La storia della nostra citta’ ha inizio all’incirca sul finire de IX secolo a. c. , quando navigatori provenienti da Rodi , crearono una colonia commerciale sull’isolotto di Megaride e sul monte Echia ; si trattava di mercanti e viaggiatori che avevano bisogno di un punto di appoggio per le loro lunghe imprese marinare e commerciali .Costruirono semplici abitazioni ,piccoli templi adibiti al culto  e nessuna cinta muraria visto che la morfologia della costa svolgeva una naturale funzione protettiva .

Piu’ tardi intorno alla metà del VII secolo a.c. furono i coloni greci provenienti da Eubea a fondare prima PITHECUSA ( oggi Lacco ameno di Ischia ) e poi Cuma, a far sorgere il primo nucleo urbano sempre nell’area a valle di Pizzofalcone, sulle sponde del fiume Sebeto che chiamarono Parthenope, ingrandendo l’iniziale piccolo punto di appoggio con il suo piccolo agglomerato di case e trasformandolo  in un vero e proprio centro abitato.

E proprio vicino alla foce di quel corso d’acqua celebre nell’antichita’ ed oggi praticamente scomparso sotto il cemento, si vuole che i Cumani abbiano trovato altre genti ed un particolare culto , quello di una sirena, che dara’ il nome alla citta’: PARTHENOPE.

Si chiamava Partenope , dal greco ” “vergine” e venne a morire sulle spiagge di Opicia ( cosi’ detta dagli antichi Opici , abitanti della Campania).
La sirena affranta per non aver saputo ammaliare con il suo canto l’eroe Ulisse ( che aveva dato ascolto ai consigli di Circe ), si getto’ dall’isola ( i Galli o Capri ) ed il suo cadavere fini’ trasportato dalle onde sull’isolotto di Megaride dando luogo al culto di Partenope che fu vivo per secoli.
La citta’ le costrui’ un sepolcro e ogni anno con libagioni e sacrifici di buoi onoravano Partenope innalzata a prima vera protettrice della citta’.
Davanti alla sua tomba si celebravano giochi ginnici e attorno al sepolcro la citta’ con il tempo eresse le sue formidabili e maestose mura. ( che hanno poi con il tempo scoraggiato e fatto desistere dall’attaccarle personaggi come Annibale e Pirro ).

I coloni greci che quì si stanziarono esportavano a nord del Tevere , in Etruria , i prodotti della terra ( olio , vino, grano ) ricevendone in cambio ferro che veniva lavorato ad Ischia , dove si sono rinvenute scorie ferrose provenienti dall’isola d’Elba .

Parthenope divenne lentamente un’ importante citta’ della Magna Grecia , totalmente impregnata della relativa civilta’, cultura, etnia, pur essendo del tutto autonoma sia amministrativamente che politicamente. La citta’ risenti’ fortemente dell’influenza ateniese. Ci furono grandi traffici commerciali tra le due citta’ e questi continui contatti favorirono e portarono grandi vantaggi in crescita culturale e civile.
Nei due secoli successivi ,Parthenope , pesantemente minacciata dagli Etruschi e dai Sanniti non ebbe grande sviluppo urbanistico. Ricordiamo infatti che mentre i greci occuparono tutta la costa , gli etruschi occuparono tutta l’entroterra campana avendo in Capua la loro capitale ed estendendosi dietro al Vesuvio fino a Fratte e Pontecagnano ( Salerno ).
Nel 524 a.c., gli Etruschi assalirono Cuma , non riuscendo ad espugnarla ma la loro pressione fu comunque un forte vincolo allo sviluppo  di Cuma che perse la roccaforte di Partenope .Pare secondo alcuni studiosi che la perdita di Partenope  divenuta da piccolo e tranquillo borgo ,una prospera e popolosa città , fece un tantino ingelosire la stessa Cuma ,che spaventata dal suo enorme sviluppo non si prodigò più di tanto nel difenderla , preferendo quindi perderla e vederla distrutta .

I Cumani e gli Etruschi ,animati dalle stesse ambizioni di dominio e di crescita per anni furono in guerra e dopo tante battaglie gli Etruschi furono definitivamente battuti in un epico scontro a mare che sancì la definitiva supremazia greca sul territorio campano .Fu una data storica ed importante ( 474 a.C.) poichè i cumani  , alleati con il tiranno di Siracusa Serone , vincendo questa  battaglia contro gli etruschi  ripresero il tranquillo dominio della zona.

