La Gatta Cenerentola ,  ( nell’originale napoletano La gatta cennerentola) , e’ una famosa fiaba del napoletano Giambattista Basile appartenente a “ Lo cunto de li cunti”, ( ovvero lo trattenimento de peccerille ) una raccolta di cinquanta fiabe di origine popolare destinate ai bambini , raccontate in dialetto napoletano nel corso di cinque giornate ( da cui il soprannome  ‘ pentamerone ‘ ) che fu per primo tradotto in italiano da Benedetto Croce .

 

È una favola molto nota e la più antica versione scritta europea è proprio quella di Basile, che anticipo’ di gran lunga ( oltre un secolo )  Charles Perrault e i fratelli Grimm.

 

 

 

Ambientata a Napoli , la favola racconta la storia di una ragazza di nome Zezzola ( non Cinderella ) rimasta orfana della madre che addirittura rispetto ad altre versioni si macchia dell’omicidio della sua matrigna su suggerimento della sua maestra.  Una volta uccisa la matrigna rompendole il collo con il coperchio di una cassapanca convince poi il padre a sposare la stessa maestra. Zezolla è convinta dalla maestra ad ammazzare la matrigna e crede di essere tenuta in considerazione per averle fatto sposare il padre,

 

Una volta sposata, la maestra però’ essa da buona diventa cattiva e porta a casa le sue sei figlie. Zezzolla finisce in cucina e da allora il suo nome diviene Gatta Cenerentola. La favola prosegue poi secondo la nota vicenda, Cenerentola che ha ricevuto in dono un dattero, una zappa, un secchiello d’oro e una tovaglia di seta, pianta il dattero da cui nasce una pianta da cui esce una fata che un giorno di festa che Cenerentola vuole uscire la veste come una regina. Cenerentola raggiunge le sorelle, che quando la vedono sono molto invidiose e incontra il re che rimane incantato dalla sua bellezza e manda il suo servo più fedele a informarsi su di lei, ma Cenerentola scappa lasciando dietro di sé delle monete d’oro che il servo si ferma a raccogliere. Per tre volte Cenerentola va alla festa e incontra il re che cerca di farla inseguire, l’ultima volta nella corsa della carrozza Cenerentola perde la sua scarpetta e tutti sanno come poi finisce la storia.

 

La descrizione dei festeggiamenti dati dal re per trovare la fanciulla che aveva perso lo scarpino contiene anche un’interessante testimonianza della tradizione culinaria napoletana , essendo già presente nella favola ( parliamo del 600 ) alcuni piatti tipici della cucina napoletana come la pastiera ed il casatiello .

La favola ha avuto innumerevoli trasposizioni musicali ,cinematografiche e teatrali tra cui la più famosa certamente quella rappresentata  a teatro dal maestro Roberto De Simone ( l’opera è stata rappresentata 175 volte nei primi due anni dopo la sua realizzazione ).

 

 

La versione di Cenerentola che ora segue e’ una delle  più note, tratta da “Lo cunto de li cunti” , tradotto dal dialetto in italiano da Benedetto Croce.

….. C’era, dunque, una volta un principe vedovo, il quale aveva una figlia a lui tanto cara che non vedeva per altri occhi. Le aveva dato una maestra da cucire di prima riga, che le insegnava le catenelle, il punto in aria, le frange e le orlature, dimostrandole tanta affezione che non si potrebbe dire. Ma, essendosi il padre riammogliato di fresco e avendo preso una rabbiosa, malvagia e indiavolata femmina, questa maledetta cominciò ad avere in odio la figliastra, facendole cère brusche, visi torti, occhiate di cipiglio, da darle il soprassalto per la paura.

