavalli Andreuccio da Perugia, venuto nella capitale del Regno rinomata per i suoi allevamenti equini.
Il termine corsiero designava alla fine del Medio Evo il cavallo da combattimento, la cui andatura più veloce ( cioè il galoppo ) lo differenziava dal ‘portante’ ossia dall’ambasciatore usato prevalentemente per lunghi e comodi trasferimenti in sella.

Nell’attuale Piazza Riario Sforza, dove ora c’è la guglia di San Gennaro, fino al Medioevo, c’era la statua di un cavallo sfrenato di bronzo che, si dice, fosse stata scolpita dal mago Virgilio. Lì si portavano gli animali malati ornati di ghirlande di fiori e tarallini (simbolo del grano e della fertilità) che, per guarire, dovevano girare tre volte intorno alla statua. La statua poi fu fusa perché tali riti pagani erano invisi alla chiesa. Il corpo, si dice, servì per forgiare le campane del Duomo. C’è chi racconta che quando suonano, tendendo l’orecchio si sente il nitrito del cavallo di Virgilio.

La testa invece si trova ora nel Museo Nazionale. Si e’ pensato a lungo che la testa risparmiata fosse quella posta in fondo al cortile di palazzo Carafa in via San Biagio dei Librai. Ma questa è stato poi dimostrato essere una scultura realizzata a Firenze da Donatello che doveva essere parte di un monumento equestre più grande commissionato al grande maestro da Alfonso V d’Aragona, re di Napoli, da collocare al centro dell’arco superiore dell’immane portale di ingresso a Castel Nuovo ( Maschio angioino ).

Morto Donatello e lo stesso Alfonso d’Aragona l’opera seppure ancora incompleta, fu inviata a Napoli da Lorenzo de’ Medici all’allora re Ferrante d’Aragona( successore di Alfonso ) che a sua volta decise di donare la testa, oramai inutilizzabile per l’Arco, a Diomede Carafa, illustre rappresentante della corte aragonese in città.

Quando il palazzo passò dai Carafa al marchese Santangelo, la testa di cavallo del cortile fu trasferita al Museo Nazionale al quale fu donata dai principi di Colubrano che erano sul punto di vendere lo storico Palazzo. Il Santagelo ne fece eseguire una copia in terracotta dipinta, collocandola sul piedistallo originale.cavallo

Da quel momento la sostituita copia in terracotta ha continuato ad essere per due secoli l’attrazione di quel cortile. Impossibile non affacciarsi almeno una volta a contemplarla. Ma anche la copia col tempo , esposta alle ingiurie del tempo e delle intemperie si è deteriorata e solo di recente e’stata restaurata .
Il cavallo sfrenato, indomito, era diventato a tal punto il simbolo dello spirito di indipendenza dei napoletani che quando Corrado IV, nel 1253, riesce dopo un anno di assedio ad entrare in città, fa mettere per sfregio un morso alla statua del cavallo.
Erano presenti nel XVI secolo in piazza Mercatello ( attuale Piazza Dante ) due cavallerizze dove si addestravano i cavalli , frequentate da nobili gentiluomini che si esercitavano nell’arte di cavalcare insegnata loro dai migliori maestri dell ‘epoca e dove venivano avviati all’arte di cavalcare i giovani rampolli della nobiltà napoletana.cavallo-21
Durante il vicereame spagnolo, le caratteristiche della razza napoletana si affermarono sempre di più anche se, all’epoca, parlando di un cavallo si usasse distinguerlo con il nome del casato dell’allevatore (per esempio “della razza del Principe di…”).
Gli spagnoli ed i Borboni in particolare, seppero sfruttare al meglio i maestosi cavalli e tra il 1500 ed il 1600 si ebbe una parziale ispanizzazione del patrimonio ippico napolitano.

Nacque a Napoli intorno al 1534 la prima accademia equestre d’Europa, mentre nelle scuderie imperiali spagnole andavano aumentando il numero ed il prestigio dei corsieri napolitani: in particolare “La Reale Tenuta di Carditello detta anche Reggia di Carditello” fu per anni luogo di allevamento di questi cavalli di razza pregiata famosi in tutta Europa
I viaggiatori stranieri del ‘700 non mancano mai di citare nelle loro cronache l’eccellenza dei cavalli napoletani. Due prelati francesi, l’abate de Saint Non e l’abate de la Porte, biasimano il divieto assoluto dei re di Napoli, pena la galera, di esportare anche un solo rappresentante della prestigiosissima razza.

Il cavallo corsiero napolitano fu considerato tra i secoli XV e XVIII , uno dei migliori al mondo per le esigenze della cavalleria militare . Bello , forte e resistenze fu esportato in gran numero verso gli altri stati italiani ed europei come miglioratore di altre razze.
L’Unità d’Italia come tante altre cose spazzerà via poco a poco quest’opera d’arte vivente ed anche i prestigiosi e celebri allevamenti, come quello dei Farina , scompariranno all’inizio del ‘900 fin quando la razza fu dichiarata estinta e del cavallo non rimase a Napoli neanche il ricordo, che invece persisteva stranamente all’estero.