Dopo quattro anni dalla vittoria sui rivali i Cumani decisero di espandersi e quindi  edificare una nuova più grande città per avere il pieno controllo di tutto il golfo e dei suoi traffici.
Fondarono quindi  a poca distanza da quel vecchio  primo impianto a suo tempo perso ,un’altra citta’, nella zona pianeggiante , che fu chiamata Neapolis , ” la città nuova . La piccola Partenope divenne così di conseguenza la città vecchia cioè  Palepolis  ( si ergeva sulla collina di Pizzofalcone ).
Si tratto’ in effetti di una nuova zona urbana , a poca distanza dalla prima costituendo con questa una sola polis ( il cui confine era il fiume Sebeto ).

Neapolis , cioe’ la citta’ nuova fu la sede definitiva di quella colonia greca che quindi partita da Eubea si fermo’ a Pithecusa ( Ischia , isola delle scimmie ) e poi a Cuma . Parthenope fu poi chiamata Palepoli cioe’ citta’ vecchia .

Il periodo greco duro’ circa 350 anni , poi arrivo’ quello romano che duro’ circa sette secoli , durante il quale i napoletani conservano tutto il carattere greco , in particolare ateniese ,mantenendo dei greci , la civilta’ , e la raffinatezza , essendo comunque considerati greci.
La vita di Neapolis era improntata sopratutto al ben vivere ,a cio’ portata dall’ambiente circostante e dal clima , e indirizzata in tal senso dalla filosofia epicurea che dominava.
Esistevano due scuole epicuree ( Posillipo ed Ercolano ).
Dominavano le attivita’ ludiche e del tempo libero.
Neapolis era detta ” otiosa e docta “, i napoletani concepivano l’esistenza come tesa alla ricerca del piacere sia del corpo che dello spirito, al risparmio di energie per tutelare la propria liberta’ dagli stress della vita quotidiana.
I romani conquistati dal fascino di tale impostazione di vita , scelsero Neapolis come luogo di educazione e di perfezionamento negli studi , attratti anche dalla natura lussureggiante e dal clima temperato . Essi venivano a Neapolis a riposarsi dalle fatiche di Roma , mutando le vesti in quelle greche e interessandosi alle manifestazioni culturali e spettacolari ( Claudio e Nerone vennero per prodursi in esibizioni filodrammatiche e canore nel teatro situato lungo i decumani ).
La tradizione greca fu a lungo conservata , e gli uomini di cultura ebbero una grande predilizione per Neapolis e per il suo ellenismo , riempendo di opere d’arte e libri greci le loro ville disseminate nella citta’. La più famosa fu quella di Vedio Pollione , amico di Augusto , che passò poi in eredità allo stesso imperatore .La villa che poi diede il nome all’intera collina ,si chiamava Pausilypon e alludeva alla sua funzione di luogo di riposo ( “fine degli affanni “).       Durante l ‘impero romano si ebbe quindi  una voluta esaltazione dei caratteri ellenici della città che mantenne l’uso della lingua greca come utilizzata da Nerone in visita a Neapolis raggiungendo  il suo apice in epoca augustea per la presenza di poeti e scrittori come Virgilio , Lucrezio, Stazio, Papinio etc.
L’amenita’ dei luoghi , il clima mite , le fonti idrotermali , le tradizioni greche , fecero si che la zona diventasse la piu’ lussuosa e celebre del mondo romano.

Neapolis fu poi anche testimone della fine dell’ Impero Romano . Nella splendida villa che era stata di Lucullo e che poi si trasformò in Castel dellìOvo , Odoacre , re degli Eruli , relegò in esilio Romolo Augustolo , ultimo imperatore di Roma , che vi morì nel 476 d.C.

 

CURIOSITA’ : Per lungo tempo gli studiosi si erano posti il dilemma di dove fosse collocato con precisione il famoso porto di Neapolis .Oggi grazie agli scavi effettuati in occasione della realizzazione della linea 1 della Metropolitana e della sua fermata in Piazza Municipio , anno  finalmente scoperto che esso era ubicato in una lunga insenatura che si insinuava tra l’attuale Piazza Municipio e la collina del Maschio Angioino .

Sono stati ritrovati in questi scavi imbarcazioni e attrezzature tipiche di un porto che le indagini archeologiche dicono era attivo già dal VI. V secolo a.C. che restò in funzione per oltre mille anni  fino al V secolo d.C. quando andò in disuso con la crisi dell’Impero romano .
Sono riemersi dalla terra circa 200 reperti, derivati dalle antiche attivita’ commerciali : balsamari , monete , ceramiche, suole in cuoio di sandali romani , pentole in terracotta , anfore , pali lignei, cime, banchine , attrezzi da marinaio ,aghi in legno per cucire le reti, calzature , borse di cuoio,  ancore etc.