La povera fanciulla si lamentava sempre con la maestra dei maltrattamenti della matrigna, conchiudendo: « Oh Dio, e non potresti esser tu la mammina mia, tu che mi fai tanti vezzi e carezze? ». E tante volte le ripeté questa cantilena, che le mise una vespa nell’orecchio, sicché, accecata dal diavolo, la maestra finì col dirle: « Se vuoi fare a modo di questa testa matta, io ti sarò mamma e tu sarai la pupilla degli occhi miei ». Stava per continuare in questo prologo, quando Zezolla (che così si chiamava la giovane) la interruppe: « Perdonami se ti rompo la parola in bocca. So che mi vuoi bene; perciò zitto e sufficit; insegnami l’arte, ché io sono nuova: tu scrivi e io firmo ». « Orsú! – replicò la maestra, – ascolta bene, apri gli orecchi, e godrai sempre pane bianco di fior di farina. Quando tuo padre va fuori di casa, di’ alla tua matrigna che vuoi un vestito di quei vecchi, che stanno nel cassone grande del ripostiglio, per risparmiare questo che porti addosso. Essa, che ti vuol vedere tutta cenci e brandelli, aprirà il cassone e dirà: – Tieni il coperchio. – E tu, tenendolo, mentr’essa andrà rovistando là dentro, lascialo cader di colpo, ché le fiaccherà il collo. Dopo di ciò, sai bene che tuo padre farebbe moneta falsa per amor tuo; e tu, quando egli ti carezza, pregalo di prendermi per moglie, ché, te beata, sarai la padrona della mia vita ».

Udito il disegno, a Zezolla ogni ora parve mille anni; e, messo in atto punto per punto il consiglio della maestra, quando fu trascorso il tempo del lutto per la morte della matrigna, cominciò a toccare i tasti al padre affinché s’ammogliasse con la sua maestra.

Dapprima, il principe prese la cosa in celia; ma tante volte Zezolla tirò di piatto, che, infine, colpì di punta, ed egli si piegò alle persuasioni della figliuola. Così si sposò con la maestra Carmosina, e si fece una festa grande.

Ora, mentre gli sposi stavano in gaudio, Zezolla si affacciò a un gaifo della sua casa; e in quel punto una colombella volò sopra un muro e le disse: « Quando ti vien desio di qualche cosa, manda a dimandarla alla colombella delle fate dell’isola di Sardegna, ché tu l’avrai subito ».

Per cinque o sei giorni la nuova matrigna incensò con ogni sorta di carezze Zezolla, facendola sedere al miglior luogo della tavola, dandole i migliori bocconi e adornandola con le migliori vesti. Ma, corso pochissimo tempo, mandò a monte e scordò affatto il servigio ricevuto (oh trista l’anima, che ha cattiva padrona!), e cominciò a mettere in iscranna sei figlie sue, che fin allora aveva tenute segrete; e tanto fece che il marito, presele in grazia, si lasciò cascar dal cuore la figlia sua propria. E Zezolla, scapita oggi, manca domani, finí col ridursi a tal punto che dalla camera passò alla cucina, dal baldacchino al focolare, dagli sfoggi di seta e oro agli strofinaccioli, dagli scettri agli spiedi. Né solo cangiò stato, ma anche nome, e non più Zezolla, ma fu chiamata « Gatta cenerentola ».

 

Ora seguì che, dovendo il principe andare in Sardegna per certe cose necessarie al suo stato, prima di partire domandò a una a una, a Imperia, Calamita, Fiorella, Diamante, Colombina e Pascarella, che erano le sei figliastre, che cosa volevano che portasse loro al ritorno. E chi gli chiese un abito di lusso, chi galanterie pel capo, chi belletti per la faccia, chi giocattoli per passare il tempo; e chi una cosa e chi un’altra. In ultimo, e quasi per dileggio, egli disse alla figlia: « E tu che cosa vorresti? ».

Ed essa: « Nient’altro se non che mi raccomandi alla colomba delle fate, che mi mandi qualcosa; e, se ti dimentichi, che tu non possa andare né innanzi né indietro. Tieni bene a mente quel che ti dico: arma tua, manica tua ».

 

Partì il principe, sbrigò le sue faccende in Sardegna, comprò quanto gli avevano chiesto le figliastre, e Zezolla gli uscì dalla mente.

