La pittura napoletana si trasforma completamente nell’Ottocento, abbandonando ogni residuo tardo-barocco e inserendosi in un più vasto movimento artistico, paesaggistico e in parte romantico, che assume connotati propri con la Scuola di Posillipo tra il 1820 e il 1850. Questo movimento affonda le sue radici nell’arte paesaggistica di Micco Spadaro e del tardo Salvator Rosa. A questo va aggiunto anche il fenomeno dilagante di un’arte minore quale la pittura di paesaggi caratteristici da vendere ai tanti turisti giunti a Napoli.

A portare alla nascita di una vera corrente pittorica di questo tipo è Antonio Pitloo, giovane olandese che giunge a Napoli nel 1815, dopo un soggiorno a Parigi.
A Napoli vi rimase fino alla morte nel 1837, avvenuta per l’epidemia di colera che falcidiò gli abitanti. In questa città fu uno dei protagonisti della cosiddetta scuola di Posillipo e vinse la cattedra di paesaggio all’Accademia di Belle Arti partenopea grazie al dipinto “Il boschetto Francavilla al Chiatamone”.

Nato ad Arnhem nel 1790, Anton Smink Van Pitloo, conosciuto in Italia come Antonio Pitloo, cominciò da ragazzo a studiare disegno e pittura nella natia Arnhem, presso la scuola di H.J. van Ameron, pittore di genere acquarellista. Poté proseguire gli studi prima a Parigi poi a Roma nel 1811, dove era già presente una comunità di artisti connazionali, grazie a una borsa di studio offertagli da Luigi Bonaparte. Nel 1815, in seguito alla caduta di Bonaparte, non poté più beneficiare del sussidio e venne inviato a Napoli presso il conte Gregorio Orloff, un diplomatico russo estimatore d’arte.

Trasferito a Napoli con in mano qualche tela, i soldi della famiglia e tante speranze, decise di stabilirsi sulla spiaggia di Chiaia, che rimase sempre uno dei suoi luoghi più amati.
Il primo dei problemi che affrontò, però, fu la lingua: i pescatori e l’umile gente che abitava il Vico del Vasto a Chiaia, infatti, non riuscivano a comprendere una parola di ciò che dicesse il pittore. Anzi, spesso, credendolo semplicemente pazzo, gli regalavano pagnotte, pesci ed altre cose da mangiare, per accogliere il nuovo arrivato.

Per non parlare del nome: Antonie Sminck Van Pitlo era impronunciabile per qualunque napoletano. Nacquero così decine di storpiature che facevano ridere il pittore olandese, amante della spontaneità dei suoi nuovi amici. Nell’ignoranza, poi, tutti trovarono un accordo: i napoletani lo battezzarono “signor Pitloo“, perché, d’altronde, tutti gli stranieri hanno un cognome con due o.

Gli stessi funzionari dell’antica capitale borbonica avevano numerose difficoltà nello scrivere il suo nome e così, quando fu invitato a diventare professore dell’Accademia di Belle Arti, Pitlo decise di napoletanizzarsi del tutto: cominciò lui stesso a firmarsi Antonio Pitloo sui documenti ufficiali e sulle sue opere, proprio come veniva chiamato dai pescatori di Chiaia (aggiungendo di sua spontanea volonta una seconda o al suo cognome.
Così, da ospite imbarazzato, in pochi anni diventò un olandese napoletano.

La città partenopea fu indispensabile a Pitloo per affinare la propria tecnica pittorica e approfondire la ricerca cromatica e atmosferica iniziata già dai paesaggi nordici della sua patria di origine.

Ispirato dal luogo, dipinse una serie di vedute introducendo alcune innovazioni: fu il primo ad adottare la tecnica della pittura en plein (“all’aria aperta“, degli Impressionisti francesi), dipingendo in splendidi oli ricchi di luce ed effetti cromatici i paesaggi più classici della città partenopea.

La sua personalità di artista si affinò e completò soprattutto a Napoli dove sarà poi chiamato ad assumere l’incarico di professore di paesaggio al Reale Istituto di Belle Arti.