All’inizio del 400 avvenne un progressivo interramento della baia grazia a frane e accumuli di terreno che modificarono la linea della costa e portarono  all’ impaludamento del porto . Nel sesto secolo poi quello che era l’antico porto fu coperto dal cemento della strada ; a quel punto il mare invece di essere pieno di pesci , era carico di tesori abbandonati.

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Epicuro

Lettera sulla felicità

 

 

 

Meneceo,

Non si è mai troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità. A qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell’anima. Chi sostiene che non è ancora giunto il momento di dedicarsi alla conoscenza di essa, o che ormai è troppo tardi, è come se andasse dicendo che non è ancora il momento di essere felice, o che ormai è passata l’età. Da giovani come da vecchi è giusto che noi ci dedichiamo a conoscere la felicità. Per sentirci sempre giovani quando saremo avanti con gli anni in virtù del grato ricordo della felicità avuta in passato, e da giovani, irrobustiti in essa, per prepararci a non temere l’avvenire. Cerchiamo di conoscere allora le cose che fanno la felicità, perché quando essa c’è tutto abbiamo, altrimenti tutto facciamo per averla.

Pratica e medita le cose che ti ho sempre raccomandato: sono fondamentali per una vita felice. Prima di tutto considera l’essenza del divino materia eterna e felice, come rettamente suggerisce la nozione di divinità che ci è innata. Non attribuire alla divinità niente che sia diverso dal sempre vivente o contrario a tutto ciò che è felice, vedi sempre in essa lo stato eterno congiunto alla felicità. Gli dei esistono, è evidente a tutti, ma non sono come crede la gente comune, la quale è portata a tradire sempre la nozione innata che ne ha. Perciò non è irreligioso chi rifiuta la religione popolare, ma colui che i giudizi del popolo attribuisce alla divinità.

Tali giudizi, che non ascoltano le nozioni ancestrali, innate, sono opinioni false. A seconda di come si pensa che gli dei siano, possono venire da loro le più grandi sofferenze come i beni più splendidi. Ma noi sappiamo che essi sono perfettamente felici, riconoscono i loro simili, e chi non è tale lo considerano estraneo. Poi abituati a pensare che la morte non costituisce nulla per noi, dal momento che il godere e il soffrire sono entrambi nel sentire, e la morte altro non è che la sua assenza. L’esatta coscienza che la morte non significa nulla per noi rende godibile la mortalità della vita, togliendo l’ingannevole desiderio dell’immortalità.

Non esiste nulla di terribile nella vita per chi davvero sappia che nulla c’è da temere nel non vivere più. Perciò è sciocco chi sostiene di aver paura della morte, non tanto perché il suo arrivo lo farà soffrire, ma in quanto l’affligge la sua continua attesa. Ciò che una volta presente non ci turba, stoltamente atteso ci fa impazzire. La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c’è, i morti non sono più. Invece la gente ora fugge la morte come il peggior male, ora la invoca come requie ai mali che vive.

Il vero saggio, come non gli dispiace vivere, così non teme di non vivere più. La vita per lui non è un male, né è un male il non vivere. Ma come dei cibi sceglie i migliori, non la quantità, così non il tempo più lungo si gode, ma il più dolce. Chi ammonisce poi il giovane a vivere bene e il vecchio a ben morire è stolto non solo per la dolcezza che c’è sempre nella vita, anche da vecchi, ma perché una sola è l’arte del ben vivere e del ben morire. Ancora peggio chi va dicendo: bello non essere mai nato, ma, nato, al più presto varcare la porta dell’ Ade.

Se è così convinto perché non se ne va da questo mondo? Nessuno glielo vieta se è veramente il suo desiderio. Invece se lo dice così per dire fa meglio a cambiare argomento. Ricordiamoci poi che il futuro non è del tutto nostro, ma neanche del tutto non nostro. Solo così possiamo non aspettarci che assolutamente s’avveri, né allo stesso modo disperare del contrario. Così pure teniamo presente che per quanto riguarda i desideri, solo alcuni sono naturali, altri sono inutili, e fra i naturali solo alcuni quelli proprio necessari, altri naturali soltanto. Ma fra i necessari certi sono fondamentali per la felicità, altri per il benessere fisico, altri per la stessa vita.