Ma, quando si fu imbarcato e già erano state spiegate le vele, non fu possibile far che il vascello si staccasse dal porto: pareva che ne fosse impedito dalla remora. Il padrone della nave, ch’era quasi disperato, si mise a dormire per la stanchezza, e in sogno gli apparve una fata, che gli annunziò: « Sai perché non potete staccarvi dal porto? Perché il principe, che vien con voi, ha mancato alla promessa verso la figlia, ricordandosi di tutto fuorché del sangue proprio ». Appena svegliato, il capitano raccontò il sogno al principe, che, confuso per la mancanza commessa, andò alla grotta delle fate, e, raccomandata loro la figliuola, le pregò di mandarle qualche dono.

Ed ecco uscir fuori dalla spelonca una bella giovane, che pareva un gonfalone, e gli disse di ringraziar la figliuola della buona memoria, e che se la passasse lieta per amor suo. Con queste parole, le porse un dattero, una zappa, un secchietto d’oro e un asciugatoio di seta: il dattero da esser piantato, e le altre cose per coltivarlo e curarlo.

Il principe, meravigliato di questo regalo, si accomiatò dalla fata, volgendosi al suo paese; dove, giunto, distribuì alle figliastre le cose che avevano desiderate, e in ultimo consegnò alla figlia il dono della fata. Zezolla, con giubilo grande da non stare nella pelle, piantò il dattero in un un bel vaso; e mattina e sera lo zappettava. lo innaffiava e lo asciugava col tovagliuolo di seta.

Con queste cure, il dattero crebbe in quattro giorni alla statura di una donna, e ne venne fuori una fata, che domandò alla fanciulla: « Che cosa desideri? ». Zezolla rispose che desiderava uscir qualche volta di casa, e che le sorelle non lo sapessero.

Rispose la fata: « Ogni volta che ti piaccia, vieni alla pianta e le di’:

Dattero mio dorato,

con la zappetta d’oro t’ho zappato;

con il secchietto d’oro, innaffiato;

con la fascia di seta t’ho asciugato.

Spoglia te e vesti me!

Quando poi vorrai spogliarti, cangia l’ultimo verso e di’: – Spoglia me e vesti te ».

Venne un giorno di festa, e le figliuole delle maestra erano andate in processione fuor di casa, tutte spampanate, strigliate e imbiaccate, tutte nastrini, sonaglini e fronzellini, tutte fiori e odori, rose e cose. Zezolla corse allora alla sua pianta, pronunziò le parole insegnatele dalla fata e subito fu posta in assetto di regina, sopra una chinea, con dodici paggi attillati e azzimati, e andò anche lei dove erano le sorelle, che non la riconobbero, ma si sentirono venir l’acquolina in bocca per le bellezze di questa vaga colomba.

 

Volle fortuna che nello stesso luogo capitasse il re, che, alla vista della straordinaria bellezza di Zezolla, rimase incantato, e ordinò a un servitore suo più intrinseco che s’informasse nel miglior modo di quella bellissima creatura, chi fosse e dove abitasse. Il servitore si mise subito a pedinarla. Ma essa, che s’accorse dell’agguato, gettò una manata di scudi ricci, che s’era fatti dare dal dattero a quest’effetto; e il servitore, acceso di brama a quei pezzi luccicanti, si scordò di seguire la chinea, fermandosi a raccogliere i danari. Ed essa di balzo entrò in casa, si spogliò rapidamente nel modo come la fata la aveva istruita; e sopraggiunsero poi le sei arpie delle sorelle, che, per pungerla e mortificarla, le descrissero a lungo le tante cose belle, che avevano visto alla festa.

 

 

Il servitore, intanto, era tornato dal re e gli aveva raccontato il fatto degli scudi. Si adirò il re e con stizza grande gli disse che, per quattro vili monetuzze, aveva venduto il gusto suo, e che, per ogni conto, avesse procurato nella ventura festa di appurare chi fosse quella bella giovane, e dove s’annidasse così leggiadro uccello.