Oggi dopo tanti anni grazie alla testardaggine e alla tenacia di grandi appassionati ( fra tutti Giuseppe Maresca ), sono stati ritrovati degli eredi dei famosi cavalli napoletani in Serbia dove erano pervenuti da Vienna.
Giuseppe Maresca scoprì, consultando il registro dei famosi cavalli della scuola di Vienna conservato a Roma che nel 1790, i certosini napoletani mandarono i migliori stalloni all’imperatore austriaco, di cui uno di nome Neapolitano.

A Vienna apprese poi che nell’allevamento imperiale i puledri nati di colore scuro (l’imperatore voleva solo cavalli grigi e bianchi) erano venduti ai paesi dell’estero ed in particolre in Serbia.

Confortato da una vecchia stampa antica che ritraeva il presidente Tito in una carrozza tirata da quattro stupendi cavalli che somigliavano come due gocce d’acqua ai cavalli napoletani ritratti nelle stampe antiche, cercò a lungo nelle tante fattorie dove sapeva che erano finiti i tanti cavalli riformati ( acquistati dai contadini ) e dopo tanto girovagare, la sua tenacia fu premiata. Egli con abilità ed un pizzico di fortuna riuscì a rintracciare in un’ ultima fattoria il ventenne bellissimo e fiero cavallo nero ” Neapolitano “che aveva portato Tito in parata e discendeva dallo stallone Neapolitano.

Una volta giunto con gran fatica burocratica a Piano di Sorrento, lo stallone rinverdì riuscendo anche ad accoppiarsi con alcune rare cavalle di Capua (che per passione alcuni contadini avevano tenuto per preservarne le origini ): nacque cosi’ Neapolitano I, perfetto esemplare della razza napoletana.

Il primo riconoscimento ufficiale Maresca lo ottenne in Francia lo stesso anno.

A Saumur, dove durante il congresso annuo organizzato nel regno del celebre Cadre Noir, all’apparire delle fotografie di Neapolitano II di Vicalvano, il fior fiore dell’aristocrazia francese ha applaudito in piedi il miracolo.
Nel 2004 nasce nelle librerie “La Fabuleuse Histoire du cheval napolitain” ad opera dei due autori Maria Franchini e Giuseppe Maresca.

 

 

CURIOSITA’ :

Il cavallo per secoli è stato il simbolo della nostra città ed aveva per i napoletani un grosso significato in termini di orgoglio e liberta’ .
La stessa squadra di calcio aveva in origine uno stemma con al centro  un cavallo rampante e non un ciuccio . Era bianco, come il simbolo della città stessa e del Regno di Napoli. Si ergeva su un pallone da calcio ed era circondato dalle lettere A, C ed N, ovvero le iniziali di Associazione Calcio Napoli, così come allora era denominata la squadra. 

Questo simbolo durò però, soltanto un anno, ( 1926 / 1927) cioè giusto il tempo di disputare il primo campionato che fu un vero strazio. In 18 partite fatte furono ben 61 i gol subiti e soprattutto solo 1 il punto conquistato.

Nonostante la presenza di un campione come l’attaccante Sallustro , nei primi anni di vita gli azzurri evitarono diverse retrocessioni soltanto grazie a fortunati ripescaggi e all’ampliamento da undici a diciotto squadre in campionato.
Lo stadio – inizialmente denominato “Stadio Vesuvio” e poi “Ascarelli” si trovava allora nel rione Luzzatti ( zona vasto ) ,  dove viveva in quegli anni un certo don Domenico Ascione (per gli amici Mimì), che con il suo esile fisico si guadagnava da vivere raccogliendo fichi di notte e vendendoli di giorno. Per questo era soprannominato nel quartiere “Ficuciello” o “Fichella”.
Egli girava solitamente aiutato in questo suo lavoro con un malandato povero asinello, in stato agonizzante . Si diceva avesse trentatré piaghe e persino la coda marcia (trentatré piagh e a coda fraceta) .
L’asino spesso percorreva appena poche centinaia di metri, poi si abbatteva al suolo e non c’era verso di farlo rialzare…”
All’ennesima sconfitta degli azzurri un giorno un giornalista esclamò e poi scrisse : “Ato ca cavallo sfrenato, a me me pare ‘o ciuccio ‘e fichella, trentatré chiaje e a coda fraceta!”.
Da questa battuta nacque subito anche una vignetta dov’era raffigurato proprio un asinello tutto incerottato, che in brevissimo tempo fece il giro della città.
Ma il ciuccio in carne ed ossa  fece il suo primo vero ingresso allo stadio il 23 febbraio 1930 in occasione di un Napoli-Juventus. I partenopei perdevano 0-2, ma incredibilmente riuscirono in una rimonta a dir poco storica, terminando l’incontro sul 2-2. Al termine della partita, così, un piccolo asinello infiocchettato con un nastro azzurro fu portato in trionfo accompagnato da un cartello con la scritta “Ciuccio fa tu” e da  allora divenne il simbolo della squadra del calcio Napoli .

Il club Naples Football fu fondato nel 1926 in una pizzeria nei vicoli di Via Toledo  e la sua successiva fusione avvenuta nello stesso anno con il Team Internazionale avvenne nel panoramico ristorante D’Angelo al Vomero in Via Aniello Falcone dove tutt’ora la attuale Società Sportiva Calcio Napoli si riunisce per feste e cene importanti come quella di chiusura dell’anno calcistico.
ARTICOLO SCRITTO DA ANTONIO CIVETTA
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