Una ferma conoscenza dei desideri fa ricondurre ogni scelta o rifiuto al benessere del corpo e alla perfetta serenità dell’animo, perché questo è il compito della vita felice, a questo noi indirizziamo ogni nostra azione, al fine di allontanarci dalla sofferenza e dall’ansia. Una volta raggiunto questo stato ogni bufera interna cessa, perché il nostro organismo vitale non è più bisognoso di alcuna cosa, altro non deve cercare per il bene dell’animo e del corpo. Infatti proviamo bisogno del piacere quando soffriamo per la mancanza di esso. Quando invece non soffriamo non ne abbiamo bisogno.

Per questo noi riteniamo il piacere principio e fine della vita felice, perché lo abbiamo riconosciuto bene primo e a noi congenito. Ad esso ci ispiriamo per ogni atto di scelta o di rifiuto, e scegliamo ogni bene in base al sentimento del piacere e del dolore. E’ bene primario e naturale per noi, per questo non scegliamo ogni piacere. Talvolta conviene tralasciarne alcuni da cui può venirci più male che bene, e giudicare alcune sofferenze preferibili ai piaceri stessi se un piacere più grande possiamo provare dopo averle sopportate a lungo. Ogni piacere dunque è bene per sua intima natura, ma noi non li scegliamo tutti. Allo stesso modo ogni dolore è male, ma non tutti sono sempre da fuggire.

Bisogna giudicare gli uni e gli altri in base alla considerazione degli utili e dei danni. Certe volte sperimentiamo che il bene si rivela per noi un male, invece il male un bene. Consideriamo inoltre una gran cosa l’indipendenza dai bisogni non perché sempre ci si debba accontentare del poco, ma per godere anche di questo poco se ci capita di non avere molto, convinti come siamo che l’abbondanza si gode con più dolcezza se meno da essa dipendiamo. In fondo ciò che veramente serve non è difficile a trovarsi, l’inutile è difficile.

I sapori semplici danno lo stesso piacere dei più raffinati, l’acqua e un pezzo di pane fanno il piacere più pieno a chi ne manca. Saper vivere di poco non solo porta salute e ci fa privi d’apprensione verso i bisogni della vita ma anche, quando ad intervalli ci capita di menare un’esistenza ricca, ci fa apprezzare meglio questa condizione e indifferenti verso gli scherzi della sorte. Quando dunque diciamo che il bene è il piacere, non intendiamo il semplice piacere dei goderecci, come credono coloro che ignorano il nostro pensiero, o lo avversano, o lo interpretano male, ma quanto aiuta il corpo a non soffrire e l’animo a essere sereno.

Perché non sono di per se stessi i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire una ricca tavola che fanno la dolcezza della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per l’animo causa di immensa sofferenza. Di tutto questo, principio e bene supremo è la saggezza , perciò questa è anche più apprezzabile della stessa filosofia, è madre di tutte le altre virtù. Essa ci aiuta a comprendere che non si dà vita felice senza che sia saggia, bella e giusta, né vita saggia, bella e giusta priva di felicità, perché le virtù sono connaturate alla felicità e da questa inseparabili.

Chi suscita più ammirazione di colui che ha un’opinione corretta e reverente riguardo agli dei, nessun timore della morte, chiara coscienza del senso della natura, che tutti i beni che realmente servono sono facilmente procacciabili, che i mali se affliggono duramente affliggono per poco, altrimenti se lo fanno a lungo vuol dire che si possono sopportare ? Questo genere d’uomo sa anche che è vana opinione credere il fato padrone di tutto, come fanno alcuni, perché le cose accadono o per necessità, o per arbitrio della fortuna, o per arbitrio nostro. La necessità è irresponsabile, la fortuna instabile, invece il nostro arbitrio è libero, per questo può meritarsi biasimo o lode.

Piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici, era meglio allora credere ai racconti degli dei, che almeno offrono la speranza di placarli con le preghiere, invece dell’atroce, inflessibile necessità. La fortuna per il saggio non è una divinità come per la massa – la divinità non fa nulla a caso – e neppure qualcosa priva di consistenza. Non crede che essa dia agli uomini alcun bene o male determinante per la vita felice, ma sa che può offrire l’avvio a grandi beni o mali.

Però è meglio essere senza fortuna ma saggi che fortunati e stolti, e nella pratica è preferibile che un bel progetto non vada in porto piuttosto che abbia successo un progetto dissennato. Medita giorno e notte tutte queste cose e altre congeneri, con te stesso e con chi ti è simile, e mai sarai preda dell’ansia. Vivrai invece come un dio fra gli uomini. Non sembra più nemmeno mortale l’uomo che vive fra beni immortali.

 

 

 

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