Venne l’altra festa e le sorelle, uscendo tutte adorne e galanti, lasciarono la disprezzata Zezolla al focolare. Ma immantinente essa corse dal dattero, disse le parole solite, ed ecco prorompere una schiera di damigelle, chi con lo specchio, chi con la boccetta d’acqua di cucuzza, chi col ferro per arricciare, chi col pezzo di rossetto, chi col pettine, chi con gli spilli, chi con le vesti, chi con collane e pendenti. E tutte si misero intorno a lei, e la fecero bella come un sole, e la collocarono in un cocchio a sei cavalli, accompagnato da staffieri e paggi in livrea. E si recò nel medesimo luogo dell’altra volta, e aggiunse meraviglia nel cuore delle sorelle e fuoco nel petto del re.

 

Anche questa volta, al ritorno, il servitore le andò dietro; ma essa, per non farsi arrivare, gettò una manata di perle e di gioielli, che quel dabben uomo non poté non chinarsi a beccare, perché non erano cose da lasciar perdere; e così Zezolla ebbe tempo di ridursi a casa sua e spogliarsi conforme al solito. Tornò il servitore, tutto sbalordito, al re, che gli disse: « Per l’anima dei morti tuoi, se tu non mi ritrovi quella giovane, ti do una solenne bastonatura, e tanti calci nel sedere quanti hai peli nella barba! ».

Al nuovo giorno di festa, e quando già le sorelle s’erano messe in via, Zezolla tornò dal dattero; e, ripetendo la canzone fatata, fu vestita superbamente e collocata in una carrozza d’oro con tanti servitori attorno, che pareva una cortigiana arrestata al pubblico passeggio e contornata dagli sbirri. E, dopo aver eccitato la meraviglia e l’invidia delle sorelle, si partì, seguita dal servitore del re, che questa volta si cucì a filo doppio alla carrozza. Vedendo che sempre le era alle coste, Zezolla gridò: « Tócca cocchiere! »; e la carrozza si mise in corsa con tanta furia, che a lei, in quell’agitazione, cadde dal piede una pianella, che non si poteva vedere cosa più ricca e gentile.

 

Il servitore, non potendo raggiunger la carrozza che ormai volava, raccattò la pianella e la portò al re, narrandogli quanto gli era accaduto. Il re la tolse tra le mani ed uscì in questi detti: « Se il fondamento è così bello, che sarà mai la casa? O bel candeliere dove è stata infissa la candela che mi consuma! O treppiede della bella caldaia, dove bolle la mia vita! O bei sugheri, attaccati alla lenza d’amore, con la quale ha pescato quest’anima! Ecco, io vi abbraccio e vi stringo, e, se non posso giungere alla pianta, adoro le radici; se non posso attingere ai capitelli, bacio le basi! Voi foste già ceppi di un bianco piede, e ora siete tagliuola d’un cuore addolorato. Per virtù vostra, colei, che tiranneggia la mia vita, era alta un palmo e mezzo in più; e per voi cresce altrettanto in dolcezza questa mia vita, mentre vi guardo e vi possiedo! ».

Ciò detto, il re chiama la scrivano, comanda ai trombetti, e tu–tu–tu, fa gettare un bando che tutte le donne del paese vengano a una festa e a un banchetto che ha determinato di dare. Nel giorno stabilito, oh bene mio! quale masticatorio e quale fiera fu quella! Donde uscirono tante pastiere e casatelli? Donde gli stufati e le polpette? donde i maccheroni e i graviuoli, che poteva saziarvisi un esercito immenso? Le femmine c’erano tutte e di ogni qualità, e nobili e ignobili, e ricche e pezzenti, e vecchie e giovani, e belle e brutte; e, poiché ebbero ben lavorato coi denti, il re, fatto il profizio, si mise a provare la pianella a una a una a tutte le invitate per vedere a chi di esse andasse a capello e bene assestata, tanto che egli potesse dalla forma della pianella conoscer quella che andava cercando. Ma non trovò alcun piede a cui andasse a sesto, e ful sul punto di disperare.

Nondimeno, imposto generale silenzio, disse: « Tornate domani a far penitenza con me; ma, se mi volete bene, non lasciate nessuna femmina a casa, e sia quale sia! » Parlò allora il principe: « Io ho una figlia, ma sta sempre a guardare il focolare, perché è una creatura disgraziata e dappoco, non meritevole di sedere dove mangiate voi ». Replicò il re: « Questa sia a capo della lista, perché l’ho caro ».