Intorno al 1820 Pitloo fondò la “Scuola di Posillipo”, una sorta di accademia privata, dove i più importanti pittori di vedute dell’epoca (circa una quarantina) illustrarono tra il 1820 e il 1860 le bellezze del paesaggio campano, non solo luoghi, ma anche costumi e tradizioni.
La denominazione si rifaceva a Posillipo perché la maggior parte di questi artisti, quasi artigiani, viveva nel quartiere più frequentato e agognato dai turisti.

La ‘Scuola di Posillipo’ riunì i migliori pittori specialisti delle più tradizionali vedute e scene di vita napoletane, ma il massimo rappresentante di questa Scuola fu Giacinto Gigante, al quale si devono paesaggi ad acquerello particolarmente suggestivi.
In questa scuola di pittura si formeranno alcuni dei più dotati ingegni del tempo: Giacinto Gigante, Gabriele Smargiassi, Raffaele Carelli e Achille Vianelli.

Posillipo ai tempi di Pitloo era il luogo preferito dei pittori paesaggisti dove un viavai di ricchissimi turisti che visitavano Napoli ogni anno, ordinavano numerosissimi quadri che fecero anche la fortuna dei pittori più modesti: ci sono ancora oggi vedute del Golfo di Napoli a San Pietroburgo, a Parigi, ad Amsterdam, a Londra, Liverpool ed in tutte le città d’Europa.
Napoli era una delle mete del grand tour europeo, quella eccentrica moda nata in Inghilterra fra gli uomini ricchi: centinaia di intellettuali, artisti e possidenti cominciarono a viaggiare in giro per il mondo, alla scoperta di nuovi paesaggi: la meta preferita era proprio il Sud Italia.

A Napoli arrivavano poeti ed artisti in cerca di quell’atmosfera unica che la caratterizzava. I quartieri popolosi del centro e le sue coste sul mare diventarono un soggetto ricorrente nella pittura sette e ottocentesca.
Tutti i turisti italiani e le migliaia di stranieri, inglesi soprattutto, che da fine visitavano la capitale del Sud, volevano un souvenir dipinto, di piccolo formato.

Le opere realizzate in questo periodo apparirono esposte nei salotti delle case borghesi e la loro influenza sulla pittura italiana proseguì per tutto l’Ottocento, finendo per imitare le prime fotografie e cartoline postali.
Si può infatti dire che la fotografia sia nata a Napoli quando ancora non esistevano pellicole, obbiettivi e fotografi. Se, infatti, in altre parti del mondo i pittori e gli artisti dovevano usare la propria fantasia per creare mondi fantastici, con paesaggi e panorami mozzafiato che accompagnassero i propri dipinti, a Napoli non fu mai così.

I pittori napoletani sentivano il bisogno di rappresentare fedelmente ciò che vedevano, perché la fantasia non avrebbe potuto creare nulla di più bello di quanto non esistesse già nella realtà: l’azzurro del mare mescolato ai colori dei mille fiori della costa di Posillipo; il fumo del Vesuvio che sembrava perdersi in un cielo azzurro come uno zaffiro.

Pitloo non abbandonò il capoluogo campano neanche quando scoppiò l’epidemia di colera di cui fu vittima il 22 giugno del 1837. Le sue spogliefurono sepoltenel vecchio cimitero acattolico di Santa Maria della Fede, in vico Biagio Miraglia 20, noto per le tombe di illustri personaggi;

Per gran parte della sua vita rese Napoli celebre nei suoi dipinti, a sua volta la città lo consacrò come grande autore di paesaggi adottandolo tra i propri figli illustri.
La parte maggiore delle opere di Pitloo, che erano nel suo studio al momento della morte, passarono in casa di Sofia Duclère ( sua figlia Sofia andò in sposa al pittore Duclère ). Vennero poi acquistate dai Conti Correale e sono attualmente conservate nell’omonimo museo di Sorrento. Altro significativo gruppo di opere è nel Museo nazionale di Capodimonte a Napoli.