 

Così partirono, e il giorno dopo tornarono tutte, e, insieme con le figlie di Carmosina, Zezolla, la quale, come il re la vide, gli dié l’impressione di quella che desiderava; e nondimeno dissimulò. Ma, finito il desinare, si venne alla prova della pianella, che, non appena fu appressata al piede di Zezolla, si lanciò di per se stessa, come il ferro corre alla calamita, a calzare quel cocco pinto d’Amore.

 

Il re allora strinse Zezolla fra le sue braccia, e, condottala sotto il suo baldacchino, le mise la corona sul capo, ordinando a tutti di farle inchini e riverenze come alla loro regina. Le sorelle, livide d’invidia, non potendo reggere allo schianto dei loro cuori, filarono moge moge verso la casa della madre, confessando a lor dispetto che

pazzo è chi contrasta con le stelle.

 

 

MA CHI ERA GIAMBATTISTA BASILE ?

 

 

 

Giambattista  Basile nacque nel febbraio del 1566 nell’attuale comune di Giugliano in provincia di Napoli da un’agiata famiglia locale .

 

La sua grande passione per la letteratura lo portò fin dalla giovane età a cimentarsi nella scrittura di alcuni lavori in lingua italiana che però, riscontrarono uno scarso successo . Questo comporto in lui un profondo stato di delusione ed insoddisfazione al punto da indurlo a lasciare Napoli per una breve parentesi come militare  in qualità di soldato di ventura .

 

 

Giunse così a Venezia dove ebbe modo di distinguersi come abile condottiero ( fu inviato dalla Serenissima  nell’isola di Creta, per difendere Venezia dalle invasioni dei turchi ) ma anche come poeta e scrittore .

Sua sorella Adriana , che con cui lui ebbe un forte legame affettivo , era una delle più note cantanti dell’epoca molto apprezzata in numerose corti tra cui in special modo quella di Francia ; dotata di straordinarie doti canore e conseguenti nobili amicizie ella si adoperò molto per fratello , consentendo  allo stesso di accedere ,  spesso in qualità di cortigiano, alle più importanti corti del tempo .

Adriana usando tutta la sua influenza si adoperò molto per facilitare in qualche modo la carriera del fratello finendo per ottenere per lo stesso alcune cariche politiche come amministratore o governatore presso varie corti e feudi.

 

Nel 1608, Basile con acquisita nuova fama di letterato seguì la sorella alla corte del principe Luigi Carafa, ( al quale dedicò Le avventurose disavventure  ; favola erotico-mitologica ) e da quel momento rientrato finalmente a Napoli,  poté finalmente dedicarsi ad un’intensa produzione letteraria.
Girando per varie corti e feudi  egli  da quel momento ebbe modo di girare e meglio conoscere il territorio campano, venendo così a contatto con una realtà diversa da quella “metropolitana” cittadina che per alcuni versi  lo avevano deluso ed amareggiato .

 

Stanco della pochezza degli uomini appartenenti alle classi sociali più elevate, ( nonostante egli stesso ne facesse parte ) incomincio a disdegnare la nobile aristocrazia e rimasto  affascinato dalla nuova realtà popolare che andava vivendo , incomincio a dedicare sempre più maggiore attenzione alla vita e alle tradizioni della gente comune preferendo alla fine dare sempre maggior voce al popolo depositario di una preziosa saggezza.

Basile amava conoscere questa realtà che tanto lo affascinava ed era solito girare per i luoghi frequentati da gente appartenente a diversi ceti sociali come per esempio  a Napoli , la quattrocentesca Taverna del Cerriglio, molto nota nel XVI secolo per la bontà della cucina e per la sua atmosfera bucolica.

L’attenzione verso queste atmosfere e queste tematiche, e lo studio del dialetto, lo portarono cosi nel tempo a divenire uno dei maggiori esponenti della letteratura dialettale .