Nel 1843 , quindi sei anni dopo la sua morte , un comitato di artisti olandesi e napoletani eressero  a proprie spese sulla tomba presente  nel cimitero di Santa Maria , un busto marmoreo di notevole pregio  in memoria dell’artista  alto più di due metri e recante un bassorilievo con volto di Pitloo.

Quando quest’ultimo nel 1893 fu chiuso a seguito dello sviluppo urbanistico del Risanamento,  grazie all’allora soprintendente alle Belle Arti di Napoli Raffaello Causa,  il monumento funebre per salvarlo dall’incuria e dal degrado in cui versava il cimitero degli inglesi. venne  fatto spostare  presso la Certosa di San Martino ed esposto secondo il volere del sopraintendente in bella vista sulla terrazza del museo, con lo sguardo terso rivolto al panorama.

Il bassorilievo raffigurante il volto di Pitloo poteva cosi in eterno godere, secondo la brillante idea di Raffaello Causa, godere  della  stessa veduta spettacolare che aveva dipinto più volte in “en plein air” immortalando il paesaggio napoletano nei suoi sublimi dipinti e acquarelli.

Purtroppo negli ultimi tempi , per ragioni a noi oscure, sia le lastre che il bassorilievo, furono in seguito accantonati nei depositi di San Martino .  Smontati e inventariati, dimenticati nei depositi dello stesso museo , se ne persero laddirittura le tracce per  ben 38 anni.

Solo nel 2015 , grazie all’iniziativa di un privatogrande estimatore del pittore, il busto marmoreo venne finalmente ritrovato, restaurato e di nuovo ricollocato sulla sua tomba .

Il  medico avellinese Giuseppe Guerriero trapiantato a Roma, sdegnato dell’indifferenza assunta da enti e istituzioni , intenzionato comunque a restituire dignità e merito al grande esponente della Scuola di Posillipo , decise di mettersi da solo alla ricerca della tomba di Pitloo e   tramite  il recupero di informazioni preziose, consultando per ben tre anni , archivi, emeroteche e depositi di musei,  seguendo  ogni minima notizia e documento,riuscì finalmente a ritrovare ciò che restava dei marmi originali e del bassorilievo che adornavano il sepolcro.

Dopo una serie di peripezie e cavilli burocratici, il dottor Giuseppe Guerriero ebbe l’approvazione per i lavori di restauro della tomba di Pitloo, sotto l’alta sorveglianza della Soprintendenza alle Belle Arti di Napoli, nella figura della funzionaria prescelta Ida Maietta.

 I marmi furono affidati alla ditta Graphite, i quali seppero risalire all’esatta costruzione del monumento scultoreo, grazie ad un’immagine riportata sul giornale “Poliorama Pittoresco” del 1860 di come doveva apparire il disegno originario.

Inoltre fu aggiunta l’iscrizione sia in italiano che in francese come presente a suo tempo, per rendere vivo il ricordo di Pitloo e della sua arte immortale

Il grande maestro delle vedute ottocentesche di Napoli,  fondatore della Scuola di Posillipo … l’olandese “napoletanizzato” che tanto rese grande Napoli., finalmente ebbe così modo di ritrovare la sua lapide ,e  la sua tomba che resistendo all’azione corrosiva del tempo, sapranno garantire  atraverso la sua presenza la sua immortalità alle prossime generazioni. 

Essa come sosteneva  il buon Foscolo , sarà con il tempo l’unica  vera testimonianza della  sua gloria passata. L’unico  ricordo e testimonianza della sua gloria passata . L’unica cosa in grado di resistere all’azione corrosiva del tempo e come tale , attraverso la sua presenza ricordare ai suoi simili la sua grande arte .

 Il sepolcro non è infatti  solo luogo di affetti, ma consente la trasmissione di un intero patrimonio umano, attraverso il culto dei più grandi uomini  della Storia.

 

  • 4936
  • 0