 

Con la partenza della sorella Adriana per Mantova, Basile segue  la stessa alla corte dei Gonzaga ma ben presto dopo circa un anno afflitto da problemi fisici e sopratutto psichici legati al mal adattamento al nuovo umido clima egli preferì far ritorno a Napoli dove poi ebbe modo di sposarsi con Flora Santora, anch’essa originaria di Giugliano.
Con il ritorno nella terra di origine, fu più volte nominato dai viceré spagnoli governatore e amministratore nei vari territori del Regno,finendo, insieme alla sorella nell’entrare  poi a far parte a Napoli della corte  del Viceré, don Alvares di Toledo.

Frequentando quell’ ambiente ebbe modo di maturare maggiori e più convincenti riflessioni sulla meschinità di nobili aristocratici  non mancando comunque di dedicare al viceré Don Pedro , una raccolta di cinquanta delle sue Ode, in segno di riconoscenza per l’incarico di Governatore di Aversa.

 

Iniziando il suo peregrinare nel territorio campano per assolvere agli incarichi di natura politica, senza comunque mai trascurare però  la sua attività di letterato , egli proprio da quel momento ebbe modo di meglio conoscere meglio il territorio campano, venendo così a contatto con una realtà diversa da quella “metropolitana” cittadina che per alcuni versi  lo avevano deluso ed amareggiato .

Le nuove ‘ persone ‘ che egli ebbe modo di conoscere si rivelarono  ben presto essere felice fonte di ispirazione per lo scrittore e possiamo oggi affermare che è proprio grazie al suo girovagare per i vari feudi ,  che egli ebbe modo di conoscere  a fondo la cultura popolare napoletana permettendogli poi di scrivere in dialetto un grande capolavoro che sarà in seguito di gran contributo nell’affermare la  lingua napoletana nel mondo .

La sua opera più importante, il famoso  “Lo Cunto de li Cunti”, non trova infatti ambientazione a Napoli in città , bensì nelle zone confinanti: l’entroterra napoletano, il salernitano, l’avellinese, il casertano e la Lucania, dove era fu più facile e naturale attingere al patrimonio della memoria popolare, alla tradizione della fiaba e all’elemento della magia che la contraddistingue.

 

L’ultima corte presso la quale il poeta dimorò fu quella di Galeazzo Pinelli, duca d’Acerenza che infine lo nomino Governatore feudale di Giugliano dove egli nel 1632 diede fine si suoi giorni  ( nella sua terra d’origine ) .
La sorella Adriana, ricevuta notizia dell’improvvisa morte del fratello, si precipitò a Giugliano a recuperare le carte e i manoscritti dell’artista prima che andassero dispersi. Grazie alla tempestività e lungimiranza di Adriana Basile, Lo Cunto de li Cunti ed altre opere sono arrivate fino ai nostri giorni.

 

La sua opera più importante Lo cunto de li cunti ( chiamata anche successivamente Pentamerone ) è una raccolta di cinquanta favole narrate da dieci anziane in cinque giorni, con ciascuna giornata che si chiude con un’egloga (dialogo) di argomento morale recitata da due servi-attori.

 

Egli con questo volume scritto in dialetto napoletano , è stato capace  di distinguersi con grande creatività letteraria , dagli altri autori dell’epoca , per la capacità di aver saputo utilizzare lo strumento del linguaggio popolare nell’affrontare temi di grossa attualità ,  ricchi comunque di grosse metafore .

L’opera, e’ stata nel tempo considerata davvero unica e preziosa  e Giambattista  Basile definito uno dei più grandi narratori di fiabe di tutti i tempi.

Benedetto Croce che per primo tradusse in italiano il libro , la definì  «il più bel libro italiano barocco» e ― aggiunse ― «l’Italia possiede nel Cunto de li cunti del Basile, il più antico, il più ricco e il più artistico fra tutti i libri di fiabe popolari».

Lo cunto de li cunti è stato tradotto in italiano (oltre che da Benedetto Croce, anche da Roberto De Simone), in tedesco, inglese e persino in dialetto bolognese.

Fu tenuto in massima considerazione dai fratelli Grimm, e le novelle più celebri furono poi rielaborate in forma artistica dal Perrault nei Contes de ma mére (Racconti di mamma oca).

ARTICOLO DI  ANTONIO CIVETTA
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